Massimo Campanini (Angeli delle nazioni)
Angels or demons: the origin of power in Islamic tradition
Il saggio esplora la questione dell’origine del potere politico nella tradizione islamica a partire dalla figura dell’angelo decaduto e del suo rapporto col potere terreno. Prendendo le mosse dalla vicenda dell’angelo Satana-Iblîs, tratta dalla “Storia dei profeti e dei re” di al-Tabarî, il contributo si interroga sulla peculiarità della concezione islamica dell’origine del potere politico rispetto alla tradizione cristiana, sottolineando come nell’Islam il potere non sia originariamente segnato dal male (nessun peccato originale), ma si corrompa e degeneri in un secondo momento. La stessa ribellione dell’angelo caduto a Dio non è libera, ma determinata da Dio, supremo governatore del cosmo, di cui angeli e uomini sono sempre e soltanto vicari.
The essay explores the question of the origin of political power in the Islamic tradition, starting from the figure of the fallen angel and his relationship with earthly power. Starting from the story of the angel Satan-Iblîs, from the “History of the Prophets and Kings” by al-Tabarî, the essay investigate the peculiarity of the Islamic conception of the origin of political power compared to the Christian tradition, underlining how in the Islamic tradituin power is not originally marked by evil (hence, no original sin), but becomes corrupted and degenerates at a later time. The rebellion of the fallen angel against God is not free, but determined by God, supreme governor of the cosmos, of whom angels and men are always and only vicars.
Quando sono stato invitato a stendere questo contributo, ho inteso il tema propostomi come una sfida. Il concetto di “angelo delle nazioni”, infatti, nel senso elaborato a partire dalla tradizione giudaica e successivamente sviluppato con ampiezza nella teologia cristiana, non esiste nell’Islam. Approfondendo le ricerche, però, ho compreso come fosse comunque possibile offrire un contributo all’indagine sul pensiero politico islamico proprio partendo dal rapporto degli angeli col potere terreno. Il fatto è che non necessariamente questi angeli debbono essere gli angeli vicini a Dio, i cherubini o i serafini che ne cantano le lodi; potrebbero anche essere gli angeli decaduti, i demoni. Intuita quindi una possibile pista da cui partire, mi è sembrato opportuno innanzi tutto puntualizzare alcune possibili ambiguità concettuali e considerare brevemente il ruolo degli angeli nella rivelazione e nella teologia islamica.
In primis, il concetto di “nazione” nell’Islam appare particolarmente sfuggente. L’Islam è per sua natura sopranazionale; e infatti per secoli nell’evoluzione del pensiero politico così come nell’evoluzione storica si sono prodotti stati, ma non nazioni. Certamente, il concetto di nazione, che appare connotato a partire dal pensiero politico dell’Europa del diciannovesimo secolo, potrebbe indicare in senso più lato il “popolo”: il “popolo” ebraico, la “nazione” ebraica. Ma l’Islam rifiuta in modo netto l’idea del popolo eletto. Nessun popolo ha avuto il privilegio esclusivo di ricevere la rivelazione e di stringere un patto altrettanto esclusivo con Dio. Certo, gli arabi emergono come destinatari di un messaggio privilegiato, in quanto hanno ricevuto l’ultima rivelazione, la rivelazione definitiva, col Libro perfetto, il Corano, e col sigillo dei profeti, Muhammad. Ma ciò non toglie che prima di loro l’umanità dei credenti monoteisti (i hunafâ’ se vogliamo usare un termine coranico) abbia ricevuto rivelazioni e libri. Abramo non era né ebreo né cristiano, ma puro monoteista (cfr. Corano, 2,135 o soprattutto 3,67). Analogamente, dopo Abramo, la rivelazione è stata concessa agli ebrei e poi ai cristiani; la rivelazione ha raggiunto gli spiriti e gli animali che formano comunità religiose (Corano, 6,38). Nessuna di queste categorie emerge qualitativamente sull’altra. La rivelazione è essenzialmente “democratica”. Le comunità religiose, inoltre, non sono rappresentate da “angeli”, ma eventualmente dai rispettivi profeti che, molte volte, hanno avuto un ruolo politico di costituzione e di reggimento della comunità stessa. La figura teologico-politica predominante nell’Islam è il profeta e, almeno per quanto riguarda gli sciiti, l’imâm, che prosegue la missione del profeta ed ha l’autorità di interpretare esotericamente le Scritture.
Piuttosto, l’Islam ha sviluppato il concetto di umma, vocabolo che, nel corso del tempo, ha in particolare indicato la comunità islamica. Sebbene, infatti, in origine, il concetto di umma fosse analogo a quello di qawm, tribù o popolo, e indicasse una associazione naturale di uomini[1], in seguito il termine e il concetto hanno acquisito una valenza decisiva per indicare l’insieme dei credenti musulmani. Anche se non posso sviluppare la discussione in questa sede, dirò che, nell’evoluzione del pensiero politico islamico, il concetto di umma ha assunto un valore carismatico: la umma infatti è infallibile (il Profeta Muhammad avrebbe detto che la sua Comunità non si sarebbe mai messa d’accordo su un errore). L’infallibilità della umma ha condotto a elaborare il principio del consenso, o ijmâ‘, che è uno dei fondamenti della giurisprudenza islamica[2]. L’ijmâ‘ è definito in generale come “l’accordo unanime dei giuristi della Comunità di una determinata epoca su una particolare questione legale” (ittifâq mujâhidîna min ummati Muhammadin fî ‘asrin ‘alâ hukmin shar‘î) ed ha valore coibente di legge. Esso appare strettamente legato al principio di solidarietà comunitario. Come ha scritto Montgomery Watt: «Vi sono incongruenze nella teoria dei giuristi sul consenso, ma ciò non deve rendere cieco lo studioso moderno riguardo alla forza della solidarietà comunitaria come fattore dello sviluppo del mondo islamico. Si è affermato che il senso della solidarietà tra i musulmani è un fatto indipendente dall’unione o disunione del sistema politico [si riferisce a Claude Cahen]. Questo senso di solidarietà ha alimentato l’integrazione di molte razze nell’unità dell’Islam, specialmente dell’Islam sunnita, e ancor più in particolare nella sua tendenza verso l’omogeneità dei modelli sociali e intellettuali»[3].
Secondariamente, la credenza nell’esistenza degli angeli è uno dei pilastri della fede musulmana: il Corano la affianca alla credenza in Dio, nell’Ultimo Giorno, nel Libro rivelato e nei Profeti (2,177). Gli accenni agli angeli sono moltissimi nel libro sacro; e qualche volta gli esegeti hanno identificato negli angeli alcune misteriose creature la cui interpretazione avrebbe potuto anche essere diversa. Così fanno i popolari esegeti dell’Egitto nel tardo periodo mamelucco, i due Jalâl, al-Mahallî e al-Suyûtî, attribuendo agli angeli funzioni precise loro riconosciute dalla tradizione posteriore alla rivelazione. Vediamo infatti il loro commento ai versetti 1-5 della sûra 79 al-Nâzi‘ât:
Per gli strappanti (al-nâzi‘ât) con forza
[gli angeli che malmenano gli spiriti dei miscredenti]
Per i traenti
[gli angeli che sollecitano gli spiriti dei credenti tirandoli con gentilezza]
Per i nuotanti
[gli angeli che scendono fluttuando dal cielo secondo l’ordine di Dio]
Per i precedenti
[gli angeli che precedono gli spiriti dei credenti (guidandoli) al paradiso]
Per coloro che reggon le cose
[gli angeli che governano l’ordine del mondo].
L’angelologia del Corano insiste moltissimo sulla funzione di mediazione che gli angeli hanno nei confronti degli uomini. Per esempio, portano agli uomini l’Ordine di Dio (amr) (6,8; 16,2; 51,4) secondo verità (15,8); sono inviati da Dio a custodire gli uomini e a richiamarli a Lui dopo la morte (6,61); li interrogano e li ammoniscono del destino che gli spetta (4,97); registrano le azioni degli uomini (43,80); intervengono nelle battaglie per aiutare i credenti, se come angeli bisogna interpretare le “schiere” (junûd) di 9,26 e 33,9. L’angelo è però soprattutto mediatore della rivelazione; è Gabriele, secondo la tradizione (il Corano non lo cita espressamente a questo proposito) a comparire a Muhammad e a comunicargli il massaggio di Dio. Ancora i due Jalâl, commentando il versetto 5 della sûra 77 al-Mursilât, dove si parla di “veicolatori di moniti” (al-mulqiyâti dhikran), spiegano: «sono gli angeli che fanno scendere la rivelazione (wahy) sui profeti e gli inviati e veicolano l’ispirazione divina (wahy) ai popoli (umam)».
Partendo dagli spesso solo allusivi accenni coranici, la teologia ha articolato una tipologia angelica che F. Jaadane ha così sintetizzato:
La ricostruzione di Jaadane non è, naturalmente, del tutto esaustiva. Tuttavia, appare abbastanza chiaro che la funzione degli angeli non risulta essere mai politica, né si prevedono angeli esplicitamente protettori dei popoli[6]. E’ politica piuttosto la funzione dei profeti che sono legislatori. L’Islam distingue il profeta legislatore (ce ne sono stati 315, di cui tre, Mosè Gesù e Muhammad, hanno apportato i Libri delle nostre tradizioni religiose) e profeti ammonitori (ce ne sono stati 124.000). I profeti legislatori e apportatori di libri hanno generalmente avuto a che fare con il reggimento della società umana: basta pensare a Mosè; ma naturalmente Muhammad ha eminentemente avuto una funzione politica, in quanto capo della Comunità medinese.
Ora, Dio è ovviamente la fonte e l’origine del potere, ma l’iniziatore del principio del potere sulla Terra e tra gli uomini non è un angelo, ma Satana-Iblîs. Il grande storico e commentatore del Corano al-Tabarî racconta nella sua monumentale Storia dei profeti e dei re una vicenda davvero singolare:
I RACCONTI RELATIVI AI TEMPI DEL REGNO (mulk) E DEL POTENTATO (sultân) DI IBLÎS[7].
Dio creò la Terra e creò una schiera di angeli traendoli dalla propria luce. Fece i cieli e ne affidò il governo a Iblîs che, prima della sua ribellione a Dio, era chiamato Hârût. Prima, Dio aveva creato un’altra schiera di angeli e li aveva chiamati jinn, come è detto: “E i jinn creò di fiamma purissima di fuoco” (55,15). I jinn vennero sulla Terra e ne ebbero il dominio. Nell’empireo erano comandati da Iblîs, che per molte migliaia di anni si era consacrato al servizio di Dio, in ogni cielo, e non si era mai ribellato. In seguito i jinn fecero il male sulla Terra e si ribellarono a Dio. Dio ordinò che Iblîs venisse sulla Terra e la liberasse dai jinn. Iblîs venne, e a lui a agli angeli che l’accompagnavano fu affidata la sovranità della Terra. I jinn fuggirono davanti a Iblîs, ripararono sulle isole e nei mari, ma furono tutti fatti a pezzi.
Iblîs ebbe la sovranità del mondo, ma nel suo cuore apparvero orgoglio e superbia e disse: “Chi è simile a me nei cieli e sulla Terra? Io ho servito Dio per trecento anni in ogni cielo e mai mi sono ribellato. Ora sono sceso sulla Terra, il dominio della Terra mi appartiene, ho messo in fuga i jinn” Dio seppe che orgoglio e superbia erano nel cuore di Iblîs, e volle renderli manifesti agli angeli affinché sapessero che non si deve confidare troppo nel culto reso a Dio; sulla Terra e nei sette cieli non c’era stato infatti alcun essere che avesse reso a Dio culto uguale a quello tributato da Iblîs quando ancora si chiamava Hârût.
Dio si rivolse agli angeli della terra che erano con Hârût, e fece loro una rivelazione come è detto: ” E quando il tuo Signore disse agli angeli: Ecco, io porrò sulla Terra un mio vicario -, essi risposero: Vuoi mettere sulla Terra chi vi porterà la corruzione e spargerà il sangue, mentre noi cantiamo le tue lodi ed esaltiamo la tua santità? – Ma Egli disse: Io so ciò che voi non sapete” (2,30) e so che dai lombi delle creature cui darò forma nasceranno profeti e uomini devoti, e alcuni di loro saranno consacrati al mio servizio» [8].
La scansione dei fatti narrati in questo mito, che attribuisce a Satana-Iblîs il fondamento del potere, è assolutamente chiara. Prima la sovranità era dei jinn che erano però corrotti e violenti. Allora Iblîs li combatté, li sconfisse ed ereditò la sovranità. L’angelo decaduto/demonio, cioè Iblîs, incarna il potere, anche se il potere in origine non è affatto demoniaco. E’ significativo che per descrivere le circostanze del dominio di Iblîs, il testo utilizzi due termini caratteristici del linguaggio politico islamico, mulk e sultân, che indicano analogamente il regno e il potere umani.
Poi anche Iblîs si insuperbì. La narrazione della ribellione di Iblîs nel Corano enfatizza gli aspetti di insofferenza che l’angelo aveva nei confronti dell’uomo in quanto creatura qualitativamente inferiore a lui; non è un peccato relativo a una cattiva gestione degli affari politici:
Allorché disse il tuo Signore agli angeli: “Io creerò un uomo d’argilla e quando l’avrò plasmato e avrò alitato in lui del mio spirito, gettatevi prostrati davanti a lui!”. E si prostrarono gli angeli tutti insieme, eccetto Iblîs, che si empì di orgoglio e rifiutò l’obbedienza. E gli disse iddio: “O Iblîs! Che cosa ti ha impedito di prostrarti a quel che creai di mia mano? ti sei levato in superbia o sei davvero sì alto?”. Rispose: “Di lui io sono il migliore: tu me creasti di fuoco e lui creasti d’argilla”. E gli disse Iddio: “Esci di qui, ché tu sei maledetto! E resti su di te la mia maledizione fino al dì del Giudizio!”. E chiese Iblîs: “Signore! Fammi attendere fino al giorno in cui gli uomini saran suscitati a vita!”. Rispose il Signore: “Ti sia concessa dilazione fino al dì del convegno fissato”. E disse Iblîs: “Per la tua potenza! Io tutti li sedurrò salvo quelli di loro che sono i tuoi servi puri!”. Disse iddio: “Questa è giusta sentenza e giusta io pronunzio parola: Riempirò la Gehenna di te e di quelli di loro che ti seguiranno, tutti assieme!”. (38,71-85)
Dunque, a causa della ribellione dell’angelo che si trasforma in Satana tentatore degli uomini, Dio creò come suo vicario l’uomo (abbiamo visto in Tabarî citato il versetto 2,30) e l’uomo ereditò la sovranità. Un versetto coranico che fa esplicito riferimento allo stretto rapporto che esiste tra l’uomo vicario di Dio e la sovranità è 38,26: «O David! Noi t’abbiamo costituito vicario sulla Terra, giudica dunque tra gli uomini secondo verità».
L’uomo insieme alla sovranità ricevette la profezia. I primi profeti erano anche re: Adamo e Seth, innanzitutto, ma poi anche Idris, dopo un intervallo in cui si succedettero figli di Seth, re ma non profeti[9]. In seguito, almeno secondo il racconto di Tabarî, sembra che la sovranità si sia scissa dalla profezia, e i successori dei primi profeti sono diventati “oppressori e faraoni” (jabâbira wa farâ‘ina). Così un Jamshîd, che governò tutta la Terra, non solo non era un profeta, ma era soprattutto un sovrano perverso che giunse al punto di proclamarsi Dio[10]. Infine, Noè fu chiaramente solo un profeta e, del resto, con lui si ebbe il diluvio con cui la schiatta umana rischiò di andare annientata.
Possiamo individuare, anche in questo mito del genesi, un elemento costante del pensiero politico islamico successivo: l’idea di una origine positiva del potere, che poi si è traviato e corrotto. Il male non è insito nelle origini del potere, ma è il frutto di una degenerazione successiva. Al declinare della cultura e della civiltà islamica classica, nel XIV secolo, Ibn Khaldûn ragionò analogamente per il califfato e il mulk. Ibn Khaldûn infatti scrisse:
Si vede chiaramente il significato del califfato. L’esercizio del potere regale naturale consiste nel far agire le masse secondo i suoi progetti e disegni. L’esercizio della regalità politica consiste nel farle agire secondo le prospettive della ragione, per salvaguardare i loro interessi materiali, evitando ciò che può loro nuocere. Quanto al califfato, esso consiste nel dirigere la gente secondo la legge divina al fine di assicurare il suo benessere in questo mondo e nell’altro. Gli interessi temporali si collegano l’uno all’altro poiché, secondo il Legislatore [Muhammad], tutte le circostanze di questo mondo devono essere considerate nel loro rapporto con il loro valore per il mondo dell’oltre. In tal senso, il califfo è il vicario di Muhammad, nella misura in cui serve, come lui, a proteggere la fede e a governare il mondo[11].
Il califfato appare come la forma perfetta di regalità, rispetto a un potere naturale tirannico e a un potere razionale che non ha molta cura per le questioni spirituali. Tuttavia, il concetto perfetto di potere – ad un tempo terreno e ultraterreno – è evoluto/involuto in senso negativo:
Quando l’Inviato di Dio [Muhammad] fu sul punto di morire, designò Abû Bakr a dirigere la preghiera al suo posto, affidandogli così la principale attività religiosa. I musulmani accettarono volentieri Abû Bakr come califfo, incaricato di far agire le masse secondo la Legge divina. A quel tempo, non era questione di potere regale: a quel tempo, la regalità era considerata cosa vana e prerogativa degli infedeli e dei nemici dell’Islam. […] In seguito il califfato pervenne a ‘Uthmân Ibn ‘Affân, poi ad ‘Alî. I primi quattro califfi si tennero lontani da ogni pratica monarchica, dalle sue pompe e dalle sue opere. Essi furono aiutati, nel loro distacco, dal basso livello di vita nei primi tempi dell’Islam e dalle abitudini della vita beduina presso gli arabi.
Secondo Ibn Khaldûn, dunque, ancora i “ben guidati” interpretarono correttamente la dimensione islamica del potere; anche le successive lotte civili tra ‘Alî e Mu‘âwiya, che prepararono la presa del potere degli Omayyadi, furono combattute tra due personaggi che in fondo erano sinceri nella loro inclinazione religiosa. Ma
poi vennero gli ultimi Omayyadi. Essi si comportarono da sovrani temporali, nei loro disegni e nelle loro intenzioni, ma dimenticarono la moderazione e l’amore per la verità che avevano guidato i loro predecessori. Per questa ragione, il popolo biasimò la loro condotta e si schierò dalla parte degli ‘Abbâsidi i quali presero il potere. Gli ‘Abbâsidi erano noti per la loro probità. Essi usarono il potere regale per far progredire la verità per quanto possibile. Dopo i primi membri di questa dinastia, vennero i discendenti del califfo al-Rashîd: ve ne furono di buoni e di malvagi. Ma più tardi, quando regnarono i loro figli, cedettero al lusso e al potere. Essi si abbandonarono alle vanità di questo mondo e voltarono la schiena all’Islam. […] Si è dunque visto come il califfato si trasforma in monarchia. La prima forma di governo era il califfato. Ciascuno aveva la capacità di automoderarsi grazie al freno dell’Islam. Si preferiva allora la religione agli affari temporali, anche a costo di reprimere l’interesse personale affinché la massa fosse sana e salva. […] Il principale cambiamento apparente è quello del freno moderatore, che passa dall’Islam allo spirito di corpo e poi alla spada. Tale fu la situazione ai tempi di Mu‘âwiya, di suo figlio ‘Abd al-Malik e dei primi califfi ‘abbâsidi fino ad al-Rashîd e ad alcuni dei suoi discendenti. Dopo di che, i tratti caratteristici del califfato scomparvero e del califfato non rimase più altro che il nome. Il regime divenne un’autocrazia pura e semplice. Il potere si volse all’assolutismo e si piegò alle vanità del secolo, all’impiego della forza e alla soddisfazione arbitraria dei suoi desideri e passioni[12].
Dunque, si ebbe una degenerazione del potere che induce a rimpiangere i tempi del califfato. Ora, il califfato è il vicariato del profeta; ma l’uomo è il califfo di Dio. Secondo una comune simbologia teologico-politica, solo Dio è re. Un attributo specifico di Dio è malik, che appare in diversi versetti coranici. Per esempio in 20,114 e 23,116 Dio è definito “re della verità” oppure “re della realtà” (malik al-haqq). Numerosi sono anche i versetti in cui si dice che a Dio appartiene il regno dei cieli e della terra (per esempio 2,107; 3,189; 5,17 ecc). Daniel Gimaret ha notato come si sia sviluppato tra gli esegeti del Corano un ampio dibattito sul fatto se bisogna leggere malik oppure mâlik. Nel primo caso prevale il senso di re o sovrano di un popolo o di una nazione; nel secondo caso prevale il senso di possessore o proprietario, per esempio di animali o di schiavi. Gimaret ha rilevato che entrambi i termini esprimono un potere, per cui in realtà il dibattito tra gli esegeti finisce in fondo per identificarli[13]. Un fatto è che, mi pare, la sovranità coincide col possesso; per cui essendo Dio l’unico signore e proprietario (rabbu al-‘âlamîn), non possono esistere angeli detentori della sovranità, bensì la sovranità appartiene soltanto a Dio. Iblîs, si è visto, l’angelo decaduto a demone, è stato spogliato della sovranità e l’uomo è solo un vicario della sovranità divina. Nella respublica cosmica, Dio non parteggia il suo potere con chicchessia e gli angeli non hanno funzioni autonome nel governo dell’universo, ma solo funzioni ausiliarie.
Nella terminologia coranica la sovranità e il giudizio sembrano espressi da un’unica parola, hukm. Perciò, facendo soprattutto riferimento ai versetti 5,45,47 e 48, i musulmani radicali come Qutb hanno difeso l’idea che solo a Dio appartiene il potere nella società e nella legislazione (hâkimiyya). Una formula frequentemente evocata è: al-hukm illa li’llâh, cioè letteralmente “il giudizio è solo di Dio”, ma per estensione “il potere è solo di Dio”. Si tratta di una estensione significativa ma probabilmente indebita del significato coranico del termine[14], poiché la formula, pur comparendo quattro volte nel Corano, sembra avere un significato variabile e non propriamente riducibile a quello di governo o potere. In 6,57 il hukm è di Dio poiché egli dice la verità (haqq); in 12,40 e 12,67 poiché, essendo il supremo Signore dell’universo, nessuno può resistere o contrastare il suo hukm. Nei versetti 28,70 e 28,88 il testo è forse ancora più ambiguo. In 28,88 leggiamo che Dio possiede i bei nomi e il hukm, ma risulta difficile decidere se si intende il giudizio nell’Ultimo Giorno oppure qualche altra cosa. Un’ipotesi potrebbe essere che si tratti del controllo delle leggi della natura.
Come assoluto dominatore della creazione, ad ogni modo, Dio ha voluto e determinato la stessa ribellione di Iblîs; quella dell’angelo caduto non fu superbia consapevole, ma ottemperanza agli ordini di Dio che segue sue imperscrutabili logiche. Secondo un mistico persiano:
il giorno della resurrezione Iblîs verrà trascinato al giudizio con tutti i demoni e sarà accusato di aver traviato le moltitudini. Egli ammetterà di aver rivolto loro l’appello a seguirlo, ma si difenderà affermando che esse non avevano alcun obbligo di farlo. Allora Dio dirà: “Sia pure! Ma adesso adora Adamo onde salvarti”. I demoni imploreranno Satana di obbedire e di liberare loro e se stesso dai tormenti, ma Iblîs risponderà piangendo: “Se fosse dipeso dalla mia volontà, avrei adorato Adamo fin dalla prima volta che mi fu proposto. Dio mi ha comandato di adorare l’uomo, ma non lo voleva sul serio. Se Dio me l’avesse permesso, avrei adorato l’uomo fin d’allora”[15].
Di fatto, Dio il è il supremo governatore dell’universo e ciò ha una precisa ricaduta politica. Come afferma Patricia Crone:
L’assunto fondamentale dietro questi racconti è che tutto il potere nell’Universo e tutte le leggi fisiche e morali grazie alle quali l’Universo è regolato, riflettono la medesima realtà ultima, Dio. Dio governa nel senso più letterale del termine, designando sovrani, governatori, giudici e deputati, e ordinando eserciti da inviare contro sudditi insubordinati. Il governo divino è sempre esistito e sempre esisterà e deve necessariamente manifestarsi come governo sulla Terra. Adamo rappresenta la pienezza del potere di Dio sulla Terra e i suoi discendenti, sia da Seth sia da caino, sono considerati vivere in società organizzate politicamente, esattamente come i jinn che li avevano preceduti. Contrariamente a ciò che dicevano i cristiani del Medio Evo, il governo coercitivo non si è sviluppato tra gli esseri umani come risultato della caduta. Tutte le creature prodotte da Dio sono soggette al suo governo, sia direttamente sia attraverso intermediari, sia peccatrici o non peccatrici, e il governo divino è certamente coercitivo[16].
Che il concetto politico dell’Islam sia alternativo al paradigma agostiniano della Città di Dio[17] avevo già sostenuto sette anni fa[18]. La politica nell’Islam è beneficio di Dio; come abbiamo detto, il male non è insito nelle origini del potere. La sociabilità governata dal potere politico è anzi necessaria per adempiere agli obblighi religiosi. Alla luce di letture più recenti, mi sento confortato nel suggerire che questa disparità tra il pensiero politico islamico e quello cristiano medievale (almeno fino al ritorno di Aristotele, ma probabilmente ancora oltre) dipenda dal fatto che l’Islam non accetta l’idea del peccato originale[19]. E’ forse per questo che non vi è alcuna divisione tra una città terrena e una città celeste. Come sottolinea ancora Crone, il sottomettersi a Dio nell’ambito della società politica garantisce il benessere in questo e nell’altro mondo:
I musulmani medievali ritenevano di norma che il miglior sistema politico fosse quello basato sulla religione poiché gli uomini devono subordinare i loro interessi individuali a quelli della collettività, quando vivono in società, ed è molto meglio fare ciò in nome di principi superiori. Le cose più alte di tutte sono Dio e la vita eterna. Formare un singolo sistema politico significa perciò sottomettersi a Dio e a chiunque lo rappresenti come leader di tale organismo politico: viceversa, sottomettersi a Dio significa entrare in un organismo politico in cui Dio stabilisce le regole della reciproca interazione tra gli uomini, stabilendo come ciascuno si deve comportare con i suoi simili e con Lui. In altre parole, la religione rivelata si occupa innanzitutto e soprattutto dell’interesse collettivo[20].
Da tutto quanto detto, possiamo dedurre che il potere di Dio pervade l’universo in ogni sua manifestazione. Vorrei quindi ipotizzare (ma si tratta di una affermazione sospesa che meriterebbe forse ulteriori analisi) che il tema degli angeli delle nazioni non è affrontato dall’Islam proprio perché il cosmo islamico è teocentrico e non antropocentrico. Nel teocentrismo dell’Islam, Dio può delegare il potere agli angeli o all’uomo. Lo ha fatto inizialmente a favore di Iblîs, ma quando la sua fiducia si rivelò mal posta, lo trasferì all’uomo che è violento e sopraffatore, ma che ha avuto il coraggio di sopportare il patto con Dio. Il potere di Dio non viene parteggiato con alcuno e l’uomo (o gli angeli) ne sono solo coadiutori.
Il potere di Dio non si veicola solo attraverso lo stato, ma la Comunità intera, realtà carismatica come abbiamo visto, ne costituisce la custode[21]. Questo è quanto si può dedurre dal mito che abbiamo descritto e dalle sue conseguenze politiche. L’assorbimento dell’individuo nella Comunità e l’essenziale olismo dell’Islam fanno sì che, da un punto di vista assolutamente teorico (la realtà della storia è stata ovviamente diversa), non sia possibile dividere la Comunità in molteplici organismi nazionali in cui l’unità della fede sia prevaricata dal particolarismo territoriale o linguistico o addirittura etnico. Il protettore della Comunità islamica in quanto entità universale sopranazionale e sopraculturale è Dio stesso, che degli angeli, ripetiamo ad abundantiam, si serve solo come mediatori.
[1] W.M. Watt, Islamic Political Thought, Edinburgh University Press, Edinburgh 1980, p. 11.
[2] A. Hasan, The Doctrine of Ijmâ‘ in Islam, Kitab Bhavan, Delhi 2003.
[3] Watt, op. cit., p. 98.
[4] Al-Ghazâlî, La bilancia dell’azione, in La Bilancia dell’azione ed altri scritti, a cura di M. Campanini, Utet, Torino, 2004, p. 263.
[5] F. Jaadane, La Place des Anges dans la Théologie Cosmique Musulmane, in «Studia Islamica», XLI (1975), pp. 23-61; qui 48-50.
[6] Cfr. anche la voce Malâ’ikah dell’Encyclopedie de l’Islam, 2a edizione, vol. III, pp. 200-204; e L. Gardet, Les Anges en Islam, in “Studia Missionalia”, XXI (1972), pp. 207-227.
[7] Al-Tabarî, Ta’rîkh al-umam wa al-mulûk, Dâr al-Kutub al-‘Ilmiyya, Beirut 1997, vol. I, pp. 58ss.
[8] La traduzione italiana in Tabari, I profeti e i re, a cura di S. Noja, Guanda, Parma 1993, pp. 3-4. E’ sintetica poiché fa grazie al lettore delle lunghe catene di trasmettitori di cui ogni storia è supportata. Ho modificato la traduzione, confrontandola col testo arabo, perché utilizza sempre l’ambiguo “diavolo” al posto di Iblîs, mentre è chiaro che il testo si riferisce proprio a Iblîs e non a un generico “diavolo”.
[9] Ivi, p. 19.
[10] Ivi, p. 26.
[11] Ibn Khaldûn, Muqaddimah. Discours sur l’Histoire Universelle, a cura di V. Monteil, Commission Libanaise pour la Traduction des Chefs-d’œuvre, Beirut 1967, p. 370.
[12] Ivi, pp. 402-411 passim.
[13] D. Gimaret, Les Noms Divins en Islam, Cerf, Paris 1988, pp. 313-315.
[14] N. Abu Zayd, Islam e storia, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 76-77.
[15] R. Nicholson, Studies in Islamic Mysticism, Idarat-I Adabiyyat, Delhi 1981, p. 54.
[16] P. Crone, Medieval Islamic Political Thought, Edinburgh University Press, Edinburgh 2004, p. 6.
[17] M.T. Fumagalli Beonio-Brocchieri, Il pensiero politico medievale, Laterza, Roma-Bari 2000, p.V: «Una grande società di corpi umani da governare e tenere a freno mentre stretti dal bisogno quotidiano si fanno guerra e si eliminano l’un l’altro nel sangue, intrisi di “libidine del potere”, passione radicata nella dura necessità di sopraffarsi per sopravvivere: questa sembra sovente la città terrena descritta da Agostino, sorvegliata con attenzione e timore, e consigliata con debole speranza dai Padri, dai papi, dai filosofi e dai giuristi nei secoli medievali. Quei corpi, deboli dopo il peccato di Adamo e la Caduta e pietosamente esposti al bisogno e alle leggi violente della competizione, sono guidati da intelletti depotenziati e incerti e da una volontà deviata rispetto alla mitica integrità di Adamo.
[18] M. Campanini, Islam e politica, Il Mulino, Bologna 1999, p. 21 (nuova edizione accresciuta 2003).
[19] M. Nicoletti, La politica e il male, Morcelliana, Brescia 2000.
[20] Crone, op. cit., p. 393.
[21] «L’argomentazione moderna (utilizzata dai conservatori contro la democrazia) che i musulmani sono governati da Dio e non dal popolo, sarebbe risultata aliena ai musulmani medievali, poiché riposa sul tacito assunto che Dio può dispiegare la propria volontà solo attraverso lo stato – un’idea aborrita dai pensatori religiosi. Dal loro punto di vista, i musulmani non erano governati da Dio in opposizione al popolo, ma piuttosto da Dio in quanto popolo, o più precisamente in quanto comunità. Il governante rappresentava sia Dio sia la comunità, poiché essi sono due facce della medesima medaglia» (Crone p. 277).