01
NOV
2017

Temple-II. In-depth: Il tempio nel primo Cristianesimo. Dalla decostruzione paolina alla ricostruzione costantiniana (Gateano Lettieri)

Abstract

The temple in early Christianity. From Pauline deconstruction to Constantinian reconstruction

This essay deals with the controversial relationship between the first three and a half centuries of Christianity and the “temple”. It focusses particularly on Paul and his identification of the new temple of God with the charismatic church of the believers, in whose community the only holy place – or, indeed, God`s presence – was then to be found. The Pauline paradigm will be considered in relation to the construction of a new public religion undertaken by Constantine, as recounted by Eusebius of Caesarea. The novelty of an absolute universal power which comes to believe in what was initially an apocalyptic and eschatological gospel is interpreted as a caesura and a momentous theological-political shift. Through this comparison of these two theological-political paradigms I hope to show the historico-religious contortions through which Christianity went in its first three centuries.

 

IL TEMPIO NEL PRIMO CRISTIANESIMO. Dalla decostruzione paolina alla ricostruzione costantiniana

Il rapporto con “il divino” non può che essere configurato attraverso una relazione antropologica con lo spazio, una localizzazione relazionale della sua potenza: “il divino” abita in un “altrove” che è al tempo stesso distinto da, confinante con e talvolta persino pericolosamente sconfinante nello spazio comune e quotidiano abitato, attraversato, rappresentato dagli uomini. La “funzione” stessa del religioso è quella di comunicare in qualche modo con il potere sovraumano, assicurando, attraverso la prossimità stabilita con esso, la sua efficacia benefica, confinandolo, limitando o acquietando il suo potere tremendo, terrificante, distruttivo (perché sempre il divino è connesso alla morte e il sacro che gli è proprio al sacrificio)[1], quindi garantendo il corpo sociale/politico e sacralizzando dispositivi di potere, ordini, strutturazioni gerarchiche. Il tempio[2] è, allora, un’antropologica, pragmatica macchina “in/quietante”, che costituisce lo spazio “sacro/santo”[3]. Questo spazio è tagliato, sacrificato, consegnato alla divinità, separato dal profano, quindi deputato ritualmente a ordinare “il mondo” [4], a mediare e acquietare, normalizzare ritualmente il rapporto con la potenza numinosa, comunque irriducibile e appunto tremenda. Attraverso il rito che localizza la potenza di un’entità sovraumana, questa si presta quasi a essere catturata, “presa in ostaggio” dai suoi devoti e dai loro sacrifici di “ingraziamento”, che confinando la sua presenza cercano di “addomesticarla”. Ne deriva una dimensione necessariamente politica della mediazione religiosa: il tempio è la scaturigine dell’ordine cosmico, i sacerdoti sono fondamento o funzione del potere politico. Insomma, il potere religioso ha sempre una funzione politica, così come il potere politico ha, almeno nelle culture non secolarizzate (e persino in queste, per molti aspetti), sempre una valenza religiosa: entrambi si fanno carico di entrare in rapporto, di mediare, rappresentare la potenza sovraumana, per ordinare, assicurare, potenziare la comunità, come, in tempo di crisi, di interpretare gli eventi, dando alla comunità risposte rassicuranti, compatibili con il sistema stabilito, eventualmente ridefinendo nuove relazioni con il divino.

Queste constatazioni del tutto banali – tanto meno significative, quanto più generiche e disancorate da contesti storico-religiosi determinati[5] – non intendono mettere in alcun modo in discussione la dimensione culturale, storica, politica (piuttosto che naturale o fenomenologicamente permanente) dell’identificazione dello spazio sacro[6]; sicché a seconda delle diverse condizioni antropologiche, storiche, sociali, economiche e delle diverse prospettive interpretative dei soggetti storici che “frequentano” un tempio determinato, il rapporto con esso può essere tradizionalmente ribadito, riconfigurato, ma anche messo in discussione, radicalmente innovato, persino negato. Il tempio rappresenta un potentissimo strumento di costruzione culturale, una specifica e quasi ubiqua opzione pragmatica, non l’invariabile fondamento onto-cosmologico, metafisico dell’uomo, senza il quale egli sarebbe condannato a perdersi nel caos, nell’insignificanza nichilistica. Sicché è il rituale, sempre governato da un interesse pragmatico, a costituire e significare lo spazio sacro[7]. Ma come si pone il desiderio del singolo nei confronti del sistema sacro/santo, nel suo rapporto tra rito, tempio e ordine sociale costituito? È mera funzione riassorbita nella sua struttura soggettivizzante, che gli conferisce identità, prassi e ruolo codificati, o non rappresenta una sua variante “libera”, un’immaginazione creativa, aperta a diverse possibilità di relazione con “il sistema sacro/santo”, divenendo persino un suo possibile punto di innovazione, reinvenzione o resistenza, crisi, effrazione?

Detto altrimenti, il religioso è soltanto confinabile all’interno dell’economico? Il tempio è soltanto il centro di un rapporto di contrattazione, di scambio, d’investimento assicurativo, anche quando sono coinvolte le “realtà” massimamente ambigue, per molti aspetti inafferrabili del sacro/santo, del sacrificio e del dono (che è sempre esposizione e soggezione al rischio, all’ignoto)? Qual è il rapporto, appunto, tra dono, sacrificio – dell’animale, dello straniero, del nemico? Dell’altro o di sé? –, dispendio, persino, e sistema di culto del sacro/santo? Economia e dono coincidono, essendo questo stesso un calcolo d’interesse differito? E il tempio che li gestisce è finalizzato soltanto alla tutela e al potenziamento dell’identità culturale di un gruppo o è locus come radura, apertura a uno spazio ulteriore, a un’eccedenza indisponibile, che anziché assicurare, espone all’esperienza del rischio assoluto? In effetti il sacro come esposizione al pericolo mortale del “Totalmente altro”[8] pare davvero luogo critico ricorrente dell’umano: esperienza del limite invalicabile, rappresentazione della morte stessa come verità ultima della vita; esposizione a quel caos/possibilità infinita della differenza, irriducibile in qualsiasi forma si tenti di identificarlo/a; pensiero grato del manifestarsi della pretesa di un senso, della proiezione di un desiderio che non si vuole costretto dall’ordine dato, di un dono che è esperienza di alterità, capace di comandare/generare relazioni etiche. Pertanto, il tempio è soltanto luogo di una violenza identitaria, di costituzione di gerarchie e di disciplinamento, o è anche luogo di ambiguo incontro fusionale, persino testimonianza e/o ostacolo di un’esigenza di dischiusura, ove il sacro/santo impone ai suoi cultori aperture all’altro (al “prossimo”, allo straniero, al nemico!) sempre più radicali e rischiose? Rispetto a queste confuse domande, non esiste risposta univoca, sicché davvero pare che, circolarmente, dimensione economico/pragmatica, sempre storicamente condizionata, e dimensione fenomenologico/metafisica, etica e veritativa del tempio o del sacro/santo che lo visita/lo eccede, si escludano e si convertano nel loro opposto.

Si pensi, per uscire da queste generiche astrazioni, a un potente esempio storico, pure qui inevitabilmente indicato tramite una brutale semplificazione: il Dio biblico, quell’idea generica dietro la quale si nascondono processi storici, storie di desiderio e conflitti ideologici incredibilmente complessi. Egli fonda identità ed espone a una radicale alterità, capace di mettere radicalmente in crisi lo stesso sistema religioso rivelato attribuitogli. Egli rimane, infatti, eccedente rispetto alla sua immanenza templare e al sistema sacrale (alla Legge) connessole, sicché “oltre” al e anzi “prima” del rapporto tra sacro/santo e mondo, egli dischiude un rapporto tra sacro/santo e storia. Il “Santo” prende dimora nel Tempio (cf. 1Re 8,10-16 )[9], colloca la sua Presenza nel suo “santuario” e in particolare nel tabernacolo che ne è al centro; ma, d’altra parte, Dio mantiene la sua trascendenza rispetto ad esso (cf. 1Re 8,27), la quale può essere sia topologica, “celeste”, sia storica, rivelativa, rinviando a una nuova teofania o forma escatologica di avvento/presenza[10], insomma a un nuovo “Tempio”. Proprio la natura eminemente storica, che qualifica il rapporto tra il Dio biblico e lo spazio sacro per eccellenza che ne assicurerebbe la presenza, rivela come questo sia realtà niente affatto cosmica, bensì eminentemente pragmatica, polemica, “ermeneutica”, ridefinita da rivalità (si pensi a quella tra il tempio samaritano sul Garizim e quello giudaico di Gerusalemme), violenze, distruzioni, stratificazioni religiose e cultuali. A Gerusalemme, la basilica cristiano-romana del Santo Sepolcro si sostituisce e si “sovrappone” al Tempio giudaico distrutto dai romani, per poi essere presa, “tolta” e risettata dai musulmani, quindi disputata dalle diverse confessioni cristiane[11].

Massimamente problematico risulta, quindi, il rapporto cristiano con il luogo sacro religiosamente riconosciuto, in quanto esso è caratterizzato da un evento traumatico fondativo, che irrompe a spezzare il legame con il culto rituale finalizzato ad assicurare la presenza di Dio nel suo Tempio elettivo: sicché i kerygmata protocristiani, pur rimanendo indelebilmente giudaici, assumeranno tutti – più o meno intenzionalmente e accentuatamente – un’irrinunciabile configurazione destabilizzante, desacralizzante, atopica, rispetto alla loro matrice. E in quanto atopica, niente affatto rassicurante, ma al contrario “follemente” scandalosa, estatica[12], sussistente soltanto nella pretesa di essere invasata manifestazione di uno Spirito[13], che soffia altrove rispetto ai luoghi religiosi deputati. Se, infatti, per la tradizione religiosa giudaica, soltanto il Tempio e la Legge sono i criteri d’identificazione dell’autentica rivelazione di Dio, come può essere “santificato” messianicamente un uomo crocifisso dai sacerdoti del Tempio come eversore/distruttore del Luogo sacro/santo e come maledetto dalla Legge?

La crocifissione di Cristo introduce una radicale crisi della presenza teofanica: con la morte del figlio dell’uomo profeta (“il” messia?) del regno pare deposta la stessa realtà carismatica della comunità gesuana. Se la fede nella resurrezione postula il ri/avvenire della presenza, questa è nuovamente tolta nell’annuncio dell’ascensione, seppure disseminata nella pentecoste comunitaria dello Spirito. Cristo è il morto/risorto, l’assente/presente nel suo Spirito, l’asceso/disseminato: dove e come può avere luogo, dove e come può essere riconoscibile? Quale tempio, quale spazio/realtà fisica può “contenerlo”? Infatti, seppure la comunità apostolica continua a frequentare il Tempio (attendendovi il ritorno del Risorto?), almeno per alcune correnti gesuane (gli ellenisti di Stefano, i discepoli di Paolo e “Giovanni”) e per le tradizioni fissate nei racconti sinottici della crocifissione, il trauma della morte e il miracolo della resurrezione rivelano il centro stesso del Tempio come ormai vuoto. Quale luogo teofanico rimane, allora? Come segnare antropologicamente l’effettiva presenza dello Spirito, il reale av-venire della nuova teofania? Inoltre, essendo il Tempio luogo di un rituale, senza il quale non si dà comunità[14], quale rituale caratterizza le comunità protocristiane?

Per i battezzati in Cristo, la memoriale “presenza” eucaristica (attestata nelle lettere paoline e nei vangeli sinottici) pare divenire il sostituto dell’effimero Tempio di Gerusalemme e del suo culto[15]. Il rito eucaristico è al tempo stesso fisico ed evanescente, realissimo – offerta di pane e di vino – e carismaticamente disseminato in ciascuna comunità, sempre escatologicamente avveniente e sempre tolto/consumato/mangiato. Inoltre, il continuare a farsi sacrificale corpo comunitario del Cristo spirituale/volatilizzatosi pare contrarre in sé il paradosso della dislocazione minima, dell’atopia kenotica della nuova presenza protocristiana: lo Spirito di Cristo avviene nell’unico nuovo Luogo ovunque dislocato della comunità sacra/santa, sociologicamente sfuggente, liquida, “anfibia”, eppure conformatasi nella fruizione della comunione eucaristica. Spingendosi alla metà del II secolo, si pensi alla più antica descrizione della liturgia cristiana a noi pervenuta, quella di Giustino: rivelativa (e storicamente del tutto ovvia) è l’assoluta assenza di qualsiasi riferimento al luogo fisico, all’edificio di culto o tempio tolto nella chiesa dei fedeli[16]. L’eucarestia avviene ovunque convergano i fratelli, sicché il luogo liturgico è in un caso indicato da un semplice avverbio (ejvnqa)[17], nell’altro come mera, neutra e contingente, mobile collocazione (ejpiV toV aujtov, «nello stesso [luogo]») dell’assemblea (sunevleusiò)[18], del convenire dei fedeli, presentati come corpo del Logos, nutrito dal pane e dal vino sacrificali[19].

La portata e la complessità delle questioni qui trattate costringeranno a una notevole genericità, imponendo di ridurre davvero al minimo riferimenti e approfondimenti bibliografici. Verranno pertanto proposte tesi e analisi forse grossolane, che si spera possano almeno evidenziare alcuni fenomeni macroscopici (il locus, il “bosco” visto dall’alto), che una pur sempre doverosa analisi minuta dei singoli contesti (del singolo albero del “bosco”) correrebbe forse il rischio di perdere di vista[20].

 

1. “Abbattere” il Tempio/togliere il velo nello Spirito: la comunità paolina Topos aperto e Immagine vivente

Incentrando il suo kerygma di salvezza nella fede nel Cristo crocifisso come maledetto dalla Legge e risorto nello Spirito, Paolo radicalizza la tensione profetica tra antica alleanza nella Legge e nuova alleanza nello Spirito[21], restituendola come dialettica tra economia di condanna e morte ed economia di dono e rivificazione (Lex/littera occidens e Spiritus vivificans). Nella persona di Gesù morto/risorto, l’economia della morte è tolta nell’economia del dono, segnando il fine/la fine della Legge (cfr. Rm 10,4) e dell’elezione esclusiva di Israele, cui si sostituisce l’eccedente, gratuita elezione universale dello Spirito di Cristo (cf. 2Cor 3-4). Ma se la Legge di Mosè è, nel Dono dello Spirito di Cristo, divenuto «il tolto (toV katargouvmenon)» (2Cor 3,7-14), il provvisorio svanito e svuotato di valore teofanico, ritengo che anche il Tempio di Gerusalemme sia, per Paolo, tolto dal Messia morto/risorto. Con la resurrezione di Gesù, Dio ha infatti operato una vera e propria translatio topologica: l’unico Luogo della presenza di Dio è divenuto lo Spirito di libertà, sicché come i credenti in Gesù non sono più sottomessi alla schiavitù di una Legge esteriore e mortifera[22] (cfr. Rm 6,1-14; 7,1-6) – che rimetteva la giustificazione all’opera impossibile di un uomo comunque mortale e peccaminoso –, così essi non hanno più un Tempio “esteriore”. Il Tempio diviene immanente in loro, nel loro stesso corpo mortale:

 

«Non sapete che siete tempio di Dio (ναὸς θεοῦ ἐστε) e che lo Spirito di Dio abita in voi (το πνεῦμα τοῦ θεοῦ οἰκεῖ ἐν ὑμῖν;)? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio (ὁ ναὸς τοῦ θεοῦ ἅγιον ἐστιν), che siete voi (οἵτινές ἐστε ὑμεῖς)»[23].

«Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo (oujk oijvdate oJvti taV swvmata uJmw=n mevlh Cristou= ejstin;)? […] Chi si unisce al Signore forma con lui un solo Spirito (oJ deV kollwvmenoò tw=/ kurivw/ eJVn pneu=ma ejstin) […] O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi (toV sw=ma uJmw=n naoVò tou= ejn uJmi=n aJgivou pneuvmatoò ejstin) e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi (oujk ejsteV eJautw=n)? Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!»[24].

«Noi siamo infatti il tempio del Dio vivente (hJmei=ò gaVr naoVò qeou= ejsmen zw=ntoò)»[25].

 

Il corpo pneumatico della chiesa carismatica è cristologico: un espropriato corpo morto/vivente, nel quale ogni elemento è tolto, morendo a sé e rinascendo nell’unica vita eucaristica del tutto comune, divenendo membro del cristico corpo di comunione[26]. Nello Spirito vivificante di Cristo risorto (cfr. 1Cor 15,45-49), che ogni battezzato in quanto morto/resuscitato riceve con il battesimo, il nuovo Tempio interiorizza il culto sacrificale, afferma la dimensione del tutto estatica, espropriata, al tempo stesso sacerdotale, anzi teofanica della comunità eucaristica, nuovo sancta sanctorum ove abita la Gloria di Dio, Cristo-Immagine escatologica.

Questa sacrificale, cristologica eucarestia neotemplare è, a mio parere, riaffermata nella contrapposizione tra Legge/toV katargouvmenon e Spirito avveniente, che in 2Cor 3,4-4,6 è restituita come contrapposizione tra la gloria effimera e velata propria di Mosè e l’escatologica Gloria eterna di Cristo/Immagine, del cui luminoso volto scoperto i credenti battezzati riflettono lo splendore, conformandovisi. Ritengo, infatti, che essa debba essere interpretata anche in senso templare, implicando la definizione dello stesso Tempio di Gerusalemme come toV katargouvmenon[27]. Infatti, nell’Esodo[28], il velo che copriva il volto di Mosè – abbagliante per essere stato alla presenza di Dio sul Sinai, quindi nella tenda del convegno nel deserto – corrisponde al velo che, prescritto da Dio, è collocato all’interno della tenda/Dimora dinanzi all’arca della testimonianza; è questo il velo che poi nasconderà nel Tempio di Gerusalemme il sancta sanctorum, luogo della presenza della Gloria di Dio accessibile soltanto al sommo sacerdote. Ebbene, in 2Cor, Paolo annuncia che il velo di Mosè, lo schermo che separa la visione della Gloria sacro/santa di Dio, è tolto nella manifestazione salvifica universale che Cristo offre a ogni uomo convertito, battezzato, morto/risorto nello Spirito[29]. La Gloria di Dio non è più nascosta nell’arca e velata, ma apocalitticamente rivelata nel corpo di Cristo risorto, divenuta presente nell’Immagine divina nella quale i credenti sono incorporati e trasformati, riflettendo «lo splendore del vangelo della Gloria di Cristo che è Immagine di Dio (toVn fwtismoVn tou= eujaggelivou th=ò dovxhò tou= Cristou=, oJvò ejstin eijkwVn tou= qeou=)» (4,4). Il toglimento del velo dal cuore di chi non crede[30] dipende dal rifulgere aperto di Dio, che squarcia il velo che lo nascondeva, togliendo la sua elettiva e non universale separazione sacrale, rendendosi direttamente presente in Cristo sua Immagine/Gloria, accolta dalla comunità suo Tempio vivente[31]. Ecco perché, in 2Cor 6,16, il lungo excursus sul paradossale corpo carismatico di Cristo, peregrino dal morente tabernacolo terreno all’eterno tabernacolo celeste – al tempio «non fatto da mani d’uomo» ove gli «uomini interiori» troveranno finalmente l’escatologica, compiuta presenza della Gloria divina[32] –, si conclude con la celebrazione del «tempio del Dio vivente»[33], identificato con la comunità dei credenti trasfigurata dallo Spirito del Crocifisso/Risorto, che in sé riconcilia il mondo[34]. Ormai, lo spazio sacro/santo non può essere che quello ecclesiale, materiale (la comunità è composta da corpi che si radunano e comunicano) e disseminato, atopico, del tutto “secolare”. Il Tempio è divenuto la vita nello Spirito di corpi del tutto mortali, carnali e comuni dei credenti, al tempo stesso dispersi nel mondo e radunati nella fruizione di un sacro/santo che li separa nettamente dal mondo[35].

 

1.1 – Gal 3,28 come esito dell’abbattimento delle divisioni del Tempio di Gerusalemme

L’abbattimento concreto del Tempio è atteso da Paolo? Direi che, certo, esso non era auspicato, malgrado una profezia di questo tipo circolasse nelle prime tradizioni di parole di Gesù[36]. Gli atti di ossequio di Paolo nei confronti del Tempio sono documentati, anche se residuali, forse ispirati alla sua strategia apertamente teorizzata di non scandalizzare i deboli, e comunque paradossali (ha davvero introdotto pagani convertiti a Cristo nel Tempio?). In Rm 9,4, «la gloria (hJ dovxa)» e «il culto (hJ latreiva)», riconosciuti come doni di Dio a Israele, sono evidentemente quelli del Tempio. Ma questo significa che Paolo pensasse al mantenimento del ruolo salvifico della Legge e del Tempio, accanto alla nuova allenza di Cristo e del suo Spirito? Ritengo un’ipotesi del genere del tutto insostenibile[37]. Il cuore del messaggio paolino è affermare non certo una via bipartita di salvezza, ma l’urgente necessità per Israele di convertirsi a Cristo morto/risorto. Soltanto il suo Spirito vivificante comunica la presenza diretta del sacro/santo: questa non soltanto vanifica la prescrizione completa della Legge (con le sue norme di purità finalizzate a rendersi degni di avvicinarsi al Santo), ma relativizza radicalmente il Tempio con il suo culto e la sua pretesa di accesso selettivo alla Gloria di Dio, dalla quale, seppure con diversi gradi di approssimazione, pagani, donne, ebrei comuni rimanevano comunque esclusi.

Ma cosa significa, concretamente, togliere e dislocare il sistema sacro/santo del Tempio nella comunità carismatica[38]? Mi pare non sia mai stata proposta un’interpretazione che metta in rilievo il fondamento topologico, per certi aspetti “letteralista” di un celeberrimo e rivoluzionario paolino, che a mio parere potrebbe presupporre un riferimento ben preciso al Tempio di Gerusalemme:

 

«Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero; non c’è più maschio né femmina, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù (oujk ejvni  jIoudai=oò oujdeV  JvEllhn, oujk ejvni dou=loò oujdeV ejleuvqeroò, oujk ejvni ajvrsen kaiV qh=lu, pavnteò gaVr uJmei=ò ei|ò ejste ejn Cristw=/  jIhsou=)» (Gal 3,26-28).

 

La nuova, universale comunità salvifica vive dello svuotamento/superamento, della katavrghsiò di tutte le distinzioni gerarchiche mondane, dei markers di stato, persino delle asimmetrie naturali[39]. Essa è generata dal battesimo, interpretato come partecipazione alla morte/resurrezione di Cristo nello Spirito, quindi come entrata nel luogo della Nuova Alleanza dello Spirito; così, in Rm 12,1-5, il «culto spirituale (logikhV latreiva)» è identificato con l’offerta neotemplare dei propri «corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio (qusiva zw=sa aJgiva eujavrestoò tw=/ qew=/)», fusi nell’essere «un solo corpo in Cristo». Ma, come precisa Gal 3,28, il nuovo tempio dell’ejkklhsiva carismatica è atopico (rispetto agli esclusivi luoghi religiosi, politici, culturali di questo mondo), eversivo nei confronti di qualsiasi gerarchia e, appunto, mette in comunione (koinwniva) eletto/santo e comune/profano, fa comunicare nell’unità dello Spirito di Cristo ogni opposizione sacrale, politica, sociale, familiare. Il segreto messianico è il movimento di deposizione apocalittica di tutte le asimmetrie naturali e culturali, nella costituzione di una comunità non identica, ma pacificata, riunificata, comunicata nella differenza, seppure separata dal mondo incredulo[40]. Infatti, continua a essere impuro soltanto colui che non si converte (il puro/giudeo come l’impuro/profano pagano), resistendo al messaggio universalmente salvifico di Cristo, rimanendo esterno all’unica realtà santa/pura, quella dell’ejkklhsiva/nuovo Tempio[41]. Questa comunità carismatica è ovviamente quella che Paolo, in 1Cor 3,16-17; 6,19-20 e 2Cor 6,16, identifica apertamente con il Tempio della Nuova Alleanza, che offre una nuova, salvifica e “santa” identità sociale, irriducibile a quella pagana e giudaica del mondo circostante[42]. Una comunità estatica e agapica, almeno nelle intenzioni di Paolo (non di rado frustrate dal gruppo di interlocutori che cerca di unire in comunità)[43].

Possiamo meglio comprendere la portata templare di Gal 3,26-28, se ci rivolgiamo a un densissimo passo della deuteropaolina Epistola agli Efesini, che rende esplicita la dimensione legale e templare del vecchio Tempio “abbattuto”, tolto nella nuova comunità carismatica, proclamata in Gal 3,28:

 

«Ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai patti della promessa (xevnoi tw=n diaqhkw=n th=ò ejpaggelivaò), senza speranza e senza Dio in questo mondo (ajvqeoi ejn tw=/ kovsmw/). Ora in Cristo Gesù voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace (hJ eijrhvnh hJmw=n), colui che ha fatto dei due un popolo solo (oJ poihvsaò taV ajmfovtera eJvn), abbattendo il muro di separazione che era frammezzo (toV mesovtoicon tou= fragmou= luvsaò), cioè l’inimicizia (thVn ejvcqran), annullando (katarghvsaò) per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti (toVn novmon tw=n ejntolw=n ejn dovgmasin), per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo (iJvna touvò duvo ktivsh/ ejn aujtw=/ eijò eJvna), facendo la pace e per riconciliare tutti e due  con Dio in un solo corpo (ejn eJniV swvmati), per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare la pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito (ejn eJniV pneuvvmati). Così dunque voi non siete più stranieri, né ospiti (pavroikoi), ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio (sumpoli=tai tw=n aJgivwn kaiV oijkei=oi tou= qeou=), edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare (ajkrogwniai=oò) lo stesso Cristo Gesù. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore (eijò naoVn aJvgion ejn kurivw/); in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito (eijò katoikhthvrion tou= qeou= ejn pneuvmati)» (Efes 2,12-22).

 

Condivido la tesi secondo la quale queste affermazioni siano davvero comprensibili soltanto tenendo presente la struttura fisica del Tempio di Gerusalemme. Come ci riferisce Giuseppe Flavio, il Tempio era articolato in tre cortili concentrici, che separavano spazi caratterizzati da diversi gradi di purità, quindi di approssimazione al Santo: a) il Cortile dei gentili o Atrio dei pagani; b) lo spazio al quale potevano accedere tutti gli ebrei, ove quindi erano ammesse anche le donne ebree, sicché esso veniva chiamato il Cortile delle donne, attraverso il quale gli uomini passavano; c) uno spazio più interno, il Cortile degli Israeliti, nel quale non potevano accedere le donne ebree; d) il Cortile dei sacerdoti, al quale non potevano accedere gli ebrei comuni; e) il Santuario vero e proprio, la cui stanza più interna era il Sancta sanctorum, e «non c’era in lui assolutamente niente (oujdeVn oJvlwò ejn aujtw=)»[44], nel quale poteva entrare soltanto il Sommo Sacerdote, una volta l’anno, nel Giorno dell’Espiazione. Il Cortile dei pagani e il Cortile degli ebrei erano separati da un muro o balaustra, definito soreg dalla Mishnàh, che prescriveva la morte per il pagano che l’avesse valicato[45].

Al contrario, il nuovo, messianico Tempio dello Spirito si realizza come la pacifica riunificazione degli esclusi, tramite l’abbattimento, la katavrghsiò  dei muri o confini di separazione  (si noti l’utilizzazione del verbo katargei=n in riferimento alla Legge, quindi alle regole di purità dalle quali dipendeva la topologia discriminante del Tempio), a partire da quello che separava mortalmente ebrei e pagani (ove la distruzione fisica del Tempio di Gerusalemme da parte dei romani potrebbe, con terribile attualizzazione, essere evocata nell’abbattimento spirituale di Efes 2,12-22, probabilmente scritta dopo il 70). A differenza di Gal 3,28, qui è soltanto implicito il superamento della differenza di perfezione/purità/prossimità al santo tra uomo e donna, che ormai consente alla donna messianica di entrare nell’intimità stessa del Tempio dello Spirito, alla presenza diretta di Dio. Mi pare invece evidente, nel brano di Efes, il superamento della distinzione tra sacerdote e non sacerdote. Il/la qualsiasi, il/la comune uomo o donna “cristificato/a” nello Spirito diviene sommo sacerdote di Dio, è introdotto/a all’intima comunione con la presenza assoluta, divenendo il sancta sanctorum nel quale Dio stesso abita.

Tornando a Gal 3,28, è possibile rintracciare le detureopaoline prospettive di Efes 2,12-22 nel Paolo autentico? In effetti, le tre opposizioni riconciliate e rese in-differenti (seppure non annullate) nel battesimo, risultano tutte “templari”: incorporati a Cristo nello Spirito, sono il greco, lo schiavo, la donna (che designa prima il pagano, che l’uomo di condizione sociale inferiore)[46], cioè il profano/comune/inferiore. Essi hanno assunto la stessa identità santa/elettiva e la stessa dignità sacrale del giudeo, del libero, dell’uomo, persino del sommo sacerdote, essendosi rivestiti di Cristo stesso, che è la Gloria di Dio. Il nuovo Tempio è, allora, l’escatologico Uomo nuovo, Cristo ultimo Adamo, l’autentico Uomo-ad-Immagine (che Dio crea unitario «maschio-femmina (ajvrsen kaiV qh=lu)»: Gen 1,27), il servo/libero nel Servo (dou=loò)-Signore (kuvrioò), il carismatico Ebreo-Pagano, o Ebreo/Straniero (xevnoò), quindi l’atopico Fuori/Legge (la Legge/Muro[47] era il codice ebraico d’identificazione e separazione dal pagano), il sacerdotale/comune Capo/Corpo dello Spirito, nel quale tutte le opposizioni/inimicizie sono abbattute, tolte e riconciliate.

 

1.2 – Il toglimento del Tempio/Presenza in Cristo/Immagine escatologica

Insomma, quello che è del tutto evidente in Paolo (dato testuale, niente affatto esorcizzabile come deformazione interpretativa “iper-protestante”) è:

  1. a) Il superamento del topos santo di Gerusalemme come luogo cultuale decisivo, tolto nel corpo ecclesiale, quindi, l’abbandono di una localizzazione “di pietra” del sacro e della sua liturgia, che potremmo definire littera/templum occidens. L’unico autentico corpo materiale è quello del corpo “di carne” degli uomini e delle donne credenti, vivificato dal miracoloso avvento dello Spiritus vivificans di Cristo risorto. Il Tempio di Gerusalemme, si badi prima della sua distruzione nel 70!, è già katargouvmenon, tolto, passato, luogo di fatto “secolarizzato”, disertato dalla presenza di Dio, presente soltanto in Cristo e nelle sue chiese carismatiche[48]. L’indubbio rispetto per il Tempio di Gerusalemme e l’accettazione delle prassi di purificazione templare da parte di Paolo, descritta in Atti 21, come la notevole insistenza sul dovere delle collette connesse alla comunità di Gerusalemme, ma, suo tramite, al Tempio stesso, sono, se non mera concessione caritatevole ai deboli (come l’astensione dalla carne consacrata agli idoli suggerita, in alcuni casi, in Rm 14), comunque riconoscimento della inestirpabile radice israelitica della rivelazione di Cristo, quindi mira di un luogo certo reale, eppure ormai soltanto simbolico della realizzazione delle profezie sulla conversione dei pagani al Dio di Israele, che appunto si sarebbero universalmente recati “nel Tempio di Gerusalemme”, celebrando l’unico vero Dio.
  2. b) L’inesistenza di qualsiasi nozione sacrale dell’immagine materiale, dell’oggetto sacro materiale, che non sia quello comunissimo del pane e del vino, carismaticamente assunto come corpo/sangue sacrificale di Cristo/Spirito (cf. 1Cor 10,15-18), comunemente offerto e mangiato da ebreo/pagano, maschio/femmina, libero/servo, ove lo stesso uomo profano è divenuto sommo sacerdote. La chiesa paolina è del tutto aniconica, proprio perché corpo vivente dello Spirito, proprio perché essa stessa è l’Immagine di Cristo!
  3. c) La portata del tutto escatologica e carismatica, quindi non protologica, antropologica o ontologica (e ovviamente non materiale/oggettuale) della nozione d’immagine, in quanto c1) in Rm 5,12-21 come in 1Cor 15,42-57, mai Paolo riconosce all’Adamo genesiaco lo statuto di immagine di Dio; c2) l’unica Immagine è quella apocalittico-messianica, carismatica ed escatologica, di Gesù, l’Uomo/Spirito, il morto/risorto, l’umiliatosi/esaltato, il servo/Signore. La comunità è conformata, carismaticamente, nell’Immagine vivente di Cristo, divenendo corpo del Capo. Cristo ne è il ri-creatore, il Volto/Provsopwn (2Cor 3,18; 4,4) scoperto di Dio, l’escatologico Fiat lux, la Gloria eternizzante (non ancora identificata con la Sapienza “creativa” di Proverbi 8, ma ormai eccedente la Legge disattivata, il katavrgoumenon di 2Cor 3,7-15).

 

«Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà. E noi tutti, a viso scoperto (ajnakekalummevnw/ proswvpw/), riflettendo come in uno specchio la Gloria del Signore (thVn dovxan kurivou katoptrizovmenoi), veniamo trasformati in quella medesima Immagine (thVn aujthVn eijkovna metamorfouvmeqa), di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore […]. Cristo è Immagine di Dio (eijkwVn tou= qeou=)… E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre (ejk skovtouò fw=ò lavmyei), rifulse nei nostri cuori (ejvlamyen ejn tai=ò kardivaiò hJmw=n), per far risplendere la conoscenza della Gloria divina che rifulge sul volto di Cristo (proVò fwtismoVn th=ò gnwvsewò th=ò dovxhò tou= qeou= ejn proswvpw/  jIhsou= Cristou=)» (2Cor 3,17-18 e 4,4e6).

 

Proprio perché risorto nella potenza dello Spirito, Gesù Cristo è primogenito della nuova creazione, concedendo ai corpi risorti dei credenti il dono escatologico di accogliere in loro stessi la presenza di Dio[49]. Il corpo pneumatico è al tempo stesso luogo carnale di teofania e identità sociale estatica, che vive il rapporto con il divino non più come assicurazione rituale, ma come espropriazione radicale: Dio non assicura l’essere nel mondo della comunità religiosa, ma la trascina al di fuori di esso, nell’attesa del “Vieni” messianico, che può essere anticipato soltanto nella solidarietà spirituale di corpi (le pietre del nuovo Tempio), che si riconoscono e si sostengono, visitati dallo Spirito. Essere Tempio significa vivere questa fuoriuscita dall’ambito della religione pubblica (giudaica e pagana), fruendo di una nuova identità separata, eppure universalmente, freneticamente accogliente dell’altro (un’identità di diversi): un transito dal mondo a una nuova incorporazione liturgico/templare, che integra separando[50] dal peccato e dall’impurità morale, trovando la sua unità nello Spirito e nell’amore reciproco che ne rivela l’azione trasfigurante. Un Tempio estatico davvero paradossale, disseminato nel reticolato quasi invisibile di microcomunità, carnale eppure «non fatto da mani d’uomo (ajceiropoivhtoò)», vivente soltanto di un acceso desiderio condiviso, che si crede operato dallo Spirito, dalla Presenza di Cristo che viene! Per l’edificazione di questo nuovo Tempio, Paolo predica, «esercitando l’ufficio sacro del vangelo di Dio, perché i pagani divengano un’oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo (hJ prosforaV tw=n ejqnw=n eujprosdektoò, hJgiasmevnh ejn pneuvmati aJgivw/)» (Rm 15,16).

Eppure, il fondamento di questa nuova alleanza pneumatico-sacrificale rimane l’irrevocabile elezione di Israele, pure in parte provvisoriamente indurito da Dio (cf. Rm 11,25-35), sicché a) non soltanto Paolo continua a raccogliere collette per la comunità gesuana di Gerusalemme, dalla quale non vuole essere separato; b) soprattutto egli considera il nuovo, etno-giudaico Tempio spirituale di Cristo come la realizzazione della conversione universale delle genti a Gerusalemme, sicché Paolo non vuole «costruire su un fondamento altrui, ma come sta scritto: “Lo vedranno coloro ai quali non era stato annunziato e coloro che non ne avevano udito parlare, comprenderanno” (Isaia 52,15)[51]» (Rm 15,20-21). In Cristo, si compie la profezia veterotestamentaria, quindi l’edificazione di un Tempio universale e spirituale, che paradossalmente realizza il trionfo teofanico di Israele, superando la Legge e la sacro/santa liturgia gerarchica e divisiva del Tempio di Gerusalemme[52].

 

2. La reduplicazione protologica dell’escatologico: dal Tempio/Immagine carismatico al Tempio/Immagine ontologico.

Immediata, seppure postpaolina, è però la riconfigurazione dell’Immagine escatologica in protologica e creativa «Immagine del Dio invisibile», preesistente Presenza mediatrice, assoluta ajrchv, sicché Cristo diviene il vivente Tempio ontologico nel quale tutto le cose sono state create[53], dunque «la pienezza (toV plhvrwma)» precosmica, e non soltanto escatologica. Gesù è comunque il rivelatore del Padre creatore. Cristo, allora, non è più soltanto il primogenito dai morti, ma diviene il preesistente «primogenito di ogni creatura», nel quale sussiste tutto ciò che è[54]. Il ricreativo Capo/Tempio/Spirito escatologico-carismatico del corpo eletto è reduplicato in Capo/Tempio/Spirito  divino e creativo. Soltanto questa reduplicazione e assolutizzazione dell’apocalissi salvifica consente, paradossalmente, alle comunità postpaoline di riscattare la realtà, lo schema transeunte del mondo, che per Paolo andava svanendo («Il tempo è breve… passa la scena/la realtà di questo mondo (paravgei gaVr toV sch=ma tou= kovsmou touvtou)»: 1Cor 7,31). Se Cristo è la scaturigine amorosa e creativa dell’essere, il principio archetipico di vivificazione spirituale della realtà, che pure si compie escatologicamente, ogni realtà creata viene riscattata, coinvolta in questo processo ubiquo di manifestazione dell’Immagine. Il rivelatore messianico non si limita più a indicare la via di fuga dal mondo verso il regno di Dio che viene, ma diviene precosmico garante dell’ordine, della pienezza, della bontà della creazione, che escatologicamente porta a compimento.

Non è certo questo il luogo per accennare alla parallela, rapidissima evoluzione, nella stessa direzione dell’assolutizzazione dell’identità del Messia escatologico nell’ambito della preesistenza divina, intrapresa sia dall’Epistola agli Ebrei, che dal Vangelo di Giovanni[55]. Si pensi al dialogo con la Samaritana in Gv 4,5-42: Gesù toglie in sé il Tempio (sia quello di Gerusalemme[56], che quello sul Garizim rimpianto dai samaritani) nel culto in Spirito e Verità di Cristo-Io Sono, dal quale scaturisce acqua di vita eterna, insieme con il pane-cibo che egli stesso è per i suoi, segni che appunto lo rivelano come Tempio vivente[57], la cui assunzione è pienamente compiuta con il fuoriuscire, dal fianco di Gesù crocifisso, dell’acqua con il sangue sacrificale (cf. Gv 19,34), che simbolicamente toglie il sangue degli animali sacrificati, riversato in grandissima quantità, in particolare in occasione dei riti sacerdotali della Pasqua, nei canali d’acqua del Tempio. Si pensi ancora ad Ap 21,22-22,5, ove l’acqua scaturisce direttamente dal sacrificale Agnello sgozzato seduto sul trono di Dio, al centro della casa-tempio della Gerusalemme celeste, ormai priva di Tempio materiale. Eppure quello che opera una vera rivoluzione nella strutturazione del cristianesimo primitivo è, come si diceva nel caso delle lettere deuteropaoline, il raddoppiamento ontologico della rivelazione escatologica, di cui il Prologo giovanneo, quindi l’Epistola agli Ebrei sono straordinari testimoni. Essi riattingono le tradizioni giudaiche sul Tempio celeste o sulla sacerdotale dimensione predestinata, quindi in qualche modo preesistente del Figlio dell’uomo, per fonderle con prospettive sapienziali, influenzati da tentativi giudaico-ellenistici di convergenza tra Bibbia e filosofia platonica (si pensi a Filone)[58].

Proprio questa letteratura sapienziale, protologica, ontologica di Cristo-Tempio, eterna Immagine del Padre, Logos rivelatore ontologico ed escatologico, Parola creatrice e apocalittica, potenzia enormemente la pretesa veritativa del kerygma, consentendone una traduzione, deformante, eppure universalizzante, di tipo filosofico. Mi limito a qualche citazione. L’Epistola a Flora del valentiniano Tolomeo, a partire dall’Epistola agli Ebrei, interpreta allegoricamente il culto del Tempio giudaico come rivelazione criptica dell’eterno pleroma divino, quindi della generazione di Gesù come Redentore eterno, Sommo Sacerdote e al tempo stesso “Vittima”, chiamata a discendere e a ricongiungersi con il corpo elettivo celeste decaduto degli gnostici, “impersonificati” da Sophia. Lo Spirito è divenuto essere, il Tempio carismatico è il riflesso di un Tempio eterno (il pleroma), il Messia sacerdotale e la vittima sacrificale sono l’unico Karpovò, Frutto divino, che la fede eletta di Flora riuscirà a “far venire” in lei, scoprendosi eone divino, ente spirituale perché logico, persona eternamente partecipe della liturgia mistica[59]. Gli stessi grandi sistemi teologici di Clemente e di Origene propongono una sistematica allegorizzazione del Tempio, interpretato come Luogo ontologico assoluto del Logos, nel quale le creature logiche accedono alla Presenza, celebrandone l’eterna liturgia: si pensi ad Excerptum ex Theodoto 27, excursus clementino ove viene proposta un’antivalentiniana allegorizzazione mistico-speculativa della liturgia del Sommo sacerdote; oppure al libro X del Commento al vangelo di Giovanni origeniano, dedicato all’esegesi di Gv 2,12-25, cioè di celebrazione della Pasqua, purificazione e interpretazione spirituale del Tempio, realtà puramente logica nella quale l’universale creazione intellettuale, riunificata dal Logos e nel Logos alla sua protologica natura pneumatica, tornerà a celebrare, consumate le resistenze contingenti di qualsiasi peccato ilico-psichico, il culto razionale dell’unione mistica con la presenza assoluta di Dio.

 

  1. Rivalità e incroci teologico-politici: da Tertulliano all’avvento di Costantino

Proprio questa traiettoria, pure se qui brutalmente evocata, può spiegare come il cristianesimo protocattolico, fuoriuscito dall’evento escatologico-carismatico e appropriatosi idealmente dell’ambito dell’essere, si prepari, paradossalmente, a divenire mondo, ad espugnare la storia universale occupandone gli spazi del culto pubblico. “Origene” (come persona che rappresenta, al suo culmine, l’evoluzione logica del kerygma protocristiano) è, insomma, il presupposto teologico-mistico della teologia politica di Eusebio, capace di riconfigurare immediatamente l’identità ideologica cristiana all’indomani dell’inaudita, del tutto imprevista (se non ottativamente da Lattanzio!)[60] conversione dell’impero all’unico Dio e al suo Logos. Questi, infatti, è divenuto fondamento dell’essere, Tempio eterno di cui storia e mondo sono manifestazione, fenomeno, ormai predisposti a riconoscersi come convertita, divina liturgia: l’ubiqua teofania intellettuale di Origene è disponibile a divenire principio d’interpretazione dell’universale trionfo politico cristiano, generando un’inedita ontoteologia politica, che riunifica cielo e terra, Tempio celeste e messianismo storico-rivelativo, Logos eterno e creazione/storia teofanica. Analogamente, il reticolo carismatico delle comunità paoline è divenuto reticolo ecclesiastico istituzionale – capace di diffondersi capillarmente nell’impero in quasi tre secoli di resistenza tenace e d’irrefrenabile impulso missionario –, che tende ad imitare la stessa struttura istituzionale, persino burocratica dell’impero, predisponendosi a corrisponderle. Ma un elemento decisivo manca alla grande chiesa protocattolica: lo status di religione pubblica, di culto dello stato istituzionalizzato, dotato di valenza e portata sociale fondativa; il suo rendersi visibile (anche materialmente, tramite luoghi di culto comunitari bene identificabili) è, quindi, un ambiguo oscillare tra la tollerata autonomia di un’identità privata, seppure socialmente consistente, e l’evidenza di un corpo sociale irriducibile, al tempo stesso interno ed estraneo a quello dell’ecumene romana, di cui spesso si è avvertita la necessità della soppressione.

Eppure, due prospettive ormai la chiesa protocattolica tende a condividere con l’ideologia dell’impero romano, in una relazione evidente di possibile convergenza, eppure di tensione e rivalità, avvertita da parte dello stesso potere pubblico in maniera più o meno esplicita e violenta (si pensi alla portata fondativa delle persecuzioni anticristiane durante la grande ristrutturazione imperiale dioclezianea): 1) come segnala «il colpo di mano semantico di Tertulliano»[61], la pretesa di essere l’unica «religio», di realizzare l’unico autentico culto universale del divino; 2) l’irresistibile esigenza di universalizzazione, di espugnazione dell’intera ecumene, sottomessa ad un unico potere assoluto capace di donare senso alla storia, di costruire civitas sacrale. D’altra parte, lo stesso Tertulliano, riprendendo, eppure compromettendo il distaccato lealismo politico di Rm 13 (per il quale riconoscere il potere significa abbandonarlo alla sua ormai rivelata vanità e soggezione a Dio), aveva nell’Apologeticum interessatamente affermato che le comunità cristiane pregavano Dio per ritardare la fine del mondo e per ottenere il provvidenziale benessere terreno degli imperatori romani e delle pubbliche istituzioni[62]. Si stava forse spegnendo il Marana tha!, il Vieni, Signore Gesù! paolino e apocalittico[63]? Come si è messo in rilievo, il progressivo innalzamento di Cristo a Principio assoluto creativo e provvidenzialmente conservativo dell’essere (il Tempio/Sacerdote celeste ontologico, l’Immagine protologico-creativa) non poteva non trovare una logica corrispondenza in ambito politico, rendendo irresistibile la “tentazione” della celebrazione ubiqua di un’unica ajrchv assoluta, la liturgia di un’unica Parola d’ordine (antidualistica, antignostica, antianarchica), grazie alla quale riallineare il potere assoluto politico-mondano al potere assoluto celeste: la fine escatologica può essere ritardata, proprio perché nell’ordine stesso dell’essere creato, e persino in quello del potere secolarmente “delegato”, agisce e può agire il potere provvidenziale (ordinativo, assicurativo) e salvifico di Cristo.

D’altra parte, due potenti tradizioni ideologiche spingevano nella direzione di questa convergenza tra rivelazione dell’eterno Logos/Signore dell’essere e ordine teologico-politico dell’immanenza. Qualche parola dev’essere spesa sui due sistemi teologico-politici fondativi rispettivamente dell’identità religiosa cristiana e di quella imperiale pagana: a) il messianismo politico giudaico e b) la theologia civilis romana.

  1. a) Radice latente del messianismo spirituale apocalittico-cristiano rimane, comunque, il messianismo politico giudaico, affermato all’interno dell’AT, quindi accolto nella binata Bibbia cristiano-cattolica. Cristo, insomma, è pur sempre discendente di Davide e non può non ereditarne l’ideologica pretesa del dominio in terra (si pensi alle mai essiccatesi correnti millenaristiche cristiane, di cui il millennio di ApGv 20,1-6 è il primo affioramento evidente a noi noto). Questa prospettiva messianica concorre nel rovesciamento della prospettiva escatologica, kenotica, carismatica in prospettiva ontocosmologica (Cristo pantokrator), gloriosa (Cristo-Immagine come Luce che libera la storia dalla tenebra), politica (Cristo come fondamento dell’ordine politico), militare persino (Cristo come eversore violento del regno della tenebra e distruttore della religione idolatrica). Pertanto, nel messianismo spirituale cristiano riemergera quel latente potenziale teologico-politico messianico, quindi “rappresentativo”, fatto oggetto di retractatio romano-cristiana nella persona stessa di Costantino. Il Cristo atopico trova il suo topos analogico nell’unico imperatore universale, che celebra nella storia, di cui è provvidenziale compimento, la divina liturgia teologico-politica. Non è un caso, allora, che la stessa figura di Mosè – sin dalla reinterpretazione della battaglia di Ponte Milvio, con l’evocazione tipologica della morte per acqua di Massenzio/Faraone[64] – possa essere chiamata in causa da Eusebio come typos di Costantino.
  2. b) La concezione più articolata di religio romana è, com’è noto, quella presentataci da Agostino nel De civitate Dei, restituendoci lunghi frammenti delle Antiquitates rerum humanarum et divinarum di Varrone, da Cicerone stesso indicato come supremo sistematizzatore e interprete della tradizione religiosa romana[65]. Strutturale è la reinterpretazione varroniana della theologia tripertita stoica (cf. in part. De Civitate Dei VI,2,8), che da Crisippo, tramite la mediazione di Panezio, era stata romanizzata dal pontefice massimo Scevola: la religio è di fatto identificata con la theologia civilis (di cui la theologia theatrica o mythica è articolazione celebrativa, funzione cultuale), il culto pubblico stabilito dalle autorità politiche, attraverso il quale si costituisce un circuito sacrale tra potere istituente e spazio religioso pubblico istituito, “inventato” dai principes, all’interno del quale è comunque molteplicemente presentificato l’unico potere divino immanente nel mondo. Nessun ruolo pubblico, religioso ha la theologia naturalis, identificata con la conoscenza filosofica – eventualmente riservata all’élite politica – dell’impersonale potenza divina immanente nel cosmo. La religio è, insomma, celebrazione, significazione dello spazio pubblico: essa non esiste nell’ambito privato della coscienza (ove, ciceroniamente, possono soltanto darsi private superstitiones), ma vive soltanto nel sistema degli spazi templari, dei pubblici spettacoli teatrali, insomma nella liturgia civile. La mediazione cultuale della theologia civilis è, infatti, di decisiva portata politica, in quanto capace di formare civicamente, di promuovere fusione collettiva, consenso, persuasione, piacere di massa, quindi di assicurare la saldezza del corpo sociale, tramite la protezione che il potere divino garantisce alla civitas e al suo potere stabilito[66]. Per Varrone, non ha pertanto senso pretendere che gli dèi onorati siano veri: essi sono appunto invenzioni poetiche, mitiche e il teatro è il loro naturale luogo di manifestazione pubblica, di celebrazione produttiva di unificazione e consenso politico[67]. Gli dèi sono pertanto persone, maschere religiose, produttive di legame sociale, seppure in questo sistema idolatrico politicamente governato la manifestazione del sacro – fosse essa celebrata come reale presenza del numinoso o come cogente sacralità della tradizione civica – è avvertita come del tutto evidente[68], quindi persino filosoficamente giustificata come modalità cultuale politeistica attraverso la quale comunque si presta culto all’unico dio riconosciuto dalla ragione filosofica: il logos stoico o la divina anima del mondo immanente nell’universo[69]. È comunque essenziale comprendere che a Roma, almeno in età storica, «in fondo la religione non è altro che una delle facce della medesima realtà, che potremmo chiamare “città”, “repubblica”, “consenso civico”. È comunque evidente che l’elemento religioso è consustanziale a quello politico»[70].

Soltanto tenendo presente queste coordinate religiose, che governano capillarmente la società dell’impero romano, è possibile comprendere quanto ideologicamente violento e radicale sia stato l’atto di conversione monoteistica cristiana di Costantino, testimoniato dalla sua attività piuttosto diffusa di distruzione dei templi pagani e di edificazione di quelli cristiani. E seppure certe sono le prove del superiore pragmatismo politico-religioso di Costantino, che lo induceva a tollerare per esigenza di consenso e amore di pace i culti pagani[71], seppure a tutti i livelli il sincretismo tra paganesimo e cristianesimo è immediato e persistente, i documenti ufficiali costantiniani paiono inequivoci, trasmessi in buona parte attraverso le stupefatte testimonianze di Eusebio, certo “tendenziose”, eppure in sostanza oggettive. Prudenza, infatti, non significa equidistanza o accettazione indifferente della coesistenza religiosa, capace di introdurre un elemento di divisione teologico-politica nel cuore dell’articolazione imperiale. Si pensi all’Editto ai provinciali d’Oriente riportato da Eusebio, nella Vita Constantini[72], documento rivelativo della netta scelta di campo cristiana di Costantino, il quale, pur astenendosi per amore di pace dalla sistematica distruzione dei luoghi di culto pagani[73], comunque invita pubblicamente alla conversione all’unico vero Dio. In tal senso, notevole è l’applicazione del principio della libertà non coercibile della scelta religiosa – che, sulla scia di Tertulliano[74], Lattanzio aveva rivendicato per i cristiani contro le persecuzioni tetrarchiche – anche ai seguaci della religione pagana[75]. Ma questa, però – ecco il punto che mi pare capitale – ha ormai perso la sua pubblica celebrazione, divenendo tollerato errore privato[76], se certo non perseguitato, di fatto pubblicamente svalutato e sistematicamente disertato, persino boicottato[77].

Al contrario, subendo una subitanea “catastrofe”, accolta dai credenti, da Eusebio per primo, come miracoloso compimento della redenzione divina della storia, il cristianesimo viene immediatamente riconosciuto dall’imperatore come vera religione, l’unica garante delle sue vittorie, quindi del benessere di tutto l’impero[78]. Costantino temeva il Dio dei cristiani, nel quale sinceramente credeva[79]. L’invincibile imperatore aveva paura soltanto di un Monocrate assoluto più potente di lui, la fede nel quale è generata dall’efficacia vittoriosa della sua elezione:

 

«Io amo sinceramente il tuo nome, ma temo la tua potenza (toV meVn gaVr ojvnomav sou gnhsivwò ajgapw=, thVn deV duvnamin eujlabou=mai), che hai reso manifesta attraverso molti segni e che ha fatto diventare più salda la mia fede»[80].

 

Per il romano Costantino, il segreto della storia è la potenza; per questo, l’unico Onnipotente dev’essere pubblicamente, religiosamente onorato dall’unico imperatore, che Egli ha innalzato alla signoria del mondo. Compito dell’imperatore è stabilire un sistema cultuale del vero Dio, celebrandone universalmente quel potere, che gli empi imperatori pagani avevano cercato di negare, perseguitando la chiesa e abbattendo i luoghi di culto cristiani, privati, ma perfettamente identificabili:

 

«Io aspiro, senza dubbio, a prendere sulle mie spalle il compito di restaurare la tua santissima casa (toVn aJgiwvtatovn sou oi^kon ajnanewvsasqai), che quegli uomini abominevoli e quanto mai empi offesero con un’oltraggiosa distruzione (tw=/ ajtophvmati th=ò kaqairevsewò ejlumhvnanto)»[81].

 

Nell’avvio di un processo di pubblica (ri)edificazione templare cristiana, Costantino salda messianismo giudaico, ideologia romana del salvifico-sacrale impero universale e provvidenzialistica affermazione dell’unica vera religio cristiana destinata a conquistare rapidamente l’intera ecumene. Se il Dio unico è onnipotente e geloso come la sua immagine terrena, la religio universale dev’essere convertita, con gradualità e una certa prudenza, ma con assoluta sistematicità, soprattutto per quanto riguarda i luoghi-chiave, i capites simbolici del potere imperiale cristianizzato: le capitali dell’impero, Roma e Costantinopoli/nuova Roma cristiana, quindi Gerusalemme e i luoghi santi. Occupazione che è, inevitabilmente, anche riconfigurazione, inculturazione deformante, genesi di un’ibrida realtà cristiano-romana[82].

Rispetto ai testi neotestamentari, evidente è il compiersi del passaggio da una teologia politica dualistica, escatologica, secolarmente kenotica (che oppone apocalitticamente Dio a Cesare/Mammona, quietisticamente abbandonati alla loro vanità, nella certezza della fine imminente) a una teologia politica analogica, quindi monistica, che coordina Dio, Cristo e Cesare, quali articolazioni divino-umane del governo monarchico di Dio sul reale[83]. L’irriducibile dualismo escatologico-apocalittico (comunque fondante, quindi irriducibile e latente nell’identità cristiana così potentemente trasformatasi) regredisce, è corretto monisticamente in ontologia dell’ordine sacralizzato. Questa media, attenuandola, la tensione tra escatologia redentiva (eschaton) e protologia fondativa (arché). In questa struttura teofanico-messianica, l’imperatore diviene il sommo sacerdote storico[84], icona del Padre e imitazione del Sommo sacerdote celeste, quindi nuovo Mosè, vero capo carismatico e istituzionale della chiesa[85]. D’altra parte, utilizzando il principio dell’esemplarismo inverso, Costantino stesso finisce per assumere una dimensione archetipica: il nuovo monocratico potere imperiale[86] è, di fatto, quello su cui si compie la riconfigurazione “imperialistica” del nuovo Dio cristiano[87], in quanto (invertendo il noto assioma schmittiano) tutti i concetti più pregnanti della nuova dottrina di Dio sono concetti politici divinizzati.

 

[1] Cfr. E. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes. II. Pouvoir, droit, religion, Les Éditions de Minuit, Paris 1969, tr. it. Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee. II. Potere, diritto, religione, Einaudi, Torino 1976, 2001(2), il cap. «Il sacro», pp. 419-441, in part. 426. A livello introduttivo, cfr. J. Ries, L’uomo e il sacro nella storia dell’umanità, Jaka Book, Milano 2007; in part., sul sacro nella tradizione semitica e biblica, pp. 47-80; nella religione romana, pp. 125-147; nelle comunità protocristiane, pp. 205-223; e il notevole saggio, impegnato a ricostruire la genesi storica delle categorie in questione, di J.N. Bremmer, “Religion”, “Ritual” and the Opposition “Sacred vs. Profane”. Notes towards a Terminological “Genealogy”, in F. Graf (ed.), Ansichten griechischer Rituale. Geburtstags-Symposium für Walter Burkert, Teubner, Stuttgart-Leipzig 1998, pp. 9-32; ad es., si noti l’interessante ipotesi che colloca nella Francia di fine Ottocento l’origine della dicotomia terminologica sacro/profano, connettendola con il processo di secolarizzazione che appunto operava una sempre più netta distinzione tra stato e chiesa, quindi tra i due ambiti ideologici (pp. 30-31).

[2]Pur non condividendone le prospettive essenzialistiche, considero doveroso segnalare M. Eliade, Traité d’histoire des religions, Payot, Paris 1948, tr. it. Trattato di storia delle religioni, Einaudi, Torino 1957, il cap. X, «Lo spazio sacro: tempio, palazzo, “centro del mondo”», pp. 377-398; e Id., Das Heilige und das Profane, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1957, nuova ed. fr. Le sacré et le profane, Gallimard, Paris 1965, tr. it. Il sacro e il profano, Bollati Boringhieri, Torino 2006, in part. il cap. I, «Lo spazio e la sacralizzazione del mondo», pp. 19-46, ove comunque generiche e storicamente approssimative sono le notazioni dedicate al Tempio di Gerusalemme (p. 43) e alle basiliche cristiane; ad es.: «Già dal tempo dell’antichità cristiana […] la struttura cosmologica dell’edificio sacro persiste nella coscienza della cristianità» (p. 44). Il limite fondamentale dell’atemporale prospettiva eliadeana, cosmologicamente configurata, sta nel non registrare le trasformazioni storiche della nozione cristiana di tempio, misconoscendo il carattere atopico, apocalittico (che desacralizza mondo, civitas, suoi ordini gerarchici) e storico-escatologico dell’esperienza protocristiana dello “spazio” sacro/santo, tolto nella comunità. Per un’introduzione al tema incircoscrivibile del tempio, rimando ai saggi, dedicati a diversi contesti storico-religiosi, raccolti da F.V. Tommasi (ed.), Tempio e persona. Dall’analogia al sacramento, Edizioni Fondazione Centro Studi Campostrini,Verona 2013. Per un’indagine filosofica su architettura sacra e tempio cristiano, in part. nell’età della tecnica, cfr. M.M. Olivetti, Il tempio simbolo cosmico. La trasformazione dell’orizzonte del sacro nell’età della tecnica, Abete, Roma 1967.

[3]Per un tentativo di distinguere i due termini, cfr. E. Benveniste, Potere, diritto, religione, cit., pp. 426-429; originariamente «sacrum» indicherebbe lo «stato naturale» di ciò che è proprio del divino, mentre «sanctum» sarebbe il risultato di un’operazione, del «lege sancire», volta a delimitare, confinare/separare il «sacrum»; progressivamente, questa distinzione tra il muro confinante del santo e il campo interno del sacro verrebbe a cadere: «sanctum» finirebbe per coincidere con ciò che gode del favore divino, qualificando il possesso di una virtù sovraumana (cfr. p. 428). Limitandoci all’ambito ebraico-cristiano, doverosa sarebbe la tematizzazione dell’amplissimo spettro concettuale e storico-religioso del termine ebraico qadoš, in quanto «l’elaborazione biblica del rapporto fra Dio (il “Santo”) e il luogo sacro (il “santuario”) [è] un rapporto dalle infinite modulazioni» (F. Mottolese, Luoghi e gradi di santità nell’epoca senza Tempio: tratti sacerdotali nel giudaismo rabbinico, in F.V. Tommasi (ed.), Tempio e persona, cit., pp. 199-218, in part. 199); cfr. pp. 199-203. Sull’interpretazione arcaica del “sacro” come forza ingovernabile (neanche Dio può sospenderla) e distruttiva, cfr. ad esempio, Es 19,12-13, ove Dio presenta il Sinai, che pure diviene il monte dell’alleanza, come il luogo tremendo della sua presenza: «Metti dei confini intorno per il popolo. Dirai: “Guardatevi dal salire sul monte o solo dal toccarne i lembi: chiunque toccherà la montagna, morrà. Nessuna mano deve toccarla. Deve essere ucciso con frecce o pietre”». Rimando al commento del brano di P. Sacchi, Sacro/profano impuro/puro nella Bibbia e dintorni, Paideia, Brescia 2007, pp. 47-48; ove si legge tra l’altro: «Il sacro, come l’impuro, ha la capacità di passare da un corpo all’altro per contatto. Il sacro, come l’impuro, doveva essere immaginato come un fluido in grado di invadere i corpi che venissero a contatto con esso; era presente nello spazio divino, ma poteva anche dilagare nello spazio umano, una volta che fosse penetrato in un corpo. Data la pericolosità del sacro, la distruzione del corpo contaminato sembrava indispensabile» (p. 48); l’uccisione con frecce o pietre garantiva il non entrare in contatto con il corpo contaminante. Sacchi mette comunque in rilievo come «col passare dei secoli questo modo di concepire il sacro cambiò profondamente, tanto che l’unione con Dio finì col divenire per molti il desiderio supremo» (p. 36). In questa sede, tenderò a identificare sacro/santo, né affronterò la complessa questione dell’ambiguo rapporto tra sacro/profano e puro/impuro (il segreto del religioso starebbe nella loro corretta separazione: Cfr. Lev 10,10; Ez 44,23), all’interno della tradizione ebraica (che originariamente interpretava il sacro, natura di potenza massimamente pericolosa e persino mortale per l’uomo, come affine all’impuro, natura pericolosa e depotenziante!). Rimando, in prop., a J. Neusner, The Idea of Purity in Ancient Judaism, Brill, Leiden 1973, in part. pp. 139-142, ove è sottolineato il legame tra nozione di purità e culto del Tempio santo, di cui si mettono in rilievo diverse interpretazioni spiritualistiche ebraiche settarie, che lo risolvono nella comunità; a J. Klawans, Impurity and Sin in Ancient Judaism, Oxford University Press, New York 2000; e ancora all’intero volume di P. Sacchi, Sacro/profano impuro/puro, cit., che sottolinea l’evoluzione storica dei rapporti tra queste categorie-chiave della religiosità ebraica, che comunque approda a una tendenziale identificazione dell’impuro con il peccato, che preclude la relazione di intimità con il sacro/santo, divenuta salvifica e beatifica, piuttosto che mortale. Mentre a Qumran tutto è impuro, tranne la comunità che si purifica, adeguandosi alla santità di Dio, per Gesù, nulla più è impuro o profano, perché tutto è di Dio, tranne il peccato dell’uomo, che è l’unica realtà davvero impura. Generalizzando, si potrebbe dire che il Tempio di Gerusalemme è chiamato a rendere possibile, al tempo stesso, la separazione tra sacro e profano e l’introduzione di Israele nella prossimità con il sacro stesso, sino a divenire sacro/santo come Dio (a differenza degli impuri pagani).

[4]Cfr. M. Eliade, Il sacro e il profano, cit., pp. 19-20: «Nel momento in cui il sacro si manifesta attraverso una qualsiasi ierofania, non soltanto viene interrotta l’omogeneità dello spazio, ma avviene contemporaneamente la rivelazione di una realtà assoluta, in opposizione alla non-realtà della distesa che la circonda. La manifestazione del sacro fonda ontologicamente il Mondo. Nella distesa distesa omogenea ed infinita, senza punti di riferimento né possibilità alcuna di orientamento, la ierofania rivela un “punto fisso” assoluto, un “Centro” […]. Per vivere nel Mondo, bisogna fondarlo, e nessun mondo può nascere nel “caos” della omogenenità e relatività dello spazio profano».

[5]Per una messa a fuoco delle difficoltà metodologiche nella definizione dell’oggetto storico-religioso “luogo sacro/“tempio”, rifratto in una pluralità di casi esemplari, cfr. A. Vauchez (ed.), Lieux sacrés, lieux de culte, sanctuaires. Approches terminologiques, méthodologiques, historiques et monographiques, École Française de Rome, Roma 2000.

[6] «Vorrei rimarcare la mia distanza rispetto a una prospettiva antropologico-religiosa che fa dello spazio sacro il centro cosmico di una cultura, già da sempre ridecretato attraverso il rito e il tempo festivo […]. Al contrario, io preferisco parlare di segni e di codici continuamente rinegoziati e ridefiniti nei quadri sociali e temporali della memoria culturale, ossia nei processi mnemostorici che governano la messa a fuoco dei significati» (L. Canetti, Impronte di gloria. Effigie e ornamento nell’Europa cristiana, Roma 2012, pp. 54-55). Condivido quest’assunto metodologico antifenomenologico e storicizzante di Canetti.

[7]Cfr. J. Z. Smith, To Take Place. Toward a Theory in Ritual, The University of Chicago Press, Chicago-London 1987, pp. 103-105.

[8]Il riferimento al sacro come «totalmente altro (ganz Andere)» è, ovviamente, dipendente dal grande testo di R. Otto, Das Heilige. Über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen, Trewendt und Granier, Breslau 1917, tr. it. Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e il suo rapporto al razionale, in R. Otto, Opere, Fabrizio Serra Editore, Pisa-Roma 2010, 203-324. La nozione è certo storicamente connotata: Otto riconnette il totalmente altro all’«aliud, aliud valde» di Agostino (Confessiones VII,10,16), ma articola la dialettica tra numinosum e tremendum soprattutto attraverso Lutero, senza dimenticare l’influenza di Schleiermacher e di Kierkegaard (ma si pensi alla stessa centralità barthiana del Totalmente altro). Ricordo che, per Otto, das Heilige corrisponde propriamente al qadoš ebraico, quindi al “santo”, la cui nozione andrebbe distinta da quella di “sacro”, anche se spesso Otto lo restituisca tramite il latino «sacrum». Per Otto, il sacro/santo come numinosum, tremendum e fascinosum (a seconda che esso si riveli come condanna/ira o dono/favore), è dimensione di radicale eccedenza, idea di una dimensione “orrenda” e per certi aspetti irrazionale, o meglio del mysteriosum in quanto formalmente irriducibile al pensiero concettuale: «la crisi di tutte le forze, il totalmente Altro» (Barth). Anche per il suo rapporto critico con l’impostazione di Otto, notevolissima è l’interpretazione del rapporto sacro/santo – storicamente problematica e religiosamente confessionale, ma di straordinaria portata filosofica – avanzata da E. Lévinas, Du Sacré au Saint. Cinq nouvelles lectures talmudiques, Minuit, Paris 1977, tr. it. Dal Sacro al Santo. Cinque nuove letture talmudiche, Città Nuova, Roma 1985: il sacro restituirebbe un rapporto entusiastico di sottomissione violenta e fusione spersonalizzante con il “divino/numinoso”, mentre il “santo”, proprio perché infinitamente separato, rivelerebbe la relazione con il Dio biblico come apertura di distanza, che presuppone l’“ateistica” distruzione dell’idolatrico mito religioso; soltanto in questa relazione di distanza con l’Altro, che si rivela come Bene, vi sarebbe spazio per il soggetto libero ed eticamente responsabile, cui è comandato il rapporto di cura nei confronti dell’altro uomo. Mentre per Otto l’idea di sacro/santo comporta la crisi di qualsiasi etica filosofica (si pensi all’utilizzazione kantiana del “santo”), per Lévinas il santo diviene scaturigine religiosa dell’etica stessa.

[9]Sul Tempio come luogo sacro/santo, cfr. J.D. Levenson, The Jerusalem Temple in Devotional and Visionary Experience, in A. Green (ed.), Jewish Spirituality, New York 1986, pp. 33-61; e E.P. Sanders, Judaism: Practice and Belief 63BCE-66CE, Trinity Press International, Philadelphia 1992, tr. it. Il giudaismo. Fede e prassi (63 a.c. – 66 d.c.), Morcelliana, Brescia 1999, pp. 63-162: «Il tempio era santo non solo perché il Dio santo vi era adorato, ma anche perché egli era là» (p. 96); e gli studi raccolti in O. Keel e E. Zenger (eds.), Gottesstadt und Gottesgarten. Zu Geschichte und Theologie des Jerusalemer Tempels, Herder, Freiburg-Basel-Wien 2002.

[10]Cfr. 1Re 8,10-14. Interessante l’excursus dedicato all’ebraismo da G. Piccaluga, Terminus. I segni di confine nella religione romana, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1974, 70-84, in riferimento ai segni di confine delle «pietre erette», le massēbôt. La pietra del sogno di Giacobbe sarebbe la massēbāh archetipica della casa di Dio (cfr. Gen 28,18-22), quindi del Tempio stesso, che segnerebbe il passaggio dalla dimensione errabonda delle popolazioni nomadi alla stabilizzazione di un popolo divenuto sedentario, che pertanto vede il ritorno all’erranza (di cui il deserto è simbolo) come ritorno al caos e diaspora nel vuoto. L’arca, che è la guida divina che conduce dall’erranza alla terra promessa, perduta/distrutta dopo la distruzione del Primo Tempio, doveva comunque scomparire, per essere recuperata soltanto nel tempo escatologico; storicamente, essa viene sostituita con la pietra del Tempio, che alcuni testi rabbinici interpretano come centro del mondo: «la pietra di fondazione del mondo» (Tanhuma, Kedoshim 10). Si dà, pertanto, oscillazione tra mantenimento della presenza ed escatologico ritorno dell’arca, come segno di una presenza di Dio più piena, definitiva, garantita da ogni nuova, possibile diaspora. In tal senso, cfr. il grande, seppure controverso volume di E. Voegelin, Order and History. I: Israel and Revelation, Louisiana State University Press, Baton Rouge 1956, University of Missouri Press, Columbia-London 2001(2), tr. it. Ordine e storia. I- Israele e la rivelazione, Vita e Pensiero, Milano 2009, in part. pp. 7, 151-235, 505-599, ove la storia di Israele è letta come dialettica tra sempre eccedente dispositivo dell’esodo e ordinante dispositivo della pragmatica strutturazione teologico-politica di tipo cosmologico, all’interno del quale rientrebbe la stessa fondante affermazione della centralità del Tempio di Gerusalemme. Sull’ossessione romana per il confinamento sacrale dello spazio e il suo ruolo politicamente e culturalmente fondativo, cfr. la notevole indagine di G. De Sanctis, La logica del confine. Per un’antropologia dello spazio nel mondo romano, Carocci, Roma 2015.

[11]Cfr. J. Z. Smith, To Take Place, cit., pp. 2-3, ove ricorre proprio l’esempio dei diversi templi di Gerusalemme, luoghi simbolici dei conflitti religiosi dal giudaismo all’Islam; e 79, su Costantino creatore politico della “Terra santa”. Ancora sulla conflittualità templare a Gerusalemme, cfr. G.W. Bowman, “In dubious Battle on the Plains of Heav’n”: The Politics of Possession in Jerusalem’s Holy Sepulchre, in «History and Anthropology» 22/3 (2011), pp. 371-399. Più in generale, sulle ideologie dei templi gerosolimitani, cfr. A. Hoffmann e G. Wolf (eds.), Jerusalem as Narrative Space/ Erzählraum Jerusalem, Brill, Leiden 2012; R. Salvarani, Il Santo Sepolcro a Gerusalemme. Riti, testi e racconti tra Costantino e l’età delle Crociate, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2012; O. Peri, Christianity under Islam in Jerusalem: the Question of the Holy Sites in Early Ottoman Times, Brill, Leiden 2001.

[12]Cfr. Mc 12,10-11, ove ricorre la citazione di Sal 118,22-23; Rm 9,32-33; 11,9; 1Cor 1,22-23, ove il Messia crocifisso è identificato con lo «scandalo», la pietra di inciampo dei giudei, pure divenuta nuova pietra angolare del Tempio universale; cfr., in tal senso, 1Pt 2,4-10.

[13]Sul concetto neotestamentario di Spirito, mi limito a rinviare a G. Theissen, Erleben und Verhalten der ersten Christen. Eine Psychologie des Urchristentums, Gütersloher Verlagshaus, Gütersloh 2007, tr. it. Vissuti e comportamenti dei primi cristiani. Una psicologia del cristianesimo delle origini, Queriniana, Brescia 2010, il par. «Pneuma come concetto collettivo di esperienze religiose nel cristianesimo delle origini», pp. 125-130, anche se dissento a) con l’identificazione del dono dello Spirito con «una scintilla di eternità nell’uomo» (p. 126) e b) con l’anomala, gnosticheggiante definizione dello Spirito come «forza che è all’opera negli esseri umani rinnovati [che] è della stessa sostanza (homoúsios) di questo Dio dell’aldilà, dello stesso rango, della stessa dignità e dello stesso modo di essere» (p. 130).

[14]Cfr. G. Theissen, Vissuti e comportamenti dei primi cristiani, cit., pp. 373-380: «I rituali e le comunità costituiscono un tutt’uno […]. I rituali sono il fondamento della comunità. Tutte le relazioni sociali dipendono da una comunicazione fatta di segni sensibili, che sono compiuti secondo modelli prevedibili» (p. 373).

[15]«Forse Gesù celebrò la sua ultima cena in sostituzione dei pasti sacrificali consumati nel Tempio, dopo che con il suo attacco al Tempio aveva reso impossibile una sua tranquilla partecipazione al culto del tempio: in una semplice cena a base di pane e vino i discepoli dovevano trovare un surrogato di quello che altrimenti trovavano in un sacrificio di comunione nel tempio (seguito da una consumazione comune). […] La santa cena delle origini si riallacciò in ogni caso ai conviti del Gesù storico. Però va al di là di essi. Essa non conteneva solo un’opposizione al Tempio, ma anche trasgressioni simboliche di tabù» (G. Theissen, Vissuti e comportamenti dei primi cristiani, cit., pp. 398-399). Sulle «trasgressioni rituali di tabù nella cena del Signore», interpretata dalle comunità protocristiane come sacrificio espiatorio, cfr. pp. 399-402; queste gravissime trasgressioni rituali della prassi liturgica giudaica sono: a) il consumare comunitariamente il sacrificio di espiazione, che, a differenza del sacrificio di comunione che univa tutta la comunità, era riservato dalla Legge ai soli sacerdoti, con la netta esclusione della vittima espiatoria dalla comunità, sicché «non è lecito mangiare comunitariamente i resti tabuizzati del sacrificio espiatorio […]. Un sacrificio di espiazione divenne così il fondamento di un sacrificio di comunione» (p. 400), confondendo i due piani nettamente distinti nella prassi templare; b) il bere simbolicamente il sangue di Cristo: «Qualsiasi giudeo aveva interiorizzato il divieto di bere il sangue. Egli inorridiva all’idea di bere la sostanza portatrice della vita e di trasgredire il comandamento […] “Non mangerete la carne con la sua vita, cioè con il sangue” (Gen 9,4)» (pp. 401-402); cfr. pp. 602-603. Si noti comunque, alle pp. 410-420, la differenziazione rintracciata (già da Hans Lietzmann) nelle comunità protocristiane tra a) pasto sacro religioso «moderato» senza trasgressione di tabù (=agape), cioè senza memoria della morte di Gesù, e b) pasto sacro religioso «estremo» con trasgressione di tabù (=eucarestia), cioè incentrato sulla memoria rituale della morte di Gesù. Per un’interpretazione dell’eucarestia come nuovo culto templare, che istituisce un nuovo ordine sacerdotale, cfr. M.P. Barber, The New Temple, the New Priesthood, and the New Cult in Luke-Acts, in «Letter & Spirit» 8 (2013), pp. 101-124, in part. 116-124.

[16]Cfr. Giustino, Prima apologia 65,1,67-8.

[17]Ibi, 65,1.

[18]Ibi, 65,1,67-8

[19]Cfr. ibi, 66,2.

[20] Ho approfondito e documentato le indicazioni avanzate in questo saggio in G. Lettieri, Note storico-critiche sul parallelismo sacramentale tra tempio e “persona” dalle origini cristiane alle teologie patristiche, in F.V. Tommasi (ed.), Tempio e persona, cit., pp. 153-197; G. Lettieri, “Fuori luogo”. Topos atopos dal Nuovo Testamento allo Pseudo-Dionigi, in D. Giovannozzi e M. Veneziani (eds.), Locus Spatium. XVI Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale Europeo, Olschki, Firenze 2014, pp. 81-148; e Id., Togliere l’immagine. Frammenti di “iconologia” protocristiana tra atopia e teofania, in D. Guastini (ed.), Genealogia dell’immagine cristiana. Studi sul cristianesimo antico e le sue raffigurazioni, Usher, Firenze-Lucca 2014, pp. 229-251.

[21]Cfr. Ger 31,31-34 ed Ez 36,16-36.

[22]Cfr. Rm 6,1-14; 7,1-6.

[23]1Cor 3,16-17

[24]1Cor 6,15.17.19-20.

[25]2Cor 6,16. Tornerò infra su Ef 2,19-22. Cfr. 1Pt 2,4-10. «The presence of this communal temple imagery in the Pauline, Petrine, and Johannine streams of early Christian tradition provides further evidence that the idea of the community as a temple likely developed very early among the first followes of Jesus» (T. Wardle, The Jerusalem Temple and Early Christian Identity, cit., p. 222); cfr. pp. 223-226. Sulla comunità paolina come Tempio di Dio e sui suoi eventuali rapporti con testi evangelici, cfr. L. Walt, Paolo e le parole di Gesù. Frammenti di un insegnamento orale, Brescia 2013, pp. 207-210. Su Paolo e il Tempio di Gerusalemme, cfr. P.W.L. Walker, Jesus and the Holy City: New Testament Perspectives on Jerusalem, Eerdmans, Grand Rapids 1996, pp. 116-143. Per una sintetica rassegna delle più significative e recenti interpretazioni della metafora del Tempio in 1Cor e 2Cor, cfr. Y. Liu, Temple Purity in 1-2 Corinthians, cit., pp. 4-9.

[26]Cfr. 1Cor 12,12-27; 2Cor 5,14-17; Rm 12,4-6; Col 3,9-11; Ef 4,4-6. Proprio perché l’estatica comunità/nuovo tempio vive dell’espropriazione vivificante operata dallo Spirito, non concordo affatto con l’interpretazione complessiva di Rm proposta da S.K. Stowers, A Rereading of Romans: Justice, Jews, and Gentiles, Yale University Press, New Haven-London 1994, ove si afferma che il fine paolino principale sarebbe quello di proporre alle élites romane un’etica di «self-mastery» o «self-control», di “spirituale” enkrateia o dominio di sé (Cfr. in part. p. 51), in concorrenza con i modelli ellenistici di formazione del sé e con quello giudaico di educazione attraverso la Legge (cfr. in part. pp. 57 e 74-79). Sul complesso tentativo di definire sociologicamente, per comparazione, le comunità paoline, cfr. S.K. Stowers, Does Pauline Christianity Resemble a Hellenistic Philosophy?, in R. Cameron e M.P. Miller (eds.), Redescribing Paul and the Corinthians, cit., pp. 219-244.

[27]In questo senso, sarebbe qui opportuna un’analisi sistematica di Ebrei. Proprio a partire da Ebrei, già Girolamo, De psalmo LXXXVIII (Tractatuum in psalmos series altera, in Tractatus sive homiliae in psalmos, Brepols, CCSL 78, Turnhout 1958, p. 410), metteva in relazione lo squarciarsi del velo del Tempio alla morte di Gesù e il sollevarsi del velo dalle Scritture illuminate dallo Spirito, il cui senso cristico rimane invece nascosto agli ebrei; cfr. anche Agostino, Epistola 110,26.

[28]Cfr. Es 40,34-35: «Allora la nube coprì la tenda del convegno e l’altare e la Gloria del Signore riempì la Dimora. Mosè non potè entrare nella tenda del convegno, perché la nube dimorava su di essa e la Gloria del Signore riempiva la dimora». Così, per la costruzione del Tempio di Gerusalemme da parte di Salomone: «Appena i sacerdoti furono usciti dal santuario, la nuvola riempì il tempio e i sacerdoti non potevano rimanervi per compiere il servizio a causa della nube, perché la gloria del Signore riempiva il Tempio […] “un luogo per la tua dimora perenne”» (1Re 8,11). Per il rapporto tra Gloria di Dio rivelatasi a Mosè nella nube, costruzione della Dimora/Santuario e dell’Arca (nella quale riporre le tavole di pietra della Legge), quindi della tenda, cfr. ovviamente Es 24,12-25,22; sul velo, cfr. anche 26,31-37. Su Mosè che si vela il viso dopo aver parlato con Dio nella tenda, cfr. 34,29-35. Sarebbe necessario esaminare, in tensione con i brani paolini, Ez 44,1-31, che non soltanto ribadisce la presenza della Gloria di Dio nel Tempio, ma definisce le norme del sacerdozio e del servizio sacro, vietando con violenza la possibilità di accesso al tempio agli stranieri e agli incirconcisi.

[29]«E noi tutti, a volto scoperto, riflettendo come in uno specchio la Gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima Immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2Cor 3,18); «E Dio che disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo» (4,6).

[30]Cfr. 2Cor 4,3-4: «E se il nostro vangelo rimane velato, lo è per coloro che si perdono, ai quali il dio di questo mondo ha accecato la mente incredula, perché non vedano lo splendore glorioso del vangelo di Cristo che è Immagine di Dio».

[31]Analoga la prospettiva giovannea: Cfr. Gv 1,14 e 17-18. Il Logos divenuto carne è la Gloria di Dio che è venuta a porre la sua tenda («ejskhvnosen») tra gli uomini; in tal senso, Cristo toglie in sé il Tempio, la sua carne accoglie la Gloria dell’Unigenito di Dio, rivelando a tutti i suoi lo stesso Dio invisibile, prima nascosto nel Tempio, donando quindi una grazia che trascende la legge data da Mosè (le cui tavole erano collocate nell’arca dell’alleanza nel primo Tempio). Cfr. R.E. Brown, Giovanni, cit., pp. 42-49; in part. «La suprema manifestazione dell’amore di Dio è la Parola incarnata, Gesù Cristo, il nuovo tabernacolo della gloria divina. […] L’inno termina con la trionfante proclamazione di una nuova alleanza in sostituzione dell’alleanza del Sinai» (pp. 48-49); Brown, inoltre, mette in relazione il radicale skn del verbo skhnou=n con il radicale ebraico škn, quindi con la teologia della shekinah (Cfr. pp. 45-47). Ricordo, comunque, che il termine skh=noò indica, proprio in 2Cor 5,1 e 5,4, la casa/tabernacolo terreni, contrapposta all’escatologica «dimora eterna celeste, non fatta da mani d’uomo (oijkiva ajceiropoivhtoò aijwvnioò ejn toi=ò oujranoi=ò)», quindi all’eterno tabernacolo nel quale Dio starà presso gli uomini.

[32]Cfr. 2Cor 4,16-5,10.

[33]Cfr. Y. Liu, Temple Purity in 1-2 Corinthians, cit., pp. 196-232, ove però non si connette la presenza dell’immagine del Tempio e l’invito alla purificazione in 2Cor 6,14-7,1 con 2Cor 3-4.

[34]Cfr. 2Cor 5,14-21.

[35]«Ciò che è tipico del sistema religioso paolino è che il sacro si manifesta non in luoghi né in oggetti, né in un solo ceto di persone, ma esclusivamente in tutti i singoli individui che hanno la fede (pistis) e che sono battezzati. Questa manifestazione avviene non solo nel pneuma e nella psychê dell’uomo, ma anche nel suo corpo (sôma)» (A. Destro e M. Pesce, Forme culturali del cristianesimo nascente, cit., p. 66).

[36]«Penso che Paolo sia consapevole […] che l’antica tradizione comprendeva moniti solenni di Gesù sull’imminente distruzione di Gerusalemme e del Tempio. Questo è l’evento che doveva verificarsi nel giro di una generazione» (N.T. Wright, Paul: Fresh Perspectives, Society for Promoting Christian Knowledge, London 2005; tr. it. L’apostolo Paolo, Claudiana, Torino 2008, p. 75).

[37]Cfr. l’intelligente saggio di P. Fredriksen, Paul, Purity, and the Ekklēsia of the Gentiles, in J. Pastor e M. Mor (edd.), Beginnings of Christianity. A collection of Articles, Yad Ben-Zvi Press, Jerusalem 2005, pp. 205-217, impegnato a comporre lo scarto tra Paolo e la Legge e a sottolineare l’ossequio di Paolo nei confronti del Tempio di Gerusalemme. Della Fredriksen, considero inappuntabili i rilievi metodologici sull’anacronismo storico, spesso utilizzato nel proporre un Paolo liquidatore ante litteram della Legge e del Tempio; Cfr. della stessa P. Fredriksen, Historical Integrity, Interpretive Freedom: The Philosopher’s Paul and the Problem of Anachronism, in J.D. Caputo e L.Martín Alcoff (edd.), St. Paul among the Philosophers, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 2007, pp. 61-73 (a partire dalle divergenti interpretazioni paoline di Origene e Agostino). Ma se certo Paolo rimane intimamente giudaico e la sua concezione della redenzione rimane essenzialmente dipendente dal Levitico, comunque mi paiono evidenti il suo gesto di rottura nei confronti della Legge, dichiarata come effimera, e la sua stessa katavrghsiò del Tempio di Gerusalemme, tolto nel corpo carismatico dei morti/resuscitati in Cristo. Per un’interpretazione coerente con quella della Fredriksen, cfr. A.L.A. Hogeterp, Paul and God’s Temple, cit., pp. 295-360, ove si cerca, a mio parere piuttosto forzatamente, di argomentare a favore di un’interpretazione «inclusive», piuttosto che «substitutionary» (p. 358) nel rapporto tra Tempio di Gerusalemme e tempio carismatico della comunità paolina, espressione da interpretare  metaforicamente/analogicamente, quindi con riferimento al Tempio di Gerusalemme; «therefore, metaphorical levels of thought about the Temple and cultic symbolism are not necessarily in tension with the institution of the concrete Jerusalem Temple in contemporary Jewish traditions» (p. 384). Se è vero che la spiritualizzazione paolina dipende dalla realtà storica del Tempio ed è anticipata o condivisa da alcune prospettive giudaiche non cristiane, le questioni aperte mi paiono essere: dopo la crocifissione di Gesù, per Paolo, che crede nella sua resurrezione, il Tempio rimane come luogo della presenza reale di Dio, quindi come luogo dell’autentico sacrificio sacerdotale? Per Paolo le distinzioni topologiche permangono, o il Tempio non è divenuto esso stesso realtà salvificamente effimera, superata? Non condivido, pertanto, la tesi di fondo di Hogeterp, secondo la quale Paolo presenterebbe, nei confronti del Tempio, una posizione meno radicale di quella di Stefano, in quanto di fatto affermerebbe il riconoscimento di un duplice, parallelo tempio/sistema di culto, uno concreto per i giudei, l’altro spirituale per i pagani.

[38]«The point is that the language of the Temple, sacrifice and purity pervades Paul’s letters and frequently influcences the way he thinks about himself, his converts and his behaviour» (M. Newton, The Concept of Purity at Qumran and in the Letters of Paul, Cambridge University Press, Cambridge 1985, p. 53).  Sui peccati sessuali e l’idolatria come capaci di rendere impura la comunità, producendo quindi la compromissione della sua natura di nuovo tempio dello Spirito, cfr. le pagine dedicate a Paolo da J. Klawans, Impurity and Sin in Ancient Judaism, cit., pp. 150-155. «La metafora [della comunità come tempio di Dio] ha un parziale parallelo nei manoscritti di Qumran, dove si trova applicata a quella comunità (1QS 8,5.8; 4Qflor 1,6). Superando ogni idea religionista e pagana di uno spazio fisico sacrale, esente da forze negative e quindi privilegiato per stabilire l’accesso al divino, essa riconosce alla chiesa come insieme umano di credenti le stesse caratteristiche di purezza che procurano un ricongiungimento immediato con Dio» (R. Penna, Le prime comunità cristiane. Persone, tempi, luoghi, forme, credenze, Carocci, Roma 2011, p. 150).

[39]Sulla modalità (tramite umiltà, rinuncia e sovvertimento) dei «reversal» dei «markers of status» all’interno delle comunità protocristiane, in particolare paoline (antigerarchiche e contrarie all’esclusivismo razziale), cfr. G. Theissen, The Religion of the Earliest Churches, Fortress Press, Minneapolis 1999, 63-71; e G. Theissen, Vissuti e comportamenti dei primi cristiani, cit., p. 382: «A differenza della ekklesia politica, nella comunità cristiana [paolina o postpaolina] donne e schiavi godevano di pari diritti. Gli stranieri avevano in essa uno status pienamente parificato. Essa era socialmente aperta […]. In Paolo esiste solo un organo particolarmente distinto, il membro più debole, in base al quale tutti gli altri devono orientarsi (Rm 12,3ss.)».

[40]Su Gal 3,28, pagine profonde hanno scritto A. Destro e M. Pesce, Antropologia delle origini cristiane, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 142-146. Notevole l’interpretazione proposta da L. Walt, Paolo e le parole di Gesù, cit., pp. 317-326: Gal 3,28 è letto in relazione non soltanto a brani dei vangeli canonici, ma anche al Vangelo di Tommaso o alla Seconda Lettera di Clemente ai Corinzi. Interessante l’analisi di Gal 3,28 di E. R. Urciuoli, Un’archeologia del “noi” cristiano, cit., pp. 76-79, ove vengono discusse le opposte interpretazioni di Veyne, per la quale Urcioli propende, e della Baslez, per la quale personalmente propendo. Per un tentativo di evidenziare la rilevanza sociale e di fondo antigerarchica delle prospettive carismatiche paoline, cfr. D. Odell-Scott, Paul’s Critique of Theocracy: A Theocracy in Corithians and Galatians, New York 2003. Questa prospettiva non comportava una cancellazione delle identità etniche e sociali, ma un loro superamento etico e spirituale, che certo si differenziava da quello culturale dominante nella società greco-romana: Cfr. J.B. Tucker, You Belong to Christ: Paul and the Formation of Social Identity in 1 Corinthians 1-4, Eugene (Or) 2010. Per un’originale lettura di Rom, interpretata come polemica paolina contro tendenze presenti nelle comunità romane a intepretare la salvezza come dono “imperiale” offerto da Dio soltanto ad alcuni, ma non agli ebrei, quindi per la restituzione della cristologia paolina come profondamente politica, perché in conflitto contro modelli politici della “divinità” imperiale, cfr. N. Elliot, Paul’s Political Christology: Samples from Romans, in K. Ehrensperger (ed.), Reading Paul in Context: Explorations in Identity Formation. Essays in Honour of William S. Campbell, T&T Clark, London-New York 2010, pp. 39-51. Cfr. A. Badiou, Saint Paul. La fondation de l’universalisme, Puf, Paris 1997, p. 113: «Ce qui importe, homme ou femme, Juif ou Grec, esclave ou libre, c’est que les différences portent l’universel qui leur arrive comme une grâce». Se certo l’universale di Paolo è elettivo e carismatico, ristretto ai credenti in Cristo che vivono di Spirito, comunque la rivoluzione teologica paolina è davvero “invenzione” di una politica (che l’occidente secolarizzerà, liberandola dalla limitazione confessionale, quindi potenziandone la portata universalistica) dell’eccedenza accogliente dell’universale del dono, rispetto alla proprietà esclusiva delle differenze.

[41]Cfr. l’affermazione criptopaolina del “Pietro” lucano, che, negando la qualifica sacralmente connotata di profano/impuro al pagano, di fatto neutralizza o secolarizza la nozione di koinovò, che ora viene a designare l’uomo comune partecipe della comunione comunitaria: «Voi sapete che non è lecito (ajqevmiton) per un Giudeo unirsi o incontrarsi con persone di altra razza (kolla=sqai hjV prosevrcesqai); ma Dio mi ha mostrato che non si deve dire profano o immondo nessun uomo (mhdevna koinoVn hjV ajkavqarton levgein ajvnqrwpon)» (Atti 10,28). Per una convincente interpretazione della continuità tra Gesù e Paolo sulla relativizzazione dell’impurità del cibo, quindi sul passaggio da un’identificazione esterna a un’identificazione interna, morale delle fonti di impurità (senza che questo significasse, per Gesù, la violazione delle norme alimentari), eppure sull’innovazione paolina che tende a identificare il puro e il santo con l’ejkklhsiva gesuana e l’impuro con il mondo esterno non convertito, cfr. M. Rescio e L. Walt, “There Is Nothing Unclean”: Jesus and Paul against the Politics of Purity?, in «Annali di storia dell’esegesi» 29/2 (2012), pp. 53-82.

[42]«In the use of temple imagery, Paul is differentiating his audience from the surrounding society by promoting positive group identity and moral standards that are compatible with their new status in-Christ» (K.Y. Lim, Paul’s Use of Temple Imagery in the Corinthian Correspondence: The Creation of Christian Identity, in K. Ehrensperger (ed.), Reading Paul in Context, cit., pp. 189-208, in part. 204).

[43]Per l’evidenziazione dello scarto a Corinto tra l’ideale progetto di Paolo (fondare una comunità carismatica) e il suo esito soltanto parziale, se non fallimentare (la realtà sociologica del contesto sociale frustra l’intenzione paolina), cfr. S.K. Stowers, Kinds of Myth, Meals, and Power: Paul and the Corinthians, in R. Cameron – M.P. Miller (eds.), Redescribing Paul and the Corinthians, Society of Biblical Literature, Atlanta 2011, pp. 105-150: «The idea of a community is the idea of a highly integrated social group based on a common ethos, practices, and beliefs. Paul preached the gospel, people converted, and Paul welded them into a community. With this assumption, Paul’s words in 1 Cor 1:10 become the basis for asking the question, How did the Corinthian community become divided? What false doctrine from inside the community, or infiltrating from the outside, corrupted the community or seduced a portion of it? […] In my view, two things are very clear from the evidence of the Corinthian letters: first, Paul very much wanted the people to whom he wrote to be a community, and he held a theory saying that God had miraculously made them into a community ‘in Christ’; second, the Corinthians never did sociologically form a community and only partly and differentially shared Paul’s interests and formation» (pp. 108-109).

[44]Giuseppe Flavio, De bello iudaico V,219.

[45]«Questo era il primo cortile. Più all’interno, a non grande distanza, c’era il secondo, cui si accedeva salendo pochi gradini e che era recintato da un recinto marmoreo recante una scritta che proibiva l’ingresso agli stranieri, sotto pena di morte (oJvn periei=cen eJrkivon liqivnou drufavktou grafh=/ kwlu=on eijsievnai toVn ajlloeqnh= qanatikh=ò). […] Più all’interno di questo cortile, il tempio non era accessibile alle donne (ejswtevrw deV kajkeivnou gunaixiVn ajvbaton h^n toV iJerovn). Ancora più all’interno c’era un terzo cortile, dove era permesso entrare soltanto ai sacerdoti. Qui c’era il santuario con davanti un altare sul quale venivano offerti a Dio degli olocausti» (Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche XV,5,417-420). Sulla topografia del Tempio di Gerusalemme, illustrata anche attraverso il qumranita Rotolo del Tempio e riferimenti alla letteratura rabbinica, e su liturgia e ierocrazia templari, cfr. la descrizione dettagliata della struttura del Tempio di E.P. Sanders, Il giudaismo, cit., pp. 74-95; J. Maier, Zwischen den Testamenten. Geschichte und Religion in der Zeit des zweiten Tempels, Echter Verlag, München 1990, tr. it. Il giudaismo del secondo Tempio. Storia e Religione, Paideia, Brescia 1991, pp. 280-282, 288-291 e 294-296. Sull’identificazione di toV mesovtoicon tou= fragmou con il muro intermedio/recinto di separazione del Tempio, cfr. M. Barth, The Broken Wall: A Study of the Epistle to Ephesians, 1959, Regent College Publishing, Vancouver 2002(2), in part. pp. 39-51; C. McMahan, “The Wall is Gone!”, in «Review and Expositor» 93, 1996/2, 261-266; la complessa e zetetica analisi di E. Best, A Critical and Exegetical Commentary on Ephesians, T&T Clark, London-New York 1998, pp. 243-261; e M. Kitchen, Ephesians, Routledge, London-New York 1994, pp. 64-69. Critico nei confronti di quest’interpretazione, ma a mio parere senza essere convincente, H.W. Hoehner, Ephesians: An Exegetical Commentary, Grand Rapids 2002, pp. 368-371 (che il Tempio e le sue articolazioni fossero ancora in piedi, quando Paolo scriveva Efesini, è uno degli argomenti portati contro l’identificazione del muro di separazione con quello che separava Cortile dei pagani da Cortile degli ebrei!).

[46]Che l’opposizione schiavo/libero abbia soprattutto un significato etnico-religioso, e soltanto secondariamente sociale, è provato dall’immediata prosecuzione del brano di Paolo, in Gal 4,1-31: pur rovesciandola in prospettiva messianico-carismatica (che toglie universalmente i figli della schiava nei figli della libera), Paolo riprende qui la tradizione identificazione ebraica di Israele come figlio della libera Sara e dei pagani (Ismaele, cacciato nel deserto, si unirà poi con un’egiziana: Cfr. Gen 21,21) come figli della schiava Agar. Da Paolo, la nozione di schiavo è sottoposta a una notevole torsione: a) gli schiavi indicano i pagani, o meglio gli etno-cristiani; b) gli schiavi indicano le persone di condizione sociale inferiore; c) gli schiavi sono identificati con coloro che erano sottomessi al peccato o alla Legge stessa, quindi in-differentemente con pagani ed ebrei, dalla grazia della fede in Cristo divenuti liberi, eppure schiavi di Dio (Cfr. Rm 6,17-22; 7,6). Conferma della portata principalmente etnico-religiosa dell’opposizione schiavo/libero, all’interno di una prospettiva battesimale, è 1Cor 12,13: «Infatti siamo stati tutti battezzati in un solo Spirito, per formare un unico corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi (eijvte  jIoudai=oi eijvte  JvEllhneò eijvte dou=loi eijvte ejleuvqeroi) e tutti ci siamo abbeverati al medesimo Spirito»; Cfr. Rm 10,12. Sulla dialettica ejleuvqeroò/dou=loò, cfr. 1Cor 9,19-23. Che i giudei si identificassero con «i liberi», proprio perché discendenti eletti di Abramo e che Gesù stesso identificasse i liberi con «i figli», è provato da Gv 8,31-35. Si pensi, poi, alla fondamentale profezia universalistica di Is 56,6-8 rivolta «agli stranieri (sec. LXX: toi=ò ajllogenevsi)»: questi, sottomessi al vero Dio e disposti a divenire suoi «servi (douvloi)», amando «il nome del Signore», saranno ammessi «sul monte santo di Dio» e a loro, con gli stessi impuri eunuchi che comunque onorano Dio e la Legge, Dio riserverà «un posto e un nome migliore che ai figli e alle figlie (tovpon ojnomastoVn kreivttw uiJw=n kaiV qugatevrwn) […]. I loro olocausti e i loro sacrifici saliranno graditi sul mio altare, perché il mio tempio si chiamerà casa di preghiera pr tutti i popoli (oJ gaVr oijkovò mou oijkovò proseuch=ò klhqhvsetai pa=sin toi=ò ejvqnesin)». La prospettiva paolina evidentemente reinterpreta messianicamente la profezia di Isaia.

[47]Nel giudaismo del I secolo, il muro/recinto di separazione (fragmovò) era identificato con la Legge o con la Legge orale che i farisei, costruttori del muro, edificavano intorno alla Torah. Cfr. H.W. Hoehner, Ephesians, cit., pp. 370-371.

[48]Cfr. J.D.G. Dunn, The Partings of the Ways. Between Christianity and Judaism and their Significance for the Character of Christianity, SCM, London 1991, 2006(2), il cap. «A Temple “made without hands”», 100-128, ove si tratta soprattutto di Paolo, per poi mostrare la sostanziale coerenza, in proposito, del NT, in particolare di Giovanni e dell’Epistola agli Ebrei.

[49]«Quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’Immagine del Figlio suo (prowvrisen summovrfouò th=ò eijkovnoò tou= uiJou= aujtou=), perché egli sia il primogenito (prwtovtokoò) tra molti fratelli» (Rm 8,29).

[50]Cfr. M. Pesce, Le due fasi della predicazione di Paolo. Dall’evangelizzazione alla guida della comunità, Edizioni Dehoniane, Bologna 1994, pp. 241-244: «La chiesa è essenzialmente una realtà liturgica. […] Come luogo dell’anticipazione dell’eschaton la chiesa pretende di essere uscita dalla “storia” (da “questo eone” secondo il linguaggio giudaico paolino), la chiesa è luogo di attesa, ma anche di sperimentazione, dell’uscita dalla storia. Sociologicamente essa è perciò il luogo della marginalizzazione del credente».

[51]Ricordo che il brano citato da Paolo chiude il canto del servo sofferente del DeuteroIsaia: «Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato. Come molti si stupiranno di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo – così si meraviglieranno di lui molte genti; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito» (Is 52,13-15). Sull’interpretazione del Servo sofferente del Deutero-Isaia come «priestly figure», cfr. M.P. Barber, The New Temple, cit., p. 116; e J.W. Adams, The Performative Nature and Function of Isaiah 40-55, T&T Clark, New York 2006, pp. 203-206.

[52]Cfr. E.P. Sanders, Jerusalem and its Temple in Early Christian Thought and Practice, cit., pp. 97-100. Dell’interpretazione di Sanders, mi lascia perplesso un solo particolare: affermare che Paolo «did not apply his Christology [espiatoria] to the question of Temple worship. He says nothing against it» (p. 99). Ma se, per Paolo, soltanto il sacrificio di Gesù Cristo è l’espiazione universale dei peccati, quale ruolo sacro, quale portata espiatoria potevano conservare i sacrifici del Tempio? Così, l’interpretazione proposta da Sanders dell’entrata all’interno del Tempio di Paolo in compagnia di alcuni pagani, come prova del suo pieno riconoscimento del sistema di culto templare (cfr. p. 100), mi pare assai debole; come poteva egli ammettere come pienamente validi culto e sacrifici del Tempio, violandone le regole di sacralità, profanandolo con l’introduzione di pagani/koinoiv? Mi pare invece convincente l’affermazione che Paolo interpretasse il pellegrinaggio dei pagani/cristiani a Gerusalemme e al Tempio come realizzazione delle profezie escatologiche (cfr. p. 102; anche E.P. Sanders, Paul, the Law, and the Jewish People, Fortress Press, Minneapolis 1983, SCM, London 1985(2), pp. 171-173 e 199-200), ma nel senso che era la chiesa carismatica a togliere in sé il vecchio culto del Tempio, introducendo nel suo involucro ormai vuoto di presenza il vero mistero sacrale della morte/resurrezione del corpo comunitario di Cristo vivificato dal suo Spirito. Ma questo non avrebbe dovuto comportare l’ingresso di un comune pagano/gesuano, profano divenuto santo, nello stesso Sancta sanctorum, in qualsiasi giorno dell’anno?

[53]«Egli [Cristo] è immagine del Dio invisibile (eijkwVn tou= qeou= tou= ajoravtou), primogenito di ogni creatura (prwtovtokoò pavshò ktivsewò); poiché in lui sono state create tutte le cose (ejn aujtw=/ ejktivsqh taV pavnta), quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte le cose sussistono in lui (taV pavnta ejn aujta=/ sunevsthken). Egli è anche il capo del corpo (hJ kefalhV tou= swvmatoò), cioè della Chiesa; il principio (ajrchv), il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli» (Col 1,15-20).

[54]Si veda per un approfondimento G. Lettieri, Materia mistica. Spirito, corpi, segni nei cristianesimi delle origini, Mondadori, Milano 2016, capitolo II, «L’ultimo nel primo. L’uomo ad immagine e somiglianza nelle antropologie protocristiane».

[55]Cfr. G. Lettieri, Materia mistica, cit., capitolo II, in part. 1,4; e capitolo V, «Topos atopos dal Nuovo Testamento allo Pseudo-Dionigi», in part. par. 5.

[56]Cfr. A.R. Kerr, The Temple of Jesus’ Body: The Temple Theme in the Gospel of John, Sheffield Academic Press, Sheffield 2002, in part. «A New Centre of Worship: John 4.16-24», pp. 167-204. Sulla prospettiva fortemente conflittuale che caratterizza la restituzione giovannea dei rapporti tra Gesù e il Tempio, cfr. le importanti considerazioni di A. Destro e M. Pesce, Forme culturali del cristianesimo nascente, cit., pp. 159-170, soprattutto 160-161.

[57]Per un’analisi sistematica del passo e della relativa bibliografia, rimando a G. Lettieri, Materia mistica, cit., capitolo III, «Il corpo di Dio. La mistica erotica del Cantico dei cantici dal Vangelo di Giovanni ai Padri», in part. par. 3,5.

[58]Cfr. R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria. II: gli sviluppi, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1999, il cap. IV, «La lettera agli Ebrei», pp. 265-328, in part. il par. 4, «(Sommo) Sacerdote», pp. 293-319; E.F. Mason, “You Are a Priest Forever”. Second Temple Jewish Messianism and the Priestly Christology of the Epistle to the Hebrews, Brill, Leiden 2008, in part. pp. 8-38.

[59]Per un’analisi sistematica di questo testo capitale, primo trattato cristiano di ermeneutica biblica, cfr. G. Lettieri, Il frutto nascosto. Ontologia delle Scritture e Sophia cifrata nell’Epistola a Flora di Tolomeo gnostico (in stampa).

[60]Cfr. G. Lettieri, Lattanzio ideologo della svolta costantiniana, in Costantino I. Enciclopedia costantiniana sulla figura e l’immagine dell’imperatore del cosiddetto Editto di Milano 313-2013, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2013, II, pp. 45-57.

[61]M. Sachot, L’invention du Christ. Genèse d’une religion, Paris 1998, tr. it. La predicazione del Cristo. Genesi di una religione, Torino 1999, p. 158; Cfr. pp. 158-163.

[62]Cfr. questi due testi davvero decisivi di Tertulliano, Apologeticum: «Nos enim pro salute imperatorum deum invocamus aeternum, deum verum, deum vivum» (30,1); «Est et alia maior necessitas nobis orandi pro imperatoribus, etiam pro omni statu imperii rebusque romanis, qui vim maximam universo orbi imminentem ipsamque clausulam saeculi acerbitates horrendas comminantem romani imperii commeatu scimus retardari. Itaque nolumus experiri et, dum precamur differri, romanae diuturnitati favemus» (32,1).

[63]Cfr. 1Cor 16,22; ApGv 22,20.

[64]Cfr. Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiastica IX,9,5-9. Ma cfr. Vita Constantini I,12,1-12,2, con il paragone tra Mosè allevato presso la corte del faraone e Costantino cresciuto (seppure come figlio del “pio” Costanzo) in un impero pagano governato da tetrarchi tiranni e persecutori.

[65]Per un confronto tra la prospettiva varroniana del rapporto tra religio e civitas, messa in tensione con quella agostiniana, cfr. G. Lettieri, Riflessioni sulla teologia politica in Agostino, in P.Bettiolo-G. Filoramo (edd.), Il dio mortale. Teologie politiche tra antico e contemporaneo, Morcelliana, Brescia 2002, pp. 215-265; Sacrificium civitas est. Sacrifici pagani e sacrificio cristiano nel De Civitate Dei di Agostino, in «Annali di Storia dell’Esegesi», 19/1(2002), pp. 127-166; Civitas in Agostino, in «Parola, Spirito e Vita » 50(2004), pp. 181-211.

[66]Cfr. J. Rüpke, Die Religion der Römer. Eine Einführung, Verlag C.H. Beck, München 2001, pp. 132-136.

[67]Cfr. le citazioni varroniane in Agostino, De Civitate Dei VI,2-9; VII,1-6; VII,17-28, in part. il fondamentale capitolo 17.

[68]Scrive François Jacques, facendo riferimento a Cicerone: «Tout comportement social, tout acte communautaire comprenait nécessairement une composante religieuse, et vice versa. Une métaphore, déjà employée par les anciens (par exemple Cicéron, Lois 1, 7, 23 ; 2, 10, 26) aide à comprendre l’imbrication du politique et du religieux ; d’après cette représentation la cité est le lieu et l’expression d’un synécisme des dieux et des hommes. C’est pour cette raison que tout acte exprimant la volonté de cette communauté d’hommes et de dieux renvoient aux deux groupes de citoyens qui la composent» (F. Jacques – J. Scheid, Rome et l’intégration de l’Empire. 44 av. J.-C. – 260 ap. J.-C., Tome I: Les structures de l’empire romain, Puf, Paris 1990, p. 112).

[69]Cfr. Agostino, De Civitate Dei VII,6; e soprattutto 23.

[70]J. Scheid, La religione a Roma, Laterza, Roma-Bari 1983, 2004(4), p. 162.

[71]Esponente estremista, ma intelligente della tesi di Costantino come cristiano “tollerante” e rispettoso della coesistenza tra cristianesimo e paganesimo, è H.A. Drake, Lambs into Lions: Explaining Early Christian Intolerance, in «Past and Present» 153, 1996, pp. 3-36, in part. 19-22, ove si insiste sulla tollerante strategia costantiniana volta a favorire la coesistenza pacifica tra cristianesimo e paganesimo; Cfr. Id., Constantine and Consensus, in «Church History» 44 (1995), pp. 1-15; e soprattutto Id., Constantine and the Bishops. The Politics of Intolerance, John Hopkins Universiti Press, Baltimore 2000, che sottolinea come, contro ogni intolleranza chiesastica e il radicalismo violento di vescovi e monaci, Costantino, guidato dall’imperativo prioritario di creare consenso politico, rifiutasse il ricorso alla coercizione religiosa e ammettesse piena libertà di scelta religiosa. Ma un politico straordinario come Costantino poteva sensatamente rovesciare le persecuzioni anticristiane in persecuzioni antipagane, che avrebbero dovuto colpire la netta maggioranza della popolazione dell’impero? Non è un vero e proprio anacronismo storico quello che ci induce a salutare come testimonianza di tolleranza una politica pragmatica, intenta a “normalizzare” e rendere accettabile anche ai sudditi pagani una vera e propria rivoluzione religiosa, comunque nettamente perseguita?

[72]Cfr. Eusebio, Vita Constantini II,48,1-60,2.

[73]Cfr. Id., Vita Constantini II,56,1-2, in part.: «Si tengano pure, se credono, i santuari della falsità (taV th=ò yeudologivaò temevnh)».

[74]Cfr. G.G. Stroumsa, Tertullian on Idolatry and the Limits of Tolerance, in G.G. Stroumsa e G.N. Stanton (edd.), Tolerance and Intolerance in Early Judaism and Christianity, Cambridge University Press, Cambridge 1998, pp. 173-184, tr. it. in G. Stroumsa, La formazione dell’identità cristiana, Morcelliana, Brescia 1999, cap. VIII, «Tertulliano, l’idolatria e i limiti della tolleranza», pp. 167-179; e, più in generale, M. Marcos, Persecution, Apology and the Reflection on Religious Freedom and Religious Coercion in Early Christianity, in «Zeitschrift für Religionswissenschaft» 20(2012), pp. 35-69.

[75]Cfr. Editto ai provinciali d’Oriente, in Eusebio, Vita Constantini II,60,1: «Le convinzioni che ciascuno nutre e delle quali è persuaso non siano il mezzo per recare offesa ad altri; ciò che ognuno sa e di cui è convinto, se è possibile, sia di giovamento al prossimo, e se ciò invece non è possibile, è meglio lasciar perdere (parapempevsqw). Infatti una cosa è impegnarsi volontariamente nella lotta per l’immortalità (ajvllo gavr ejsti toVn uJpeVr ajqanasivaò a^qlon eJkousivwò ejpanairei=sqai) e un’altra è l’esservi costretto dal timore della punizione (ajvllo toV metaV timwrivaò ejpanagkavzein)». Cfr., in Id., Historia Ecclesiastica X,5,8, affermazioni analoghe già nell’Editto di Milano di Costantino e Licinio.

[76]Si pensi all’espressione, che definirei tecnica, di «coloro che si fanno da parte (oiJ eJautouVò ajfelkonteò)», che ricorre in Eusebio, Vita Constantini II,56,2.

[77]«Il passaggio alla nuova epoca si manifestò nel modo più evidente con la sparizione dei sacrifici. Da sempre essi erano la manifestazione più potente della vivacità dei culti pagani […]. In una legge del 319, Costantino definì la lettura delle viscere dei sacrifici un pratica superstiziosa e, in seguito, nel 323, definì tale l’atto del sacrificio stesso. Per i cristiani che ricoprivano incarichi pubblici fu abolito l’obbligo di fare sacrifici. Non potevano essere costituiti nuovi culti sacrificali, alcuni templi furono chiusi o addirittura distrutti, per presunta prostituzione sacra o per il recupero di luoghi originariamente cristiani […]. Nonostante la maggior parte dei luoghi di culto pubblici continuasse a esistere, l’ardore dei sacrifici si spense nel corso del decennio del 320. […] Le idee pagane non erano (ancora) scandalose, ma le pratiche pagane suscitavano disapprovazione […]. Offrire sacrifici non era più opportuno» (R. Pfeilschifter, Il Tardoantico, cit., p. 49). Notevole la sintesi di G. Bonamente, La “svolta costantiniana”, in E. dal Covolo e R. Uglione (eds.), Chiesa e impero. Da Augusto a Giustiniano, Las, Roma 2001, pp. 145-170.

[78]Cfr. Editto ai provinciali d’Oriente, in Eusebio, Vita Constantini II,55,1-56,1.

[79]Sull’autenticità della fede di Costantino e sulla novità della sua concezione provvidenzialistica del rapporto tra divino e potere imperiale, che imponeva di interpretare il proprio potere come al servizio del geloso Dio onnipotente dei cristiani, trovo convincente l’interpretazione di P. Veyne, Quand notre monde est devenu chrétien (312-394), Albin Michel, Paris 2007, pp. 108-116. Considero, in proposito, ancora fondamentale il volume di T.D. Barnes, Constantine and Eusebius, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1981; Cfr. l’«Epilogue», pp. 272-275. Molto equilibrato il bilancio di G. Rinaldi, Cristianesimi nell’antichità. Sviluppi storici e contesti geografici (Secoli I-VIII), Edizioni GBU, Chieti-Roma 2008, il cap. X, «La svolta filocristiana dell’impero. L’età di Costantino», pp. 643-679.

[80]Editto ai provinciali d’Oriente, in Eusebio, Vita Constantini II,55,2.

[81]Ibi, II,55,2. «Quelli distruggevano fin dalle fondamenta i luoghi di preghiera, demolendoli da cima a fondo, mentre egli decretava di rendere più imponenti gli edifici già esistenti e di innalzarne di nuovi con grande magnificenza, attingendo allo stesso tesoro imperiale» (ibi, III,1,4).

[82]Cfr. M. Sachot, La predicazione del Cristo, cit., il cap. II, «Il cristianesimo, religione romana e cristiana», in part. par. 2, «Romanizzazione del cristianesimo e cristianizzazione della romanità», pp. 168-186.

[83]Significativa la tesi di P. Veyne, Quand notre monde est devenu chrétien, cit., pp. 209-215, per il quale il riconoscimento del rapporto di autonomia tra religione (“Dio”) e politica (“Cesare”) non sarebbe affatto un portato cristiano, ma al contrario un dato di fatto “pacifico” proprio della religiosità pagana; infatti, presso i pagani, «la religion était partout, saupoudrait toutes choses, mais elle était simple et légère, elle revêtait de solennité toutes choses, sans obliger à grand-chose […]. Au contraire, c’est avec le triomphe du christianisme qu’entre religion et pouvoir les relations ont cessé d’être du saupoudrage et se sont théorisées, systématisées. Dieu et César ont cessé d’agir chacun de leur côté, Dieu s’est mis à peser sur César, il faillait que César rendît à Dieu ce qui était dû à Dieu. Le christianisme demandera aux rois ce que le paganisme n’avait jamais demandé au pouvoir: étendre le plus possible le culte de Dieu et se mettre au service de la majesté divine» (p. 215). Ritengo condivisibile il rifiuto di forzare in anacronistico riconoscimento dell’autonomia del potere secolare il “dare a Cesare” gesuano, che piuttosto interpreto come abbandono della potenza politica pagana (così come di Mammona) alla sua vanità, presto apocalitticamente manifestata; in tal senso, la svolta costantiniana introduce, effettivamente, una novità assoluta, stabilendo una relazione ideologica organica e gerarchica tra Dio e Cesare, inaugurando quella cristianità costantiniana certo antitetica alla nozione liberale e democratica di piena autonomia del politico rispetto a qualsiasi pre-potente e intollerante ipoteca religiosa. Nelle tesi di Veyne, mi lascia, piuttosto, molto perplesso la restituzione idealizzata, vaporosa e “tollerante” della religione pagana, che in realtà risultava come elemento decisivo e ideologicamente funzionale del potere politico (religio civilis), quindi come sua sacralizzazione (violentemente ribadita dalla “riaffermazione” tetrarchica della religio tradizionale); cfr., in tal senso, G. Filoramo, La croce e il potere. I cristiani da martiri a persecutori, Laterza, Roma-Bari 2011, il cap. «La religione politica dell’impero romano», pp. 3-42, in part. 13-17. Insomma, se è vero che il Dio cristiano, con Costantino, ha cominciato a pesare pre-potentemente su Cesare, d’altra parte Cesare già pesava violentemente sulla società romana, anche tramite la religione pagana, macchina di consenso ideologico a una struttura politica, sociale, culturale senza dubbio violenta, imperialista, bellicista, schiavista (certo ereditata dalla cristianità costantiniana); si pensi alla decostruzione del mito di Roma intrapresa dal De civitate Dei agostiniano. Sicché, certo con il passare dei secoli, mi chiedo se proprio la subordinazione gerarchica del potere politico a un potere assoluto trascendente, che comunque imponeva storicamente almeno la mira di ideali evangelici, non abbia favorito, in occidente, il processo (in prospettiva anticostantiniano) di desacralizzazione del potere, quindi di affermazione di valori politici ispirati a valori evangelici, irriducibilmente kenotici, escatologici, caritatevoli-disseminativi (che, con Nietzsche, potremmo definire protodemocratici).

[84]Per la centralità del modello messianico davidico nell’identificazione dell’investitura divina, che tende appunto a sovrapporre la dimensione sacerdotale su quella regale del potere imperiale, quindi sulla natura provvidenziale della sua trasmissione, cfr. G. Dragon, Empereur et prêtre. Étude sur le “césaropapisme” byzantin, Gallimard, Paris 1995, in part. p. 21; cfr., su Costantino, l’intero cap. IV.

[85]Considero definitivo il bilancio di Manlio Simonetti, per il quale Costantino realizzò «in brevissimo tempo la completa integrazione della struttura della chiesa in quella ben più vasta e complessa, anche se per vari aspetti fatiscente, dell’impero, un processo di vera e propria simbiosi tra i due organismi, sotto la guida unificante dell’imperatore. […] Eusebio interpretò la carismatica figura di Costantino, novello Mosè, quale immagine terrena del re celeste, il Logos divino, e perciò un suo rappresentante in terra e l’impero che si avviava a diventare cristiano quale la realizzazione del regno messianico vagheggiato dai profeti dell’AT. In questo modo veniva subito sanzionata, a livello di teoria, la presa di potere che Costantino aveva realizzato nei confronti della chiesa, cominciando a operare, già l’indomani dell’emanazione dell’editto di Milano, quale suo capo effettivo […] Non meravigli la subitaneità e la mancanza di opposizione che caratterizzarono la presa di potere dell’imperatore su una chiesa che fino a pochi decenni prima avvertiva nell’autorità dello stato un tradizionale nemico. In effetti, stante la dimensione piramidale dell’organizzazione statale romana, al vertice, cioè nell’imperatore, si assommava unitariamente tutto il potere, del quale, come sappiamo, la componente religiosa rappresentava parte non secondaria e alla quale egli presiedeva nella qualità di pontifex maximus. Era perciò quanto mai naturale che, messa fine all’ostilità plurisecolare che l’impero aveva manifestato nei confronti della chiesa e chiamata finalmente la chiesa a integrarsi nell’organismo statale, anche di essa l’imperatore assumesse la suprema autorità, diventandone il capo effettivo, non solo di fatto ma anche di diritto […] naturale parve, sia a lui sia ai diretti interesasti, l’estensione alla comunità cristiana dell’autorità che egli deteneva nell’ambito della religione pagana» (M. Simonetti, Il vangelo e la storia. Il cristianesimo antico (secoli I-IV), Carocci, Roma 2010, pp. 193-194). Sulla centralità del modello mosaico, nella restituzione teologico-politica eusebiana di Costantino, cfr. M. Amerise, Costantino il “nuovo Mosè”, in «Salesianum» 67 (2005), pp. 671-700, ove si mette in rilievo la dipendenza della Vita Constantini eusebiana dalla Vita Mosis di Filone d’Alessandria.

[86]Sulla caratterizzazione imperiale dell’ultima fase della religione romana, paradossalmente capace di favorire il successo del cristianesimo e la sua riconfigurazione in esso, cfr. J. Scheid, La religione a Roma, cit., il cap. IV, «La nuova religione», pp. 139-153. Sul potere imperiale trionfante convertito come modello per la redifinizione della teologia della storia cristiana, rimando ai miei Lattanzio ideologo della svolta costantiniana, cit., e Costantino nella patristica latina tra IV e V secolo, in A. Melloni (ed.), Costantino I. Enciclopedia costantiniana sulla figura e l’immagine dell’imperatore del cosiddetto Editto di Milano 313-2013, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2013, II, pp. 163-175, in part. 168.

[87]In tal senso, sarebbe interessante discutere le tesi dello stimolante volume di A. Brent, The Imperial Cult and the Development of Church Order. Concepts and Images of Authority in Paganism and Early Christianity before the Age of Cyprian, Brill, Leiden-Boston-Köln 1999; la chiesa protocattolica si definirebbe, sin dal II secolo, in un rapporto di rivalità e imitazione con il culto imperiale.