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The theme of parrhesia clearly emerges in a few dense pages, dating back to the 1950s, by two of the greatest theologians of the 20th Century. At first sight Hans Urs von Balthasar and Karl Rahner seem to be restating two different but already traditional interpretations: the first, in Das betrachtende Gebet (1955), reveals the connection between parrhesia and prayer; the second, in a short study, Parrhesia, Von der Apostolatstugend des Christen (1958), portrays it as a quintessential virtue of the herald of the Gospel. However, this paper intends to demonstrate that they both recall some aspects of the original political interpretation of parrhesia and they also introduce new and unusual perspectives.
Le trasformazioni che hanno segnato l’uso politico originario del concetto di parrhesia per adattarlo prima in senso morale e poi in senso religioso e specificamente cristiano si lasciano traguardare nelle dense pagine che alla parrhesia cristiana dedicano Hans Urs von Balthasar e Karl Rahner negli anni Cinquanta. La mia indagine si concentra su due testi in particolare: Das betrachtende Gebet di Balthasar (1955)[1] e il breve saggio Parrhesia. Von der Apostolatstugend des Christen (1958)[2] di Rahner. Il mio intento è salvaguardare il più possibile il profilo proprio della parrhesia, persino mediante l’attenzione alla semplice ricorrenza testuale della parola che, com’è noto, si lascia difficilmente tradurre in altra lingua o trasporre in presunti sinonimi.
Se è soprattutto Rahner a segnalarne la sostanziale intraducibilità e a delimitarne fortemente le condizioni dell’impiego ritenuto appropriato, anche Balthasar mostra di farvi ricorso con parsimonia, ne “ricalca” l’utilizzo scritturistico, ne esplicita aspetti o dimensioni che possano trovare un’espressione lessicale differente, ad esempio mediante aletheia, doxa, eleutheria.
Ad una prima lettura i due teologi sembrano semplicemente rappresentare due momenti distinti dell’articolata storia del concetto.[3] Balthasar tratta diffusamente della parrhesia nel contesto di uno scritto dedicato alla preghiera, riprendendo un accostamento già neotestamentario e poi patristico. Rahner riflette sulla parrhesia in quanto virtù (Tugend) e sul suo esercizio nell’apostolato, mostrando dunque di averne assimilato il senso morale e l’implicazione quanto all’annuncio del Vangelo, già manifestamente presente nel Nuovo Testamento.
Versione spirituale, da un lato, e versione morale/pastorale, dall’altro, dunque? Possiamo parlare di assenza o di dimenticanza dell’originaria destinazione politica della parrhesia, di due trascrizioni teologiche del tutto distanti dalla dimensione politica? E se invece oltre la superficie dei testi emergesse di fatto una qualche memoria della declinazione politica della parrhesia, che cosa potremmo dire allora della riplasmazione teologica operata dai due autori e quali questioni porrebbe, di ritorno, alla parrhesia nel suo significato primo e nel suo esercizio propriamente politico?
Non può mancare in premessa la citazione di un terzo autore. È menzionato esplicitamente e inusualmente nello scritto di Rahner (con cui peraltro collabora nella direzione della collana Quaestiones disputatae, da poco inaugurata), ma con molta probabilità è assimilato e ripensato anche da Balthasar a proposito del tema in esame: si tratta di Heinrich Schlier, cui si deve la voce «παρρησία, παρρησιάζομαι» per il Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament (1954).[4] Una voce magistrale per documentazione e chiarezza, a sua volta debitrice dello studio di Erik Peterson dal titolo Zur Bedeutungsgeschichte von παρρησία (1929).[5] Le riflessioni dei due teologi da me prescelti si collocano, a mio giudizio, nella linea che da Peterson si allunga fino a Schlier e che conserva memoria della primitiva declinazione politica della parrhesia.
Come giunge Balthasar a trattare della parrhesia in Das betrachtende Gebet?[6] La via più breve sarebbe stata quella di considerare da vicino i precedenti biblici e patristici in cui compare la correlazione tra preghiera e parrhesia. L’ingresso avviene invece per altra via, grazie alla quale si rende evidente la consapevolezza della versione politica del tema e delle sue metamorfosi. Le parole chiave sono libertà, piena cittadinanza, verità.
Nel contesto immediato della riflessione dedicata alla parrhesia si afferma che il credente loda, ringrazia, adora, sperimentando
«non solo quella libertà che corrisponde alla non necessità, alla contingenza della propria esistenza, ma quella libertà molto più profonda […] una libertà totalmente nuova e altra, che corrisponde al “libero beneplacito” del Padre: quella di considerare e stimare noi, che in quanto creature siamo suoi servi, come suoi familiari e figli, come coeredi del Figlio»[7].
La benedizione che l’orante pronuncia nella preghiera è anticipata e resa possibile dall’altra benedizione, alla quale di fatto corrisponde, secondo il movimento disegnato in Ef 1,3: «Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo». L’esistenza del credente riposa per intero su questa benedizione antecedente di Dio che si rende «comprensibile e tangibile» nel Figlio, «mandato per benedire» secondo At 3,26, inviato quale «Parola della grazia e della preghiera del Padre rivolta al mondo» (Gnaden- und Gebetswort des Vaters an die Welt). La relazione autentica tra uomo e Dio viene così donata in quella forma che la Sacra Scrittura esprime appunto mediante la parola parrhesia.[8]
Prima di indagarne il profilo più precisamente teologico, Balthasar ricorda il suo significato originario e le sue implicazioni, in particolare quanto alla verità/aletheia:
«Il termine indica originariamente il privilegio della libertà di parola del cittadino con pieni diritti [Vollbürger]; allude a un diritto di “dire tutto” e all’atteggiamento interiore corrispondente: la “franchezza” del discorso [der Freimut der Rede], dunque, ma anche l’ “apertura alla verità” [das “Offen zur Wahrheit”], dove naturalmente la verità stessa già contiene il momento della schiettezza [Offenheit], del non-nascondimento [Nicht-Verborgenheit], del franco [freimütigen] darsi e aprirsi delle cose»[9].
Risuonano accenti heideggeriani e poco oltre s’incontra un inequivocabile «das Unverborgene» riferito a Dio. Plausibilmente, però, la caratterizzazione balthasariana della parrhesia riprende anche le tre accezioni che Schlier distingue con nitore, nella voce poco sopra citata, entro l’uso politico del termine e che, a suo giudizio, si sarebbero «mantenute, più o meno, in tutto lo sviluppo ulteriore»: 1) il diritto di dire tutto che contraddistingue colui che gode di cittadinanza piena; in questo senso, παρρησία si avvicina a εξουσία [potere]; 2) il riferimento alla realtà delle cose di cui si parla, cosicché παρρησία si pone in relazione stretta con verità (αλήθεια) e acquista il senso di «apertura alla verità», determinata «dalla cosa [Sache] e dal rapporto che chi parla ha con la cosa [Sache]»; essa si oppone «alla tendenza delle cose [Dinge] a nascondersi, ma anche alla tendenza degli uomini a nascondersi le cose [Dinge]»; 3) da ultimo, parrhesia dice la franchezza (Freimut) di fronte a coloro che vorrebbero limitare «il diritto alla divulgazione della verità» o «impedire la scoperta della verità stessa».[10]
Le tangenze tra l’accurata indagine di Schlier e le pagine del teologo svizzero non si fermano qui ed è utile segnalarle anche per far emergere l’impronta propriamente balthasariana nella rivisitazione della parrhesia. È ancora Schlier a rilevare che, accanto alle frequenti ricorrenze in cui compare la parrhesia verso Dio consentita al giusto, è presente nell’Antico Testamento l’attestazione – limpida almeno in una ricorrenza della LXX (Sal 93, 1) – di una parrhesia che ha per soggetto Dio stesso, che è parrhesia di Dio, manifestarsi del suo splendore (secondo l’originale ebraico).[11] Da parte di Balthasar si verifica l’assunzione di questo riscontro e un’amplificazione assai significativa del tema della parrhesia di Dio: la verità che non si cela, l’Unverborgene in senso primario secondo la Sacra Scrittura è Dio stesso, il quale non solo si svela uscendo dalla sua abituale «invisibilità e inaccessibilità», ma «risplende», secondo il verbo ebraico reso in greco con parresiazesthai nel Salmo citato e tradotto altrove con il ricorso a emphainesthai o epiphainesthai; inoltre parla o «grida», presentandosi con parrhesia nelle piazze, secondo la raffigurazione della Sapienza divina in Prov 1,20.[12]
Da queste prime attestazioni deriva la calibratura teologica proposta da Balthasar. La pan/rhesia, quando ha per soggetto Dio, comporta una molteplicità di sfumature: è non solo potenza della parola, ma onni (pan)/potenza d’essa; si avvicina a parousia ed epiphania (che dicono apparizione, uscita dalla Verborgenheit, dal nascondimento); rimanda a doxa come gloria e glorificazione nel manifestarsi pubblico dell’essere e dell’agire divino, celati fino a quel momento.[13]
Si riconoscono parole e temi cari alla complessiva riflessione balthasariana, qui raccolti intorno alla scavo teologico della parrhesia, nel corso del quale si tiene certamente conto della primitiva valenza politica. Lo si vede distintamente nel passaggio dalla considerazione della parrhesia di Dio alla connotazione della parrhesia che si dà nel credente solo come dono:
«la parrhesia di Dio diviene per noi veramente comprensibile solo nella parrhesia donata a noi da Dio, a noi, gli eletti, i salvati, gli innalzati a cittadini del cielo con pieni diritti [zu Vollbürgern des Himmels]. Questa parrhesia significa la modalità aperta, non obbligata, non vergognosa o paurosa del comportamento filiale con il padre, l’entrare a testa alta, con la naturalezza di colui che possiede un diritto ereditario ad esistere e a parlare nella casa del padre, che può senza timore guardare il padre in volto e non deve avvicinarsi a lui come fanno gli stranieri con un monarca, a occhi bassi, in atteggiamento sottomesso, nei limiti di severi cerimoniali e di modi di parlare prescritti»[14].
La nuova condizione filiale cancella nel rapporto con Dio i sentimenti e gli atteggiamenti propri di chi è servo o straniero. La parrhesia esprime appunto il nuovo status del credente e la sua nuova cittadinanza. Certamente non è singolare la trasposizione della cittadinanza dalla situazione terrena a quella celeste: si tratta, anzi, di un tema assai presente nella riflessione teologica e nella spiritualità cristiana, a partire dai Padri della Chiesa che coniarono il vocabolo ouranopolitēs, echeggiando l’originario politēs e il più tardo kosmopolitēs della cultura greca.[15] L’argomento è talmente presente da occultare quasi la scarsità di riferimenti neotestamentari immediati. In sostanza si tratta, da un lato, di Ef 2,12.19: gli Efesini cui Paolo si rivolge, benché pagani, non sono più stranieri (xenoi) e ospiti (paroikoi), ma concittadini dei santi (sympolitai tōn agiōn) e familiari di Dio (oikeioi tou theou); dall’altro lato, si evoca Fil 3, 20: il nostro politeuma è nei cieli.[16]
Al di là di questo tema, risalta costantemente la fitta trama scritturistica sottesa alla presentazione della parrhesia in Balthasar.[17] Vi accennano finemente i motivi dell’entrare a testa alta (ricorda l’incedere degli ebrei liberati dalla schiavitù d’Egitto secondo Lev 26,13), dell’assenza di vergogna generata dalla «buona coscienza» (syneidesis) che è resa possibile da Cristo caricatosi di ogni vergogna (con rimandi a Eb 10,19; 1 Gv 2,1; 3,19-20), dell’accedere a Dio mediante una porta ormai irrevocabilmente aperta, che è lo stesso Figlio di Dio (Gv 10, 1-10), dell’intimità e della fiducia della preghiera (1 Gv 3,21-22; 5,14-15). A proposito della preghiera il teologo osserva, fondandosi in particolare su Eb 3,6, che essa «rivela ora il suo presupposto indivisibilmente oggettivo-soggettivo: l’apertura della divina verità per l’uomo e l’apertura dello spirito e del cuore umano per essa. La seconda cosa si fonda nella prima; perciò la parrhesia è qualcosa di assegnato, di già dato, di oggettivo in qualche modo».[18]
All’interno della trama scritturistica un rilievo singolare viene assegnato a un’ampia sezione della Seconda lettera ai Corinzi (2,12 – 4,6). Balthasar la definisce la «spiegazione più profonda della parrhesia».[19] La sezione paolina istituisce un confronto tra Mosè (e l’Antico Patto che egli rappresenta) e i credenti in Cristo. Un velo copre la faccia di Mosè per nascondere la gloria riverberata sul suo volto dopo l’incontro con Dio: «c’è un velo sulla rivelazione oggettiva e perciò anche sul cuore del popolo che la riceve. Manca la parrhesia: lo Spirito di Dio e la libertà». Il velo è tolto con il Nuovo Patto. I credenti in Cristo possono ora riflettere a viso scoperto la gloria trasformante del Signore e irradiarla a loro volta «di fronte agli altri uomini e al mondo», «annunciando apertamente la verità», senza falsificazioni. Il primato della parrhesia di Dio fa sì che l’annuncio cristiano sia in realtà « parrhesia della Parola di Dio nei cristiani verso il mondo».
In tutti questi sviluppi non sfugge l’ampia valenza assunta dalla parrhesia, che non viene evidentemente riferita soltanto alla preghiera fiduciosa, non più servile bensì filiale, ma viene di fatto a significare «l’intero cristianesimo».[20] Balthasar lo afferma appoggiandosi alla testimonianza giovannea riguardo alla discesa dello Spirito sui discepoli dopo la Resurrezione. L’evento indica che la parrhesia ora è data per la manifestazione dello Spirito che svela quanto ancora rimaneva velato nei discorsi parabolici di Gesù.[21] Con lo Spirito è donata anche la libertà che consente «di vivere la vita terrena […] attingendo alla futura-presente vita eterna, alle sue energie, alla sua verità aperta e accessibile», guardando apertamente nell’aperta libertà del Padre rivelatasi nel Figlio.[22] È il Figlio, infatti, «l’apertura della verità del Padre». È in Lui, unico mediatore in cui si concentrano tutte le strade «sia manifeste (nel giudaismo) sia nascoste come sentieri sparsi e tracce di salvezza (nel paganesimo)», che «il cielo è aperto sul mondo» grazie al duplice movimento della sua discesa nell’incarnazione e del suo ritorno al Padre.[23] Senza questo movimento “dal Padre al Padre” operato dal Figlio, il volgersi dell’uomo verso Dio non potrebbe che darsi nella forma di una «mistica apofatica e negativa, che cerca di incontrare Dio al di là di tutto il mondo come il tutt’altro, come l’impensabile, l’inimmaginabile, l’incomprensibile», sarebbe un «eros in fuga dal mondo».[24] Ma poiché i credenti sono resi partecipi del movimento di ritorno al Padre, dell’ascensione del Figlio che li precede per «preparare presso il Padre i posti assegnati agli uomini e al mondo», essi sono resi nel contempo capaci di «realizzare con lui la metamorfosi del vecchio mondo in un mondo nuovo, spirituale e divino».[25] La parrhesia verso Dio inaugurata dal Figlio fatto uomo comprende, dunque, non solo la trasformazione del credente, che diviene sin d’ora cittadino con pieni diritti di un cielo divenuto aperto, ma anche la metamorfosi già iniziata del mondo. In tutto questo il riferimento al Figlio, rivelatore del Padre, resta del tutto imprescindibile per intendere la calibratura teologica della parrhesia.[26]
Un ritorno più tardo e significativo al tema della parrhesia si riscontra nel secondo volume di Theodramatik II, là dove viene delineato il rapporto tra libertà infinita e libertà finita. Basti qui riprendere il punto in questione.[27] Osserva Balthasar che il pericolo che la libertà finita si alieni nell’infinita, anziché realizzarsi in questa, può essere escluso per il fatto che «il rispetto, il lasciar essere, appartiene all’essenza della libertà infinita». Nel Dio trinitario, infatti, le ipostasi sono «perfettamente aperte l’una verso l’altra», in perfetta trasparenza reciproca e tuttavia nella distinzione personale, ciascuna possedendo «la stessa libertà e onnipotenza»; nella Trinità delle persone «Dio sta davanti a Dio», cosicchè «si può parlare pure di una preghiera trinitaria reciproca» e si può affermare che «l’archetipo [Urbild] di ogni preghiera cristiana in Frei-mut [parrhesia] […] giace in Dio stesso».[28] Si introduce qui uno schema platonico che, se da un lato consente al teologo di fondare nel Dio trinitario la possibilità della parrhesia, dall’altro lato lo allontana ulteriormente dalla primitiva declinazione storica e politica del tema che stiamo indagando, declinazione che pure ha mostrato di conoscere.
Un’interessante reticenza caratterizza la posizione di Karl Rahner a proposito della parrhesia. Di fatto egli se ne occupa tematicamente soltanto nelle poche pagine del già citato Parrhesia. Von der Apostalatstugend des Christen, pubblicato come articolo sulla rivista «Geist und Leben» nel 1958 e riedito poi nel settimo volume delle Schriften zur Theologie (1966).[29]
Può sorprendere non poco il fatto che Rahner, pur sfiorando l’argomento anche in anni prossimi al saggio in questione (ricordo, a titolo d’esempio, lo scritto Die Freiheit in der Kirche [1953-54] e l’excursus sul martirio in Zur Theologie des Todes [1958]),[30] non faccia mai ricorso, salvo errore, al termine parrhesia, né se ne occupi poi tematicamente in uno dei suoi numerosissimi scritti o in una delle decine di voci enciclopediche da lui curate. Una possibile spiegazione risiede nella severa restrizione del significato e dell’ambito individuato come proprio della parola. La reticenza si manifesta anche nell’esordio del saggio citato sotto forma di cautela, di esigenza di chiarire gradualmente il proprio pensiero a proposito di quella «virtù» che è ritenuta specifica per la missione cristiana.
L’orizzonte disegnato sin dalle prime righe è profondamente diverso da quello balthasariano. Rahner sembra recepire in primo luogo non l’accezione politica originaria della parrhesia, bensì la sua successiva declinazione morale e l’ancora successivo adattamento pastorale in ambito cristiano. Una restrizione sensibile dell’orizzonte che parrebbe condurre nella direzione di un impoverimento notevole della complessità e della pregnanza del concetto di parrhesia. In realtà Rahner tenta di strapparlo all’indeterminatezza cui è consegnato, a suo giudizio, se non si presta attenzione a due ordini di fattori: da un lato, con riguardo all’apostolato, occorre che siano individuati il momento, il contesto e le modalità che contrassegnano l’esercizio della parrhesia cristiana, partendo dall’attestazione neotestamentaria; dall’altro lato, non si può ignorare la storia del concetto e delle sue trasformazioni, storia nel corso della quale si è verificata un’assunzione di sfumature e significati, molti dei quali a stento comprensibili oggi.
Conviene partire dal secondo versante e dalla segnalazione rahneriana di una difficoltà che si incontra immediatamente, vale a dire la traduzione in altra lingua della parola.[31] «Franchezza» (Frei-mut), a suo dire, non consente di cogliere la risonanza politica e morale del vocabolo greco. Limita pure il suo senso religioso ormai acquisito, in seguito a una storia incominciata con la sua assunzione nella LXX e nel Nuovo Testamento. L’inadeguatezza della traduzione emerge soprattutto quando si cerchi di parlare della «franchezza» di Dio o della preghiera o della vita cristiana o della stessa rivelazione di Gesù nel mondo. Quando la si utilizza in senso teologico, dunque, ma anche in senso morale: in questo caso la franchezza rischia di risultare una virtù generica, talvolta assimilabile alla disinvoltura, ben altra cosa rispetto alla parrhesia presentata nel Nuovo Testamento come virtù apostolica che è esercitata secondo modalità specifiche.
L’interesse del contributo di Rahner, ciò che va al di là delle tangenze dichiarate con il percorso segnato da Schlier (cui Rahner rimanda quanto alla parrhesia di Dio e di Cristo),[32] ciò che non ricade unicamente nell’ambito pastorale ma a mio giudizio contribuisce ad illuminare la più complessiva questione della parrhesia anche politica, discende dalla valorizzazione di un avverbio (akairōs) che compare in coppia con il suo opposto nella Seconda lettera a Timoteo (4,2) e che attira immediatamente l’attenzione dello studioso.[33] Paolo esorta in questo modo il giovane collaboratore: «insisti al momento opportuno e non opportuno [eukairōs akairōs]». Il commento di Rahner sosta unicamente sull’akairōs:
«c’è dunque una parola che apparentemente, considerata cioè dalla situazione dell’uomo e non di Dio, deve essere detta non nel giusto kairós, non nel momento giusto [Zeitpunkt] e nella situazione giusta. Paolo dice che non arrossisce del Vangelo (Rom 1,16), il che presuppone, se si ha il bisogno di sottolinearlo, che questo coraggioso-non-vergognarsi [Sich-tapfer-nicht-Schämen] si diriga in qualche modo contro un intimo modo di sentire per cui si preferirebbe tacere, per cui la predicazione o l’abituale uscirsene a parlare [Herausrücken] delle nascoste realtà e verità cristiane nel bel mezzo del disinteresse irritato del “mondo” sono avvertiti come fuori luogo e inopportuni [am Platz unangebracht]»[34].
La riflessione rahneriana ruota per intero intorno all’inopportunità che specifica l’esercizio della parrhesia: inopportunità del momento, ma anche della parola stessa che «deve [muss]» essere pronunciata e del contesto entro cui la si pronuncia; inopportunità persino del soggetto che è chiamato a pronunciarla e che per molti motivi si asterrebbe dal farlo. La precisazione «dalla situazione dell’uomo» salvaguarda la differenza della «situazione» di Dio: la Grazia di Dio secondo Rahner è già-da-sempre-data, per tutti sono disposte le condizioni di possibilità dell’ascolto della parola di Dio e questo giustifica l’invito paolino ad annunciare in ogni tempo, comunque esso appaia, opportuno o inopportuno, dal punto di vista umano. Ciò che importa rilevare è precisamente il fatto che la parrhesia diviene qui la difficile virtù dell’inopportuno, secondo la pluralità delle dimensioni viste. Quel carattere che in altre rivisitazioni della parrhesia rappresenta il segnale della deriva di una virtù altrimenti esercitata con fine attenzione al kairós (o, meglio, all’éukairos) o che può addirittura manifestare una degenerazione che meglio si chiamerebbe insolenza, vale a dire l’akairōs, viene presentato da Rahner come il distintivo della parrhesia in senso proprio.
Mi limito a richiamare alcuni tratti di questa complessiva inopportunità parrhesiastica. L’inopportunità della parola, anzitutto, che nel caso dell’annunciatore del Vangelo è parola proposta non come opinione, ma come parola di Dio che il «mondo» non vuole ascoltare, nutrendo astio nei suoi confronti
«perché porta alla luce ciò che è nascosto del cuore [das Verborgene des Herzens], perché travolge, perché impone delle esigenze all’uomo, lo chiama a uscire dalla sfera del comprensibile, rende tematiche le sue esperienze limite, che altrimenti sono presenti solo in forma indiretta e come repressa: la coscienza, la colpa, la morte, il giudizio e infine il Dio vivente con il suo stesso appello»[35].
In secondo luogo l’inopportunità dell’annunciatore, il quale non solo risulta molesto e fastidioso, ma è in se stesso consapevole del proprio peccato e della propria inadeguatezza e sperimenta la parrhesia con «dolore», come «forza che supera il silenzio di tomba», quel silenzio in cui preferirebbe rifugiarsi non solo per paura, ma anche per consapevolezza della radicale ineffabilità di Dio.[36] Inopportunità del contesto, che è il «mondo», qui nell’accezione negativa giovannea e paolina del kosmos: una realtà chiusa nell’indifferenza quando non ostile, tanto da rendere rischioso l’annuncio (il rischio è elemento anch’esso essenziale alla parrhesia), una realtà tenebrosa al punto d’odiare e respingere la luce che la minaccerebbe.[37]
Queste sono le condizioni di esercizio che sole consentono di parlare propriamente di parrhesia. Si comprende allora la ragione per cui essa viene presentata come dono che comporta anche dolore: se non lo comportasse, si tratterebbe non di professione pubblica della fede e in fondo neppure di fede, ma di mera propaganda.[38] La parrhesia è dono proveniente da Dio stesso (cfr. «der göttlichen Parrhesia»),[39] comunicato al credente all’atto del battesimo, dono che domanda di essere accolto e posto in esercizio nella relazione con Dio e davanti agli uomini. Ripercorrendo alcuni momenti del rito battesimale, Rahner scrive:
«già nel battesimo è stato sciolto il vincolo della nostra lingua (Mc 7,31-37) e ci sono state aperte non solo le orecchie ma anche la bocca, perché non fossimo più servitori muti di déi muti [nicht mehr stumme Diener stummer Götter], ma potessimo professare la nostra fede in Dio e lodarlo (1 Cor 12,2) davanti agli uomini, facendo ambedue le cose con parrhesia [beides mit parrhesia]»[40].
Questa, dunque, l’interpretazione rahneriana della parrhesia. Una rivisitazione isolata nella sua ampia produzione,[41] che non lascia ricomparire la parola neppure all’interno dello Handbuch der Pastoraltheologie (1964-1972) o di qualcuno dei saggi che fanno riferimento alla funzione critica e autocritica della Chiesa nella società scritti dalla fine degli anni Sessanta in poi, sulla scia della nuova teologia politica inaugurata dall’allievo e poi per qualche anno collaboratore Johann Baptist Metz.[42]
Un’evidente reticenza o autolimitazione che si giustifica anzitutto con la restrizione severa dell’uso proprio del termine e che mantiene aperta la domanda: quale efficacia può essere ascritta alla parrhesia in relazione a un «mondo» così connotato? Rahner non ritorna in argomento, ma proprio nello Handbuch troviamo un passaggio interessante che concerne il kairós dell’annuncio del Vangelo.[43]
Facciamo brevemente ritorno alla Seconda lettera a Timoteo, chiamata in causa in precedenza. Dopo l’esortazione «insisti al momento opportuno e non opportuno [eukairōs akairōs]» (2 Tm 4,2), vi si incontra un kairós che ha semplicemente il significato di «momento» (2 Tm 4,3): un «momento» certo decisivo,[44] che l’apostolo ha precedentemente qualificato nell’una e nell’altra direzione, in senso favorevole e sfavorevole.
Nel saggio Parrhesia sopra esaminato, Rahner si astiene dall’uso di kairós, mentre mantiene la differenza tra eukairōs e akairōs, occupandosi solo di quest’ultimo per delineare la parrhesia. La distinzione non compare più in Rahner e, anzi, nella successiva ripresa del tema della missione cristiana all’interno, appunto, dello Handbuch der Pastoraltheologie egli fa ricorso a kairós quasi fosse sinonimo di éukairos (momento favorevole).[45] Il problema che il teologo si pone in questo contesto è esplicitamente quello dell’efficacia e della fecondità dell’annuncio. Dunque, di nuovo: dalla «situazione» di Dio, per la sua Grazia, ogni tempo è favorevole e sono sempre già predisposte per tutti le condizioni di possibilità della salvezza; dalla «situazione» umana, invece, tempi e uomini sono differenti e, dunque, efficacia e fecondità vanno perseguite ponendo attenzione al kairós. L’ákairos, il momento non opportuno, non viene preso in considerazione e non riemerge la parrhesia, coerentemente peraltro con la caratterizzazione che abbiamo incontrato. Tuttavia proprio questo silenzio rafforza l’interrogativo: posto che la parrhesia nella relazione con Dio è garantita da Dio stesso quanto al fatto che giunga ad effetto, che cioè la parola della preghiera trovi ascolto presso Dio, quali chances ha la parola detta nella condizione dell’ákairos davanti agli uomini?
La risposta in Rahner rimane in fondo sospesa, forse per un non-detto di cui bisogna tenere conto. Se dovessimo infatti guardare al parrhesiasta dal quale deriva l’autorizzazione alla parola della parrhesia cristiana, Gesù Cristo, dovremmo concludere che tale parola non può che incontrare il rifiuto del «mondo», delle potenze e dei potenti del «mondo», perlomeno nel corso della storia e dal punto di vista – pur sempre limitato e situato – dell’uomo.
[1] H.U. von Balthasar, Das betrachtende Gebet, Johannes Verlag, Einsiedeln 1955, 19762; tr. it. La preghiera contemplativa, in Id., Nella preghiera di Dio, Jaca Book, Milano 1997, pp. 7-202.
[2] K. Rahner, Parrhesia. Von der Apostolatstugend des Christen (1958), in Id., Geistliches Leben. Aufsätze – Betrachtungen – Predigten (= Sämtliche Werke, Bd. 14), Herder, Freiburg im Breisgau 2006, pp. 205-210; tr. it. Parrhesia, in Id., Nuovi saggi II. Saggi di Spiritualità, Edizioni Paoline, Roma 1968, pp. 319-327.
[3] Cfr. A. Momigliano, La libertà di parola nel mondo antico, in Id., Sesto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, t. II, Edizioni di Storia e letteratura, Roma 1980, pp. 403-434; P. Miquel, Parrhesia (Παρρησία), in Dictionnaire de Spiritualité, t. XII/1, Beauchesne, Paris 1984, coll. 260-267; G. Scarpat, Parrhesia greca, parrhesia cristiana, Paideia, Brescia 2001.
[4] H. Schlier, «παρρησία, παρρησιάζομαι», in Kittel, Bd. V, pp. 869-884; tr.it. cit. vol. IX, coll. 877-932. Dello stesso Schlier si veda anche la voce «ἐλεύθερος κτλ.», in Kittel, Bd. II, pp. 483-500; tr. it. cit. vol. III, coll. 423-468.
[5] E. Peterson, Zur Bedeutungsgeschichte von παρρησία, in Festschrift für R. Seeberg I (1929), pp. 283-297, citato da Schlier tra le proprie fonti (com’è noto, i due studiosi sono legati da interessi di ricerca comuni e da vicende biografiche).
[6] H.U.von Balthasar, Das betrachtende Gebet, cit., in particolare pp. 38 ss.; tr. it. La preghiera contemplativa, cit., pp. 32 ss.
[7] H.U.von Balthasar, Das betrachtende Gebet, cit., p. 36; tr. it., p. 31 (mod.).
[8] Ivi, pp. 37-38; tr.it., pp. 31-32.
[9] Ivi, p. 38; tr. it., p. 32 (mod.).
[10] H.Schlier, , «παρρησία, παρρησιάζομαι», cit., pp. 870-871; tr. it. coll. 882-885.
[11] Ivi, pp. 873-875; tr. it., coll. 893-899.
[12] H.U.von Balthasar, Das betrachtende Gebet, cit., p. 38; tr. it., p. 32.
[13] Ibidem.
[14] Ibidem, pp. 38-39; tr. it., p. 32. Analogamente si esprime Balthasar in Pneuma und Institution, Johannes Verlag, Einsiedeln 1974; tr. it. Lo Spirito e l’istituzione, Morcelliana, Brescia 1979, p. 163.
[15] Per queste transizioni rinvio alle limpide pagine di H. Schlier, Die Zeit der Kirche, Herder, Freiburg im Breisgau 1955, 19725, pp. 193-206, qui p. 195; tr. it. Il tempo della Chiesa. Saggi esegetici, Il Mulino, Bologna 1965, pp. 310-329; qui p. 313.
[16] Cfr. H. Strathmann, «πόλις κτλ.», in Kittel, Bd. VI, pp. 528-535; tr. it. cit. vol. X, coll. 1310-1328.
[17] H.U.von Balthasar, Das betrachtende Gebet, cit., pp. 39-43; tr. it., pp. 32-35.
[18] Ibidem, p. 39; tr. it., p. 34.
[19] Ibidem, p. 41-42; tr. it., p. 34.
[20] Ibidem, p. 42; tr. it., p. 34.
[21] Ivi, pp. 42-43; tr. it., pp. 34-35. Si veda H. U. von Balthasar, Theologik. Bd. II: Wahrheit Gottes, Johannes Verlag, Einsiedeln 20102, pp. 73. 246-250.; tr.it., pp. 65. 235-241.
[22] Id., Das betrachtende Gebet, cit., pp. 42-43, cfr. pp. 215-227; tr.it., p. 35, cfr. pp. 159-168.
[23] Ivi, pp. 43-44; tr.it., pp. 36-37.
[24] Ivi, pp. 45-46; tr.it., pp. 37-38.
[25] Ivi, pp. 46-47, cfr. pp. 212-275; tr.it., pp. 38-39, cfr. pp. 157-202.
[26] Sempre in Das betrachtende Gebet, Balthasar introduce un accenno significativo alla mediazione ecclesiale della parrhesia : «La parrhesia, l’ingresso aperto [der offene Zugang], è nel Nuovo Testamento anche e interamente un ingresso nella Parola di Dio ed è evidente che un simile ingresso deve avvenire in una forma ecclesialmente ordinata allo stesso modo che l’eucaristia» (Das betrachtende Gebet, cit., p. 199; tr. it., p. 148). In questo ulteriore contesto, dedicato al tema dello studio e della meditazione della Sacra Scrittura, l’accenno vorrebbe limitare le pretese e presunzioni di una certa erudizione filologica e storica applicata alla Bibbia, salvaguardando le prerogative della fede dei semplici. La mediazione ecclesiale della parrhesia fungerebbe da garanzia rispetto ad ogni possibile sequestro, da parte dei dotti, dell’ingresso alla Parola di Dio e della sua comprensione.
[27] Id., Theodramatik II/2. Die Personen in Christus, Johannes Verlag, Einsiedeln 19982, pp. 233-236; tr. it. Teodrammatica, vol. 3. Le persone del dramma. L’uomo in Cristo, Jaca Book 2012, pp. 244-246.
[28] Lo stesso Balthasar rimanda in proposito (ibidem, p. 233 nota 21; tr. it., p. 244 nota 116) a quella che definisce «die ganze großartige Stelle» sulla preghiera nella Trinità, con cui si apre l’importante scritto della mistica, sua amica, Adrienne von Speyr, Die Welt des Gebetes, Johannes Verlag, Einsiedeln 1951, 19922; tr. it. Il mondo della preghiera, Jaca Book, Milano 1982.
[29] Ora compare, come si è detto, in K. Rahner, Geistliches Leben. Aufsätze – Betrachtungen – Predigten (= Sämtliche Werke, Bd. 14), cit., pp. 205-210.
[30] K. Rahner, Die Freiheit in der Kirche, in Id., Kirche in den Herausforderungen der Zeit. Studien zur Ekklesiologie und zur kirchlichen Existenz (=Sämtliche Werke, Bd. 10), Herder, Freiburg im Breisgau 2003, pp. 221-237; tr. it. La libertà nella Chiesa, in Id., Saggi sulla Chiesa, Paoline, Roma 1966, pp. 183-211; K. Rahner, Zur Theologie des Todes. Exkurs, in Id., Maria, Mutter des Herrn. Studien zur Mariologie (=Sämtliche Werke, Bd. 9), Herder, Freiburg im Breisgau 2004, pp. 418-441; tr. it. Sulla teologia della morte, Morcelliana, Brescia 20084, pp. 75-108.
[31] K. Rahner, Parrhesia. Von der Apostolatstugend des Christen, cit., p. 206; tr. it., pp. 321-322.
[32] Ivi, p. 207, cfr. p. 208; tr. it., p. 322, cfr. p. 324.
[33] Ivi, p. 205; tr. it., p. 320.
[34] Ibidem (tr. it. mod.).
[35] Ivi, p. 207 ; tr. it. , pp. 322-323 (mod.).
[36] Ivi, pp. 207-208; tr. it. , p. 323-324.
[37] Ivi, pp. 206-207. 209 ; tr. it., pp. 322-323.327. Preziosa la voce «Kirche und Welt» stilata da Rahner per Sacramentum mundi, ora in K. Rahner, Enzyklopädische Theologie. Die Lexikonbeiträge der Jahre 1956-1973, t. 2 (=Sämtliche Werke, Bd. 17/2), Herder, Freiburg im Breisgau 2002, pp. 1146-1162; tr. it. «Chiesa e mondo», in K. Rahner (ed.), Sacramentum mundi. Enciclopedia teologica, vol. 2, Morcelliana, Brescia 1974, coll. 191-218.
[38] K. Rahner, Parrhesia. Von der Apostolatstugend des Christen, cit., pp. 208-209 ; tr. it., pp. 325-326.
[39] Ivi, p. 208; tr. it., p. 325.
[40] Ivi, p. 210; tr. it., p. 327 (mod.).
[41] È singolare il fatto che non compaia neppure in uno scritto risalente al 1960, dedicato alla veracità e attento alla dimensione pubblica: K. Rahner, Über die Wahrhaftigkeit, in Id. Kirche in den Herausforderungen der Zeit. Studien zur Ekklesiologie und zur kirchlichen Existenz (=Sämtliche Werke, Bd. 10), cit., pp. 447-468; tr. it. La veracità, in K. Rahner, Nuovi saggi II, cit., pp. 285-317.
[42] Mi permetto di rinviare per la documentazione a M. Mariani, Le responsabilità del cristiano in un contesto democratico secondo Karl Rahner, in «Brixner Theologisches Forum» 120 (2009), pp. 26-32; Ead., L’innocenza perduta del sapere in Karl Rahner, Edizioni Dehoniane, Bologna 2008, pp. 23-154.
[43] K. Rahner, Selbstvollzug der Kirche. Ekklesiologische Grundlegung praktischer Theologie (=Sämtliche Werke, Bd. 19), Herder, Freiburg im Breisgau 1995, pp. 156-157.
[44] Cfr. K. Rahner, Die Wahrheit Gottes sucht den Augenblick (2 Kor 6,1-10), in Id., Geistliches Leben. Aufsätze – Betrachtungen – Predigten (= Sämtliche Werke, Bd. 14), cit., p. 287. Il tema del kairós non cessa di appassionare: si vedano, tra gli altri, S. Natoli, Teatro filosofico. Gli scenari del sapere tra linguaggio e storia, Feltrinelli, Milano 1991, pp. 32-35, e G. Marramao, Kairós. Apologia del tempo debito, Edizioni Giuseppe Laterza, Bari 1992.
[45] K. Rahner, Selbstvollzug der Kirche. Ekklesiologische Grundlegung praktischer Theologie (= Sämtliche Werke, Bd. 19), cit., pp. 156-157.