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The expression «Angels of the nations» does not appear in the Book of Revelation. Nevertheless, on the one hand, the angels operate between God and the nations, and thus all have some kind of relationship with peoples, or at least with individual humans; on the other hand, the nations lie between the Angel and the Beast; the latter identified with the Roman emperor, who dominates the peoples of Israel, has established the Imperial cult and persecutes Christians. Through an analysis of the figures of the Angel, the Beast and the Nations within the Book of Revelation, this essay reveals both John’s critical reading of imperialism and the Emperor’s divinization and his valuing of the different cultures of God’s people.
L’Apocalisse di Giovanni di Patmos è un film incalzante e fantasmagorico, ma girato in bianco e nero. L’autore colloca la folla dei suoi protagonisti su due fronti dai confini invalicabili, descrivendo l’abisso della corruzione da una parte e l’apice del sublime dall’altra.
Crocevia dei temi collegati con l’impero del male è la figura della Bestia (in greco thērion) che Giovanni vede salire dal mare in Ap 13,1. Essa infatti si avvale della complicità in alto con il demoniaco del Drago di Ap 12,3, e in basso con il profetismo religioso della Bestia che in Ap 13,11 sorge dalla terra. Sulla sua strada verso «il dilettoso monte» Dante troverà la lonza, il leone e la lupa, ma già Giovanni di Patmos aveva configurato una sua temibile triade ferina le cui insidie si collocano sul terreno del potere politico, economico e religioso. È così che nella vicenda della Bestia-dal-mare si succedono re e troni, eserciti e imperi economici, giochi di alleanze e rovesciamenti di fronte, e poi statue da adorare e profeti, uso spregiudicato degli strumenti della comunicazione, furbizie della propaganda… a tutto campo.
Scenario di contrasto è quello che ha il suo fulcro nel trono di Dio, sovrano cosmico e universale (Ap 4,2-3). Nella destra il Sovrano regge il rotolo dei suoi decreti e delle sue volontà che, scritto dentro e dietro e quindi oltremodo pieno di messaggi, è però sigillato con sette sigilli (Ap 5,1) e, quindi, con la più impenetrabile delle sigillazioni. Ma il Cristo-Agnello «ha vinto» (Ap 5,5) e in forza della sua vittoria è degno e capace di aprire i sigilli del rotolo (5,9). La corte divina canta dunque non solo la axiōsis di Dio perché creatore di tutte le cose (4,11), ma anche la axiōsis del Cristo-Agnello perché sarà degno e capace di aprire il rotolo (5,9). Rivelati che saranno i piani di Dio ad opera dell’Agnello (settenario dell’apertura dei sigilli del rotolo), Dio poi li metterà in atto nella storia degli uomini, e lo farà anche attraverso il servizio degli angeli suoi ministri: i sette angeli che faranno squillare la loro tromba (settenario delle trombe) e i sette angeli che dalle loro coppe riverseranno contro la terra l’ira di Dio (settenario delle coppe).
Gli angeli vengono così a trovarsi tra Dio e le nazioni, mentre le nazioni sono tra l’«Angelo» e la «Bestia».
L’Apocalisse è un libro pieno di angeli[1]. L’affermazione è giustificata da qualcosa come 67 ricorrenze del termine aggelos (in media tre ricorrenze per ognuno dei ventidue capitoli), e dal confronto ad esempio con i restanti scritti giovannei: nel quarto vangelo gli angeli sono menzionati tre sole volte (Gv 1,51; 12,29; 20,12) e mai nelle tre lettere.
I ruoli e le mansioni degli angeli nell’Apocalisse sono molteplici. Una prima categoria angelica è quella degli angeli della corte celeste. A parte testi minori (Ap 3,5 e 14,10), intere sequenze letterarie come quelle di Ap 5,8-14, di 7,9-12, e di 8,3-5 presentano l’inebriante liturgia che, insieme con i quattro Viventi e i ventiquattro Vegliardi, gli angeli celebrano senza pausa intorno al trono di Dio.
In continuità sia con l’A.T. che con il resto del N.T., l’Apocalisse conosce poi angeli ministri di Dio (cfr. per esempio Ap 22,6) o, più raramente, del Cristo (Ap 1,1; 22,16). Il servizio degli angeli si esplica nei campi più disparati: essi sono mediatori di rivelazione (Ap 1,1; 22,6.16), banditori di volontà divine (Ap 5,2; 10,1ss), condottieri degli eserciti celesti (Ap 12,7-9), esecutori dei piani di Dio (Ap 8,2.6-11,19; 15,1.5-16,21), annunciatori del suo giudizio con la parola (Ap 14,6.8.9; 17,1) e con azioni simboliche come quella della mietitura (Ap 14,15-16), della vendemmia (14,17-19) o del macigno sprofondato nel mare (18,20). A beneficio dell’autore e protagonista del libro essi sono infine angeli «ostensóri» e «interpreti»: «Vieni, ti mostrerò… mi mostrò… e mi disse…» (cfr. Ap 17,1 ss e 21,9 ss).
In continuità soprattutto con l’angelologia della letteratura giudaica, l’Apocalisse conosce poi gli angeli degli elementi cosmici: gli angeli «dei venti», insediati ai quattro angoli della terra (Ap 7,1), l’angelo «dell’abisso» (Ap 9,11), l’angelo «delle acque» (Ap 16,5) e l’angelo «del fuoco» (Ap 14,18). Anche se di quest’angelo non si dice che uso faccia del fuoco su cui ha potere – si tratta probabilmente del fuoco dell’altare[2] –, è importante che Giovanni espliciti in una formula («che ha potere su…/echōn exousian epi…») quello che altrimenti dice solo con un genitivo (tēs abyssou, 9,11; tōn hydatōn, 16,5), o con una perifrasi descrittiva («… trattenevano i quattro venti perché non soffiasse vento sulla terra, né sul mare», 7,1). Gli angeli «degli» elementi cosmici, sono dunque angeli che hanno potere «sugli» elementi, e dunque ad essi presiedono e ad essi sovrintendono.
Altri angeli sono infine messi in relazione con gruppi umani, sociali o religiosi. In Ap 1-3 i sette messaggi del Cristo ad ognuna delle sette Chiese d’Asia sono indirizzati in realtà non ad esse, ma ai loro «angeli», comunque essi siano da intendere: come veri e propri esseri celesti, come vescovi o responsabili delle Chiese, come controfigura celeste delle Chiese, o come finzione letteraria creata per sottoporre a critica le Chiese con maggiore libertà e nello stesso tempo con delicatezza[3]. In Ap 21,12, poi, Giovanni vede dodici angeli sulle porte della nuova Gerusalemme, i quali sono gli angeli delle dodici tribù d’Israele perché sulle stesse porte su cui essi si ergono sono scritti i nomi delle dodici tribù. Come gli angeli degli elementi cosmici presiedono alle acque, ai venti o al fuoco, così gli angeli delle sette Chiese e quelli delle dodici tribù hanno su di esse responsabilità e competenza.
L’Apocalisse non conosce la formula «Angeli delle nazioni», ma tutte le categorie angeliche che vi compaiono sono in rapporto con il mondo dei popoli, o comunque con gli uomini. Va da sé che sono in relazione con gli uomini gli angeli delle tribù e delle Chiese, ma lo sono poi gli angeli degli elementi, perché in Ap 7 i venti minacciano l’ambiente di vita degli uomini, e perché in Ap 16 le acque del mare, dei fiumi e delle sorgenti sono cambiate in sangue per essere strumento di pressione su coloro che sangue hanno versato. Sono in relazione con il mondo degli uomini anche gli angeli ministri di Dio, dal momento che recano ad essi le rivelazioni o eseguono gli ordini divini a loro beneficio o a loro ammonimento. Lo sono infine gli angeli delle liturgia celeste, da cui conviene prendere le mosse.
La seconda parte dell’Apocalisse (Ap 4-22) si apre con la salita di Giovanni in cielo dove egli ha la visione del trono divino che ha come sfondo e cornice la gestualità e i cantici della liturgia celeste (Ap 4-5). Al cantico del Trisagion intonato in Ap 4,8 dai quattro Viventi si uniscono prima i ventiquattro Vegliardi (4,9-11) e, dopo la comparsa dell’Agnello, le miriadi di miriadi e migliaia di migliaia degli angeli (5,11-12), oltre che tutte le creature di (o provenienti da) cielo, terra e inferi (5,13). La seconda parte dell’Apocalisse ha dunque un esordio lirico e sacrale che sembra lontano dai travagli della scena umana, ma non è così, perché in Ap 6,9-10 la liturgia celeste è come lacerata dal grido audace che, da sotto l’altare, alzano a Dio coloro che sono stati vittima della violenza (… tōn esphagmenōn)[4].
Grido e liturgia si richiamano a vicenda. La liturgia incomincia con la triplice proclamazione (tratta da Is 6,3) della santità di Dio («Santo, santo, santo») e prosegue poi con i titoli della sua potenza («il Signore Iddio, il Pantokratōr») e della sua presenza attiva in ogni tempo («colui che era, che è, e che viene») (Ap 4,8b). A quella proclamazione della santità divina, in Ap 6,9-10 si richiama il vocativo: «Tu che sei Sovrano santo e verace…», e alla proclamazione della potenza e azione di Dio si richiama la pungente domanda degli uccisi: «… fino a quando non emetterai il tuo giudizio e non vendicherai il nostro sangue?». Si può aggiungere che alla sacralità della liturgia celeste si contrappone la violenza che segna invece la terra e la storia, perché il sangue degli uccisi è stato versato dagli «abitanti della terra» (… ek tōn katoikountōn epi tēs gēs).
La scena di Ap 6,9-10 sembra essere riproposta in Ap 8,3-5 dove un angelo viene ad arrestarsi sull’altare ai cui piedi erano gli uccisi di Ap 6,9. L’angelo ha il compito di far salire al cospetto di Dio le preghiere dei santi (da identificare probabilmente appunto con gli uccisi di Ap 6,9). Questa volta le parole della preghiera non sono riferite, ma si dice che la preghiera è rafforzata dal supplemento di abbondanti incensi che l’angelo brucia nel suo incensiere. Il rito si conclude con un’azione simbolica: dopo avere fatto salire le preghiere insieme con gli aromi al cospetto di Dio, l’angelo riempie l’incensiere con il fuoco dell’altare e lo rovescia contro la terra (8,5a), approvato da minacciosi scoppi di tuono, da voci, fulmini e terremoto (8,5b), che sono forse metafora della voce irata di Dio.
Quel fuoco poi davvero s’abbatte contro la terra ogni volta che uno dei sette angeli che stanno alla presenza di Dio (Ap 8,2) fa squillare la sua tromba: allo squillo della prima tromba, «grandine e fuoco, misti a sangue» bruciano un terzo degli alberi e ogni verzura (8,7); allo squillo della seconda tromba, un monte «ardente di fuoco» cade contro il mare le cui acque salate vengono cambiate in sangue (8,8); al terzo squillo di tromba, un astro del cielo «ardente come una fiaccola» precipita sulle acque dolci di un terzo dei fiumi e delle sorgenti (8,10)… Ma questi flagelli che rinnovano le piaghe di Egitto (grandine, acque cambiate in sangue) non sono diretti contro gli ambienti cosmici, bensì contro gli abitanti della terra: «Guai! Guai! Guai! per gli abitanti della terra (ouai tous katoikountas epi tēs gēs), ai restanti squilli di tromba», – grida l’aquila di Dio volitando nel mezzo del cielo (8,13). E infatti la quinta e sesta tromba colpiranno gli esseri umani che sulla fronte non recano il sigillo del Dio vivente (9,4)[5] e rispettivamente coloro che sono dediti all’adorazione di idoli e demoni (9,20-21).
Con i flagelli delle loro trombe gli angeli non sono, come sembrerebbe, ministri di distruzione o di castigo. Lo dicono i versetti conclusivi della sesta tromba: «… ma non si convertirono dalle opere delle loro mani, né cessarono di rendere culto a demoni e idoli… né si convertirono dai loro omicidi, dalle loro pratiche magiche, dalla loro scostumatezza, e dai loro furti» (9,20-21). Giovanni di Patmos mette dunque in conto una risposta di indurimento analogo a quello del faraone dell’antico esodo, ma dice con chiarezza che l’angelo è mano di Dio per spingere a conversione chi è dedito all’idolatria e ai peccati della violenza, dell’immoralità e delle pratiche magiche.
Analogo al settenario delle trombe (Ap 8,6-11,15) è il settenario delle coppe e dei loro angeli (Ap 16,1-21). Riversando le loro coppe contro la terra, essi provocano la piaga delle ulcere (16,2), cambiano in sangue le acque (16,3.4) e provocano la discesa delle tenebre (16,10)[6]. La risposta alle piaghe del nuovo esodo è ancora l’indurimento, ma da Dio era intesa e perseguita anche qui la conversione: «E non si convertirono per rendere gloria a Dio […] E non si convertirono dalle loro opere» (16,9.11). Anche qui dunque gli angeli sono ministri di Dio nei confronti del faraone di turno. Ma qui l’Egitto e il faraone non sono menzionati: scenario dell’azione è il regno della Bestia che Giovanni in Ap 13,1 aveva visto salire dal mare, e gli oppressi in favore dei quali Dio manda le nuove piaghe del nuovo esodo sono le nazioni. Come si deve ora vedere.
La Bestia sale dal mare in Ap 13,1 come una nave di cui si vedono prima l’albero maestro e le vele, poi la prua e lo scafo. Giovanni infatti prima descrive l’apparire dei dieci corni (cinti da dieci diademi) e delle sette teste della Bestia, e poi il suo aspetto di leopardo, i piedi di orso e la bocca di leone. La presentazione non poteva essere più negativa perché da sempre ogni animale policefalo o ibrido è avvertito come un inquietante scherzo di natura e come una minaccia alle immutabili leggi del cosmo[7]. La sproporzione tra i dieci corni e le sette teste su cui i corni debbono distribuirsi parla di caos, anch’esso inquietante. Non solo, ma il termine greco thērion (bestia), si applica soltanto agli animali in quanto contrapposti all’uomo, mentre il termine alternativo zōion (vivente), designa bensì gli animali, ma tra essi non le bestie feroci, e conviene anche all’uomo (cfr. Ap 4,6-7).
Tutta l’odiosa immagine creata da Giovanni parla di potenza. Anzitutto di potenza fisica: il leopardo è veloce, l’orso è immane, e il leone divora. Poi di potenza vitalistica: «Sette teste, sette vite», scrive D.H. Lawrence[8], e il corno è arma di difesa e di attacco per l’animale che lo porta[9]. E poi soprattutto di potere politico: prima che in epoca moderna cominciasse a significare «ornamento per signora», il termine «diadema» designava una bandana che si avvolgeva intorno alla tiara, copricapo dei re. L’uso di «diadema» al plurale poi è rarissimo perché un re poteva cingere un solo diadema, altrimenti era un usurpatore[10]. Qui non solo c’è il plurale, ma i diademi sono addirittura dieci e cioè quanti, per essere contati, richiedono tutte le dita delle due mani[11]. La Bestia esercita dunque un potere imperialistico su popoli e regni numerosi.
Nella Bestia che si fa adorare si vedeva l’imperatore di Roma già prima di Ireneo di Lione (180 d.C. circa)[12]: Ireneo riferisce che al suo tempo si interpretava il numero della Bestia, il famoso «seicentosessantasei» di Ap 13,18, con LATEINOS, perché il valore numerico delle otto lettere di LATEINOS assomma a 666 e perché «Latini sunt qui nunc regnant»[13]. A sua volta, è poi la «Babilonia» di Ap 17-18 che nel più antico commentario pervenuto fino a noi, quello di Vittorino di Poetovio (morto martire a metà terzo secolo o all’inizio del quarto), viene individuata nella civitas Romana, colpevole di avere ostacolato la predicazione della fede cristiana e di una intollerabile persecuzione[14].
Le identificazioni alternative di Babilonia (e della Bestia) proposte lungo i secoli si possono ricondurre a quattro: (1) «Babilonia» è la Babilonia storica, la città che sorgeva un tempo sulle rive dell’Eufrate, la quale dovrà essere ricostruita così che poi alla fine dei tempi possano realizzarsi le finora incompiute profezie di Isaia (Is 13-14; 21,1-19; 47-48), di Geremia (Ger 50-51) e, appunto, dell’Apocalisse[15]; (2) «Babilonia» va intesa atemporalmente come simbolo della città di Satana che nel corso di tutta la storia combatte contro Dio e contro il Cristo[16]; (3) «Babilonia» va intesa come simbolo delle forze del male che combatteranno contro Dio e contro il Cristo nella crisi escatologica[17]; (4) «Babilonia» è la Gerusalemme che aveva messo a morte il Cristo e che al tempo di Giovanni viveva le attese messianiche in chiave politica e in complicità con Roma[18].
Per denunciare la debolezza di queste interpretazioni basta il minuscolo inciso «Uno è» (ho heis estin) di Ap 17,10[19] il quale esclude che la vicenda narrata sia da ambientare in epoca diversa da quella di Giovanni di Patmos. Quanto a cronologia, l’inciso potrebbe tutt’al più sopportare l’interpretazione antigerosolimitana, ma se l’Apocalisse è stata scritta tra il 60 e il 100 d.C. come è del tutto probabile, Gerusalemme era in quei decenni tutt’altro che in alleanza con Roma perché covava nei suoi confronti la ribellione (prima del 66 d.C.), o era in armi contro di essa (66-70) o era stata ridotta in macerie da Roma, oramai insanabilmente odiata (dopo il 70). Tutte, in ogni caso, sono interpretazioni che non renderebbero conto dell’appassionata protesta morale di Giovanni contro le arroganze del potere della Bestia e di Babilonia e farebbero dell’Apocalisse un’antologia di simboli atemporali.
Sui banchi di scuola ognuno di noi ha imparato ad ammirare l’antica Roma e il suo impero che ha riempito di sé cinque secoli, e nella nostra ammirazione si prolunga per esempio quella di Polibio (200 – 120 a.C. circa) il quale scrisse per far conoscere «come in meno di cinquantatre anni, fatto senza precedenti nella storia, i romani abbiano conquistato quasi tutta la terra abitata»[20]. Probabilmente anche Giovanni di Patmos era estimatore di Roma e dell’universalismo di cui era stata artefice: lo lasciano intravedere la malcelata ammirazione che ispira i lamenti funebri di Ap 18 su Babilonia (18,9-19) e la descrizione delle arti e dei mestieri che più non animeranno i suoi giorni e le sue notti (18,22-23). Ma non poteva tollerare che Roma-Babilonia abbeverasse i popoli con il vino della sua porneia (Ap 17,2; 18,3), che dicesse con blasfema autosufficienza «Siedo regina, vedova non sono, lutto mai conoscerò» (18,7), che versasse fino a inebriarsene il sangue dei testimoni di Gesù (17,6). Soprattutto, fervente monoteista qual era, Giovanni non poteva scendere a patti con il culto del sovrano e con la divinizzazione del suo potere[21].
In Ap 13, dopo il «canto di descrizione» della Bestia (13,1-2a)[22], viene l’azione (v. 2b). Ad agire non è la Bestia ma il Drago al quale il relativo canto di descrizione aveva attribuito sette teste, dieci corni e sette diademi (12,3). Ebbene, ora il Drago trasmette alla Bestia-dal-mare tre titoli di potere: trasmette la propria forza, trasmette il proprio trono, e trasmette la propria potestà o ambito di giurisdizione.
Per darle investitura a suo plenario luogotenente, il Drago aveva atteso la Bestia stando appostato sull’arena del mare (Ap 12,18), ma la sua vicenda è più complessa e più tumultuosa. Il Drago aveva insidiato la Donna circonfusa di sole che doveva partorire il Messia, aveva inseguito il Messia fin presso il trono divino, aveva sostenuto la guerra di Michele e dei suoi angeli e, sconfitto, era stato precipitato sulla terra in preda a grande furore (12,4-11). Sconfitto anche sulla terra, perché anche la Donna messianica era stata portata a salvazione, il Drago aveva allora rivolto la sua ostilità contro il resto della figliolanza di lei e, appunto, aveva atteso che salisse dal mare la Bestia come suo complice e alleato (12,13-18).
Narrando queste cose, di passaggio Giovanni informa il lettore che il Drago è il Serpente antico, Diavolo o Satana, ingannatore dell’ecumene intera (Ap 12,9; cfr. 20,2). Con ogni evidenza il Drago è dunque più grande che non la stessa Bestia: ha potuto perfino tentare la scalata al cielo e la soppressione del Messia. È il demoniaco che eleva a potenza la gagliardia e la negatività della Bestia. Il potere, che in Lc 4,6 è diabolico sic et simpliciter («… il potere fu dato a me [al diabolos], e a chi voglio io lo do»)[23], qui diventa demoniaco nella dannata alleanza tra Bestia e Drago. Ora, per le sue complicità in alto, tutto la Bestia riterrà fattibile e lecito.
Il potere suscita sempre ammirazione e nel racconto di Giovanni il potere della Bestia strabilia l’ecumene così che l’ammirazione sfocia nell’adorazione. Tutta la terra prende ad adorare il Drago per avere reso più vicino il proprio potere nella Bestia suo luogotenente, e adora la Bestia di fronte alla quale ripete: «Chi è come la bestia?» (Ap 13,4), scimmiottando l’interrogativo dell’uomo biblico di fronte al soverchiante mistero divino[24].
L’adorazione resa alla Bestia poi dà il via a un tripudio di potere. Ricorrendo per quattro volte in tre versetti al verbo edothē (fu dato, fu dato il potere di), Giovanni dice che alla Bestia fu data una bocca per pronunciare enormità e bestemmie, che le fu data potestà di agire per quarantadue mesi, che le fu dato di far guerra ai santi e, infine, che le fu dato potere su ogni tribù, popolo, lingua e nazione (13,5-7). Tutta questa pioggia di potere termina come era cominciata: con gli abitanti della terra che adorano la Bestia, strabiliati (13,8).
È questa adorazione indirizzata alla Bestia, e cioè a un uomo[25] e al suo potere politico, che con ogni evidenza ha provocato Giovanni di Patmos a scrivere. Lo dicono le statistiche: anzitutto, la Bestia è menzionata nell’Apocalisse trentasei volte, mentre lo stesso «Agnello» lo è solo ventotto volte; in secondo luogo sono menzionate una decina di volte sia l’adorazione della Bestia per mezzo del verbo proskynein, sia la sua statua cultuale per mezzo del termine eikōn[26]; in terzo luogo, dopo una prima comparsa d’anticipazione in Ap 11,7, la Bestia è protagonista di primo piano in ben otto capitoli del libro (Ap 13-20)[27].
«Temete Dio, date a lui la gloria, e adorate Colui che ha fatto il cielo, la terra, il mare e le sorgenti delle acque»: questo è «vangelo eterno», dice Giovanni (14,6-7), e l’adorazione della Bestia invece è bestemmia. Non per nulla la Bestia ha un nome di bestemmia sulle sue teste, ha una bocca per gridare enormità e bestemmie, e di fatto apre bocca per bestemmiare Dio, il suo tabernacolo celeste e quelli che in esso dimorano (13,1.5.6).
In tal modo il demoniaco si presenta come una forza potente, o come un complesso di forze potenti, che si oppone al Messia. Per questo il demoniaco è l’«anticristo»[28] del quale hanno scritto non solo gli antichi (Didachè, Ireneo, Ippolito, Origene, Atanasio, Giovanni Crisostomo…), ma per esempio anche Dostoevskij, Solov’ev, Nietzsche e, in Italia, U. Eco.
Il demoniaco vuole uccidere sul nascere l’Inviato che Dio suscita tra gli uomini, e lo insegue fino al trono di Dio (Ap 12,4-5). Ma la sua via non è questa. Anzitutto perché il suo attacco al cielo è facilmente sventato. In secondo luogo la sconfitta nel cielo dice che a quella vittoria le vicende terrestri dovranno in qualche modo adeguarsi e in essa confluire. La sua via è un’altra: è quella di farsi dei complici all’interno della storia umana. Anche per il demoniaco c’è come una legge dell’incarnazione e della storicizzazione, e le pieghe della storia in cui meglio può annidarsi sono i centri di potere e di culto. La condizione ottimale è che le due dimensioni, politica e religiosa, siano insieme, come nel caso della Bestia dai dieci diademi (potere politico) e che si fa adorare (potere religioso).
Sulla scena della storia il demoniaco non appare per quel che è: non vi lascia intravedere l’accanimento del persecutore che insidia un tenero neonato e la madre non ancora uscita dall’affanno del parto. Questo c’è ma non si vede, ed è Giovanni che lo svela alle Chiese dando forma ai suoi miti. Davanti al demoniaco dunque si è davvero davanti al Serpente antico e all’ingannatore di tutta la terra (12,9).
L’incarnazione del demoniaco e l’equiparazione a Dio della Bestia-dal-mare non sono ancora complete. Giovanni di Patmos vede infatti salire dalla terra un secondo thērion (Ap 13,11) che poi chiamerà sempre «falso profeta» (16,13; 19,20; 20,10).
Il falso profeta è tutto votato al servizio della prima Bestia soprattutto sul piano religioso: incita la terra da cui proviene ad adorare la Bestia (13,12) e, ricorrendo a prodigi come quello di far scendere fuoco dal cielo, induce a costruirne una statua cultuale (13,14) che addirittura fa diventare statua parlante (13,15a) perché tutti siano meglio indotti ad adorarla. La servile attività propagandistica del falso profeta si tinge poi di sangue perché coloro che non accettano di adorare la statua idolatrica sono messi a morte (13,15b). Nel suo zelo ed attivismo infine il «profeta», che è come alla guida dei ministeri della propaganda e del culto, imprime un marchio con il nome della prima Bestia sulla mano destra o sulla fronte di piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi (13,16), così che nella loro stessa identità (la fronte) e nel loro agire (la mano destra) aderiscano alla Bestia e le rendano adorazione. Invadendo poi il campo dell’economia e del commercio decreta che nessuno possa comprare o vendere se non ha quel marchio (13,17). Anche qui dunque la religione fa da vernice e copertura a qualcosa che è ben altro.
Nel «canto di descrizione», questa volta a due soli tratti, giustamente Giovanni aveva introdotto il falso profeta dicendo che ha due corni come di agnello e che però ha voce come di drago (13,11). In altre parole, vorrebbe apparire profeta attraverso la somiglianza con il Cristo-Agnello ma il barrito da drago-Satana lo tradisce.
Il potere ha propaggini in ogni direzione: dal demoniaco con i suoi inganni fino alla tessera di partito necessaria per comprare o vendere, passando per il signoreggiamento sui popoli (il dominio imperialistico su «genti, tribù, lingue ed etnie»), la propaganda e i suoi espedienti (il fuoco che scende dal cielo, la statua parlante), l’istituzionalizzazione stessa della propaganda (il falso profeta opera al cospetto della Bestia, scimmiotta l’Agnello, fa prodigi per strabiliare, impone tatuaggi celebrativi sulla fronte e sulla mano), la strumentalizzazione del fatto religioso (ridotto ad inganno, idolatria e sacralizzazione del potere), il controllo dei flussi del commercio e della finanza (il marchio richiesto per comprare o vendere, le flotte commerciali, il consumo esclusivo dei beni di lusso) e poi – a ruota libera – la vessazione, il delitto di stato, la guerra aperta.
L’Apocalisse dice dunque come il potere abbia in sé la molla irrefrenabile del volere tutto e in ogni campo: in politica, in economia e in religione. E poi vuole il concentrato di ogni forza: la molteplicità di teste e corni, il balzo veloce del leopardo, le zampe graffianti dell’orso, la bocca vorace del leone, i corni di agnello e la voce di drago. E vuole il soggiogamento di tutte le classi sociali: «i piccoli e i grandi, i ricchi e i poveri, i liberi e gli schiavi». Chi legge si sente rappresentato da una o dall’altra componente di quelle tre coppie antitetiche perché sa di essere sotto il tallone dei signori di questo mondo (1Cor 8,5). O è aiutato a diventarne consapevole.
Poiché la risposta degli idolatri delle due idolatrie ai flagelli medicinali degli angeli delle trombe e delle coppe è l’indurimento, non resta altra via che l’intervento giudiziale. Ma ministri del giudizio di Dio non sono gli angeli, se non nelle azioni simboliche di Ap 14,14-16 e 14,17-20[29] nelle quali gli angeli muovono la falce per mietere o vendemmiare. Del giudizio gli angeli sono comunque solo annunciatori e, dunque, anche rispetto al giudizio, essi hanno il compito di mettere in guardia e di ammonire: stanno al fianco dei popoli per ispirarne la condotta, ma non sono contro di essi per accusarli e giudicarli. D’altra parte, gli effettivi ministri del giudizio divino saranno molteplici e in quell’incombenza si avvicenderanno gerarchicamente secondo la gerarchia contrapposta degli agenti del male che, l’uno dopo l’altro, vengono giudicati.
Il primo giudizio è quello di Babilonia, la capitale del regno della Bestia, ed è proprio la Bestia che, passando allo schieramento nemico e mettendosi a capo di una coalizione di dieci re, pone fine alla città dandola al fuoco e alle fiamme per i secoli dei secoli (cfr. 17,16; 18,8.9.18; 19,3). Anche se il cantico di Ap 19,1-2 attribuisce a Dio quel giudizio («Il nostro Dio […] giudicò la grande prostituta […] e vendicò il sangue dei suoi servi versato dalla mano di lei»), in realtà esso è concretamente mandato ad effetto da forze e vicende intrastoriche.
Il giudizio delle due Bestie e della loro idolatria è opera del «Logos di Dio» (Ap 19,13), la cui spada esce dalla sua bocca come una lingua e non è nella sua mano come un’arma, tanto più che nel messaggio a Pergamo quella spada dava battaglia alla dottrina dei nicolaiti (2,15-16), non a qualche esercito. E allora, come la spada del cavaliere, così anche le sue armate, la sua battaglia e la sua vittoria non sono quelle belliche e guerresche, ma quelle della verità contro la menzogna.
Il terzo giudizio che si abbatte sul Drago e il quarto che si abbatte su Thanatos-Morte e su Ade, suo regno[30], vengono dal cielo («Scese fuoco dal cielo e li [Gog e Magog, gli eserciti del Drago] divorò», 21,9), e sono opera della mano di Dio, come dice il passivo dei verbi in Ap 20,10.14: «Il [Drago] fu gettato (eblēthē) nello stagno di fuoco e zolfo», «La Morte e l’Ade furono gettate (eblēthēsan) nello stagno di fuoco e zolfo».
Sulla scena politica internazionale, a far giustizia dell’imperialismo con cui Babilonia ha dominato le genti è dunque la storia stessa con i suoi flussi e riflussi. Sul campo della vera o falsa religione, a far giustizia dell’idolatria blasfema della Bestia marina e della pseudoprofezia della Bestia terrestre è la verità della parola messianica che si è incarnata nella storia. Infine, il demoniaco e Thanatos, ultimo nemico (1Cor 15,26), sono vinti dalla mano stessa di Dio.
Al mondo dei popoli e delle nazioni cui sovrintende, l’«Angelo» dice dunque che nella storia universale deve realizzarsi un esodo di liberazione per alcuni e di pressione medicinale per altri, e dice che la storia non è lasciata all’arbitrio e all’amoralità, ma che i singoli e i popoli devono rendere conto del proprio agire ai coinquilini della storia, alla verità venuta dall’alto e al giudice supremo che, inconciliabile con il male, giudicherà con giudizio giusto e giusta sanzione.
A fare da contrappeso positivo al risvolto severo del quadruplice giudizio ci sono nell’Apocalisse la visione della nuova Gerusalemme e, in essa, gli angeli delle tribù. Ad ognuno dei quattro lati della città si aprono tre porte, e sopra le porte sono gli angeli delle dodici tribù d’Israele. Gli angeli «delle porte» devono essere intesi probabilmente come una sorta di «guardiani» delle porte che ammettono alla città escatologica solo i veri contribuli, mentre lasciano fuori invece gli indegni[31]. Sono dunque angeli comparabili ai cherubini di Gen 3,24: quelli avevano la funzione di sbarrare il passo all’albero di vita, questi hanno la funzione positiva di ammettere ad esso.
Attraverso le porte vigilate dagli angeli delle dodici tribù hanno però accesso alla città e all’albero non le dodici tribù ma i popoli e i loro re, i quali ad essa fanno affluire la propria gloria (doxa) e il proprio onore (timē) (Ap 21,24.26), dove «gloria» e «onore» sembrano indicare le ricchezze che noi diremmo culturali. Alle civiltà e culture dei popoli, ovviamente purificate e fermentate dall’annuncio cristiano, è così riconosciuto un valore perenne, essendo esse accolte anche nell’escatologia e in essa rese perenni.
I popoli che hanno accesso alla Gerusalemme escatologica sono designati per ben tre volte con il termine ethnē: «Cammineranno gli ethnē alla sua [della città] luce e i re della terra portano in essa la loro gloria», «… introdurranno in essa la gloria e l’onore degli ethnē», «… le foglie dell’albero [di vita sono] terapeutiche per gli ethnē» (21,24.26; 22,3).
Il termine non aveva lo stesso valore positivo per esempio nelle tre citazioni del Salmo 2 («Darò a lui potere sugli ethnē») per il «vincitore» tiatirese (Ap 2,26), per il figlio della Donna circonfusa di sole (12,5) e per il Logos di Dio che esce a battaglia contro le due Bestie (19,15). La stessa cosa è da dire di Ap 11,2 dove è detto che il cortile esterno del tempio sarà dato in potere agli ethnē, insieme con la città santa che dagli ethnē sarà calpestata[32]. In questi ultimi testi il termine ethnē ha il valore nettamente negativo del termine ebraico gôyim, che designa quelli che noi chiamiamo anacronisticamente «i pagani». L’autore dell’Apocalisse dà poi al termine ethnē anche un terzo valore, un valore «neutro», secondo cui ethnē sono i popoli disseminati sulla faccia della terra, i quali ricadono sotto il governo di Dio perché Dio è «re degli ethnē» (15,3.4), o le cui città crollano al verificarsi di un terremoto che non ha l’eguale nella storia umana (16,19), o che sono esposti all’inganno del Drago (20,3.8).
Il termine ethnos/ethnē ha la stessa triplice valenza, positiva o negativa o neutra, quando con altri tre termini (laos/laoi, glōssē/glōssai, phylē/phylai) dà vita a una formula che nell’Apocalisse ricorre sette volte e che con la sua ridondanza deve esprimere l’universalità dei popoli e allo stesso tempo la varietà degli ordinamenti nazionali (laoi), delle culture (glōssai) e delle aggregazioni tribali (phylai)[33]. La formula può infatti designare positivamente coloro che il sangue del Cristo-Agnello ha redento (Ap 5,9 e 7,9), ma designa poi negativamente coloro contro[34] i quali Giovanni di Patmos dovrà profetare (Ap 10,11), coloro che non permettono la sepoltura dei due testimoni del Signore crocifisso (11,9) e coloro su cui esercitano il loro potere la Bestia (13,7) e Babilonia (17,15). La formula ha, infine, valore neutro in Ap 14,6 dove l’angelo che vola allo zenit annuncia all’umanità intera e indifferenziata il «vangelo eterno».
Giovanni di Patmos ha però formule alternative per esprimere il solo valore positivo o il solo valore negativo di ethnē. Hanno valore soltanto positivo formule come «i servi di Dio / del Cristo»[35], «i santi» o «coloro che osservano i comandamenti di Dio e la testimonianza/fedeltà a Gesù». Al contrario, del termine ethnē esprimono il solo valore negativo formule come «gli abitanti della terra»[36], «coloro che non sono scritti nel libro della vita», «gli adoratori della Bestia e della sua statua». Questo mette ancora più in evidenza come nell’Apocalisse il concetto di ethnos/ethnē sia fluido, polivalente, cangiante, e tutto dice la trepidazione che l’autore prova al vedere le nazioni sottoposte all’influsso contrastante dell’«Angelo» e della «Bestia».
*
Fuori metafora, le nazioni sotto l’influsso della «Bestia» sono le nazioni dedite al culto dell’imperatore, che era diffuso e radicato soprattutto nella provincia romana d’Asia, avvezza al culto del sovrano dai tempi di Alessandro Magno[37]. Nella provincia d’Asia il primo tempio per il culto imperiale fu costruito nel 29 a.C. a Pergamo sotto Augusto, come Tacito attesta, aggiungendo che quello di Pergamo fu preso poi come esempio in altre province[38]. È ancora Tacito a narrare come cinquanta anni più tardi (21 d.C.), sotto Tiberio, si giunse all’edificazione di un secondo tempio imperiale a Smirne[39]. Il terzo fu eretto a Efeso sotto Domiziano intorno agli anni 89-90 d.C.[40], e non è da escludere che Giovanni abbia scritto il suo libro contro la Bestia e contro il suo culto[41] proprio in risposta alla costruzione del nuovo tempio in cui avrebbero ricevuto omaggio divino i tre imperatori della dinastia flavia: Vespasiano, Tito e Domiziano[42]. Per Giovanni di Patmos, oltre che essere intollerabilmente blasfema nei confronti verso Dio, la divinizzazione del potere imperiale legittimava e consacrava il dominio imperialistico su popoli e nazioni.
Ma, come s’è visto, prima gli adoratori degli idoli e dei demoni e poi gli adoratori della Bestia-dal-mare sono da Dio messi sotto la pressione dei flagelli degli angeli delle trombe e rispettivamente degli angeli delle coppe. Le piaghe del nuovo esodo portano bensì all’indurimento come quelle dell’antico, e tuttavia a fare da contrappeso chiarificatore a questa apparente sconfitta, c’è la vittoria di Michele conseguita sul Drago e sui suoi eserciti in cielo: nel luogo dove non esistono precarietà e mutamento. Per il lettore che si chiede chi sia il dominatore di questo mondo[43], Giovanni elabora dunque una sorta di teologia del «non ancora, ma già»[44], congiungendo al riconoscimento dell’attuale potenza dell’avversario la rivelazione della sua sicura sconfitta[45]. L’«Angelo» ha già vinto il Drago, e quindi ha già vinto anche l’imperialismo della «Bestia» suo luogotenente, – dice Giovanni incoraggiando ed esortando.
La critica all’imperialismo ha come risvolto contrario e positivo l’apprezzamento di Giovanni nei confronti delle culture dei popoli: apprezzamento che egli lascia intravedere per esempio nella formula quadrimembre e in quel suo preconizzare gli ethnē come cittadini della Gerusalemme escatologica. Si può aggiungere che, secondo Ap 21,3, i popoli sono i popoli «di Dio» (laoi autou esontai), al plurale[46], i popoli che Dio ospiterà sotto la sua tenda e nella quale sarà il «Dio con loro» (ho theos met’autōn). Neanche per il mondo escatologico, dunque, Giovanni pensa alla fusione e al livellamento delle molte etnie provenienti dalla variopinta umanità della storia.
Tutto questo non è estraneo a noi e a ciò che è in cantiere per il vecchio continente dal quale la «Bestia» ha dominato lungo cinque secoli sui popoli del mare nostrum. Nei palazzi di Strasburgo e di Bruxelles infatti è in elaborazione l’«Angelo dell’Europa» o, meglio, la sua risuscitazione, dopo i molti secoli sabbatici cui è stato costretto dalle monarchie assolute, dai nazionalismi, dalle guerre mondiali e dalle pulizie etniche. Per l’Europa in fieri Giovanni di Patmos tratteggiò come icone ideali la «grande folla, che nessuno sapeva contare, [proveniente e composta] da ogni etnia, tribù, popolo e lingua» (Ap 7,9) e la città dalle porte sempre aperte verso la quale affluisce «la gloria e l’onore dei popoli» (Ap 21,24-26). Ciò comporta per esempio che banchieri e burocrati (della cui competenza evidentemente la Comunità Europea non può fare a meno) non soffochino le tradizioni e le culture locali, e comporta che nell’intensa immigrazione degli ultimi decenni verso il vecchio continente si veda il possibile contributo di energie nuove, non solo lavorative. Nella storia dell’Europa c’è dopotutto il precedente della discesa verso il mediterraneo dei popoli del nord nel primo medioevo che rinsanguò l’esangue ex-impero romano.
[1] Cf. J. Michl, Die Engelvorstellungen in der Apokalypse des Hl. Johannes, I Teil, Die Engel um Gott, München 1937, che alla sua prima pagina definisce l’Apocalisse un Engelbuch («Die Apk ist ein rechtes Engelbuch)», e poi spiega e giustifica la sua affermazione, aggiungendo che nessun altro scritto né dell’A.T. né del N.T. parla così abbondantemente degli angeli.
[2] È infatti dall’altare (ek tou thysiastēriou) che l’angelo dichiara le uve mature per la vendemmia annunciando così l’imminenza del giudizio. Il dettaglio dell’altare potrebbe essere un rimando ad Ap 6,9-10 e 8,3-5, perché gli «uccisi» di Ap 6,9-10 invocavano il giudizio divino da (sotto) l’altare e in 8,3-5 un angelo rovesciava il fuoco dell’altare contro la terra in risposta di Dio alla preghiera dei santi.
[3] A proposito degli «angeli delle Chiese» Agostino di Ippona parlava di res obscurissima (De doctr. christ. 3,30,42). Per le soluzioni proposte nell’antichità cfr. J. Sickenberger, Die Deutung der Engel der sieben apokalyptischen Gemeinden, in «Römische Quartalschrift» 35(1927) pp. 137-143, e A. Škrinjar, Antiquitas christiana de angelis septem Ecclesiarum (Ap 1-3), in «Verbum Domini» 22(1942) pp. 18-24; 51-56. Su tutta la questione vedi il capitolo VIII («Gli angeli delle chiese [Apoc. 1-3]»), in G. Biguzzi, L’Apocalisse e i suoi enigmi (Studi biblici 143), Brescia 2004, pp. 173-193.
[4] Il grido degli uccisi in Ap 6,9-10 è testo di grande peso, perché punto di scaturigine di tutta la seconda parte dell’Apocalisse; cfr. G. Biguzzi, L’Apocalisse. Nuova versione, introduzione e commento (I libri biblici 20), Milano, 2005, pp. 173-174.
[5] Saranno protetti invece i 144.000 che secondo Ap 7,3-8 sono segnati con quel sigillo. Il flagello dei venti di Ap 7,1-3 si trasforma dunque metamorficamente in quello del fuoco (8,5) e in quello dei flagelli delle trombe (9,4).
[6] Le ulcere della prima coppa ripetono la sesta piaga dell’antico esodo (Es 9,9.10), l’acqua cambiata in sangue della seconda e terza coppa ripete la prima piaga (Es 7,17.20), le tenebre provocate dalla quinta coppa ripetono la nona piaga (Es 10,21.22).
[7] La mitologia greca è piena di esseri ibridi o policefali: basti citare il Minotauro (corpo umano e testa di toro o viceversa), Cerbero (tre teste o, per Esiodo, Theog. 311, cinquanta teste), le Arpie (donne alate o uccelli con volto di donna) o i centauri (metà uomini, metà cavalli). Tra gli scrittori latini Tito Livio registra l’inquietante nascita di un porco con bocca umana (a Tarquinia, Ab Urbe cond. 27,4,14) o con testa umana (a Sinuessa, 32,9,41), di un agnello con capo porcino (a Frosinone, 31,12,7), o di un puledro con cinque zampe (nell’agro pubblico lucano, 31,12,8), e similmente Cornelio Tacito riferisce di un maiale partorito con artigli di avvoltoio (Ann. 12,64,2), di essere umani o animali nati con due teste (15,47) e la nascita di un vitello con la testa in una zampa (a Piacenza, ibidem).
[8] D.H. Lawrence, L’Apocalisse, cura e traduzione di W. Mauro (TENew 245), Roma 1995 (Firenze 11931), p. 77.
[9] I corni vanno intesi in continuità con il linguaggio biblico secondo il quale nei corni si concentra la potenza d’urto e la pericolosità del bufalo: «Salvami dalla bocca del leone, e dai corni dei bufali» (Sal 21,22 lxx; cf. anche Nm 23,22; Dt 33,17). I corni compaiono in molta iconografia orientale antica sulle teste delle divinità per dirne la potenza divina positiva: cf. J.B. Pritchard, ANEP, nn. 513-515. 524-526. 529. 538 ecc.
[10] Merita di essere citato Flavio Giuseppe (Ant. iud. 13,113ss) a proposito di Tolomeo vi Filometore (185 circa – 145 a.C.) che fu costretto a cingere il diadema di un secondo regno, oltre al diadema dell’Egitto di cui era legittimo detentore. Uomo giusto e prudente – aggiunge Giuseppe –, si affrettò a rifiutare il diadema che non gli spettava e a proporre Demetrio in vece sua, come sovrano d’Asia. Il Demetrio in questione è Demetrio II Nicatore Filadelfo (187-125 a.C.), associato al trono di Siria da Tolomeo nel 145 a.C.
[11] Cf. F. Hauck, Deka, in «Grande Lessico del Nuovo Testamento», vol. II, Brescia 1966 (Stuttgart 1935), p. 829: «Alla radice dell’importanza attribuita al numero dieci sia in Israele che in altri popoli sta l’abitudine originaria di numerare sulle dita di una o di entrambe le mani».
[12] L’identificazione della Bestia e di Babilonia con l’imperatore e con Roma è motivata in G. Biguzzi, L’Apocalisse e i suoi enigmi, ai capitoli I e II («Un libro contro Babilonia: – Contro Roma o contro Gerusalemme?», «La terra di Apoc. 13,11 e la geografia politica [presupposta in Ap]»). – Ma, a titolo di esempio, cfr. poi M. Dibelius, Rom und die Christen im ersten Jahrhundert, in Botschaft und Geschichte. Gesammelte Aufsätze, vol. II, Tübingen 1956, p. 219 («Rom, und nur Rom, ist die Stadt des Christenmordes […] Zu deutlich ist die Anspielung auf die sieben Hügel»); R.H. Mounce, The Book of Revelation (NICNT), Grand Rapids 1977, pp. 313-314 («There is little doubt that a first-century reader would understand this reference in any way other than a reference to Rome, the city built upon seven hills […] Rome was from the time of Servius Tullius an urbs septicollis»); J.C. Wilson, The Problem of the Domitianic Date of Revelation, in «New Testament Studies» 39(1993) p. 599 («No scholar doubts the identification of this woman, Babylon, with Rome»); J. Lambrecht, The People of God in the Book of Revelation, in Collected Studies on Pauline Literature and on the Book of Revelation (AnB 147), Roma 2001, p. 385 («Hardly any doubt is possible»).
[13] Ireneo, Adv. haer. 5,28-30. Come soluzione proposte al suo tempo per l’enigma del numero 666, Ireneo riporta anche TEITAN e EUANQAS.
[14] Vittorino di Poetovio, in PL Suppl. I, p. 137 (… ad restituendas ecclesias et stabiliendas ab intolerabili persecutione); p. 140 (… ruina Babylonis, id est ciuitatis Romanae); p. 161 (Omnes enim passiones sanctorum ex decreto senatus illius [meretricis] semper sunt consummatae, et omne contra fidei praedicationem iam lata indulgentia ipsa dedit decretum in uniuersis gentibus).
[15] Per esempio secondo K.M. Allen, The Rebuilding and Destruction of Babylon, in «Bibliotheca Sacra» 133 (1976) pp. 19-27, Babilonia risorgerà dalle sue attuali rovine, sarà il quartiere generale dell’Anticristo e sarà definitivamente distrutta nel gran giorno del Signore (pp. 19-20). Secondo C.H. Dyer, The Identity of Babylon in Revelation 17-18, in «Bibliotheca Sacra» 144(1987) pp. 308-316, e 433-449, risorta dalle rovine, Babilonia sarà poi distrutta dallo stesso Anticristo (p. 449).
[16] Tra gli antichi cfr. soprattutto Agostino, che vedeva nelle vicende narrate dall’Apocalisse la lotta tra la civitas diaboli e la civitas Dei fino alla parusia ([…] per totum hoc tempus, quod liber iste complectitur, a primo scilicet adventu Christi usque in saeculi finem, quo erit secundus eius adventus, De civ. Dei 20,8,1). Tra i moderni cfr. M. Rissi, Die Hure Babylon und die Verführung der Heiligen. Eine Studie zur Apokalypse des Johannes (BWANT), Stuttgart-Berlin-Köln 1995, p. 58 (Babilonia è la comunità mondiale degli ingannati e degli ingannatori, immagine di contrasto con la comunità dei santi), e G.K. Beale, The Book of Revelation (NIGTC), Grand Rapids 1999, pp. 885-886 (Babilonia è il corrotto sistema economico-religioso mondiale).
[17] Cfr. Th. Zahn, Die Offenbarung des Johannes, vol. II, Leipzig – Erlangen 1926, p. 450 (La bestia che sorge dal mare è l’Anticristo della fine dei tempi); J. Sickenberger, Die Johannesapokalypse und Rom, in «Biblische Zeitschrift» 17(1925-1926) p. 280 (Babilonia vive ora nelle grandi metropoli del regno antidivino e la sua scellerataggine esploderà con particolare veemenza alla fine dei tempi); E. Lohmeyer, Die Offenbarung des Johannes (HNT 16), Tübingen 1926, p. 112 (le due bestie sono il nemico di Dio per eccellenza degli ultimi tempi); W. Foerster, Thērion, in «Grande Lessico del Nuovo Testamento», vol. iv, Brescia 1968 (Stuttgart 1938), pp. 504 e 506 (la prima bestia è l’Anticristo, la seconda è il falso profeta della fine dei tempi).
[18] Cfr. J. Massyngberde Ford, Revelation (Anchor Bible), Garden City, NY, 41980, pp. 227-230 e 283-289 (la prima bestia è Vespasiano, mentre la seconda è Flavio Giuseppe che, falso-profeta, salutò in lui il futuro imperatore e prese il marchio del suo nome, «Flavio»); R. De Water, Reconsidering the Beast from the Sea (Rev. 13,1), in «New Testament Studies» 46(2000) pp. 245-261 (la prima Bestia rappresenta il potere politico degli Erodi e la seconda Bestia è il messianismo politico dei giudei della diaspora, mentre la Grande Prostituta, che siede sulla Bestia, è il Sommo Sacerdozio di Gerusalemme o la stessa Gerusalemme).
[19] Lo stico in cui si trova l’inciso («Cinque [sovrani già] caddero, uno è [presentemente], l’altro non ancora venne») parla dei sette corni della Bestia che, nella singolare logica di Giovanni di Patmos, sono sette monti e contemporaneamente sette sovrani o re.
[20] Polibio, Hist. 1, prologo. – I cinquantatre anni sono quelli che vanno dal 221 al 168 a.C. Agli occhi di Polibio l’ascesa di Roma a potenza mondiale fu opera della Fortuna-Tychē, potere divino che dirige gli eventi della storia, la quale portò il mondo conosciuto ai piedi di Roma per merito delle sue origini, della sua costituzione e del suo esercito.
[21] La critica di Giovanni alla Roma imperiale era in qualche modo analoga a quella del contemporaneo Cornelio Tacito (56 – 115 d.C. circa) il quale scriveva: «Ogni volta che aumenta la concentrazione di potere, perdono terreno le leggi – ([…] minui iura quoties gliscat potestas» [Ann. 3,69,4]) e collegava l’esplosione dell’adulatio con l’era di Augusto (gliscente adulatione) «il quale, con il titolo di princeps, concentrò in suo potere lo stato» (Ann. 1,2). Lo stesso Tacito qualifica poi l’adulatio di volta in volta come inhonesta (Hist. 2,57,10), foedissima (Ann. 3,57,10), sordida (3,65,5), saeva (4,20,10), tristis (11,21,13) e si scaglia contro la passività degna di schiavi che senatori e ministri avevano verso il princeps (patientia servilis, Ann. 16,16), e riferisce come Tiberio, uscendo dalla curia e di certo non premuroso della libertas publica, fosse solito esclamare all’indirizzo di senatori: «Homines ad servitutem paratos!» (Ann. 3,65).
[22] Quando introduce nella vicenda un nuovo protagonista, Giovanni lo descrive con una sorprendente ricchezza di dettagli soprattutto anatomici. Detto in termini di genere letterario, il risultato sono «canti di descrizione» (Beschreibungslieder). Precedenti e paralleli s’incontrano nel Cantico dei cantici che descrive la bellezza fisica dell’amata (4,1-5; 6,4-7; 7,2-10) o dello sposo (5,10-16), anche se i modelli di Giovanni sono nel libro di Daniele. Per esempio, la descrizione dell’uomo vestito di lino di Dn 10,5-6 ha ispirato la descrizione del «Simile a Figlio d’uomo» (Ap 1,12-17), mentre la descrizione delle quattro bestie di Dn 7,3-8 ha ispirato la descrizione della Bestia che emerge dal mare (Ap 13,1-2).
[23] Lc 4,6 recita: «Il diavolo lo condusse in alto e, mostrandogli in un istante tutti i regni della terra, gli disse: “Ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni, perché è stata messa nelle mie mani e io la do a chi voglio”».
[24] Per la domanda dell’uomo biblico davanti a Dio cfr. Es 15,11 («Chi è come te fra gli dèi, o Signore?»), Sal 35,10 («Chi è come te, Signore?»), Sal 71,19 («Chi è come te, o Dio?»), Sal 77,14 («Quale dio è grande come il nostro Dio?»), Sal 89, 9 («Chi è uguale a te, Signore?»), Sal 113,5 («Chi è pari al Signore nostro Dio?»).
[25] Che la Bestia di Apocalisse sia un uomo lo conferma il fatto che, nonostante il suo genere neutro, to thērion viene trattato come maschile almeno quattro volte: in Ap 13,8 (kai proskynēsousin auton ktl), in 13,14 (tōi thēriōi hos echei tēn plēgēn ktl), in 17,3 (thērion […] gemonta […] echōn ktl) e in 17,11 (to thērion […] kai autos ogdoos estin ktl).
[26] Si parla dell’adorazione della Bestia in Ap 13,4.8.12.15; 14,9.11; 16,2; 19,20 e 20,4, e dell’adorazione della sua statua idolatrica in Ap 13,14.15bis; 14,9.11; 15,2; 16,2; 19,20; 20,4.
[27] Le menzioni della Bestia sono variamente distribuite: una in Ap 11, quattordici in Ap 13, due in Ap 14; una in Ap 15; tre in Ap 16, nove in Ap 18, una in Ap 18, tre in Ap 19 e due in Ap 20.
[28] È bene precisare che nel N.T. il termine «anticristo» ricorre soltanto nelle prime due epistole giovannee (1Gv 2,18.22; 4,3; 2Gv 7) e vi indica solo maestri d’errore (non una persona singola), interni alla comunità, i quali negano la venuta del Cristo nella carne.
[29] Allo stesso modo gli angeli sono ministri del giudizio nelle parabole della mietitura e della rete in Mt 13,39.41.49.
[30] Anche se nell’Apocalisse al centro dell’attenzione è la vicenda del Drago e delle due Bestie, tuttavia l’Autore non si lega alla battaglia del momento e delle sue Chiese e universalizza la sua finale con una prospettiva di giudizio cosmico.
[31] Vedi il tema dell’esclusione dalla città in Ap 21,8.27; 22,15.19.
[32] Lo stesso verbo patein (calpestare) è usato per quello che gli ethnē faranno a Gerusalemme anche in Lc 21,14.
[33] I quattro termini si susseguono sempre in ordine diverso. Tre volte sono al singolare (Ap 5,9; 13,7; 14,6), tre volte al plurale (Ap 10,11; 11,9; 17,15), e una volta ethnos è al singolare e i restanti termini al plurale (7,9). Inoltre, phylai è presente solo in cinque delle sette ricorrenze della formula, perché una volta è sostituito da basileis (10,11) e una volta da ochloi (17,15).
[34] Giustamente per S. Hre Kio, The Exodus Symbol of Liberation in the Apocalypse and its Relevance for some Aspects of Translation, in «Biblical Translator» 40(1989) pp. 134-135, il complemento epi laois ktl, retto dal verbo prophēteusai, va tradotto non «riguardo a», ma «contro». La preposizione epi con il dativo ha quel valore per esempio in Erodoto 1,61: «Risaputo ciò che si faceva contro di lui (ep’autōi)…». H.B. Swete, The Apocalypse of St. John, London 21907 (11906), p. 132, scrive invece: «The Seer is not sent to prophesy in their presence (epi with gen.), nor against them (epi with acc.), but simply with a view to their several cases (epi laois ktl)».
[35] Il termine douloi ha questo valore in Ap 1,1; 2,20; 7,3; 19,2.5; 22,3.6. – Fatta eccezione delle ricorrenze in cui doulos/douloi ha valore sociale (quando cioè designa gli schiavi in contrapposizione ai liberi, come in 6,15; 13,16, 19,18), nell’Apocalisse il termine ha sempre valore positivo. Mai nell’Apocalisse si è «servi» della Bestia o del Drago.
[36] Sulla formula, sulle sue ricorrenze e sulla sua valenza negativa, cfr. per tutti S. Brown, «The Hour of Trial» (Rev 3,10), in «Journal of Biblical Literature» (1966) pp. 309-310, e R.J. Bauckham, The Climax of Prophecy. Studies on the Book of Revelation, Edinburgh 1993, pp. 239-241.
[37] L’Asia minore è definita «centro vivente del culto imperiale», «Kernland del culto imperiale» e «Hochburg del culto imperiale» rispettivamente da L. Cerfaux-J. Tondriau, Un concurrent du christianisme. Le culte des souverains dans la civilisation gréco-romaine (BT 3; TB 5), Tournai 1957, p. 395; M. Karrer, Johannesoffenbarung als Brief. Studien zu ihrem literarischen, historischen und theologischen Ort (FRLANT 140), Göttingen 1986, p. 290; H.J. Klauck, Das Sendschreiben nach Pergamon und der Kaiserkult in der Johannesoffenbarung, in «Biblica» 73(1992) p. 160.
[38] Tacito, Ann. 4,37.
[39] Tacito, Ann. 4,15.55-56.
[40] La datazione è resa possibile dai nomi (che compaiono sulle iscrizioni dedicatorie sopravvissute) dei proconsoli L. Mestrius Florus, L. Luscius Ocrea, M. Fulvius Gillo i quali esercitarono il loro ufficio fra l’88 e il 91; cfr. S.J. Friesen, Twice Neokoros. Ephesus, Asia and the Cult of the Flavian Imperial Family (RGRW 116), Brill, Leiden-New York-Köln, pp. 29-49.
[41] Dalle monografie di D. Magie e di S.R.F. Price sul culto imperiale in Asia si ricava che esso era presente in ognuna delle sette città dell’Apocalisse: di cinque – escluse Filadelfia e Laodicea – è sopravvissuta la documentazione per sacerdoti e altari, e di sei – esclusa solo Tiatira – per i templi. Cfr. D. Magie, Roman Rule in Asia Minor to the End of the Third Century after Christ, voll. I-II, Princeton 1950; S.R.F. Price, Rituals and Power: the Roman Imperial Cult in Asia Minor, Cambridge 1984.
[42] G. Biguzzi, L’Apocalisse e i suoi enigmi, pp. 66-78.
[43] Cfr. E. Schüssler Fiorenza, Apocalisse. Visione di un mondo giusto (BBi 16), Brescia 1994 (Minneapolis MN 1991), p. 77, che scrive: «La questione centrale […] di tutto il libro è: chi è il vero Signore di questo mondo?», e H. Giesen, Die Offenbarung des Johannes (RNT 9), Regensburg 1997, p. 35, che scrive: «Durchzieht das ganze Buch die Frage nach dem, dem tatsächlich die Weltherrschaft gehört: dem Römischen Reich mit dem Keiser an der Spitze oder Gott und dem Lamm».
[44] Il «già e non ancora» della Donna di Ap 12 o, più precisamente, il raccordo tra il «già» del cielo e il «non ancora» della terra, è variamente detto per esempio in: H. Gollinger, Das «Große Zeichen» von Apokalypse 12 (SBM 11), Stuttgart 1971, pp. 176 e 177: «Der Engelkampf und der Siegeshymnus im Himmel (12,7-12) sind vom Apokalyptiker eingefügt, um die untrennbare Verbundenheit vom Himmel und Erde darzustellen: nicht geschieht auf der Erde, was nicht im Himmel seinen Ursprung hat», «Alles im Himmel begründet ist und von dort ausgeht»; E. Cothenet, Le signe de la femme (Ap 12), in Exégèse et Liturgie (LD 133), Paris 1988, p. 311: «[…] le ciel exprime le plan divin, la réalité finale, tandis que sur terre se joue le drame de l’histoire»; F. Contreras Molina, La mujer en Apocalipsis 12, in «Ephemerides Mariologicae» 43(1993) p. 371: «Cuando en Ap una visión se sitúa en el cielo, quiere indicarse que al acontecimiento ya está decidido y que los hechos narrados tienen su confirmación en los planes de Dios».
[45] Questa strategia retorica di Giovanni è illustrata in H. Gollinger, Das «Große Zeichen» von Apokalypse 12: «Offb 12 versichert den Christen: Gott hat die Seinen nicht vergessen. Satans Macht ist nicht unbegrenzt, ja, sie ist im Wesentlichen schon vernichtet» (p. 176), «Da der Satan im Himmel durch Michael und seine Engel besiegt ist, da die Gottesherrschaft im Himmel vollendet und der Ankläger der Menschen gestürzt ist, haben die Menschen auf der Erde nichts mehr zu befürchten. Offb 12 gibt ihnen die Gewissheit, daß sie es mit einem in Gründe schon geschlagenen Gegner zu tun haben» (p. 177); «Die entscheidende Aussage des Apokalyptikers lautet also: Gott hat die Geschichte in der Hand. Er, nicht Satan, oder irgendeine weltliche Macht, bestimmt das Schicksal seiner Kirche» (p. 178); «Satan […] durch Verfolgung und Tötung der Christen nicht seine Macht stärkt, sondern im Gegenteil seine Niederlage auch auf der Erde beschleunigt. Denn durch ihr Zeugnis für Christus und durch ihren Tod um dieses Zeugnis willen werden die Christen Sieger über Satan (12,11)» (pp. 179-180).
[46] A dire il vero nella tradizione manoscritta è attestata anche la variante con il singolare laos, e tuttavia il plurale si raccomanda come lectio probabilior, non solo perché attestato dai codici più antichi e attendibili, ma anche perché il singolare laos è evidente assimilazione alla formula anticotestamentaria, soprattutto a Ez 37,27, da cui è presa. Il plurale laoi si trova nei codici in maiuscola Sinaitico, Alessandrino, 046, e poi nei minuscoli 1, 94 ecc., in Ireneo e in Andrea (in parte). Hanno invece il singolare il codice in maiuscola 025 (del IX secolo), l’aggiunta posteriore al maiuscolo 051, i minuscoli 205 (del XV secolo), 209 (del XIV secolo), 1006 (dell’XI secolo) ecc. Più antica è la testimonianza della Vetus latina, della Vulgata, delle versioni Sira, Copta, Armena, Etiopica e poi la testimonianza di Ambrogio di Milano, Agostino di Ippona, Primasio di Hadrumetum, Andrea di Cesarea in Cappadocia (in parte), Apringio di Pax, Beato di Liébana. Sono dunque le versioni che per prime probabilmente hanno rettificato l’audace innovazione ecclesiologica di Giovanni di Patmos.