01
NOV
2017

Temple-II. In-depth: Tempio, Gerusalemme, città di asilo. La geografia dello spazio sacro trasformata in una religione senza luogo (Gian Luigi Prato)

Abstract

Temple, Jerusalem, city of shelter. The geography of sacred space transformed into a religion without place.

When we consider the history of the temple in Jerusalem, we realise that its holiness became a spatial template for other religious institutions, allowing them, too, to be considered as genuinely holy places. Although the Temple of Solomon is closely connected with the political evolution of the Kingdom of ancient Israel, the so-called «second temple» increasingly becomes an ideal place, whose holiness encompasses the land and people (consider the temple of Ezekiel 40-48). A «religion of holiness», i.e. of purity and separation, evolves, which survives when the destruction of the temple means that no concrete holy place remains. The sacralization of particular spaces, like places and cities of refuge, shows that the idea of holiness, related to the temple, involves other ideal spaces (like the cities of refuge, considered to be levitical cities), which to a great extent, and on a symbolical level, contribute to endorsing this spaceless religion.

 

TEMPIO, GERUSALEMME, CITTÀ DI ASILO. La geografia dello spazio sacro trasformata in una religione senza luogo

  1. Delimitazione e ottica della trattazione

Benché all’idea del sacro si associ normalmente quella della distinzione e della separazione, in realtà si potrebbe attribuire ad essa quanto viene predicato del concetto del bonum nella filosofia scolastica, è cioè di essere diffusivum sui. Infatti il sacro, soprattutto se è collegato allo spazio, è una realtà formalmente unica ma potenzialmente molteplice. Come afferma Mircea Eliade, che rileva come anche in questo campo vi sia una certa contraddizione nell’idea stessa della sacralità, ogni spazio può diventare sacro. Inoltre, lo spazio sacro è difficile da conquistare, ma di fatto è accessibile: ci si sente collocati al suo centro, anche solo come desiderio o nostalgia, per esempio del paradiso. Anzi, si può vivere solo in uno spazio sacro, e nel suo centro[1].

Dovendo poi trattare dello spazio sacro in relazione al tempio, va precisato anzitutto che quest’ultimo rappresenta solo una delle espressioni del sacro centralizzato, e può essere assunto tuttavia come simbolo delle valenze del sacro inteso come presenza divina[2], benché resti da chiedersi se esso, anche in questa sua funzione, esaurisca tutti i significati del sacro[3].

Nell’antico Israele e nei testi biblici, com’è ovvio, le espressioni del sacro, a cominciare appunto dal tempio, sono onnipresenti e ci si potrebbe limitare ad illustrarle tracciando un quadro descrittivo più o meno esauriente. Ma ciò sarebbe poco proficuo per l’intento di fondo di questo seminario di teologia politica. È invece più promettente, in tal senso, ricercare come si giunga alla sacralizzazione di varie realtà istituzionali e constatare come tale processo contribuisca a formare una religione che è in grado di trasferire e applicare la concezione del sacro ad altri ambiti, che ne acquisiscono così gli stessi valori e risultano equivalenti al loro punto di partenza. Non va dimenticato del resto che un elemento in cui si incarna il sacro può anche scomparire nel corso del tempo, ma il suo significato simbolico sopravvive se il sacro di cui è rivestito funziona a dovere: ciò è avvenuto per l’antico Israele proprio per il tempio, la cui distruzione può aver certo attutito gli elementi della sacralità ad esso collegati[4], ma il loro significato è sopravvissuto per altre vie.

Il processo di sacralizzazione applicato al tempio, che diviene così un luogo sacro per eccellenza, aiuta a capire come ad esempio possano divenire tali anche altri ambiti spaziali[5], come i luoghi o le città di asilo, di cui intende parlare questo seminario: pur trattandosi di spazi diversi, ciò che li collega tra loro è una sacralità che nel caso delle città di asilo si applica mediante il loro inserimento tra le città levitiche, divenendo esse stesse città levitiche, e ciò al di là di una qualche sacralità che potrebbe competere loro originariamente, quasi per loro natura.

Possiamo dunque procedere, in questa esplorazione così intesa, presentando anzitutto brevemente come si configuri la sacralità centralizzata nell’antico Israele, con uno sguardo sintetico alla sua visione cosmologica. Verremo poi alla sacralizzazione del tempio, distinguendo tra la storia biblica del tempio di Gerusalemme e il divenire o l’ampliarsi delle attribuzioni del sacro, che lo trasfigurano in un tempio ideale. In un terzo momento ci soffermeremo sull’applicazione della sacralità ai luoghi di rifugio e sulla connessione tra città di asilo e città levitiche. Un itinerario così delineato richiederebbe senza dubbio una trattazione assai ampia e dettagliata, ma vorremmo tentare di affrontare qui soltanto i punti principali di ogni questione, nella misura in cui essi contribuiscono alla comprensione della linea coerente che ci proponiamo di illustrare. Ne consegue che alcuni argomenti saranno appena accennati e verranno esposti brevemente solo in funzione dell’insieme.

 

  1. Sacralità centralizzata

Nel sintetizzare la concezione della sacralità centralizzata dell’antico Israele, bisogna riconoscere che essa in realtà si esprime, in forma più incisiva e nella sua visione complessiva, soltanto nel giudaismo posteriore e non tanto nei testi biblici. Una delle sue formulazioni più pregnanti la si trova ad esempio nel Derek Erez Zuta, un trattato sulle «regole di vita», dove viene riassunta in termini metaforici che tendono ad esaltare il tempio di Gerusalemme:

 

«Dice Aba Issi ben Yoḥanan in nome di Šemu’el ha-Qaṭan: A che cosa somiglia questo mondo? A un bulbo oculare umano: il bianco è l’Oceano che circonda la terra; l’iride al suo interno è la terra abitata; la pupilla nell’iride è Gerusalemme; il volto nella pupilla è il Tempio – voglia che venga presto riedificato nel nostro tempo»[6].

 

Un’altra testimonianza significativa è offerta dal trattato mishnico Kelim, dove si afferma che vi sono dieci gradi di santità[7], che vanno da una periferia a un centro  e vengono elencati partendo dalle terre fuori d’Israele per dirigersi verso Gerusalemme  e poi ai vari settori del tempio, sino al Santo dei Santi (1,6-9).

Proiettando la metafora anatomica del primo testo e l’area concentrica del secondo su uno spazio a tre dimensioni, si ricava che il cosmo si struttura lungo un asse verticale che si prolunga su tre livelli (cielo, terra e mondo sotterraneo: cfr. già Es 20,4) e passa per un centro che è la montagna del tempio. Esso viene intersecato da un asse o piano orizzontale entro cui si collocano in disposizione gerarchica varie zone che si susseguono a cerchi concentrici, convergendo verso un centro: l’ombelico del mondo; essi sono diversamente qualificati, poiché si procede dal caos al mare e poi al deserto e alla terra abitata. Questa prospettiva ortogonale può essere raffigurata visivamente nel detto talmudico attribuito a rabbi Geremia ben rabbi Eliezer: «La gehenna ha tre porte: una nel deserto, una nel mare e una a Gerusalemme« (b‘Erubin 19a)[8].

Al centro della convergenza si pone anche la «pietra di fondazione» (’even šetiyyāh) su cui è edificato il tempio, come si afferma in Pirqe de-Rabbi Eliezer 35 («… lì è l’ombelico del mondo e da lì tutta la terra ha avuto origine e su di essa poggia il santuario di Dio»)[9]. Il tempio costruito su di essa equivale a una creazione e il monte del tempio assume una funzione cosmica. Su di essa Noè ha offerto il sacrificio dopo il diluvio, che nella descrizione biblica (Gen 8,20-22) intende rifondare il mondo su un equilibrio composito, poiché esso minaccia sempre di ricadere nel caos[10]. Comunque, una centralità assiale, che riunisce Eden, Sinai e Sion, viene ribadita nelle parole che Noè rivolge al figlio Sem nel Libro dei Giubilei, quando descrive la parte di terra a lui riservata: «… dato che sapeva che il giardino di Eden era santo dei santi e dimora del Signore e che il monte Sinai, centro del deserto, e il monte Sion, centro dell’ombelico della terra, tutti e tre, l’uno di fronte all’altro, erano stati creati per la santità» (8,19)[11].

Va tuttavia osservato che tutta questa prospettiva centralizzatrice, che sembra condurre necessariamente a Gerusalemme e al suo tempio, va relativizzata, poiché  rappresenta soltanto una delle possibili applicazioni di una simile concezione cosmica[12]. Altri luoghi infatti, già nei testi biblici, possono esere considerati «omblelico della terra» (ṭabbûr hāʼāreṣ): quando i signori di Sichem si ribellano ad Abimelec esso è collocato presso quella località (Gdc 9,37), mentre quando Gog intende combattere contro un popolo «che abita al centro della terra» (Ez 38,12) si pensa a Gerusalemme solo per deduzione (anche in base a Ez 5,5).

In relazione al tempio vero e proprio, dobbiamo inoltre rilevare che questa sua collocazione polarizzatrice è di fatto il risultato di un processo interpretativo che inizia con gli stessi testi biblici e che ora dobbiamo appunto ripercorrere nelle sue tappe più significative, sebbene possa apparire un dato «originario» e come tale ovvio nella prospettiva giudaica da cui siamo partiti e che abbiamo illustrato con questi pochi accenni.

 

  1. Il tempio e Gerusalemme

Dobbiamo distinguere anzitutto tra la storia biblica del tempio di Gerusalemme (o dei templi che si sono ricostruiti sui precedenti) e la storia e la consistenza effettiva del tempio nella sua realtà concreta, per poter capire il processo della elaborazione letteraria e ideologica legata a questa struttura architettonica[13].

La storia biblica si svolge lungo una sequenza che inizia con il modello nel deserto (un tempio mobile: Es 25-31 e 35-40), prosegue con il tempio di Salomone (1Re 6-7; 2Cr 3-4), che viene distrutto e poi ricostruito nell’immediato postesilio (cfr. Esd 1-6); a questo «secondo tempio» si collega quello cosiddetto di Erode, che ne dovrebbe rappresentare una grandiosa ristrutturazione. Da questa successione diacronica si possono già trarre due osservazioni.

1) È significativo che il tempio del periodo storico sedentario, quello di Gerusalemme, sia preceduto da un modello che vale di per sé per la fase pre-sedentaria, ma possiamo intuire che provenga da una fase post-sedentaria, quando quel tempio, nel suo prototipo (salomonico), non esite più come tale.

2) Di questi vari templi non conosciamo praticamente nulla dal lato archeologico (tutt’al più solo qualche elemento del muro di cinta del tempio di Erode).

Poiché il tutto converge sul tempio salomonico, conviene partire di qui per tracciare  l’itinerario della sua sacralizzazione, e tenendo conto nello stesso tempo della probabile sequenza cronologica lungo la quale si sono formati i testi biblici relativi ai vari templi.

3.1. Il tempio di Salomone

La sua costruzione viene descritta con dettagli talvolta poco chiari (1Re 6-7; 2Cr 3-4) ma di tutto il complesso si forniscono le misure solo dell’edificio (lunghezza 60 cubiti, larghezza 20, altezza 30, con un vestibolo di lunghezza 10 e larghezza 20; all’interno i 60 cubiti sono suddivisi in 40 per l’aula e 20 per il Santo dei Santi). Si suppone un’area esterna, con varie suppellettili cultuali, e con un muto di cinta (1Re 6,36) il cui perimetro non viene indicato. Accanto al tempio viene costruita una grandiosa reggia, il «palazzo detto Foresta del Libano», di forma rettangolare (100 cubiti per 50; 1Re 7,1-12, cfr. v. 2).

Poiché più volte si parla in seguito di ristrutturazione di questo tempio, è legittimo chiedersi a quale fase architettonica possa risalire la descrizione della costruzione originaria, e se davvero essa possa derivare da una testimonianza oculare diretta[14].

Pur tenendo presente un intento propagandistico, che si richiama del resto a una prassi orientale[15], e anche la preoccupazione di essere fedeli a un modelllo precostituito[16], sembra improbabile che tutto il complesso possa ambientarsi nella Gerusalemme del X sec. a. C., con la sua consistenza urbana abbastanza ridotta. Il tempio così descritto rispecchia certamente una struttura siriana tripartita, già nota fin dal II millennio, e di cui restano esempi chiari a ʻAyn-Dara (secc. XI-X) e a Tell Taʻyinat (sec. IX), nella Siria settentrionale, ma il palazzo adiacente sembra rifarsi al modello persiano dell’apadana, cioè del palazzo a colonne, come quello di Dario a Persepoli[17]. Sembra insomma che la descrizione di questo primo tempio sia da collocarsi in epoca postesilica. Ciò concorda con il tono solenne con cui viene presentata la sua «inaugurazione» in 1Re 8, dove si rileva tra l’altro che il tempio è abitazione e presenza di un Dio che però nessun luogo può contenere (vv. 12 s.27)[18], e ad esso si può accedere per ottenere giustizia (vv. 31 s.); ivi si può ottenere soccorso e perdono (vv. 35-40) e persino in una condizione di esilio si potrà guardare ad esso per ottenere compassione dai deportatori (vv. 46-51, spec. 48 e 50)[19]; anche lo straniero potrà accedervi e la sua supplica potrà essere esaudita (vv. 41-43). Tuttavia l’osservanza della legge è condizione necessaria perché il tempio possa sussistere (1Re 9,3-9, spec. 8 s.). È chiaro che si tratta di tematiche teologiche che suppongono un’esperienza storica vissuta e anche una defezione politica (l’esilio).

Possiamo inoltre osservare in proposito, che, sebbene possa apparire strano, non si dice mai in questo contesto che il tempio possa fungere da luogo di asilo. Ciò va tenuto presente per quanto si dirà più avanti a questo riguardo.

Se guardiamo poi alla rilevanza che il tempio salomonico può aver assunto durante la storia monarchica, constatiamo che i testi biblici ne parlano relativamente poco, e ciò desta una certa sorpresa, se si pensa alla magnificenza imponente con cui viene esaltata la sua costruzione. È pur vero che vi si accenna talvolta in termini religiosi, cioè quando viene profanato e purificato[20], ma più spesso se ne parla dal lato economico, in relazione ai tesori ivi conservati e consegnati a governanti stranieri per necessità o costrizione (talvolta assieme ai tesori della reggia), e comunque per motivi poltici. Si inizia con il faraone Sisak all’epoca di Geroboamo (1Re 14,25-28; 1Cr 12,9-11) e si continua con Ben-Adad, re di Aram, sotto Asa (1Re 15,18 s.; 2Cr 16,2 s.), Cazael, re di Aram, sotto Ioas di Giuda (2Re 12,18 s.; si vedano anche i lavori di restauro[21] in 2Re 12,1-17; 2Cr 24,1-16); anche Ioas d’Israele depreda il tempio e la reggia dopo aver sconfitto e fatto prigioniero Amasia di Giuda (2Re 14,11-14; 2Cr 25,24), mentre Acaz di Giuda, per salvarsi dal re di Aram e dal re d’Israele, deve fare donativi a Tiglat-Pileser di Assiria (2Re 16,8; 2Cr 28,21; si veda anche il modello dell’altare di Damasco, riprodotto a Gerusalemme, e la ristrutturazione del tempio, in 2Re 16,10-18; 2Cr 28,22-24); Ezechia deve consegnare il denaro del tempio e i tesori della reggia a Sennacherib di Assiria (2Re 18,15 s.; si veda anche 2Re 20,12 s.: Ezechia mostra a Merodac-Baladan i tesori della reggia); Nabucodonosor, conquistata Gerusalemme, chiude coerentemente la serie (2Re 24,13: 2Cr 36,7; anche il suo ufficiale Nabuzaradan, durante la seconda conquista, incendia il tempio e la reggia, fa a pezzi le colonne di bronzo e preleva le suppellettili cultuali: 2Re 25,9-17; 2Cr 36,18 s.; Ger 52,13.17-23; 39,8). La prassi della depredazione bellica o del tributo pagato al nemico, più volte testimoniata nel corso di questa storia dei due regni, lascia intravedere che il tempio non esercita in quella società la funzione di baluardo religioso enfaticamente esaltata nella preghiera di Salomone in 1Re 8.

Confrontando dunque tra loro la retorica letteraria, che inquadra il tempio in una ideologia religiosa, e la realtà storica che quella stessa letteratura lascia trasparire, e che rivela come il tempio valga quasi solo per le sue ricchezze economiche che possono aiutare talvolta a risolvere momenti critici, si può dedurre che il tempio di età monarchica esercita soprattutto una funzione politica: è legato agli interessi e al governo del regnante, di cui segue le sorti. L’enfasi posta sulla fase della costruzione, ma anche su quella della distruzione, è dunque di natura teologica, dovuta alla rilevanza ideale che il tempio ha acquisito in un’altra società e in un’altra epoca storica, quella del secondo tempio. Ma fra queste due fasi si interpone, sul piano della ricostruzione della storia letteraria, l’elaborazione del modello.

3.2 Il modello: la dimora e/o tenda del convegno (tavnît: cfr. Es 25,9)

La descrizione del modello del tempio gerosolimitano, secondo le parole che Dio rivolge a Mosè, e della costruzione di tutto l’apparato nel deserto, si trova in testi cosiddetti sacerdotali, e quindi recenti, ossia postesilici, e già questo pone il problema di vedere a quale tempio si applichi. Inoltre, al di là della struttura architettonica, si forniscono istruzioni anche per gli oggetti ad essa connessi e anche per l’abbigliamento e la consacrazione dei sacerdoti (Es 28-29). Ciò significa che si intende fissare normative per una istituzione cultuale come tale, più che per l’assetto spaziale in cui essa è situata.

Si parla dunque della costruzione di una «dimora» (miškān) che è fatta di teli (Es 26,1-14) e anche di assi di legno (26,15-29) per le pareti, mentre il tetto è solo di teli. Si riesce a intuire solo a fatica come una struttura in legno risulti incastrata in un’altra di teli, ma ad ogni modo l’interno è suddiviso in due parti: l’aula più grande, detta il Santo (di 20 cubiti) e quella posteriore, il Santo dei Santi (di 10 cubiti); a questa lunghezza totale di 30 cubiti corrisponde una larghezza di 10, per cui le dimensioni risultanti per la superficie sono la metà di quelle dell’edificio del tempio di Salomone.

La dimora è preceduta da un cortile ed è circondata da un recinto rettagolare di 100 cubiti di luhghezza per 50 di larghezza (27,18), disposto in direzione est-ovest, con  ingresso a est. È nel cortile esterno che vengono collocati l’altare per i sacrifici e un bacino, mentre nel Santo stanno l’altare dell’incenso, il candelabro e la tavola dei pani, e nel Santo dei Santi l’arca.

Ma oltre alla dimora e al suo recinto va costruita anche una «tenda del convegno» (ʼōhel môʻēd), che di per sé sembra costituire una struttura separata: Mosè le dà questo nome e la allestisce fuori dell’accampamento, e ad essa si reca chi vuole consultare il Signore (33,7-11). Di fatto però viene a coincidere con l’edificio precedente (cfr. 29,42-44), anche per il fatto che dal lato terminologico nella fase di costruzione le due realtà vengono poste in sequenza tra loro, e si parla dunque di miškan ʼōhel môʻēd (39,32; 40,2.6.29), dove però va notato lo stato costrutto del primo termine, per cui si deve intendere «la dimora della tenda del convegno», benché le traduzioni ne facciano due sinonimi (si veda ad esempio CEI 2008: «la dimora, la tenda del convegno»)[22]. La terminologia è tuttavia complessa: si parla talvolta di miškan YHWH (Lv 17,4; Nm 16,9; 17,28; 19,13; 31,30.47; Gs 22,19; 1Cr 16,39) oppure di miškan hāʻēdût («dimora della testimonianza»: Es 38,21; Nm 1,50.53 [bis]; 10,11).[23] L’insieme viene chiamato anche miqdāš («santuario»: Es 25,8) oppure soltanto qōdeš («santo», per esempio Lv 5,16; Nm 8,19). Il plurale miškānôt viene poi a designare genericamente il tempio, soprattutto nella poetica dei salmi (43,3; 84,2; 132,5.7)[24].

Tutto l’apparato, in quanto complesso mobile, accompagna gli ispostamenti degli israeliti, nelle loro vicende travagliate durante la peregrinazione verso la terra. Nel censimento di Nm 1-4 è posto al centro dell’accampamento ed è curato dai leviti. La nube sta sopra la dimora durante il cammino (Nm 10,11). Dopo l’ingresso nella terra, tenda e arca si trovano in Silo (1Sam 2,22), dove Giosuè aveva eretto la tenda del convegno (Gs 18,1). In seguito è l’arca ad assumere, quasi per sineddoche, le valenze di tutto il complesso: essa cade in mano ai filistei (1Sam 4) e dopo vari trasferimenti in città filistee (Asdod, Gat, Ekron) torna in possesso degli israeliti e viene trasferita a Kiriat-Iearim (1Sam 5,1-7,1). Della tenda si torna a parlare quando Davide introduce l’arca a Gerusalemme, per collocarvela al centro (2Sam 6, cfr. v. 17) e in quel contesto Dio stesso confessa di aver abitato in una tenda fin dal tempo dell’uscita dall’Egitto (2Sam 7,6). Infine, Salomone introduce nel tempio, da lui costruito, l’arca, la tenda del convegno e gli oggetti sacri contenuti in quest’ultima (1Re 8,4), in una sorta di ricongiungimento finale dove il modello si trasfonde nella realtà modellata. Infatti prima di questa cerimonia solenne Salomone offriva sacrifici a Gerusalemme solo davanti all’arca, ma si recava anche a Gabaon, per offrire sacrifici sull’altare locale (1Re 3,4-15, cfr. v. 15).

Abbiamo ricordato questo itinerario solo per rilevare che nella trafila della narrazione biblica le vicende che si svolgono nella terra riguardano prevalentemente l’arca e soltanto in Gerusalemme essa viene nuovamente collegata con una tenda. Si può supporre che solo di qui, e quindi a parte postea, derivi il collegamento tra le due realtà, che viene poi proiettato all’indietro con la costruzione dell’apparato nel deserto e quindi del modello[25]. Dobbiamo solo aggiungere, per quanto ci riguarda e in considerazione di quanto diremo più avanti, che nella tenda di Gerusalemme, anteriore al tempio, vi erano oggetti sacri, come l’olio con cui Sadoc ha unto re Salomone (1Re 1,39), e anche l’altare presso cui si rifugia Ioab (1Re 2,28). L’altro caso di rifugio presso un altare non prevede però una tenda (Adonia, in 1Re 1,50). Solo quindi in relazione alla tenda, e non al tempio (come già si è detto), si ha un collegamento con la funzione del rifugio.

Julius Wellhausen aveva affermato a suo tempo[26] che la dimora delineata negli scritti sacerdotali non rappresenta il modello, ma è a sua volta la copia del tempio di Gerusalemme. Ora, ciò può esesere vero nel senso che tra la struttura della dimora e quella del tempio salomonico vi sono molte somiglianze, e la prima è quasi l’immagine del secondo ridotto a metà. Ma vi sono anche differenze, per cui è meglio pensare che gli autori del modello si siano ispirati non solo al tempio di Gerusalemme ma anche a una tenda sacra che poteva non essere (o non essere più) a Gerusalemme. Oppure, il modello che nella sequenza cronologica della narrazione biblica viene proiettato sul tempio salomonico può essere servito piuttosto come guida per la ricostruzione dell’altro tempio, quello postesilico, al quale conferisce pertanto caratteristiche particolari[27]. Comunque, questo modello racchiude per lo meno due elementi che vanno sottolineati, in quanto si riversano sul tempio realizzato o che si vuole realizzare, e si pongono per così dire all’origine di una concezione del tempio che resta legata a un tipo particolare di religione.

Anzitutto, la dimora del deserto, che Mosè deve costruire in base al modello, va edificata «il primo giorno del primo mese» (Es 40,2), cioè il primo giorno dell’anno. In questa data, rilevante anche per altri aspetti relativi alle modalità della realizzazione, si può intravedere un collegamento tra la costruzione del modello (e ciò a cui esso è finalizzato) e la creazione: tempio e cosmo vegno a sovrapporsi e a identificarsi.

In secondo luogo, la dimora è dotata di santità o sacralità, perché suddivisa in tre zone sacre: esse ricordano e riproducono infatti la sacralità dello spazio in cui si svolgono gli avvenimenti del Sinai, dove avviene la teofania che nel suo scenario completo contiene anche la rivelazione del modello della dimora stessa. La dimora, come si è visto, comprende tre aree: il Santo dei Santi, il Santo e il cortile. Ora, il Sinai è un luogo delimitato, dove però il popolo non può salire sul monte (Es 19,12), ed è diviso in tre zone cui ineriscono gradi diversi di santità: la cima del monte, dove Dio parla e dove solo Mosè può salire (19,20; 34,2); le falde del monte, dove possono accedere i 70 anziani e i sacerdoti (Aronne con i figli Nadab e Abiu, che devono prostrarsi «da lontano»: così in 24,1 s., dove si riassumono peraltro i tre gradi di vicinanza); i piedi del monte, dove sono erette le 12 stele per le 12 tribù d’Israele e dove avviene la stipulazione dell’alleanza con il popolo (24,4-8). Quasi si rispecchia qui una prassi cultuale che sembra addirittura quella supposta nei libri delle Cronache, ma anche la liturgia del giorno dell’espiazione, descritta in Lv 16 per la fase del deserto, ma ovviamente in funzione del culto posteriore del tempio.

3.3. Il «secondo tempio»
3.3.1. Il contesto sociale e religioso della ricostruzione

Le questioni legate alla costruzione del cosiddetto «secondo tempio» sono numerose e riguardano non solo l’edificio cultuale ma anche l’ambiente sociale in cui esso può essere stato costruito o riedificato[28]. Va tenuto presente infatti che al ritorno dall’esilio non esisteva più una comunità politicamente strutturata e neppure una religione ufficiale che potesse garantire la sua coesione: la monarchia era caduta e il tempio precedente, come si è detto, era legato a quella struttura politica.

Il testo biblico fa dipendere la ricostruzione del tempio dal cosiddetto «editto di Ciro» (2Cr 36,22 s.; Esd 1,1-4 e cfr. 4,3), che però è formulato quasi come ricaduta o ricezione speculare di quanto Ciro stesso ha proclamato della propria magnanimità in campo politico e religioso nei confronti dei popoli subalterni[29]. È difficile definire in quali termini possa essere avvenuta un’autorizzazione persiana alla ricostruzione del tempio di Gerusalemme, ma pur supponendola in qualche misura va tenuto distinto, al riguardo, un punto di vista persiano da una prospettiva giudaica.

Dal lato persiano, poiché Gerusalemme rappresentava solo un centro minuscolo nella vasta satrapia della Transeufratene, pur nell’ambito della provincia di Yehud, il tempio poteva assumere funzioni amministrative, soprattutto sul piano economico (riscuotere tributi) e giudiziario. Il punto di vista religioso rimaneva secondario, ed è discutibile sino a che punto potesse coagularsi attorno al tempio una comunità con relativa autonomia economica e politica[30].

In ambito giudaico di per sé poteva anche non essere necessaria la ricostruzione del tempio: per decenni se ne era fatto a meno e potevano anche essere sorte divisioni interne e dissidi in seno alla comunità superstite, formata da coloro che erano rimasti nel territorio e quanti (pur gradualmente e non certo con migrazioni di massa) potevano essere tornati dall’esilio. Se si è deciso di ricostruirlo, più o meno con avallo persiano, è perché si è voluto attribuirgli un significato religioso: il tempio doveva diventare il centro e il simbolo di una comunità e di una sua espressione religiosa che però occorreva ridefinire[31]. Si è venuta a creare perciò una vera e propria teologia del tempio, costruita anche, come suo elemento concomitante ma essenziale, sul rimpianto e il lamento per il tempio distrutto. Lo si può constatare già dal semplice fatto che, mentre possediamo pochi dati sulla consistenza materiale e architettonica del nuovo complesso edilizio, si moltiplicano le testimonianze di concezioni progettuali e visioni ideali di un tempio e di una città che assumono risonanze cosmiche, e tra i fattori che caratterizzano questa visione religiosa emergono soprattutto la sacralità e la purità, con cui si evidenzia l’aspetto della separazione da uno spazio (e da un mondo) circostante.

Può sembrare strano, infatti, come la descrizione della ricostruzione dell’edificio e del complesso monumentale sia nei testi biblici abbastanza sobria, a differenza di quella del primo tempio, tanto che non riusciamo a ricavare un’immagine completa della struttura architettonica dell’insieme. La continuità con il tempio precedente è piuttosto vaga: sacerdoti e leviti lo avevano visto (Esd 3,12; cfr. anche 5,11). Dapprima, sotto la guida di Zorobabele e Giosuè, si costruisce un altare (Esd 3,2) e poi le fondamenta (3,12), e quando sotto Dario si narra del ritrovamento dell’editto di Ciro, si dice che questi avrebbe ordinato che le misure del tempio fossero di 60 cubiti di altezza e 60 di larghezza (6,3) e che nei muri fossero posti tre ordini di pietre squadrate e uno in legno (6,4). Quasi si potrebbe immaginare una costruzione quadrata o cubica. Per il resto, si parla poi solo della ricostruzione delle mura di Gerusalemme, operata da Neemia (Ne 2-3).

Queste affermazioni bibliche non trovano alcun sostegno, o almeno qualche rettifica, sul piano archelogico, dove su un orizzonte più ampio emerge soltanto che probabilmente in area giudaica e samaritana non si riscontrano templi con favisse contenenti oggetti di culto, e ciò potrebbe essere dovuto all’isolamento di quei territori oppure anche a una innovazione nelle pratiche cultuali[32]. I pochi dati biblici sono invece in sintonia con altri che esaltano il tempio in termini solenni e grandiosi, e che possiamo rileggere qui a conferma di una concezione religiosa che accentua l’elemento del sacro.

Prima di vedere più da vicino queste descrizioni di un tempio ideale, è tuttavia opportuno riflettere sul fatto che esso è certo collocato mentalmente in un luogo centralizzato, ma la centralizzazione non va pensata sempre in relazione a Gerusalemme. Nel Deuteronomio, dove appunto essa viene ripetutamente prescritta e regolarizzata[33], non si fa parola di questa città (il cui nome appare per la prima volta, nei testi biblici, solo in Gs 10,1) e neppure del tempio: secondo questo libro, il culto andrà praticato «nel luogo che il Signore avrà scelto per stabilirvi il suo nome» (cfr. 12,5.11 e anche i vv. 14.18.21.26) e v’è chi sostiene che Dt 12,1 possa applicarsi anche ad altra terra, quando diventa terra di YHWH[34]. Questo silenzio può essere letto in diversi modi: a meno di ritenere che la centralizzazione del Deuteronomio sia diversa da quella supposta nei libri dei Re (orientata su Gerusalemme), creando così una frattura nella storiografia deuteronomistica[35], si può pensare che nel decorso della narrativa biblica si prospetti qui un’anticipazione della sedentarizzazione in Gerusalemme e del suo luogo di culto, ma se si considera la storia della formazione dei testi è più verosimile che l’idea di centralizzazione sia anteriore e fondamentale e la sua applicazione a Gerusalemme e al tempio intenda conferire a questi luoghi una spiccata caratteristica di distinzione e di separazione.

3.3.2. Il tempio di Ezechiele (Ez 40-48)

La più celebre esaltazione del tempio ideale, inserito in un ampio progetto spaziale, è certamente quella di Ez 40-48, per la quale rileviamo qui soltanto alcuni elementi che interessano il nostro assunto.

La visione è mediata e si riferisce, più che all’oggetto diretto, a un suo modello: al profeta è mostrata una struttura che comprende un tempio, un territorio circostante che include una città, e più ampiamente la terra abitata dalle 12 tribù; Ezechiele dovrà poi comunicare alla casa d’Israele quanto ha visto[36]. La struttura viene descritta tramite misure, che sono rivelate anzitutto da un angelus interpres (40,3) e che il profeta dovrà poi trasmettere alla casa d’Israele, perché essa possa a sua volta misurare la pianta dell’insieme, ossia accoglierla come misura di confronto sul piano di uno spazio metaforico: in altre parole, con questa immagine metrica si vuole promulgare una «legge del tempio» (43,10-12). Sia il modello che le misure tradotte in legge richiamano dunque le disposizioni date a Mosè sul Sinai (si confronti 40,4 con Es 25,9). E il riferimento al Sinai è confermato dal fatto che la visione avviene su un monte altissimo, su cui sembra costruita una città (40,2); il monte assume qui i connotati di una montagna cosmica, che unisce cielo e terra e può essere considerata residenza divina[37]. Città e tempio vengono trasfigurati e assumono valori cosmici.

Le misure sono accurate, anche se creano problemi testuali, e si basano sull’unità di misura del cubito e della canna[38]. Se con un nostro itinerario procediamo dall’interno verso l’esterno, e consideriamo soltanto le strutture principali, troviamo il Santo dei Santi di 20 per 20 cubiti (41,3 s.), l’aula o Santo, lungo 40 e largo 20 cubiti (41,1 s.), l’atrio o vestibolo, lungo 20 e largo 12 cubiti (40,48 s.), un cortile interno quadrato, di 100 per 100 cubiti (40,47), e una cinta esterna quadrata, di 500 per 500 canne di lato (42,15-20). L’edificio, in sostanza, è come quello del tempio di Salomone, ma nell’ambito di tutto il complesso esso non si trova al centro, dove invece è collocato l’altare (43,13-17).

Tutta la struttura è situata in una porzione di terra lunga 25.000 e larga 20.000 cubiti, che costituisce una porzione sacra (qōdeš), in offerta al Signore (terûmāh l-YHWH, 45,1). Essa è suddivisa in due strisce: una prima (25.000 per 10.000 cubiti) riservata ai sacerdoti e in cui è il tempio (misurato in 500 cubiti per 500: 45,2 s.), e una seconda riservata ai leviti, anch’essa di 25.000 per 10.000 cubiti (45,5). Oltre a questa porzione ve n’è un’altra, lunga 25.000 e larga 5.000 cubiti, come possesso della città e appartenente a tutta la casa d’Israele (45,6). Il territorio occupa confini grandiosi (47,13-23) e viene suddiviso tra le 12 tribù, secondo una ripartizione precisa, descritta in 48,1-29, e infine tutta la visione termina con un elenco delle porte della città, il cui nome sarà YHWH šammāh, «Il Signore è là» (48,35)[39].

Se tutta l’area geografica assume i connotati di una terra ideale, al suo centro, che consiste nella zona dell’apparato templare, è tuttavia riservata una funzione particolare. La cinta muraria che lo racchiude serve infatti a «separare il sacro (qōdeš) dal profano (ḥōl)»: il suo compito corrisponde esattamente a quello che compete ai sacerdoti, i quali devono indicare al popolo «ciò che è sacro e ciò che è profano», «ciò che è impuro (ṭāmēʼ) e ciò che è puro (ṭāhôr)»: si confrontino tra loro 42,20 e 44,23, dove la prima coppia della contrapposizione viene ripresa con gli stessi termini, e nel secondo testo – si noti bene – al sacro corriponde «impuro» e al profano «puro». Questo compito dei sacerdoti è quello prescritto già dalle normative del Levitico (cfr. 10,10) e la sua violazione viene biasimata in Ez 22,26. Inserendo l’area templare in queste categorie, si introduce e si insinua l’idea che il tempio può essere «profanato», per cui anche la distruzione del tempio salomonico può essere intesa come profanazione: questa è infatti la causa che ne ha determinato la fine secondo 2Cr 36,14[40], a differenza di 2Re 25 (e cfr. anche Ez 7,22.24; Is 43,28; 47,6; Lam 2,2; Sal 74,7; tale sarà considerata anche in Dn 11,31 la devastazione operata da Antioco IV Epifane)[41].

Il parallelo che si riscontra in Lv 10,10, Ez 22,26 e 44,23 va preso così come è formulato ed è significativo proprio per questo: il sacro è connesso all’impuro e il profano[42] al puro.  È l’accostarsi a ciò che è sacro che pone fuori dell’ordinario e rende impuro[43]. E d’altra parte ciò che è profano rappresenta la situazione normale. Si può quindi comprendere perché ciò che è profano diventi ciò che è comune (così i «pani» in 1Sm 21,5, contrapposti ai «pani sacri») e propriamente, tuttavia, esso non si definisce in se stesso, ma in connessione al sacro per negationem.

Inoltre, e soprattutto, questo rilievo assunto dal concetto di purità e di impurità[44], legato alla sacralità del tempio, fa sì che l’immagine spaziale che si ricava dalla visione di Ezechiele contribuisca a creare una diversa concezione della religione d’Israele, anche se tale concetto non è esclusivo in Israele, ma è legato all’idea del tempio anche in Babilonia[45] e in altri ambienti[46]. Con Ezechiele tuttavia, se si inserisce la sua concezione della purità nella storia del tempio israelitico, bisogna rilevare che il senso di colpa per la distruzione del primo tempio non deriva tanto dalla coscienza di una trasgressione di una legge in termini etici (ribellione, iniquità, durezza di cuore, non ascolto della predicazione profetica), ma viene avvertita come una profanazione. Ne consegue che una nuova Tora si esprime ora in termini di purità rituale, che comporta una separazione, almeno in termini di prevenzione; ciò giustifica pertanto la promulgazione di nuove norme per l’accesso al tempio (Ez 44,4-9) e, sempre in termini spaziali, la necessità di delimitare una porzione di terra riservata a sacerdoti e leviti (45,1-6). Il sacro viene qui ad esplicitare tutte le sue potenzialità divisorie[47].

Se tuttavia questa sorta di sacrailtà viene ricondotta alla sue originarie sorgenti immaginifiche, o al loro apice visivo, che è rappresentato dalla montagna cosmica, si può anche intuire perché essa venga quasi ad annullare se stessa in una prospettiva escatologica. È ciò che si legge infatti in Ap 21 s., dove la Gerusalemme celeste, che appare in una visione ove ancora una volta predomina l’assillo della misurazione, non possiede più un tempio, perché «il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio» (21,22)[48]. Si direbbe al riguardo che i confini del sacro diventano qui un asintoto all’infinito.  Il tempio diventa superfluo se il Signore che governa il mondo, cioè quel YHWH già apparso ad Ezechiele sul monte altissimo (Ez 40,2), assume egli stesso connotati cosmici, resi visibili dall’immagine spaziale della sua intronizzazione: in Is 66,1 s., dove il cielo è il trono e la terra lo sgabello dei suoi piedi, YHWH afferma infatti: «Quale casa mi potreste costruire? In quale luogo potrei fissare la mia dimora?»[49].

3.3.3. Il tempio, Gerusalemme e la terra in Aggeo e Zaccaria

Secondo la testimonianza del libro di Esdra, i profeti Aggeo e Zaccaria favoriscono la ricostruzione del tempio di Gerusalemme (5,1; 6,14), essendo stati chiamati a svolgere la loro missione nel secondo anno del re persiano Dario, ossia nel 520 a. C. (cfr. Ag 1,1; 2,1.10.20; Zc 1,1.7). Artefici della ricostruzione sono Zorobabele e Giosuè, cui spetta la funzione di guida rispettivamente in campo civile e religioso. Al di là del loro sostegno morale, questi profeti, o meglio i due scritti profetici che portano il loro nome, rivelano una concezione del tempio nella quale confluiscono considerazioni socio-politiche, di carattere economico, e aspetti teologici idealizzati, analoghi a quelli che abbiamo rilevato in Ez 40-48.

Da un lato si afferma infatti che la ricostruzione del tempio è garanzia di prosperità materiale, soprattutto nel settore dell’agricoltura (Ag 2,15-19; Zc 8,12), e che senza il tempio la terra non produce i suoi frutti (Ag 1,2-11). È possibile che con queste asserzioni si alluda effettivamente a una funzione sociale del tempio, in parte simile a quella del tempio salomonico, anche se rivestita di una connotazione teologica che emerge chiaramente sull’altro versante, dove si ritiene che il popolo sia impuro e tali siano anche le sue offerte (Ag 2,10-14, cfr. v. 13) e il nuovo tempio condurrà a una purificazione (Zc 13,1.9).

Come il tempio di Ezechiele, anche questo, sebbene collegato maggiormente a una riedificazione materiale immediata, viene «mostrato« e descritto in visione, con la mediazione dell’angelus interpres[50]: così in particolare nella prima visione di Zaccaria (1,8-17), con l’allusione alla misurazione tramite la «corda del muratore» (v. 16),  e nella terza, con il tentativo di misurare le mura di Gerusalemme, vano perché la città sarà talmente piena di uomini e animali da non poterli contenere in un perimetro prefissato e il Signore stesso fungerà da muro di fuoco (2,5-9).

Nella società che si formerà attorno a questo tempio, al sacerdozio spetta la preminenza rispetto al potere politico: tra Zorobabele e Giosuè tende a prevalere quest’ultimo, almeno secondo quanto emerge dal laborioso testo di Zc 6,9-15, nel quale probabilmente si parlava del dominio riservato a Zorobabele, ma una rielaborazione successiva ha tentato di far emergere Giosuè e con lui il sacerdozio[51].

La Gerusalemme restaurata sarà «città» fedele e il monte del Signore sarà «monte santo» (Zc 8,3). Non solo quindi si formerà una città ideale, contro cui non si leveranno nemici (12,1-13,6), ma in seguito a una lotta escatologica essa emergerà come baluardo da cui sgorgheranno acque abbondanti (14,8; cfr. le acque che escono dal tempio in Ez 47,1-12).

In definitiva, tutti questi elementi che caratterizzano lo spazio del tempio e della città, e le istituzioni che vi presiedono, comportano una sacralizzazione totale: è significativo che siano dichiarati sacri non solo i recipienti del tempio, ma anche quelli di Gerusalemme e di Giuda (14,20 s.) Si può concludere che il processo di sacralizzazione, facendo leva sul tempio, giunge qui alla sua manifestazione visiva più ampia e qualitativamente più alta[52].

3.3.4. Il tempio di Erode a confronto con le progettualità dei testi qumranici

L’ultima tappa di questa rassegna della storia del tempio dell’antico Israele ci porta a quello di Erode, che ricordiamo qui solo en passant sia per le caratteristiche che possono interessare questo nostro discorso sia per contrapporlo alle concezioni ideali coeve, che emergono soprattutto dai testi qumranici.

Il tempio di Erode recepisce, almeno in parte, l’ideologia della purità e della santità, che combina con interessi politici. Anche in questo caso, non ne possediamo una conoscenza diretta e dobbiamo perciò riferirci alla descrizione che ci ha lasciato Flavio Giuseppe (Antichità giudaiche 15,380-425; Guerra giudaica 5,184-247) e anche al trattato mishnico Middot, che in qualche modo, per la sua lunga e dettagliata descrizione, può essersi fondato su un ricordo più o meno lontano del complesso edilizio erodiano.

Da autentico sovrano ellenistico[53], Erode il Grande doveva conciliare tra loro le esigenze dei sudditi giudei residenti nel territorio del suo regno e di quelli dimoranti nei paesi della diaspora: a lui spettava cioè coordinare le peculiarità della religione tradizionale con gli stimoli culturali del mondo ellenistico, quali potevano esprimersi nella magnificenza dell’apparato architettonico cultuale. In questo senso possono spiegarsi i tempi lunghi in cui si sono protratti i lavori di ristrutturazione, che sono durati ben oltre la morte del sovrano: dal suo ventesimo anno di regno, quindi il 18 a. C., fino al 64 d. C. (cfr. anche i 46 anni di Gv 2,20, che si riferiscono ovviamente solo al tempo in cui viene collocato l’episodio del racconto evangelico). Ma soprattutto ne è testimone la grandiosità dell’insieme.

Sembra che Erode abbia voluto conservare le misure relativamente ridotte dell’edificio precedente, ma in compenso abbia ampliato enormemente l’area della zona sacra[54]. Inoltre, com’è noto, la separazione rispetto al «profano» si è venuta accentuando con la presenza di vari cortili (delle donne, degli israeliti, dei sacerdoti), mentre ai non giudei era vietato l’accesso all’area interna[55].

Di fronte a questo tentativo di salvaguardare la normativa religiosa della purità, inserita in una spazialità architettonica in qualche modo innovativa, la concezione di un tempio ideale che si ricava dai testi qumranici, a cominciare dal Rotolo del Tempio[56], insiste maggiormente sull’aspetto ideologico della sacralità. Il documento più esteso, appunto il Rotolo del Tempio (11Q 19), andrebbe studiato non solo assieme alla sua copia minore (11Q 20)[57], ma tenendo anche conto di tutti quei testi che parlano di una nuova Gerusalemme[58], ma qui ci limitiamo a sottolineare che in esso si accentua fortemente la purità del tempio, e per conseguenza della città e della terra, intendendo questa purità come una separazione fisica, come si deduce ad esempio dalla normativa sulle sepolture («non profanerete la vostra terra: XLVIII,10 s.).

Il tempio qui contemplato è circondato da 3 cortili: interno (XXXVI,1 – XXXVIII,11), intermedio con 12 porte, in cui tra l’altro non vi possono entrare, almeno temporaneamente, donne e bambini (XXXVIII,12 – XL,5, cfr. XXXIX,7), e uno esterno con altre 12 porte, destinato «agli stranieri che nacquero…» (XL,5 – XLV,2, cfr. XL,6). Norme precise regolano poi l’accesso a questo tempio, e anche alla città, dove neppure il cieco potrà entrare, «perché io, YHWH, abito in mezzo ai figli d’Israele per l’eternità» (XLV,14; XLVI,12; LI,7 s.). A motivo di questa presenza, i figli d’Israele devono santificarsi e non contaminarsi con ciò che è impuro (LI,6-10).

Ma il tutto è collocato in una prospettiva escatologica: «Santificherò il mio tempio con la mia gloria, poiché farò dimorare su di esso la mia gloria fino al giorno della creazione, quando creerò il mio tempio, stabilendolo per me per sempre, secondo il patto che feci con Giacobbe a Betel» (XXIX,8-10, con chiara allusione a Gen 28,10-22; 35,1-15). Questa proiezione nel futuro non solo può essere dovuta a una concezione di fondo, basata sulla natura stessa del tempio, ma contiene anche una qualche presa di posizione contro un tempio storico di fatto non riconosciuto. Ed è proprio per questo che se ne accentuano quelle caratteristiche visionarie che, soprattutto attraverso l’elemento della purità, ossia della separazione, ne definiscono la natura sacrale, conformemente al tipo di religione che si è venuta affermando a iniziare già da Ezechiele[59].

3.3.5 Santità dilatata ma concentrata sul tempio e su Sion

Attorno al tempio e a Gerusalemme si è costruita dunque una concezione della sacralità che trova in quelle due realtà spaziali anzitutto un punto di riferimento concreto, ma le cui risonanze tendono ad ampliarsi su orizzonti sempre più ampi.

Ritroviamo così questa esaltazione dei due poli di attrazione in numerosi altri testi, dove confluiscono diversi motivi variamente combinati[60]. Il tempio e Gerusalemme diventano il centro di uno spazio cosmico, ma attraverso una sorta di sconvolgimento bellico che conduce alla vittoria del «Signore degli eserciti». A sua volta, la vittoria comporta un giudizio «universale» che si protende in un futuro escatologico. La descrizione di questo procedimento tumultuoso utilizza elementi teofanici che, in quanto collegati con un monte, possono essere intesi come rievocazione e replica della teofania costitutiva del Sinai. Possiamo esemplificare il quadro generale con alcuni testi profetici e tre categorie o generi di salmi.

Tra i testi profetici ricordiamo Is 2,2-4 (= Mi 4,1-3: si accentua la prospettiva escatologica); 11,9; 24,23 (escatologia); 56,7 («casa di preghiera per tutti i popoli»); Gl 3,1-5 (spirito diffuso universalmente e salvezza escatologica); Is 54 e 60 (Gerusalemme in funzione centripeta).

Per i testi salmici iniziamo con i cosiddetti salmi di Sion: 24 (v. 3: salire sul monte, stare nel luogo santo; riflessi cosmici); 46 (v. 5: acque abbondanti, «la città di Dio, la più santa delle dimore dell’altissimo»; cfr. anche vv. 8 e 12); 48 (v. 2: città e montagna; v. 3: «monte Sion dimora divina»[61]; nei vv. 5-8 elementi cosmici e storici in simbiosi; cfr. anche vv. 12-15); 76 (v. 3: tenda di Dio in Salem, in Sion la sua dimora; il salmo celebra Dio giudice, cfr. v. 10: «quando Dio si alza per giudicare»); 84 (abitare nella casa del Signore [vv. 1-6.8.11], dove risiede il «Signore degli eserciti» [vv. 4.13], cui si tende come meta di un pellegrinaggio che comporta anelito [v. 3], pianto [v. 7] e cammino [v. 8]); 87 (Sion fondata sui monti santi [v. 1] e sorgente per tutti i popoli [v. 7]); 122 (casa del Signore [v. 1] in Gerusalemme, città unita e compatta [v. 3], dove sono i troni del giudizio [v. 5], e a cui si augura la pace [vv. 6-9]); 137 (dalla lontana Babilonia si ricorda Sion [v. 1]; in terra straniera, o meglio su suolo straniero,  è impossibile cantare i suoi canti [vv. 3 s.] e dimenticarla [vv. 5 s.]).

Vengono in secondo luogo i salmi di intronizzazione o di YHWH re (che si possono riunire sotto l’insegna della proclamazione YHWH mālak, «YHWH regna»): 29 (salmo teofanico: si veda l’atrio santo [v. 2][62] e la gloria proclamata in un tempio che può essere contemporaneamente in cielo e in Gerusalemme [v. 9]); 47 (trono [v. 9] e re universale [v. 8]; anche qui l’intronizzazione avviene in un tempio che è insieme celeste e terrestre); 75 (Dio giudice universale); 93 (Signore re universale sulle forze cosmiche, ad esaltazione della «tua casa» cui si addice la santità: v. 5); 96 (con il parallelo 1Cr 16,23-33; giudice universale su elementi cosmici e sui popoli con i loro dei, con riferimento al santuario: vv. 5 s.9); 97 (universalismo e Sion: v. 8); 98 (il Signore viene a giudicare la terra, ricordandosi della sua fedeltà alla casa d’Israele: v. 3); 99 (il Signore in Sion è eccelso su tutti i popoli [v. 3] e tutti sono invitati a prostrasi davanti alla sua santa montagna [v. 9]).

Da ultimo si vedano i salmi regali: 2 (il soggetto divino che prende la parola al v. 6 annuncia: «Io stesso ho stabilito il mio sovrano sul Sion, mia santa montagna»[63]); 18 (con il parallelo 2Sam 22; teofania [vv. 8-18] e vittoria [vv. 32-51); 20 (per il re che parte per la guerra si invoca aiuto dal santuario e dall’alto di Sion: v. 3); 21 (incoronazione e vittoria [cfr. vv. 2.6]); 45 (nell’ambito di un probabile canto nuziale sia augura al re un trono eterno: v. 7[64]); 72 (un re che verrà, e a cui è affidato un potere universale); 89 (il re universale identificato con Davide, a cui si promette alleanza e fedeltà da parte divina); 101 (il re o principe ideale fa il ritratto di se stesso e nella sua attività di governo promette di estirpare ogni male dalla città del Signore: v. 8]); 110 (il re-messia e il suo sacerdozio: il potere emana da Sion [v. 2][65]); 132 (nel ricordo dell’arca e dei suoi spostamenti come santuario portatile, si afferma che il Signore ha scelto Sion come sua residenza e luogo del suo riposo duraturo: vv. 13 s.); 144 (celebrazione di vittoria ottenuta con l’intervento di una possente teofania: cfr. vv. 5-7)[66].

La santità resta dunque trasferita, prevalentemente ancora con immagini spaziali, ma viene assorbita anche da altre realtà diremmo astratte, che sono tuttavia fondamentali per la tradizione religiosa giudaica. Come esempio possiamo accennare, in ambito sapienziale, all’insegnamento del sapiente, che in Sir 24,30 s. è inteso come un canale che esce da un fiume, entra in un giardino irrigandolo, e nuovamente si trasforma in fiume e anzi diventa un mare. Ciò può ricondursi al fiume che esce dalla parte orientale del tempio di Ezechiele (Ez 47,1-12, cfr. anche Sal 46,5 e in applicazione più ampia Sal 36,10; 65,10)[67]. Si potrebbe quasi intravedere qui quella sostituzione del tempio e del suo culto che si è venuta affermando con  l’insegnamento rabbinico posteriore[68].

E infatti soprattutto la Tora assume di fatto le stesse funzioni del tempio, come si può dedurre forse già dal famoso detto di Pirqe Avot 1,2, attribuito a Simeone il Giusto: «Su tre cose il mondo sta: sulla Tora, sul culto (ʻavōdāh) e sulle opere di misericordia»[69]. Si discute se per ʻavōdāh si debba intendere il culto del tempio, ma l’accostamento alla Tora risulta comunque significativo[70] e anche le opere di misericordia vengono interpretate nella tradizione rabbinica in funzione espiatrice, in sostituzione del tempio[71].

Possiamo tuttavia rimanere ancora in ambito spaziale mostrando come la sacralità si esprima in quello che potremmo chiamare il «motivo del santuario», e come quest’ultimo si applichi all’episodio della chiamata di Mosè al Sinai, presso il roveto ardente, dove Dio ammonisce il destinatario della visione con queste parole: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo dove tu stai  è suolo santo!» (Es 3,5). Consideriamo attentamente alcuni elementi del racconto.

Già l’apparizione in un lembo di terra ben definito ne ricorda altre simili, che avvengono in luoghi particolari: Giacobbe a Betel (Gen 28,16-19), «l’uomo» che lotta con Giacobbe presso lo Iabbok (Gen 32,23-33, cfr. v. 25) e anche l’angelo del Signore che appare a Gedeone presso il terebinto di Ofra (Gdc 6,11 s.).

Il verbo usato per «avvicinarsi» (qārab) può assumere un significato sacrale, designando un ingresso solenne e rituale (cfr. Es 12,48; 16,9; Lv 9,5.7 s.; 1Sam 14,36; Ez 44,15), e lo stesso si può dire anche del verbo «stare» (ʻāmad), sebbene in misura minore (cfr. Sal 134,1; il popolo «sta/si tiene» lontano dal monte: Es 20,18.21).

Si dice espressamente che il luogo è «terra santa», più propriamente «suolo santo» (ʼadmat-qōdeš), usando la stessa espressione che già abbiamo trovato in Zc 2,16.

Per evidenziare più concretamente il fatto che si tratti di suolo santo si comanda a Mosè di togliersi i sandali, come già aveva ordinato «il capo dell’esercito del Signore» a Giosuè, prima della conquista di Gerico (Gs 5,15)[72], la quale a sua volta viene descritta con forti connotazioni rituali (Gs 6,1-6).

Il santuario è qui in un luogo desertico, collegato al monte Oreb al v. 1, ma Dio indica poi come segno che deve autenticare la missione di Mosè il fatto che «servirete Dio su questo monte» (v. 12). Nel contesto del libro dell’Esodo si può pensare che si alluda qui al monte Sinai, quello della teofania del cap. 19: certo, l’espressione è generica e fa problema, ma l’accostamento al Sinai può essere facilitato dall’assonanza tra il nome con cui è designato il cespuglio presso cui avviene questa apparizione nel deserto (seneh, vv. 2-4, tradotto di solito con «roveto» per influsso del latino della Vulgata, che ha usato rubus) e l’espressione «deserto del Sinai» (midbar sināy) di 19,1 s.,  situato «presso il monte» (neged hā-hār, 19,2). Per il nostro intento, che riguarda la sacralità dello spazio in cui avviene l’apparizione, anche la semplice ambientazione nel deserto risulta significativa, ma il collegamento con il «monte», e tanto più con il «monte Sinai», può richiamare la sacralità del tempio di cui abbiamo parlato sopra, soprattutto in relazione al suo modello. Ancora una volta, è l’immagine di una realtà spaziale che serve a veicolare l’estensione della sacralità, nelle forme specifiche della sua applicazione traslata.

 

  1. Sacralità e luoghi di asilo

4.1. Sacerdoti e leviti

Il settore in cui si può constatare meglio l’estensione della sacralità all’ambito spaziale è quello dei luoghi di asilo, che vengono individuati soprattutto nelle città di rifugio. Poiché però queste ultime ricevono il loro marchio sacrale dal fatto di essere inserite tra le città levitiche, è necessaria qualche premessa sul levitismo e il sacerdozio.

Non essendo possibile qui affrontare la complessa questione della storia delle istituzioni sacerdotali veterotestamentarie, ci limitiamo ad alcune osservazioni, soprattutto in relazione alla posizione dei leviti in alcuni testi che sembrano rispecchiare la situazione del postesilio[73].

Anzitutto, è interessante constatare che nelle leggi del Deuteronomio si parla dei leviti come di un gruppo che abita nelle città degli israeliti e ha bisogno di assistenza, al pari degli orfani, delle vedove e dei forestieri (cfr. 12,12.18; 14,27.29; 16,11.14; 26,11-13). Una delle ipotesi formulate al riguardo ritiene che i leviti provenissero dal nord, e che siano stati poi integrati nella società e nella prassi cultuale di Giuda. Tuttavia questo inserimento non risulta molto chiaro, soprattutto perché bisogna tener presente che essi sono anche associati ai sacerdoti: al riguardo, però, va notato che nei testi biblici si usano due espressioni diverse, «sacerdoti e leviti» e «sacerdoti leviti», e si potrebbe ritenere che questa seconda, usata prevalentemente nel Deuteronomio e in Ezechiele, intenda collegare maggiormente i leviti alla tribù di Levi.

A questa situazione va aggiunto il fatto che in Ezechiele, lungo la linea genealogica che risale ad Aronne, si dà la preminenza ai sacerdoti figli di Sadoc (cfr. 40,46; 43,19; 48,11), che vengono chiamati «sacerdoti leviti figli di Sadoc» e sono scelti perché rimasti fedeli quando i figli d’Israele si erano allontanati dal Signore (così in 44,15). Tuttavia, nello stesso tempo, ai leviti è riservata una posizione subordinata e il loro servizio è limitato ad alcune prestazioni nel tempio, per il fatto che «si sono allontanati da me nel traviamento d’Israele e hanno seguito i loro idoli» (44,10). Si nota cioè una tensione[74] che sembra derivare da un tentativo di riorganizzare il culto del tempio, che assegna ai leviti una posizione inferiore rispetto ai cosiddetti «sacerdoti leviti», discendenti di Sadoc. Mentre prima dell’esilio le funzioni sacerdotali che gravitavano attorno al tempio salomonico erano subordinate al potere politico, ora esse assumono una funzione preminente e autonoma, pur dovendo dipendere sempre in qualche modo dal governo persiano.

Ma questa ambiguità terminologica può anche dipendere dal fatto che si è cercato di inserire le istituzioni e i personaggi sacerdotali in un quadro genealogico coerente, all’interno di un Israele ideale suddiviso in 12 tribù. Tutti i sacerdoti discendono infatti da Aronne (e la linea di Sadoc attraverso suo figlio Eleazaro), ma Aronne, fratello di Mosè, tramite il padre Amram e il nonno Keat, risale a sua volta a Levi, uno dei figli di Giacobbe e capo di una tribù: si vedano le genealogie di Es 6,16-26 e 1Cr 5,27-41; 6,35-38. Si può capire perciò perché Aronne, quando compare per la prima volta nei testi biblici come fratello di Mosè, sia detto «il levita» (Es 4,14).

Se però i leviti fanno parte di un personale cultuale di secondo grado in Ezechiele, altrove assumono funzioni rilevanti: spiegano la legge al popolo (Ne 8,7 s.) e secondo i libri delle Cronache (quindi in una rievocazione grandiosa posteriore) ben 24.000 tra loro, sui 38.0000 censiti da Salomone, esercitano il compito di «scribi e giudici» (1Cr 23,4)[75].

Nella tradizione biblica, com’è noto, ai leviti (s’intende in quanto discendenti di Levi) è riservato uno statuto speciale: ad essi non viene assegnato un territorio nella spartizione eseguita da Giosuè, mentre in compenso si prevedono per loro «città levitiche» (Gs 21). La spiegazione di questo trattamento speciale è di natura teologica, ma non sarebbe azzardato supporre che nel sottofondo di questa situazione, in apparenza di privilegio, sopravviva la condizione sociale originaria del gruppo levitico, per quanto oscura e ipotetica essa rimanga sul piano della ricerca storica. E ad ogni modo, si può dedurre che la normativa che regola la posizione e le funzioni dei leviti sia artificiosa e derivi da una società che si ritiene fondata su istituzioni sacrali che traggono la loro legittimazione da un apparato cultuale incentrato sul tempio e di qui irradiano una qualche sacralità anche altrove, come appunto avviene per alcuni luoghi particolari e alcune città.

 

4.2. Luoghi di asilo

Può essere sorprendente ma, come si è già accennato, nei testi dell’Antico Testamento il tempio non figura come luogo di asilo, o per lo meno non se ne parla in questi termini. Solo per un’epoca tardiva (II sec. a. C.), e in un’occasione particolare, in 1Mac 10,25-45 si riporta una lettera di Demetrio che, contendendo il trono ad Alessandro Bala, figlio di Antioco V, e in concorrenza con lui che già aveva inviato uno scritto ai giudei, concede privilegi a questi ultimi; in questa lettera si dichiara Gerusalemme santa (aJgi/a) ed esente da decime e tributi (v. 31) e che chiunque si rifugia nel tempio e nella sua zona, «con debiti da rendere al re o per qualunque motivo, sarà dichiarato libero con quanto gli appartiene nel mio regno» (v. 43). Di questi fatti e della stessa lettera, con le medesime concessioni, parla anche Flavio Giuseppe (Antichità giudaiche 13,35 ss. e lettera di Demetrio in 48-57), che chiama Gerusalemme «città santa e inviolabile (po/lin iJera\n kai\ a¶sulon)» (§ 51) e aggiunge più avanti che «tutti coloro che si rifugiano nel tempio di Gerusalemme o in qualsiasi altro luogo che da esso prenda nome, perché hanno debiti verso il re o per qualche altro motivo, siano liberati e i loro beni siano lasciati indenni» (§ 56). Ma il tempio figura qui come luogo di rifugio anzitutto per chi è in debito economico verso il re e non è chiaro che cosa includa la clausola allegata (pavvvvvn pra/gma in 1Mac 10,43 e di’ a¶llhn aijti/an in Antichità giudaiche 13,56[76]). In questo contesto, possiamo però accennare anche al sommo sacerdote Onia che secondo 2Mac 4,33 s. si rifugia a Dafne in un luogo inviolabile (eijß a¶sulon to/pon), ma Andronico, luogotenente del re Antioco, sollecitato da Menelao, lo fa uscire ejk touv ajsu/lou e lo uccide[77].

4.2.1. La legge generale (Es 21,13 s.)

Il diritto di asilo viene regolato da una norma che nel suo contesto rettifica o precisa ulteriormente la pena di morte prevista per l’omicidio in linea generale: «Colui che colpisce un uomo causandone la morte, sarà messo a morte» (Es 21,12). Il testo che segue subito dopo si struttura in due formulazioni e riguarda l’omicidio involontario. Se l’uccisore non ha teso insidia, ma Dio (vale a dire ciò che noi chiameremmo casualità) gli ha fatto incontrare l’altro, «io ti fisserò un luogo dove potrà rifugiarsi» (v. 13)[78]. Se invece egli aveva premeditato di uccidere con inganno, «allora lo strapperai anche dal mio altare, perché sia messo a morte».

Si può notare che l’uso della  prima persona («io ti fisserò» al v. 13, e anche il «mio altare» al v. 14) costituisce un’eccezione nel contesto, dove le leggi e le relative sanzioni sono formulate in terza persona. Ciò potrebbe indicare che la norma sull’omicidio involontario è stata inserita secondariamente in quella principale[79], e forse questo fatto potrebbe avere una certa rilevanza se si volesse ricostruire una storia del diritto di asilo nell’antico Israele, soprattutto se si ritiene che questa restrizione della norma generale voglia regolare la vendetta di sangue[80].

Mentre al v. 13 si parla genericamente di un «luogo» (māqôm), al v. 14 viene detto che esso può essere costituito da un «altare» (mizbēaḥ), una struttura cioè che fa assumere al rifugio la caratteristica di luogo sacro. Inoltre, la norma non dice nulla su come si possa stabilire se l’omicidio sia stato volontario o involontario e quindi come di fatto il diritto di asilo possa venire applicato nei singoli casi.

4.2.2. Due applicazioni anomale

Sequesta è la norma generale, dobbiamo constatare che in due testi in cui si narra della sua applicazione si riscontra una qualche anomalia.

4.2.2.1. Il caso di Adonia (1Re 1,50-53)

 Adonia, figlio di Agghit, una delle mogli di Davide, si era autoproclamato re per succedere a lui (1Re 1,5-10) ma poi Davide aveva scelto Salomone (1,11-27), che quindi era stato consacrato re (1,28-40). Per paura, Adonia «andò ad aggrapparsi ai corni dell’altare», chiedendo che Salomone giurasse di non farlo uccidere (vv. 51 s.). Il fatto viene riferito a Salomone che però usa clemenza e ordina di far scendere Adonia dall’altare; quest’ultimo va allora a prostrasi davanti al re, che gli dice di tornare a casa sua.

Ora, Adonia non è un omicida, e se si ritiene che qui sia applicata la legge di Es 21,13 s. bisogna riconoscere che la si interpreta lato sensu. Si potrebbe tutt’al più intravedere una qualche pena inflitta ad Adonia proprio perché ha cercato un rifugio, se nell’ordine che Salomone gli dà subito dopo di tornare a casa sua si leggesse un’intimazione a ritirarsi a vita privata[81]. Adonia, comunque, non viene messo a morte. Piuttosto, viene fatto uccidere in seguito da Salomone, ma perché ha chiesto in moglie Abisag la Sunammita, tramite Bersabea, madre del re (2,25).

Adonia si rifugia dunque presso un altare. Se si segue la narrazione biblica, si può supporre che esso fosse quello situato nella tenda costruita da Davide quando aveva introdotto l’arca a Gerusalemme (cfr. 2Sam 6,17)[82]. Si tratta dunque di un santuario, dove sembra anche che l’altare sia collocato in posizione elevata, se si specifica che Salomone ordina di «far scendere» Adonia da quel luogo (v. 53)[83].

4.2.2.2. Il caso di Ioab (1Re 2,28-34)

Il generale Ioab si era schierato con Adonia (e non con Assalonne) e dopo che Adonia era stato fatto uccidere da Salomone, per paura «fuggì nella tenda del Signore e si afferrò ai corni dell’altare» (1Re 2,28). Salomone invia allora Benaia, figlio di Ioiada, a ucciderlo. Dapprima Benaia intima ad Adonia di uscire ma, al suo rifiuto, riferisce la cosa a Salomone che ordina di uccidere ugualmente il rifugiato[84], e l’ordine viene eseguito (v. 34).

Qui si tenta in un primo momento di rispettare la norma di Es 21,14 (lo strappare dall’altare) ma poi la si infrange perché l’uccisione avviene presso l’altare stesso. Si cerca di giustificare l’infrazione dicendo che così si vendica il sangue sparso da Ioab quando aveva ucciso Abner e Amasa (vv. 31-33), e anzi Ioab, per questo, deve essere sepolto «nella sua casa, nel deserto» (v. 34)[85], per poter così sparire per sempre. Ci si vuole appellare alla norma e possibilmente applicarla, facendo uscire Ioab dal luogo sacro, ma di fatto la si trasgredisce palesemente proprio nelle sue intenzioni, cioè salvaguardare l’inviolabilità del luogo sacro.

In realtà, si tratta qui di una vera e propria vendetta di sangue: Ioab viene ucciso perché egli stesso aveva assassinato due persone, Abner a Amasa[86]. Così facendo, sembra che si voglia eliminare dalla casa di Davide tutto ciò che può apparire una colpa, in modo che con Salomone vi sia «pace per sempre da parte del Signore» (v. 33)[87].

4.2.3. Città di asilo e città levitiche

Le città di rifugio o asilo (ʻārê hammiqlāṭ, cfr. Nm 35,6; Gs 20,2)  sono strettamente collegate alle città levitiche, e anzi ne fanno parte[88]. Se la normativa che ne regola il funzionamento resta distinta e specifica, negli elenchi esse compaiono infatti come vere e proprie città levitiche e, ancora una volta, dobbiamo notare che Gerusalemme non figura in nessuna delle due categorie.

Le città levitiche sono riservate ai leviti per il fatto che essi non ricevono un loro territorio, e di questa eccezione si fornisce una spiegazione teologica, come già si è accennato: si pensa ad esempio a Gen 49,5.7, dove Levi e Simeone sono maledetti perché hanno aggredito i sichemiti per vendicarsi del rapimento della loro sorella Dina (Gen 34, cfr. vv. 25-31). Oppure, i leviti, in quanto sono membri della tribù di Levi ed esercitano funzioni sacerdotali, non hanno una terra in eredità (Nm 18,24; Dt 10,8 s.; Gs 13,33; 18,7). Si può ricordare anche la norma secondo la quale i leviti vengono presi dal Signore e a lui devono essere dedicati (nel senso di offerti) in luogo dei primogeniti, uomini e animali, che come tali devono essere riservati a lui, come si prescrive in Es 13,2.11-13 (cfr. Nm 3,12 s.41.45)[89].

Di fatto però i leviti, con le città levitiche loro assegnate, ricevono anche un territorio adiacente: secondo Nm 35,5 esso deve estendersi per uno spazio di 2.000 cubiti nelle quattro direzioni attorno ad ogni città, un’area quindi considerevole. La spiegazione teologica del mancato assegnamento di una terra è quindi sui generis e unisce assieme due fattori: l’elaborazione di un quadro genealogico del sacerdozio e del levitismo, di cui già abbiamo parlato, e la concezione della santità riservata a questa classe cultuale.

Il collegamento tra città di asilo e città levitiche, nelle liste che le elencano, lascia intravedere inoltre che ambedue vengono ad assumere un medesimo significato e dal punto di vista del processo redazionale dei testi subiscono lo stesso trattamento. Perciò, per quanto possa essere antica l’istituzione delle città di asilo, o dei luoghi di asilo più in generale, a noi interessa piuttosto rilevare il modo con cui esse vengono presentate nei testi attuali, e ciò vale anzitutto sul piano della datazione. Resta quindi vano il tentativo di una ricerca archeologica che vorrebbe stabilire la funzione delle città bibliche di asilo in base all’epoca della  loro origine o della loro ambientazione storica.

La datazione delle liste[90] veniva fatta risalire ad epoca antica (sec. VIII a. C. oppure sec. X, o prima ancora, cioè all’età del Tardo Bronzo) ma nel contesto attuale esse sono di ambiente sacerdotale postesilico e vanno collocate nel quadro di quella società ideale che i testi tentano di descrivere, partecipando quindi di quella sacralità e di quelle caratteristiche ideali che abbiamo visto applicate anzitutto al tempio, e che risultano qui trasferite semplicemente su altre aree spaziali concrete.

Tenendo presente dunque la connessione con le città levitiche, i testi relativi alle città di asilo restano collegati tra loro, in quanto quelli che ne dettano la normativa trovano  poi corrispondenza in quelli che ne riferiscono l’esecuzione, per cui possiamo constatare anche qui che ai primi viene attribuita una funzione di modello: alla legge segue l’applicazione fedele, come nel caso del modello del tempio nel deserto.

Le norme si trovano anzitutto in Nm 35, trasmesse a Mosè nelle steppe di Moab, dapprima per le città levitiche (vv. 1-8) e poi per quelle di asilo (vv. 9-34)[91]; queste ultime sono fissate qui in numero di 6, 3 al di qua e 3 al di là del Giordano (vv. 13 s.). Proseguendo, si trovano altre norme in Dt 19,1-13 per le sole città di asilo, precisando che devono essere 3 (vv. 2 e 7), ma se ne possono aggiungere altre 3 se si amplieranno i confini della terra (vv. 7-10). Ulteriore normativa è in Gs 20,1-6, trasmessa in questo caso a Giosuè e in riferimento a quella precedente: il numero non è precisato ma segue qui l’elenco come attuazione della norma (vv. 7-9).

L’esecuzione è narrata in Dt 4,41-43, un testo inserito alla fine del primo discorso di Mosè nel Deuteronomio (1-4), ma brevemente e solo per le 3 città transgiordaniche, quelle contemplate in caso di territorio ampliato in Dt 19,7-10. Ma se ne parla poi ampiamente al termine della distribuzione e della regolazione del territorio operata da Giosuè, sia per le città di asilo (Gs 20,7-9)[92] sia per quelle levitiche (Gs 21)[93], e queste ultime vengono definite solo accennando a un generico comando del Signore dato a Mosè (vv. 2 s.). Per completezza, dobbiamo aggiungere ancora l’elenco delle città levitiche in 1Cr 6,39-66, che racchiudono anche qui quelle di asilo.

Vediamo dunque più da vicino ciascuno dei due momenti.

La normativa, data per le sole città di asilo, prevede che esse servano da rifugio per l’omicida involontario, per proteggerlo contro il vendicatore del sangue (Nm 35,12), e si sofferma a descrivere i casi di omicidio volontario e involontario (vv. 16-20 e 21-28; cfr. anche Dt 19,4-13). L’omicida deve restare nella città finché non comparirà in giudizio davanti alla comunità (Gs 20,6). Non si può versare denaro di riscatto per consentire all’omicida di tornare nella sua terra (secondo una possibile lettura di Nm 35,32[94]). Si aggiunge anche una clausola secondo la quale l’omicida deve restare nella città di asilo fino alla morte del sommo sacerdote (Nm 35,28.32; Gs 20,6[95]). Essa in questo contesto è alquanto strana e poco chiara, e forse l’interpretazione che se ne può dare è che con la morte del sommo sacerdote si concede una specie di amnistia[96]. Più tardi, con Filone e la tradizione giudaica, si attribuirà invece a questa morte un valore espiatorio.

L’elenco delle città di asilo va estratto da quello delle città levitiche, se e dove sono indicate come tali. In Gs 20,7 s. esse figurano però a parte: Kedes in Galilea in Neftali, Sichem in Efraim e Kiriat-Arba, cioè Ebron, in Giuda; in Transgiordania Beser in Ruben, Ramot in Galaad in Gad e Golan in Basan in Manasse. Si ritrovano poi tutte in Gs 21, nella lunga lista delle città levitiche, che assommano a 48 (v. 41). Qui si presenta dapprima un numero complessivo di queste ultime, distribuite secondo i figli di Levi (vv. 4-8): ai Keatiti 13 e altre 10 per il resto dei Keatiti, ai figli di Gherson 13 e ai figli di Merari 12. Si prosegue poi elencando singolarmente le città, e qui appunto ricompaiono nuovamente quelle di asilo (Ebron v. 13, Sichem v. 21, Golan in Basan v. 27, Kedes in Galilea v. 32, Beser v. 36, Ramot in Gallad v. 38). Anche in 1Cr 6,39-66 si riscontra ancora (vv. 39-48) il numero di 48 città levitiche (13+10+13+12), cui segue un elenco dettagliato; tuttavia tra le 6 città di asilo solo 2 sono indicate espressamente come tali, cioè Ebron (v. 42) e Sichem (v. 52), mentre le altre non ricevono questa attribuzione (Golan in Basan v. 56, Kedes in Galilea v. 61, Beser v. 63 e Ramot in Galaad v. 65).

In conclusione, da questa panoramica possiamo dedurre due considerazioni che interessano direttamente il nostro tema generale.

1) Ci si può chiedere come mai il rifugio sia trasferito a città, se in precedenza poteva essere legato a luoghi sacri e quindi a vari santuari del territorio, come Betel, Sichem, Silo, dei quali però non si ha o non è rimasta più alcuna notizia per quanto riguarda questa loro eventuale funzione. Si ipotizza in proposito che l’abolizione dei santuari, con la centralizzazione a Gerusalemme, avrebbe fatto sorgere la necessità di fissare altri luoghi di asilo[97]. Ma la centralizzazione in Gerusalemme è fenomeno complesso e, come abbiamo detto sopra, la questione di Gerusalemme va tenuta distinta da quella della centralizzazione come tale, e d’altra parte resta pur sempre da domandarsi come mai Gerusalemme e il tempio non siano stati considerati luoghi di rifugio. Inoltre, i santuari locali sono sopravvissuti di fatto nella storia d’Israele, anche dopo che la loro abolizione narrata dai testi biblici (tra cui soprattutto quella operata da Giosia, cfr. 2Re 23) vorrebbe scomparsi.

2) In secondo luogo, la distribuzione delle città levitiche nei territori delle 12 tribù e per di più su un’area che include anche la Transgiordania, rispecchia una geografia ideale, quella di un Israele insediatosi nella sua terra all’inizio della sua vita sedentaria. Ovviamente, un’occupazione del territorio così raffigurata è impensabile in epoca postesilica, quando è ormai tramontata un’istituzione politica in grado di gestirla. Inquadrata invece nella prospettiva di quell’accentuazione e di quel trasferimento del sacro di cui abbiamo cercato di seguire l’evoluzione, questa concezione geografica testimonia efficacemente come la sacralità sia stata estesa a tutta la terra d’Israele e, in quanto immagine spaziale, possa divenire un punto di passaggio adeguato per altri trasferimenti potenziali: dal tempio alla terra e (quindi) al popolo che l’ha abitata[98]. Ma ciò indica anche che, se i riferimenti spaziali possono venir meno (il tempio distrutto, la terra perduta), i valori connessi alla sacralità originaria sono tali da risorgere pressoché inalterati in altre fasi storiche e in altre istituzioni suscettibili di accoglierla.

 

  1. Conclusioni

1) Se per sacralità di un tempio si intende una forma di concretizzazione spaziale della presenza divina, nel caso del tempio di Gerusalemme dobbiamo constatare un divario abbastanza ampio tra la realtà storica di quel complesso architettonico e il significato teologico che esso ha assunto appunto come simbolo e incarnazione di sacralità. Questa rilevanza appare proiettata retroattivamente sul cosiddetto primo tempio ed è ingigantita in riferimento al secondo. Se il primo è in stretta relazione con un assetto politico, il secondo assume un significato religioso che tende a definire una comunità o un popolo che proprio in questo centro essenziale di richiamo trova una propria identità e la motivazione su cui fondare una propria sopravvivenza.

2) La concezione della sacralità del tempio, così intesa e applicata, si esplica ad esempio nell’attribuire una risonanza profonda e grave alla distruzione del tempio. Tuttavia, per il fatto che l’attribuzione della sacralità avviene simbolicamente e attraverso l’immagine dello spazio, l’immagine stessa contribuisce a definire una religione. Questa religione particolare assume quindi i caratteri della sacralità spaziale in quanto risulta definita da una sorta di separazione dal resto, più di quanto le competa per sua natura (è questo il significato della purità, che caratterizza il tempio ideale di Ezechiele). E poiché il tempio rappresenta solo un’applicazione spaziale della sacralità, questa attribuzione resta valida anche per altre componenti della religione così definita. La sacralità vale pertanto anche per il popolo e per la Tora, oppure può ancora manifestarsi in altre realtà spaziali, come i luoghi e le città di rifugio. Va rilevato comunque che tutte queste forme e manifestazioni di sacralità, in quanto espressioni del sacro traslato e trasferibile, consentono a quella religione di sussistere anche senza tempio, pur professando i valori ad esso collegati.

3) Il sacro dei testi biblici veterotestamentari appare quindi nello stesso tempo come legame e come liberazione dal legame, in quanto sa trasferire altrove il significato del vincolo. Resta però da vedere come possa essere inteso il nuovo ancoraggio, o l’ambito di una successiva applicazione. È in questi termini che va affrontata, ad esempio, la questione del sacro nel Nuovo Testamento; essa risulterebbe troppo riduttiva se mirasse a spiegarne le varie manifestazioni soltanto come una trasposizione spirituale della sacralità veterotestamentaria: una qualche espressione concreta, seppure entro i canoni di un’interpretazione simbolica, deve rimanere, e pertanto la purità del Nuovo Testamento non può essere intesa soltanto come eliminazione di quella dell’Antico Testamento. Può essere significativo al riguardo il fatto che Paolo, quando parla della tensione tra la dimora attuale e il polo di convergenza escatologica (si direbbe il nuovo e ultimo centro di attrazione del sacro), usi ancora l’immagine della tenda (2Cor 5,1-4).

4) Questa natura del sacro trasferibile e applicabile, che si deduce dai testi biblici in cui si rispecchia l’immagine che l’antico Israele ha formulato di se stesso, si mostra aperta ad infinite applicazioni (ricordiamo che ogni luogo può divenire sacro) ma resta e deve restare identica  a se stessa nella propria struttura centripeta anche quando il sacro assume dimensioni cosmiche (ogni luogo sacro, in quanto tale, è centro di un universo). Ora, tra queste dimensioni cosmiche o universalizzanti possiamo prendere in considerazione anche quella della «laicizzazione» del sacro, se e in quanto possibile. Se «laico» può equivalere a «profano», dobbiamo ricordare che il profano non esiste senza il sacro (almeno per definizione lessicale), e allora bisogna chiedersi quali possano essere i nuovi contenuti di questa sacralità trasferita nel profano, e fino a che punto possa perdere i connotati della sua struttura normativa. Lo studio dei testi biblici ci rivela che i contenuti del sacro possono essere molteplici e riversabili l’uno nell’altro, ma conservano tra loro un rapporto analogico. E pertanto i contenuti sono relativi e possono andare perduti, ma la loro struttura portante dovrebbe rimanere immutata. Non è facile ritrovare, in una presunta applicazione «laica», contenuti che rispettino sino in fondo la struttura del sacro, e infatti sappiamo quanto siano numerose le ri-sacralizzazioni di contenuti laici, che risultano peraltro puramente retoriche e persino ridicole (gli assolutismi politici, la patria e il «sacro» suolo). Il desiderio di un tempio come topos (in qualunque forma lo si intenda) resta insopprimibile.

 

[1] Cfr. Immagini e simboli. Saggi sul simbolismo magico-religioso, Di fronte e attraverso 70, Jaca Book, Milano 1981, pp. 52s.

[2] Per il Vicino Oriente antico si veda M. B. Hundley, Gods in Dwellings. Temples and Divine Presence in the Ancient Near East, Society of Biblical Literature Writings from the Ancient World – Supplement Series 3, Society of Biblical Literature, Atlanta, GA 2013; K. Kaniuth – A. Löhnert – J.L. Miller (eds.), Tempel im Alten Orient. 7. Internationales Kolloquium der Deutschen Orient-Gesellschaft, 11.-13. Oktober 2009, München, Colloquien der Deutschen Orient-Gesellschaft 7, Harrassowitz, Wiesbaden 2013 (e in particolare pp. 85-102: F. M. Fales, The Temple and the Land). Si veda anche  la voce Temples and Sanctuaries, in D.N. Friedman et alii (eds.), The Anchor  Bible Dictionary VI, Doubleday, New York 1992, pp. 369-392 (con rassegne di Egitto, Mesopotamia, Siria-Palestina e mondo greco-romano, curate rispettivamente da W.A. Ward, J.F. Robertson, W.G. Dever e S. Guettel Cole). Valido è ancora E. Lipiński (ed.), State and Temple Economy in the Ancient Near East. Proceedings of the International Conference Organized by the Katholieke Universiteit Leuven from the 10th to the 14th of April 1978, Orientalia Lovaniensia Analecta 5-6, Katholieke Universiteit Leuven – Departement Oriëntalistiek, Leuven 1979, e per Israele: R. E. Clements, God and Temple. The Idea of the Divine Presence in Ancient Israel, Blackwell, Oxford 1965, e inoltre M. B. Hundley, Keeping Heaven on Earth. Safeguarding the Divine Presence in the Priestley Taberbacle, Forschungen zum Alten Testament 2/50, Mohr Siebeck, Tübingen 2011.

[3] Il tempio, pur legato allo spazio, può essere posto in relazione anche al tempo, nel senso che ambedue si rifanno a un concetto di separazione e divisione, e ciò indipendentemente dalla discussa e complessa derivazione di templum e tempus, termini che spesso sono stati ricondotti a uno stesso etimo, come si ricorda brevemente, ad esempio, in M. Eliade, Il sacro e il profano, Biblioteca di cultua scientifica 29, Boringhieri, Torino 1967, pp. 63-66.

[4] «[D]al momento che non c’è più il Tempio, tutti gli aspetti della Santità che da esso derivano diventano vaghi e confusi, alcuni di essi affondano in uno stato di santità solo latente, indicando niente più che una possibilità e un punto di partenza» (A. Steinsaltz, La rosa dai tredici petali, Collana «Schulim Vogelmann» 84, Giuntina, Firenze 20082, p. 63).

[5] Per altri luoghi santi, al di là di Gerusalemme, e la loro sacralizzazione, diversa  per ognuno di essi, cfr. Ł. Niesiołowski-Spanò, Origin Myths and Holy Places in the Old Testament. A Study of Aetiological Narratives, Copenhagen International Seminar, Equinox, London 2011.

[6] Traduzione di Ilaria Briata, tratta dalla sua dissertazione Dereḵ Ereṣ Rabbah e Dereḵ Ereṣ Zuṭa. Due trattati deuterotalmudici su come si sta al mondo (tesi di dottorato in Lingue e Civiltà dell’Asia e dell’Africa Mediterranea, Università Ca’ Foscari, Venezia 2015), p. 139.

[7] Mentre si dice espressamente, all’inizio del passo, che i gradi sono dieci, se ne elencano poi undici: la questione è affrontata brevemente in M. Bar-Asher, Biblical Language in Mishnaic Texts, in Id., Studies in Classical Hebrew. Edited by Aaron Koller, Studia Judaica 71, De Gruyter, Berlin – Boston 2014, pp. 81-94 (86-89). Cfr. anche Sh. Safrai, The Land of Israel in Tannaitic Halacha, in G. Strecker (ed.), Das Land Israel in biblischer Zeit. Jerusalem-Symposium 1981 der Hebräischen Universität und der Georg-August-Universität, Göttinger Theologische Arbeiten 25, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1983, pp. 201-215 (204).

[8] Cfr. Ch. Peri, Il regno del nemico. La morte nella religione di Canaan, Studi biblici 140, Paideia, Brescia 2003, pp. 79-92, spec. 87. Tuttavia sembra troppo speculativo il ricorso dell’autrice (pp. 87-91, cfr. anche 204) a G. Garbini (Note di lessicografia erbraica, Studi biblici 118, Paideia, Brescia 1998, pp. 130-135) per spiegare Is 28,10.13 interpretando qaw come linea orizzontale, ṣaw com linea verticale e taw come loro incrocio, collegando quest’ultimo con radici indoeuropee da cui deriverebbe anche templum.

[9] Ibi, pp. 197-200, spec. 197.

[10] Un collegamento tra creazione, diluvio e tempio, per quanto riguarda l’equilibrio instabile del mondo, si può ritrovare anche nel Testamento di Salomone, dove si afferma che i demoni sono impiegati da Salomone per la costruzione del tempio: ciò li rende meno mostruosi e contribuisce a porre ordine nel mondo, sebbene il fatto possa apparire paradossale, come si rileva in Th. Scott Cason, Creature Features: Monstruosity and the Construction  of Human Identity in the Testament of Solomon, in  «Catholic Biblical Quarterly» 77 (2015), pp. 263-279, spec. 269.

[11] Traduzione di Luigi Fusella in P. Sacchi (ed.), Apocrifi dell’Antico Testamento I, UTET, Torino 2006, p. 260.

[12] Il tema della città di Gerusalemme intesa centro dell’universo, com’è da aspettarsi, è molto studiato, ma si veda in particolare C. Houtman, Der Himmel im Alten Testament. Israels Weltbild und Weltanschauung, Oudtestamentische Studiën 30, Brill, Leiden – New York – Köln 1993 (in contesto più ampio); M. Poorthuis – Ch. Safrai (eds.), The Centrality of Jerusalem. Historical Perspectives, Kok Pharos, Kampen 1996 (pp. 217-228 per una sintesi: Ch. Safrai, The Centrality of Jerusalem: A Retrospect. Jerusalem – Truly the Navel of the World); L. I. Levine (ed.), Jerusalem. Its Sanctity and Centrality to Judaism, Christianity and Islam, Continuum, New York 1999 (e soprattutto pp. 104-119: Ph. S. Alexander, Jerusalem as the Omphalos of the World: On the History of a Geographical Concept); B. Janowski – B. Ego (eds.), Das biblische Weltbild und seine altorientalischen Kontexte, Forschungen zum Alten Testament 32, Mohr Siebeck, Tübingen 2001 (e pp. 3-26: B. Janowski, Das biblische Weltbild. Eine methodologische Skizze; pp. 503-509: K. Bieberstein, Die Pforte der Gehenna. Die Entstehung der eschatologischen Erinnerungslandaschaft Jerusalems); M. Tilly, Jerusalem – Nabel der Welt. Überlieferung und Funktionen von Heiligtumstraditionen im antiken Judentum, Kohlhammer, Stuttgart 2002.

[13] Per una prima informazione sulla storia (prevalentemente biblica) del tempio gerosolimitano e le fasi delle sue ricostruzioni e ristrutturazioni si veda la voce Temple, Jerusalem, di Carol Meyers, in D.N. Freedman (ed.), The Anchor Bible Dictionary VI, cit., pp. 350-369.

[14] Naturalmente le posizioni degli studiosi divergono su questo punto. Segnaliamo soltanto, ad esempio, che per Gershon Galil il racconto sarebbe composto dagli scribi di Salomone, pur con ampliamenti posteriori (Solomon’s Temple: Fiction or Reality?, in M. Avioz – E. Assis – Y. Shemesh [eds.], Zer Rimonim. Studies in Biblical Literature and Jewish Exegesis Presented to Professor Rimon Kasher, Society of Biblical Literature – International Voices in Biblical Studies 5, Society of Biblical Literature, Atlanta, GA 2013, pp. 11-131 [in ebraico]); per Gönke Eberhardt invece si deve supporre una lunga tradizione, che parte dall’epoca di Ezechia e si sviluppa sotto Giosia e nel postesilio, per esaltare coerentemente la funzione politica e religiosa della costruzione (Translating Politics into Religion: Theological Enrichment in 1 Kings 5-9, in D.A. Baer – R.P. Gordon [eds.], Leshon Limmudim. Essays on the Language and Literature of the Hebrew Bible in Honour of A.A. Macintosh, Library of Hebrew Bible – Old Testament Studies 593, Bloomsbury T & T Clark, New York 2013, pp. 77-96). Si mostra troppo ottimista un recente lavoro di Peter Dubovský (The Building of the First Temple. A Study in Redactional, Text-Critical and Historical Perspective, Forschungen zum Alten Testament 103, Mohr Siebeck, Tübingen 2015), nel quale ri ricostruiscono tre fasi di sviluppo edilizio del tempio salomonico, ma sulla base di un’analisi esegetica del testo biblico (1Re 6-7) che fa del racconto, pur distribuito lungo i suoi strati di composizione, quasi uno specchio fedele dell’evoluzione storica del complesso architettonico.

[15] Cfr. V. Hurowitz, I Have Built You an Exalted House. Temple Building in the Bible in the Light of Mesopotamian and Northwest Semitic Writings, Journal for the Study of the Old Testament – Supplement Series 115 / JSOT-ASOR Monograph Series 5, JSOT Press, Sheffield 1992.

[16] Oltre a quanto è contenuto in Es 25-31; 35-40, va ricordato che secondo 1Cr 28,11-19 Davide consegna a Salomone uno scritto di mano del Signore, che contiene il modello sia dell’architettura che degli arredi del tempio.

[17] Cfr. I. Oggiano, Dal terreno al divino. Archeologia del culto nella Palestina del primo millennio, Frecce 20, Carocci, Roma 2005, pp. 219-223; M. Liverani, Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, Storia e società, Laterza, Roma – Bari 2003, pp. 360-364.

[18] 1Re 8,12 s. del testo ebraico è situato dopo il v. 53 nella LXX; le divergenze del testo greco presentano però una diversa teologia del tempio e probabilmente non consentono di risalire a un testo ebraico da cui questa traduzione possa derivare; cfr. M. Rösel, Zur Rekonstruktion des Tempelweihspruchs I Reg 8,12f., in «Zeitschrift für die alttestamentliche Wissenschaft» 121(2009), pp. 402-417.

[19] Si coglie nel testo una preghiera a distanza, rivolta guardando nella direzione di un tempio gerosolimitano che sembra essere piuttosto quello di epoca postesilica (v. 48 e cfr. anche v. 44). Il testo di 1Re 8 potrebbe essere il risultato di diverse fasi redazionali, di cui l’ultima potrebbe collocarsi in epoca persiana, quindi in situazione di diaspora; cfr. ad esempio Th. Römer, Redaction Criticism: 1 Kings 8 and the Deuteronomist, in J.M. LeMon – K.H. Richards (eds.), Method Matters. Essays on the Interpretation of the Hebrew Bible in Honor of David L. Petersen, Society of Biblical Literature – Resources for Biblical Study 56, Society of Biblical Literature, Atlanta, GA 2009, pp. 63-76. Se l’ipotesi è valida, si può dedurre che la preghiera in direzione del tempio venga a sostituire il sacrificio celebrato in quel santuario, come ricorda brevemente lo stesso Römer in From Deuteronomistic History to Nebiim and Torah, in I. Himbaza (ed.), Making the Biblical Text. Textual Studies in the Hebrew and the Greek Bible, Orbis Biblicus et Orientalis 275, Academic Press, Fribourg – Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2015, pp. 3-18 (7).

[20] Sotto il re Manasse (2Re 21,1-9; 2Cr 33,1-9) e  così anche in occasione della «riforma» di Giosia (2Re 22-23; 2Cr 34-35); si veda anche Ozia/Azaria (2Cr 26,16-21) ed Ezechia (2Cr 29-30).

[21] Anche per i lavori di restauro, soprattutto per quelli di Ioas e più tardi quelli di Giosia, si deve tener conto di un fattore ideale che contrasta con la scarsa conoscenza che possediamo sul modo concreto di gestire i lavori; cfr. in proposito N. Na’aman, Notes on the Temple «Restorations« of Jehoash and Josiah, in «Vetus Testamentum» 64(2014), pp. 640-651.

[22] In 40,2.6.29 il Pentateuco samaritano del resto ha soltanto hammiškān, che indica ambedue, mentre la LXX in 40,2.6 ha skhnh/ touv marturi/ou e al v. 29 il testo maggiormente documentato riporta semplicemente skhnh/. In 40,7 si prescrive che il bacino debba essere collocato tra la «tenda del convegno» (soltanto ʼōhel môʻēd) e l’altare (dei sacrifici).

[23] Si veda anche ʼōhel hāʻēdût in Nm 9,15; 17,23; 18,2, che si può confrontare per analogia con ʼarôn hāʻēdût («arca della testimonianza») in Es 25,22; 26,33 s.

[24] Per questi dati lessicali si veda la voce miškān, curata da D. Kellermann, in G.J. Botterweck – H. Ringgren – H.-J. Fabry (eds.), Grande Lessico dell’Antico Testamento V, Paideia, Brescia 2005, coll. 416-424.

[25] La questione è in realtà assai complessa e andrebbe affrontata con uno studio delle tradizioni letterarie che sono confluite nel testo, dove la sequenza narrativa non risulta del tutto coerente in se stessa. Per una breve presentazione cfr. K. Koch, ʼōhel, ʼāhal, in G.J. Botterweck – H. Ringgren – H.-J. Fabry (eds.), Grande Lessico, cit., I, 1988, coll. 253-280, spec. 272-274.

[26] Si veda il suo Prolegomena zur Geschichte Israels, Reimer, Berlin 19056 (rist. De Gruyter, Berlin – New York 2001), p. 36.

[27] Per questa funzione di ponte tra i due templi, che può essere attribuita alla dimora, cfr. D. Markl, The Wilderness Sanctuary as the Archetype of Continuity Between the Pre- and the Postexilic Temples of Jerusalem, in P. Dubovský – D. Markl – J.-P. Sonnet (eds.), The Fall of Jerusalem and the Rise of the Torah, Forschungen zum Alten Testament 107, Mohr Siebeck, Tübingen 2016, pp. 227-251.

[28] Rinviamo semplicemente a una bibliografia essenziale: S. Jafet, The Temple in the Restoration Period: Reality and Ideology, in «Union Seminary Quarterly Review» 44(1991), pp. 195-251; R.P. Carroll, Textual Strategies and Ideology in the Second Temple Period, in Ph.R. Davies (ed.), Second Temple Studies: 1. Persian Period, Journal for the Study of the Old Testament – Supplement Series 117, Academic Press, Sheffield 1991, pp. 108-124; Id., So What Do We Know about the Temple? The Temple in the Prophets, in T.C. Eskenazi – K.H. Richards (eds.), Second Temple Studies: 2. Temple Community in the Persian Period, Journal for the Study of the Old Testament – Supplement 175, Academic Press, Sheffield 1994, pp. 34-51; P.R. Bedford, Temple Restoration in Early Achaemenid Judah, Supplements to the Journal for the Study of Judaism 65, Brill, Leiden 2001; J. Hahn (ed.), Zerstörungen des Jerusalemer Tempels. Geschehen – Wahrnehmungen – Bewältigung, Wissenschaftliche Untersuchungen zum Neuen Testament 1/147, Mohr Siebeck, Tübingen 2002 (in particolare pp. 40-60: K.-F. Pohlmann, Religion in der Krise – Krise einer Religion. Die Zerstörung des Jerusalemer Tempels 587 v. Chr.; pp. 92-107: H. Lichtenberger, Der Mythos von der Unzerstörbarkeit des Tempels); J.A. Middlemas, The Troubles of Templeless Judah, Oxford Theological Monographs, Oxford University Press, Oxford 2005; M.D. Knowles, Centrality Practised. Jerusalem in the Religious Practice of Jehud and the Diaspora in the Persian Period, Archaeology and Biblical Studies 16, Society of Biblical Literature, Atlanta, GA 2006; T. Wardle, The Jerusalem Temple and Early Christian Identity, Wissenschaftliche Untersuchungen zum Neuen Testament 2/291, Mohr Siebeck, Tübingen 2010 (capp. 2 e 3, pp. 13-226); J.M. Hallagan, Why Was the Second Temple Built?, in D. Burns – J.W. Rogerson (eds.), Far from Minimal. Celebrating the Work and Influence of Philip W. Davies, Library of Hebrew Bible / Old Testament Studies 484, T & T Clark, London – New York 2014, pp. 164-172.

[29] Il famoso «cilindro di Ciro» è il testo paradigmatico di questa propaganda; per una sua traduzione italiana si veda G.P. Basello, Il cilindro di Ciro tradotto dal testo babilonese, in G.L. Prato (ed.), Ciro chiamato per nome (Is 45,4): l’epoca persiana e la nascita dell’Israele biblico tra richiamo a Gerusalemme e diaspora perenne. Atti del XVII Convegno di Studi Veterotestamentari (Assisi, 5-7 Settembre 2011), in «Ricerche Storico Bibliche» 25/1(2013), pp. 249-259. L’ideologia persiana sembra aver influito anche sulla ricostruzione del tempio giudaico di Elefantina, riedificato sullo stesso luogo di un altro precedente: G. Granerød, The former and the future temple of YHWH in Elephantine: a traditio-historical case study of ancient Near Eastern antiquarianism, in «Zeitschrift für die alttestamentliche Wissenschaft» 127(2015), pp. 63-77.

[30] La teoria della «Bürger-Tempel Gemeinde», meglio nota come «Citizen-Temple Community», avanzata a suo tempo da Joel Weinberg a difesa di una certa indipendenza dal potere centrale persiano, è stata contestata da più parti; si veda la traduzione inglese di alcuni suoi studi in The Citizen-Temple Community, Journal for the Study of the Old Testament – Supplement Series 151, Academic Press, Sheffield 1992, e per una ripresa della questione, con soluzioni più differenziate, si veda J. Janzen, Politics, Settlement, and Temple Community in the Persian-Period Yehud, in «Catholic Biblical Quarterly» 64 (2002), pp. 490-510.

[31] Le ragioni a favore o contro la ricostruzione sono ben soppesate in I. Willi-Plein, Warum mußte der Zweite Tempel gebaut werden?, in B. Ego – A. Lange – P. Pilhofer (eds.), Gemeinde ohne Tempel / Community without Temple. Zur Substituierung und Tranformation des Jerusalemer Tempels und seines Kults im Alten Testament, antiken Judentum und frühen Christentum, Wissenschaftliche Untersuchungen zum Neuen Testament 118, Mohr Siebeck, Tübingen 1999, pp. 57-73. Contro il fatto che, secondo la Willi-Plein, la perdita del tempio non fosse avvertita (almeno prevalentemente) come problema teologico, si è pronunciato Christian Frevel, facendo riferimento alle Lamentazioni: cfr. il suo Zerbrochener Zier. Tempel und Tempelzerstörung in den Klageliedern (Threni), in O. Keel – E. Zenger (eds.), Gottesstadt und Gottesgarten. Zu Geschichte und Theologie des Jerusalemer Tempels, Quaestiones disputatae 191, Herder, Freiburg 2002, pp. 99-103 (100 s.).

[32] Così in I. Oggiano, Dal terreno al divino, cit., p. 213. Si veda anche su questo punto R. Schmitt, Continuity and Change in Post-Exilic Votive Practices, in Ch. Frevel – K. Psychny – I. Cornelius (eds.), A «Religious Revolution» in Yehûd? The Material Culture of the Persian Period as a Test Case, Orbis Biblicus et Orientalis 267, Academic Press, Fribourg – Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2014, pp. 96-109.

[33] Cfr. una ripresa recente della questione in F.E. Greenspahn, Deuteronomy and Centralization, in «Vetus Testamentum» 64 (2015), pp. 227-235, e B.T. Arnold, Deuteronomy 12 and the Law of the Central Sanctuary noch eimal, ibi, pp. 236-247.

[34] A. Schenker, La fine della storia di Israele ricapitolerà il suo inizio. Esesgesi di Is 19,16-25, in «Rivista Biblica» 43(1995), pp. 321-329 (326).

[35] È la tesi sostenuta da Rannfrid Irene Thelle  in Approaches to the «Chosen Place». Accessing a Biblical Concept, Library of Hebrew Bible / Old Testament Studies 564, T & T Clark, London – New York 2012.

[36] Cfr. M. Konkel, Architektur des Heiligen. Studien zur zweiten Tempelvision Ezechiels (Ez 40-48), Bonner Biblische Beiträge 129, Philo, Berlin 2001, compendiato in Id., Die zweite Tempelvision Ezechiels (Ez 40-48). Dimensionen eines Entwurfs, in O. Keel – E. Zenger (eds.), Gottesstadt und Gottesgarten, cit., pp. 154-179.

[37] T.A. Rudnig, Heilig und Profan. Redaktionskritische Studien zu Ez 40-48, Beihefte zur Zeitschrift für die alttestamentliche Wissenschaft 287, De Gruyter, Berlin 2000, pp. 37-42 (spec. n. 27 p. 39); J.D. Levenson, Theology of the Program of Restoriation of Ezekiel 40-48, Harvard Semitic Monographs 10, Scholars Press, Missoula, MT 1976.

[38] In Ezechiele il cubito è formato dai 6 cubiti ordinari (cm. 45) più 1, quindi 52,5 cm. (cfr. 40,5), mentre la canna è di 315 cm. Naturalmente queste misure, come quasi tutte le altre dei testi biblici, presentano sempre un margine di imprecisione. Si veda la «Tavola delle misure e delle monete» in La Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 2009, pp. 26-28.

[39] Anche il significato essenziale del tempio, quale segno spaziale di una presenza divina, viene ora trasferito alla città, che condensa in sé le valenze del sacro; cfr. S.J. Kim, YHWH Shammah: The City as Gateway to the Presence of YHWH, in «Journal for the Study of the Old Testament» 39(2014), pp. 187-207.

[40] La profanazione, attribuita ai capi, ai sacerdoti e al popolo, è espressa qui con il verbo ṭmʼ ed è contrapposta decisamente alla consacrazione (verbo qdš) del tempio, operata dal Signore a Gerusalemme.

[41] Per questi dati si veda F. Maas, ḥll profanare, in E. Jenni – C. Westermann (eds.), Dizionario Teologico dell’Antico Testamento I, Marietti, Casale Monferrato 1978, coll. 494-498, spec. 497.

[42] Non è certo facile definire ciò che è «profano» e anche la semantica del termine ebraico usato in questi testi è complessa: si veda, per una rassegna delle possibilità, W. Dommershausen, ḥll I, in G.J. Botterweck – H. Ringgren (eds.), Grande Lessico, cit., II, 2002, coll. 1029-1039.

[43] Cfr. P. Sacchi, Sacro/profano impuro/puro nella Bibbia e dintorni, Il pelicano rosso – Nuova serie 56, Morcelliana, Brescia 2007, pp. 27-118.

[44] Oltre a T.A. Rudnig. Heilig und Profan, cit., si veda J. Klawans, Purity, Sacrifice, and the Temple. Symbolism and Supersessionism in the Study of Ancient Judaism, Oxford University Press, Oxford 2006 (spec. capp. 4 e 5).

[45] Cfr. T. Ganzel – Sh.E. Holtz, Ezekiel’s Temple in Babyonian Context, in «Vetus Testamentum» 64(2014), pp. 211-226. Rispetto a Babilonia, tuttavia, l’impurità resta legata maggiormente al tempio, e non al demoniaco: I. Cranz, Pollution and the Demonic: Evaluating Impurity in the Hebrew Bible in Light of Assyro-Babylonian Texts, in «Journal of Ancient Near Eastern Religions» 14(2014), pp. 68-86.

[46] Ch. Frevel – Ch. Nihan (eds.), Purity and the Forming of Religious Traditions in the Ancient Mediterranean World and Ancient Judaism, Dynamics in the History of Religions 3, Brill, Leiden – Boston 2013.

[47] Per discrivere i vari aspetti di questa nuova religione resta valido e incisivo quanto ha scritto Samuel Terrien nella seconda parte del suo studio The Omphalos Myth and the Hebrew Religion, in «Vetus Testamentum» 20(1970), pp. 315-338 (332-338)

[48] Prima della fase escatologica, non si esclude un’altra visione del tempio, anch’esso misurato assieme all’altare, ma con esclusione dell’atrio, perché occupato dai pagani (11,1 s.). Per il tempio nell’Apocalisse, in connessione con le tradizioni precedenti, si veda R.A. Briggs, Jewish Temple Imagery in the Book of Revelation, Studies in Biblical Literature 10, Peter Lang, New York 1999.

[49] Ciò va al di là del semplice e ovvio fatto che YHWH può diventare egli stesso il tempio per gli esiliati, ma in sostituzione di quello di Gerusalemme (cfr. Ez 11,16).

[50] Si può certo discutere sino a che punto la mediazione visionaria sia dovuta a un genere letterario da cui si devono trarre i suoi canoni interpretativi oppure se risalga a una vera e propria esperienza oggettiva, in questo caso del profeta: a difesa di questa seconda ipotesi si è pronunciata recentemente Lena-Sofia Tiemeyer in una sua monografia a cui rinviamo anche per approfondire quanto ricordiamo qui solo per brevi tratti: Zechariah and His Visions. An Exegetical Study of Zecharia’s Vision Report, Library of Hebrew Bible – Old Testament Studies 605, Bloomsbury, London – New York 2015.

[51] Il testo parla di un «germoglio» (termine che è ritenuto titolo messianico) il quale riedificherà il tempio (v. 13); si parla anche di «corone» (così il testo masoretico) ai vv. 11 e 14 (sebbene in quest’ultimo il verbo sia poi al singolare), che la LXX intende però come una sola; questa corona deve essere posta sul capo di Giosuè (v. 11), mentre al v. 13 si afferma ancora che «un sacerdote siederà sul suo trono» (così il testo masoretico, mentre la LXX rende «e un sacerdote siederà alla sua destra», s’intende di colui che è sul trono, ossia il «germoglio»). Sembra insomma che il potere politico, attribuito al «germoglio», termine sotto cui si nasconde qui Zorobabele, si affianchi e anzi ceda il posto a quello spirituale, anche se in 4,14 si parla di «due unti/consacrati», che stanno allo stesso livello.

[52] Anche la terra in senso fisico acquista questa prerogativa: Giuda, che costituirà l’eredità del Signore, sarà su un «suolo santo» (ʼadmat haqqōdeš in Zc 2,16), come quello su cui  stava Mosè quando il Signore gli è apparso al Sinai (Es 3,5). Cfr. anche 2Mac 1,7, dove il greco ghv aJgi/a racchiude anche un significato politico.

[53] Sul piano edilizio ed architettonico Erode ha manifestato la sua grande simpatia per la cultura ellenistica non solo nel dare un nuovo assetto al tempio e alle sue adiacenze, ma anche nei numerosi monumenti che ha fatto costruire nel territorio da lui governato; cfr. E. Netzer, The Architecture of Herod, the Great Builder. With the Assistance of Rachel Laureys-Chachy, Texte und Studien zum Antiken Judentum 117, Mohr Siebeck, Tübingen 2006 (trad. ital.: L’architettura di Erode: il grande costruttore. Con l’assistenza di Rachel Laureys-Chachy. Presentazione e contributo di Dan Bahat, Bibbia e Terra Santa 8, Messaggero, Padova 2012). In memoria dell’archeologo Netzer la rivista Near Eastern Archaeology ha pubblicato nel fascicolo 77/2 del 2014 contributi di diversi studiosi sui programmi e le realizzazioni edilizie di Erode.

[54] In Middot (2,1) si parla del «monte del tempio» come territorio quadrato, con 500 cubiti di lato.

[55]  Per ulteriori informazioni, al di là di questi brevi accenni e tra la vasta bibliografia, si veda J. Magnes, The Archaeology of the Holy Land. From the Destruction of Solomon’s Temple to the Muslim Conquest, Cambridge University Press, Cambridge 2012, pp. 133-169.

[56] Sull’inserimento di questo testo nella storia del tempio si veda J. Maier, The Architectural History of the Temple in Jerusalem in the Light of the Temple Scroll, in G.J. Brooke (ed.), Temple Scroll Studies. Papers Presented at the International Symposium on the Temple Scroll Manchester, December 1987, Journal for the Study of the Pseudepigrapha – Supplement Series 7, Academic Press, Sheffield 1989, pp. 23-62.

[57] I due testi in traduzione italiana si trovano in F. García Martínez (ed.), Testi di Qumran. A cura di Corrado Martone, Bibbia – Testi e Studi 4, Paideia, Brescia 1996, pp. 270-303 e 303-309. Cfr. anche J. Maier, The Temple Scroll. An Introduction, Translation & Commentary, Journal for the Study of the Old Testament – Supplement Series 34, JSOT, Sheffield 1985.

[58] Alcuni sono molto frammentari, e in pratica vi si descrivono solo misure di edifici della città e le porte, con qualche elemento che riguarda il tempio. Si veda J. Maier, Die Tempelrolle vom Toten Meer und das «Neue Jerusalem»: 11Q 19 und 11Q 20, 11Q 32, 2Q 24, 4Q 554-555, 5Q 15 und 11Q 18. Übersetzung und Ertläuterung. Mit Grundrissen der Tempelhofanlage und Skizzen zur Stadtplanung, UTB für Wissenschaft 829, Reinhardt, Munchen 19973; cfr. anche S. W. Crawford, The Temple Scroll and Related Texts, Companion to the Qumran Scrolls 2, Academic Press, Sheffield 2000. Traduzione italiana in F. García Martínez (ed.), Testi di Qumran, cit., pp. 240-248.

[59] Si potrebbe prendere in considerazione, tra i testi qumranici, anche il cosiddetto Rotolo di Rame (3Q15), testo criptico che descrive una grande quantità di tesori disseminati in varie località, ma quanto mai difficile a decifrarsi. Nell’ipotesi che questi tesori siano da collegarsi al tempio di Gerusalemme, come propende una buona parte degli studiosi, riemergerebbe nuovamente, anche in questo periodo (il testo è del I sec. d. C.), la funzione economica del tempio storico, che coesiste accanto ai valori ideali sacrali che esso ha acquisito con la religione affermatasi nel postesilio. Per la connessione con il tempio di Gerusalemme cfr. gli studi raccolti in J. Brooke – Ph.R. Davies (eds.), Copper Scroll Studies, Journal for the Study of the Pseudepigrapha – Supplement Series 40, Sheffield Academic Press, London 2002. Il rotolo, che per la sua consistenza materiale è stato aperto con molta difficoltà, ed era stato pubblicato già nel 1960 da John Allegro, è stato restaurato e riedito più recentemente in D. Brizemeure – N. Lacoudre – É. Puech, Le rouleau de cuivre de la grotte 3 de Qumrân (3Q 15). Expertise – Restauration – Épigraphie. Présenté par Jean-Michel Poffet, Studies on the Texts of the Desert of Judah 55/1-2, Brill, Leiden 2006. Trad. italiana in F. García Martínez (ed.), Testi di Qumran, cit., pp. 716-720.

[60] Per tre esempi significativi cfr. M. McGlyn, Authority and Sacred Space: Concepts of the Jerusalem Temple in Aristeas, Wisdom, and Josephus, in «Biblische Notizen» 161(2014), pp. 115-140.

[61] La resa con «dimora divina» esprime su un piano traslato un’espressione geografica concreta: il testo ebraico con yarketê ṣāfôn la ritiene collocata nell’«estremo nord», sede appunto del dio Baal nella mitologia ugaritica.

[62] L’immagine edilizia è tuttavia introdotta dalla LXX e dalla versione siriaca, che sembrano far riferimento a un tempio celeste, mentre il testo ebraico parla soltanto di uno «splendore di santità» (hadrat qōdeš).

[63] Mentre il testo ebraico pone queste parole sulla bocca di Dio (cfr. YHWH al v. 2 e ʼAdōnāy al v. 4, con la variante YHWH), la LXX le fa pronunciare da un personaggio a lui subordinato («Sono stato posto re da lui su Sion, suo monte santo»).

[64] Al re viene attribuito addirittura l’epiteto «divino», espresso in forma sostantivale (ʼĕlōhîm, reso con oJ qeo/ß dalla LXX).

[65] Si potrebbe aggiungere anche il v. 3, se però si leggesse, in luogo dell’ebraico behadrê qōdeš («nello splendore di santità»), la variante beharrê qōdeš («sui monti della santità»), attestata in alcuni manoscritti, nonché in Simmaco e nello Iuxta Hebraeos di Girolamo.

[66] Anche l’intero salterio potrebbe essere letto come una sorta di pellegrinaggio che ha come meta l’abitazione in un santuario che assume sempre di più connotazioni escatologiche, e dove quindi la lode si esplica in una nuova Gerusalemme che traspone quella terrestre in una sfera celeste. Si spiegherebbe così meglio anche il fatto che gli ultimi salmi della collezione (tra cui anche il 144) siano fortemente dossologici. Una lettura di tal genere è stata proposta ancora recentemente in D. Santrac, The Psalmists’ Journey and the Sanctuary: A Study in the Sanctuary and the Shape of the Book of Psalms, in «Andrews University Seminary Studies» 52(2014), pp. 31-45 (anche in «Journal of the Adventist Theological Society» 25/1[2014], pp. 23-42).

[67] B. Ego, Der Strom der Tora. Zur Rezeption eines tempeltheologischen Motivs in frühjüdischer Zeit, in Ead. – A. Lange – P. Pilhofer (eds.), Gemeinde ohne Tempel, cit., pp. 205-213.

[68] All’insegnamento rabbinico, inteso come prosecuzione e sostituzione dei valori del tempio, vanno però anche associati i rimpianti o altre considerazioni; cfr. G. Stemberger, Reaktionen auf die Tempelzerstörung in der rabbinischen Literatur, in J. Hahn (ed.), Zerstörungen des Jerusalemer Tempels, cit., pp. 207-236.

[69] La traduzione italiana è tratta da A. Mello (ed.), Detti di Rabbini. Pirqè Avot con i loro commenti tradizionali, I classici dello spirito, Fabbri, Milano 1997, p. 52.

[70] S. Schreiner, Wo man Tora lernt, braucht man keinen Tempel. Einige Anmerkungen zum Problem der Tempelsubstitution im rabbinischen Judentum, in B. Ego – A. Lange – P. Pilhofer (eds.), Gemeinde ohne Tempel, cit., pp. 371-392.

[71] In tal senso le intende ad esempio Jochanan ben Zakkaj in Avot de-Rabbi Natan (versione A), 4 (riportato in A. Mello [ed.], Detti di Rabbini, cit., p. 53). Si tenga presente che questo trattato mishnico è una sorta di commento ai Pirqe Avot (cfr. G. Stemberger, Introduzione al Talmud e al Midrash, Tradizione d’Israele 10, Città Nuova, Roma 1995, pp. 312-315).

[72] La frase con cui si esprime il comando è identica nei due testi: in Gs 5,15 il testo ebraico ha soltanto qōdeš, con la variante qādôš, ma altre varianti premettono ʼadmat. Naturalmente gli esegeti si sono posti il problema della relazione tra i due testi e di come vada intesa l’eventuale dipendenza dell’uno dall’altro, sullo sfondo però di una critica letteraria ormai desueta, per la quale del resto, in mancanza di ulteriori evidenze, si poteva sfuggire al dilemma ritenendo che si tratti di un motivo noto e comune (cfr., ad esempio, M. Rose, Deuteronomist und Jahwist. Untersuchungen zu den Berührungspunkten beider Literaturwerke, Abhandlungen zur Theologie des Alten und Neuen Testaments 67, Theologischer Verlag, Zürich 1981, pp. 88-92).

[73] Un’analisi molto accurata e condivisibile sull’argomento si trova in J. Schaper, Priester und Leviten im achämenidischen Juda. Studien zur Kult- und Sozialgeschichte Israels in persischer Zeit, Forschungen zum Alten Testament 31, Mohr Siebeck, Tübingen 2000. Molto utile è anche I. Cardellini, I «Leviti» e il Tempio. Nuovi elementi per una rielaborazione storica, Cathedra, Lateran University Press, Roma 2002. Su posizioni più differenziate riguardo al conflitto tra sacerdoti e leviti e alla configurazione genealogica: H. Samuel, Von Priestern zum Patriarchen. Levi und die Leviten im Alten Testament, Beihefte zur Zeitschrift für die alttestamentliche Wissenchaft 448, De Gruyter, Berlin – Boston 2014.

[74] Si è persino ipotizzato che il dissidio tra sacerdoti sadociti e leviti abbia lasciato traccia nella composizione di qualche testo, che effettivamente sembra disorganico nella sua narrazione. Tale è ad esempio il caso di Core, discendente di Levi, che con Datan e Abiram, discendenti di Ruben, con altra gente e 250 uomini si ribella contro Mosè e Aronne in Nm 16: si veda ora una spiegazione della formazione letteraria del testo in J. Jeon, The Zadokites in the Wilderness: The Rebellion of Korach (Nm 16) and the Zadokite Redaction, in «Zeitschrift für die alttestamentliche Wissenschaft» 127(2015), pp. 388-411.

[75] La finalità di questa apparente armonia tra sacerdoti e leviti, che si può riscontrare nei libri delle Cronache, può essere variamente giudicata, e vi è anche chi la vede destinata ad esaltare l’unicità e la supremazia del proprio Dio: si veda M. Lynch, Monotheism and Institutions in the Book of Chronicles. Temple, Priesthood, and Kingship in Post-Exilic Perspective, Studies of the Sofia Kovalevskaja Research Group on Early Jewish Monotheism 1, Forschungen zum Alten Testament 2/64, Mohr Siebeck, Tübingen 2014. La tesi di Lynch, sostenuta soprattutto nel cap. 4 di questo suo lavoro (pp. 137-208), rischia però di trascurare una qualche dissonanza tra sacerdoti e leviti e non focalizza a dovere neppure il problema del monoteismo.

[76] Luigi Moraldi, di cui abbiamo riportato la traduzione del § 56, nel commentare «si rifugiano» afferma che «è il riconoscimento del diritto d’asilo, più ampio che in Es., 21,13 e segg.; Nm., 35,11-28», ma è solo un’ipotesi; cfr. Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche. A cura di Luigi Moraldi, II, Classici delle religioni – La religione ebraica, UTET, Torino 1998, p. 775 n. 12.

[77] L’autore di 2 Maccabei non sembra preoccuparsi del fatto che il luogo in cui Onia si rifugia sia pagano, poiché vale sempre il principio che la vita va preservata per quanto possibile: così in J.A. Goldstein, II Maccabees, The Anchor Bible 41A, Doubleday, Garden City, NY 1983, p. 239 (dove si ricorda anche che a Dafne vi era un tempio di Apollo e Artemide, considerato luogo di asilo).

[78] Più precisamente, il rifugiarsi è un «correre», un «fuggire» (yānûs).

[79] Cfr. M. Noth, Esodo, Antico Testamento 5, Paideia, Brescia 1977, p. 223.

[80] B.S. Childs, Il libro dell’Esodo. Commentario critico-teologico, Piemme Theologica, Piemme, Casale Monferrato 1995, p. 478.

[81] Si pensa però che non vi sarebbe qui alcun cenno di punizione, neppure quindi una condanna agli «arresti domiciliari»; si veda M. Noth, Könige, Biblischer Kommentar – Altes Testament IX/1, Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn 1968, p. 29.

[82] Il testo ebraico non dice di per sé dove si trovasse l’altare, ma è rilevante che il greco della recensione lucianea in 1Re 1,50 aggiunga che per aggrapparsi ai corni dell’altare Adonia sia andato eijß thvn skhnh\n touv kuri/ou.

[83] Il testo ebraico dice più incisivamente: «Il re Salomone comandò e lo fecero scendere (wayyōrīdūhû)», anche se la LXX, con il siriaco e la Vulgata, mantiene lo stesso soggetto («lo fece sendere»).

[84] Il greco della LXX cerca di attenuare alquanto l’atteggiamento di Salomone, in quanto in un’aggiunta al v. 29 fa chiedere a Ioab perché si sia rifugiato presso l’altare, e questi risponde che lo aveva fatto per paura del volto del re.

[85] Secondo 2 Sam 2,32; 23,24 la casa di Ioab dovrebbe trovarsi però a Betlemme.

[86] Ricordiamo il contesto storico e gli antefatti. Ioab è figlio di Seruia e fratello di Abisai e Asael. Abner uccide Asael ed è inseguito da Ioab e Abisai (2Sam 2,17-24). Abner, figlio di Ner, è generale di Saul e passa dalla parte di Davide, ma Ioab riferisce al re che Abner, con questa apparente adesione a lui, vuole solo ingannarlo; fa poi tornare Abner a Ebron e lo uccide per vendicare il sangue del proprio fratello Asael (2Sam 3,12-21.22-39). Amasa era stato posto a capo dell’esercito da Assalonne, in luogo di Ioab (2Sam 17,25), di cui è anche cugino, e Ioab poi lo uccide (2Sam 20,4-13).

[87] M. Noth, Könige, cit., p. 36.

[88] M. Staszak, Die Asylstädte im Alten Testament. Realität und Fiktivität eines Rechtsinstituts, Ägypten und Altes Testament 65, Harrassowitz, Wiesbaden 2006; R.L. Hubbard, Rest for the Way: Cities of Refuge and Cycles of Violence, in M. Zehnder – H. Hagelia (eds.), Encountering Violence in the Bible, The Bible and Modern World 55, Sheffield Phoenix, Sheffield 2013, pp. 165-177.

[89] Cfr. J.R. Spencer, Levitical Cities, in D.N. Freedman (ed.), The Anchor Bible Dictionary, cit., IV, pp. 310s.

[90] Si veda la rassegna delle varie posizioni in J.M. Hutton, The Levitical Diaspora (II): Modern Perspectives on the Levitical Cities Lists (A Review of Opinions), in M.A. Leuchter – J.M. Hutton (eds.), Levites and Priests in Biblical History and Tradition, Society of Biblical Literature – Ancient Israel and Its Literature 9, Society of Biblical Literature, Atlanta, GA 2011, pp. 45-81, e anche R.A. Young, Hezekiah in History and Tradition, Supplements to Vetus Testamentum 155, Brill, Leiden – Boston 2012, pp. 242 s. n. 34.

[91] Un’analisi dettagliata di Nm 35,9-34, in relazione agli altri testi cui qui accenniamo, e con deduzioni più ampie sul significato delle “leggi bibliche”, si trova ora in F. Cocco, The Torah as a Place of Refuge. Biblical Criminal Law and the Book of Numbers, Forschungen zum Alten Testament 2/84, Mohr Siebeck, Tübingen 2016, pp. 65-168.

[92] Il testo ebraico masoretico di Gs 20 non concorda sempre con quello greco della LXX, che è più ampio. Secondo una recente ipotesi, la LXX avrebbe tradotto un testo che concideva con quello dell’ebraico masoretico, ma gli ampliamenti successivi sarebbero dovuti all’intento di uniformarne il contenuto con la normativa di Nm 35; cfr. R. Müller – J. Pakkala – B ter Haar Romeny, Evidence of Editing. Growth and Change of Texts in the Hebrew Bible, Resources for Biblical Study 75, Society of Biblical Literature, Atlanta, GA 2014, pp. 45-58.

[93] Per Gs 21 cfr. M.W. Bartusch, Understanding Dan. An Exegetical Study of a Biblical City, Journal for the Study of the Old Testament – Supplement Series 379, Sheffield Academic Press, London 2003, pp. 98-108.

[94] Il testo, alla lettera, direbbe : «Non prenderete denaro di riscatto per fuggire alla città di asilo, per tornare ad abitare nella sua terra…». Sarebbe dunque il contrario di quanto ci si attenderebbe. Si potrebbe sciogliere questa sorta di brachilogia intendendo così: «Non accetterete denaro di riscatto per chi, essendo fuggito in una città di rifugio, vuole tornare ad abitare nella sua terra…». Si dovrebbe cioè leggere nell’ebraico, invece della forma infinitiva lānûs («per fuggire»), quella participiale lannās («per colui che si rifugia»).

[95] Nm 35,32 ha solo kōhēn ma il Pentateuco samaritano, assieme alla LXX e al siriaco, leggono anche hāggādôl, come al v. 28 e in Gs 20,6, e quest’ultimo aggiunge «che sarà in carica in quel tempo».

[96] Cfr. per esempio R.G. Boling – G.E. Wright, Joshua, The Anchor Bible 6, Doubleday, Garden City, NY 1982, p. 474 (a commento di Gs 20,6).

[97] Un accenno al problema in G. von Rad, Deuteronomio, Antico Testamento 8, Paideia, Brescia 1979, pp. 142 s.

[98] Cfr. T. Lorenzin, 1-2 Cronache, I libri biblici – Primo Testamento 30, Paoline, Milano 2011, p. 85 (a proposito di 1Cr 6,39-66, che «è un documento di una forma di estensione dell’atmosfera di santità nella terra di Israele»).