01
NOV
2017

Temple-II. In-depth: Attorno alla Ka‘ba. Un percorso teologico-politico tra storia e jihād (Massimo Campanini)

Abstract

Around the Ka‘ba. A theological-political journey between history and jihad

The temple plays a crucial part in Islam. The phenomenology of the Islamic temple reflects a vital characteristic of the religion: the dialectic between exteriority (zāhir) and interiority (bātin), between letter and spirit, between immanence and transcendence. We can therefore identify both exoteric and esoteric aspects in the phenomenology of the temple. This essay examines the exoteric aspect, focussing on the masjid or mosque, the place of worship in the general sense, and on the “house of God” to which pilgrims journey – the Ka`ba, situated in the masjid al-harām, the “sacred” mosque in Mecca.

ATTORNO ALLA KA‘BA. Un percorso teologico-politico tra storia e jihād

Come accade in ogni religione, anche nell’Islam il tempio svolge una funzione importantissima. Le sue fenomenologie riflettono quella che è una caratteristica saliente della religione islamica: la dialettica tra esteriorità (zāhir) e interiorità (bātin), tra lettera e spirito, tra immanenza e trascendenza. Così, possiamo individuare un carattere essoterico e un carattere esoterico della fenomenologia del tempio. Qui ci occuperemo soltanto dell’aspetto essoterico che si connette alla questione teologico-politica, focalizzandoci sul masjid o “moschea”, il luogo di culto in senso generale, e sulla “casa di Dio” verso cui si dirige il pellegrinaggio, ovvero la Ka‘ba, a sua volta contenuta nel masjid al-harām, la “sacra” moschea di Mecca;

 

I.

Il tempio per eccellenza nell’Islam, quello che svolge la funzione della chiesa o della sinagoga o della pagoda, è ovviamente la moschea (masjid, plurale masājid).[1] Il suo significato è prettamente essoterico. La moschea è il luogo dove si prega Dio, propriamente e specificatamente il luogo dove si effettuano le prostrazioni (sujūd). Le masājid sono le “case” edificate per il servizio di Dio prescritto dalla Legge, per le cerimonie del culto e per la celebrazione di altri doveri religiosi. Il primo edificio costruito da Muhammad dopo l’Egira a Medina è stato il luogo di preghiera o masjid dedicato ai musulmani; il primo edificio costruito negli accampamenti militari degli eserciti arabi protesi alla conquista è stato il luogo di preghiera.

Compare qui il primo aspetto teologico-politico del masjid. Relativamente alla costruzione delle prime moschee, infatti, «non dobbiamo pensare che questi spazi [quelli delle moschee primitive] avessero solo funzione religiosa. Come l’agorà greca o il foro romano, il grande cortile era un luogo di assemblea pubblica. Serviva come tribunale e come aula per discussioni, e, ciò che è più importante, era il luogo dove il califfo o il suo governatore erano acclamati e accettati dalla comunità».[2] E ancora: «Non si può evitare di sottolineare con forza che la moschea non inizia la sua vita primariamente come edificio religioso…La sua santità si afferma nel corso del tempo».[3] In quest’ottica teologico-politica il minbar cioè il pulpito da cui si pronuncia il sermone, la khutba, materializza l’importanza politica della moschea, poiché da esso si proclamava la legittimità (religiosa) di un governo, sia esso quello di un califfo, di un sultano o di un semplice governatore. La stessa khutba aveva ed ha una funzione legittimizzante e de-legittimizzante. Ancor oggi molti governi musulmani, soprattutto quelli autocratici o dittatoriali, pretendono di controllare il contenuto delle khutba affinché i predicatori non propalino un messaggio sovversivo nei confronti del potere en place, e invece direttamente o indirettamente lo sostengano come gradito a Dio e alla religione. Nel passato, dall’alto del minbar delle loro moschee, Alidi e Omayyadi si maledivano reciprocamente. Nel corso dei secoli, inoltre, non è stato infrequente l’uso della moschea come dīwān (ufficio amministrativo) e come tribunale. La moschea raduna in sé la funzionalità di tutti i punti di vista architettonici, compresi quelli dell’alloggio per i pellegrini e della sepoltura. A testimonianza della stretta connessione che in Islam esiste tra foro pubblico e religione, sebbene, dal punto di vista politico, non si sia (quasi) mai data una teocrazia. Il masjid è luogo che esprime l’adesione dei fedeli al messaggio religioso così come alla saldezza e compattezza della Comunità. Così non v’è da stupirsi che, in qualche caso come quello dei Mamelucchi d’Egitto, l’architettura delle masājid, la loro costruzione e ornamentazione abbia anche costituito l’espressione del potere di varie dinastie e casate regnanti. Per esempio, la grande moschea di Baybars al Cairo riflette nelle sue strutture l’ideologia islamizzante del sultano ed alcuni particolari riflettono simbolicamente il trionfo dell’Islam sulla Cristianità (Baybars, ricordiamo, combatté con successo gli ultimi crociati e quasi riuscì a cancellarne la presenza dalla Palestina).

Proprio il Cairo è l’esempio di come anche la struttura urbanistica possa essere finalizzata a uno scopo teologico-politico. Il Cairo in senso proprio (esisteva dai tempi ellenistici un nucleo urbano che all’epoca della conquista araba divenne Fustāt, ora sobborgo meridionale della metropoli) è stato fondato nel 969 come città palaziale, per ospitare il palazzo califfale e gli uffici amministrativi, dai Fatimidi ismailiti (sciiti). Anche Baghdad è nata come città palaziale su ordine del califfo abbaside al-Mansūr (r. 754-775), e il fatto che in origine fosse rotonda era dovuto a precise esigenze di concentramento e organizzazione del potere. Quanto al Cairo, la città fatimide si sviluppava attorno a un asse centrale dritto e lungo almeno un paio di chilometri: la arteria che tuttora va da Bāb al-Futūh a Bāb Zuwayla. Per questa arteria passavano le processioni cerimoniali con cui il califfo esibiva la sua autorità e la sua ricchezza, l’autorità e la ricchezza di un uomo che lo sciismo ismailita considerava semi-divino: la struttura urbanistica aveva dunque una giustificazione teologico-politica, poiché l’esibizione della potenza era ovviamente anche uno strumento di dominio.

Doris Behrens-Abouseif, da parte sua, ha sintetizzato come segue il valore teologico-politico dell’architettura nell’Islam, e, sottinteso, in specie dell’architettura mamelucca: “The importance of princely patronage in architectural history is rooted in the very nature of Islamic political concepts. The pre-modern Muslim ruler was per se the foremost patron of construction and urban development. This is rooted in Islamic Law and in the rules of siyāsa or statesmanship. The ruler in his function as the trustee and administrator of the public treasury, the bayt al-māl, has the competence and the duty to oversee the major religious foundations, build fortifications, undertake civil projects and boost urban development, sponsor scholars, and support the needy. He assumed religious, military, economic and social tasks, and the responsibility to stimulate all activities necessary for the community to thrive. Because the princely patronage of pious foundations required representative monuments, architecture occupied a central position in Muslim art. It was the most visible and the most effective medium of philanthropy, legitimization and commemoration” [4]

Al di là di queste peculiarità storiche, per intendere il significato della moschea e del tempio essoterico è necessario innanzi tutto volgersi al Corano. Nel Corano il termine masjid col suo plurale masājid è ripetuto 28 volte, e la qualificazione che prevale in modo netto è la qualificazione spaziale. Le numerose occorrenze di al-masjid al-harām, che indica il recinto sacro di Mecca dove è contenuta la Ka‘ba, e in senso più lato la “moschea” di Mecca, alludono evidentemente a un luogo fisico. Per esempio Q. 2: 191: «Uccidete dunque chi vi combatte dovunque li troviate…ma non combatteteli presso il Sacro Tempio».[5] Oppure ancora in Q. 22: 40, dove il masjid è accostato a “monasteri, sinagoghe e oratori…nei quali si menziona il nome di Dio di frequente”. Laddove è evidente la sottolineatura appunto del luogo dove si praticano i riti e si garantisce a Dio la dovuta adorazione. È importante notare che il versetto è citatissimo dagli islamisti radicali che vi leggono l’autorizzazione al combattimento per chi ha subito ingiustizia.

La stessa qualificazione spaziale, in riferimento al masjid al-harām, prevale là dove si allude chiaramente alla qibla, ovvero alla direzione della preghiera (com’è noto, i musulmani, pregando, devono volgersi, dovunque si trovino, nella direzione di Mecca), per esempio Q. 2: 144, 149-150. Lo stabilimento della qibla verso Mecca non ha peraltro puramente un significato spaziale, ma anche un significato storico e politico. Storicamente, segna uno dei più decisi momenti di rottura verso l’ebraismo e la conquista della consapevolezza di essere musulmani: inizialmente, la qibla era infatti verso Gerusalemme; solo quando Muhammad ruppe con gli ebrei che non volevano riconoscerlo come profeta e ne irridevano la santità, fu modificata la direzione con una rivelazione divina che identifica la comunità musulmana dei credenti come distinta dalle altre comunità “del Libro”.

Il termine masjid occorre diverse volte nella sūra 9 (“del Pentimento”), una delle ultime a essere state rivelate e perciò fotografante una situazione ormai stabilizzata della comunità (una comunità non più sulla difensiva, ma aggressivamente protesa ad affermarsi politicamente e militarmente). Tutte queste occorrenze hanno un’implicazione teologico-politica:

 

  1. 9: 17-18: «Non si addice agli idolatri visitare i Templi di Dio testimoniando contro se stessi la propria empietà. Vane sono le opere loro e nel fuoco resteranno in eterno. Soli visiteranno i Templi di Dio quelli che credono in Dio e nel Giorno Estremo, e compiono la Preghiera e pagano la Decima e non han paura d’altri che Dio». Il masjid in questo caso è il simbolo dell’identità del popolo credente e dell’opposizione che inevitabilmente si instaura con quello miscredente.
  2. 9: 19: «O che forse dar da bere ai pellegrini e servire il Tempio Sacro li mettete alla pari col merito di chi ha creduto in Dio e nel Giorno Estremo e ha lottato sulla via di Dio?». In questo caso, il culto (bigotto sospetteremmo) del masjid al-harām è ritenuto inferiore al jihād, ovvero allo “sforzo”, che nella sūra 9 ha un evidente ricaduta bellica, sulla via di Dio. Ritorneremo più sotto su questo passo.
  3. 9: 107-110, dove si parla di un masjid al-dirār, ovvero di una misteriosa “moschea del danno”, su cui vale la pena di ascoltare il commento di Bausani:

 

Questo brano, intitolato dal Blachère “condanna di uno scisma nascente”, non è tra i più perspicui. Comunque, la pressoché unanime glossa dei commentatori islamici è questa: Dodici degli ipocriti, per istigazione del monaco cristiano Abū ‘Āmir, avrebbero costruito una moschea in vicinanza della moschea di Kubā, poco a SE di Medina (la prima e per molto tempo unica moschea dell’Islam di cui Muhammad stesso pose la prima pietra prima di entrare a Medina, durante l’Egira) allo scopo di “causar danno” a quella moschea musulmana: masjid al-dirār, “la moschea del danno”, è infatti chiamata questa misteriosa moschea scismatica. Abū ‘Āmir che, dopo aver combattuto contro il Profeta, era fuggito in Siria dopo la battaglia di Hunayn (8 H./630 a.d.) aveva mandato un messaggio ai suoi amici di Medina che sarebbe venuto con una potente armata a distruggere il Profeta e che gli costruissero una moschea. Ma Abū ‘Āmir morì in Siria, e allora gli “Ipocriti”, costruttori della “moschea del danno”, chiesero al Profeta che la benedicesse invece egli stesso con la sua presenza, del che fu impedito da questa rivelazione, e la moschea venne demolita.

Si tratta dunque della rimembranza di un fatto storico con la moschea a svolgere un preciso ruolo locale.

Un ultimo luogo che è importante citare è Q. 17: 1, che pare riferirsi alla moschea di Mecca (masjid al-harām) e alla moschea di Gerusalemme (masjid al-aqsà): «Gloria a Colui che rapì di notte il suo servo dal Tempio Sacro al Tempio Ultimo, i cui dintorni abbiamo benedetto, per mostrargli i Nostri Segni». L’accenno criptico e ellittico è dalla tradizione spiegato col viaggio notturno del Profeta (isrā’) appunto da Mecca a Gerusalemme, e conseguente ascesa al Cielo (mi‘rāj) con la visita al Paradiso, all’Inferno e con l’avvicinamento “a meno di due archi” al Trono di Dio. Il viaggio e l’ascesa sono uno degli episodi più controversi, ma più circonfusi da un alone di miracolo e di santità della vita di Muhammad e hanno rappresentato un archetipo per tutti i viaggi spirituali e dell’anima che i mistici musulmani dicono di aver compiuto verso Dio. Non sarà inutile ricordare l’allegoria teologico-politica che ‘Alī Sharī‘atī (1933-1977), pensatore rivoluzionario sciita, legge nell’episodio (è un brano che amo citare spesso, ma credo sia importantissimo):

Due movimenti sono stati effettuati dal Profeta dell’Islam per mezzo della sua ascensione (mi‘râj) e del suo viaggio notturno (isrâ’). Questi due movimenti, l’uno verticale e l’altro orizzontale, esprimono due sensi: 1) Nel mi‘râj, movimento verticale ascendente, il Profeta svolge il ruolo di formatore e attira l’attenzione sulla necessità dell’evoluzione esistenziale dell’uomo. Quando egli dice: “Sono stato designato da Dio per perfezionare il carattere dell’uomo”, evidenzia questo ruolo. 2) L’isrâ’, movimento orizzontale, esprime invece il ruolo storico del Profeta che si dichiara erede di Adamo, di Noè, di Abramo,  di Mosè e di Gesù.  Qui [Muhammad] sottolinea la sua missione attraverso la storia. In una parola, mostra il movimento evolutivo che attraversa la storia dell’umanità.  Questo movimento attraversa il tempo, va da Adamo ad Abramo, poi fino a Muhammad e da Muhammad fino alla fine dei tempi. Questo movimento evolutivo dell’esistenza dell’uomo conduce l’individuo all’Islam, perfeziona il suo essere, la sua anima e la sua essenza fino a consentirgli di elevarsi spiritualmente. […] Cosa vogliono dire questi versetti? Che nell’Islam la relazione tra l’uomo e Dio consiste in questa traiettoria ascendente verso il perfezionamento esistenziale. […] “Noi [i profeti] siamo venuti a liberarvi dalla schiavitù degli uni rispetto agli altri, dall’obbligo di prosternarvi gli uni davanti agli altri, per incitarvi a levare la testa, a rizzarvi in piedi. Siamo venuti perché voi non vi prosterniate più davanti agli uomini ma davanti a Dio solo. Siamo venuti per sottrarvi alla schiavitù degli uomini e per sottomettervi a Dio, per allontanarvi dalle credenze ingiuste e condurvi verso la giustizia dell’Islam e per elevarvi dalla bassura della Terra fino ai cieli”. Ecco come si esprimono le tre dimensioni della missione islamica: sociale, intellettuale ed esistenziale:  1) “Dalla schiavitù degli uomini alla sottomissione a Dio”: rovesciamento dei rapporti umani; 2) “Dalle credenze ingiuste alla giustizia dell’Islam”: modificazione dei rapporti tra gli uomini e la religione; 3) “Dalla bassura della Terra fino ai cieli”: svelamento dei rapporti dell’uomo con se stesso[6].

Il viaggio notturno del Profeta raffigura simbolicamente la missione rivoluzionaria islamica di riscrittura dei rapporti sociali e di potere. Qui il carattere fisico ed essoterico del tempio è chiaramente trasfigurato in senso politico.

 

II

Abbiamo evidenziato, nel paragrafo precedente, le implicazioni teologico-politiche della moschea in quanto tale. Relativamente al tempio e allo spazio sacro, tuttavia, la teologia politica islamica si dispiega soprattutto riguardo la Kaʻba. Il ragionamento si svilupperà su basi fondamentalmente coraniche in obbedienza a un duplice principio metodologico: che il Corano spiega se stesso (un principio esegetico largamente condiviso dai mufassirūn musulmani), e che il Corano offre un’immediata evidenza di se stesso (bayān). I due aspetti sono strettamente correlati: l’evidenza del Corano è l’emergere del suo significato allo sguardo di un osservatore che si accosta ad esso fenomenologicamente, cogliendone l’”essenza” astratta[7]; ne deriva che il Corano, essendo un sistema linguistico strutturato e in certo modo “chiuso”[8], deve essere spiegato attraverso la rete interna dei suoi collegamenti reciproci, tematicamente, come avrebbero detto Fazlur Rahman ed Hasan Hanafī[9].

Orbene, la casa di Dio nell’Islam è la Ka‘ba. Originariamente solo la Ka‘ba poteva vantare l’onore di essere considerata bayt Allāh.[10] Questo sacro edificio cubico, che la tradizione vuole (ri)costruito da Abramo e da suo figlio Ismaele, sorge al centro del masjid al-harām ne rappresenta non solo il cuore spaziale, ma anche la sublimazione spirituale. La Ka‘ba è nel contempo un luogo e un simbolo. Mistici di grande importanza come Abū Yazīd al-Bistāmī (m. circa 874 o 878) e Ibn ‘Arabī (m. 1240) facevano della Ka‘ba un simbolo per il trascendimento (qualche volta antinomistico) del luogo e della corporeità. Al-Bistāmī affermava che: «Nel mio primo pellegrinaggio non ho visto che il tempio; la seconda volta ho visto tanto il tempio quanto il Signore del tempio; la terza volta ho visto solo il Signore. Là dove c’è mortificazione, non c’è santuario. Il santuario è là dove vi è contemplazione…Tutto l’universo è il suo santuario». E per Ibn ‘Arabī, la Ka‘ba è il nostro proprio essere: in altri termini non vi è bisogno del luogo fisico della Ka‘ba per arrivare alla perfezione.[11]

Il Corano allude alla Ka‘ba appunto come al “bayt”, letteralmente “casa” di Dio. Per esempio in Q. 3: 96: «In verità la prima Casa (awwal bayt) [qui non come Bausani che traduce: il Primo Tempio] che sia stata fondata per gli uomini è, certo, quella in Bakka [= Mecca], benedetta e Guida per tutto il creato». La casa di Dio ha anche un obiettivo antropologico: lasciare un segno e una presenza a beneficio degli uomini. In tal senso, una tradizione risalente a Mujāhid racconta:

 

«Il luogo della Casa rimase celato a causa del diluvio nel periodo di tempo tra Noè e Abramo. Al suo posto c’era una collinetta di argilla rossa irraggiungibile per le alluvioni. Tuttavia, la gente con approssimazione sapeva dove era stata la Casa anche se non conosceva esattamente il luogo. Colà si recava da ogni parte della terra la vittima di ingiustizie e chi cercava rifugio; presso di essa l’afflitto chiedeva aiuto. Pochi erano quelli che invocavano Dio e non erano esauditi. La gente aveva fatto il pellegrinaggio a quel luogo finché Dio non diede dimora ad Abramo in quella zona, quando volle che fosse ricostruita la Sua Casa e divulgata la Sua fede con le sue leggi. Dal momento in cui aveva fatto scendere Adamo sulla terra, Dio mai aveva cessato di accrescere la gloria e considerare sacra la sua Casa presso cui si succedono popoli e nazioni gli uni dopo gli altri: infatti, già gli angeli avevano fatto il pellegrinaggio prima di Adamo»[12].

 

Ora,  la Ka‘ba è, specificatamente nella sūra al-Baqara (Q. 2) ma con possibili agganci in altri capitoli, punto di riferimento religioso e politico. Per comprenderne le dimensioni, riporto tre gruppi di versetti.

 

Primo gruppo:

 

  1. 2:125-127: «Quando abbiamo fatto [è Dio che parla in prima persona] della Casa (bayt [nome generico ma qui chiaramente si tratta della Kaʻba]) un luogo sacro per gli uomini, abbiamo detto: “Occupate come luogo di preghiera il luogo in cui sostò Abramo”. E comandammo ad Abramo e Ismaele: “Purificate la mia Casa per coloro che circumambulano attorno ad essa, coloro che restano e coloro che si chinano e si prostrano”. […] Non appena Abramo e Ismaele ebbero eretto le fondamenta della Casa, [così pregarono]: “Signore nostro, accetta questo da parte nostra. Tu sei l’Udente, il Sapiente”».

 

  1. 5: 97: «Dio ha fatto della Ka‘ba, la Casa Sacra, un sostegno per gli uomini e ha istituito il mese sacro, e le vittime sacrificali e i loro ornamenti».

 

Secondo gruppo:

  1. 2:142-149: «Dì [Dio o l’angelo ordinano al Profeta]: “L’Oriente e l’Occidente appartengono a Dio, ed Egli guida chi vuole sulla retta via”. […]. Vediamo [ancora Dio si rivolge al Profeta] che volgi il volto verso il cielo, ma ora ti doneremo una qibla [una direzione della preghiera] che ti piacerà; volgi dunque il volto verso il Tempio Sacro (al-masjid al-harām), rivolgetevi tutti, ovunque siate, verso quella direzione. […] Ognuno ha una direzione (wijha) verso cui si volge: fate dunque opere buone e, dovunque voi siate, Dio vi riunirà […]. Da qualunque luogo tu esca, volgi la faccia verso il Sacro Tempio: questa è la verità data dal tuo Signore».

 

  1. 5:48: «Se Dio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una comunità unica, ma Egli ha voluto mettervi alla prova riguardo a ciò che vi ha dato: gareggiate dunque nelle opere buone».

 

Terzo gruppo:

  1. 2:190-192: «Combattete sulla via di Dio coloro che vi combattono, ma non aggredite per primi ché Dio non ama gli aggressori. Uccideteli dove li incontrate e scacciateli da dove hanno scacciato voi, poiché la persecuzione (fitna)[13] è peggio dell’uccidere. Ma non combatteteli presso il Sacro Tempio a meno che non siano essi a combattervi lì. Se essi vi combattono, uccideteli, poiché solo questo meritano i miscredenti, ma se interrompono le ostilità, allora Iddio è Perdonatore Misericordioso».

 

  1. 9:19-20: « O che forse dar da bere ai pellegrini e servire il Tempio Sacro li mettete alla pari col merito di chi ha creduto in Dio e nel Giorno Estremo e ha lottato (jāhada) sulla via di Dio? Essi non sono uguali agli occhi di Dio. Dio non guida gente tanto deviata. Coloro che credono, emigrano[14] e lottano sulla via di Dio coi beni e la vita occupano agli occhi di Dio un grado più alto».

 

Una lettura, anche superficiale ma avvertita secondo i principi metodologici prima chiariti del bayān e dell’autoreferenzialità coranica, credo faccia emergere da questi passi che fondamentalmente tre sono le valenze teologico-politiche della Kaʻba e del Tempio Sacro: il loro collocarsi all’interno della storia della profezia; il loro essere un orientamento per i credenti che operano opere buone; il loro simboleggiare l’obiettivo dei combattenti che lottano col jihād[15].

La storia della profezia è la storia stessa dell’umanità che interagisce con Dio: la Kaʻba è il punto di sutura di questo contatto. Da una parte, infatti, la Kaʻba ospita Dio, non nel senso che Egli vi risiede ma nel senso che l’edificio simboleggia la continua presenza di Dio in mezzo agli uomini[16]. Dall’altra, gli uomini, esercitando gli atti del culto attorno alla Kaʻba, si preparano all’incontro con Lui. Volgendosi verso la Kaʻba e il Tempio Santo, gli uomini orientano intenzionalmente la loro vita al bene e alla salvezza e dunque scoprono nella vita activa il mezzo privilegiato per ottemperare alla volontà divina.

La sacralità del Tempio non può essere deturpata dall’omicidio e dalla violenza, ma lottare per la fede pone un gradino più in alto della mera ottemperanza cultuale. Il grande ayatollāh libanese Muhammad Husayn Fadlallāh vedeva nell’emigrazione e nel jihād il momento di massima realizzazione della religione, come leggiamo ne L’Islam e la logica della potenza (al-Islam wa mantiq al-quwwa): [17]

 

«Secondo noi, l’attitudine autenticamente islamica è quella della ribellione e del dinamismo (taharruk) al fine di conseguire il cambiamento dello stato di ingiustizia e di oppressione…La debolezza non è una condizione che deve impedire la soluzione, né una scusa che consenta all’uomo di essere negligente, ignavo e arrendevole…a meno che non si sia scelta una politica graduale. È quanto esprime la parola dell’Altissimo nei nobili versetti:

“Quanto a coloro che gli angeli richiameranno mentre facevano torto a se stessi chiedendo loro: Quale fu la vostra condizione? – risponderanno: Fummo oppressi sulla terra. Diranno allora [gli angeli]: Non era forse la terra di Dio vasta abbastanza perché emigraste? A costoro sarà d’asilo la Geenna. Quale perverso cammino! Tranne quegli uomini, quelle donne e quei bambini oppressi che non furono in grado di trovare soluzioni e non furono guidati per la retta via. Costoro può darsi che Dio li perdoni, ché Dio è Misericordioso Perdonatore. Ma chi avrà emigrato sulla via di Dio, troverà sulla vasta terra molti luoghi d’asilo, e chi uscirà dalla sua casa migrante verso Dio e il suo Inviato e la morte lo coglie, invero la sua ricompensa è un impegno per Dio, ché Dio è Perdonatore Clemente” (Q. 4: 97-100)”.

Questi versetti discutono di quale sarà la condizione degli oppressi di fronte a Dio il giorno della resurrezione, nel momento del giudizio, rispetto a quella che fu la loro condizione nel mondo, se si arresero all’ingiustizia umiliandosi di fronte a coloro che facevano loro del male e li costringevano a piegarsi alla loro volontà e ai loro progetti…Come porre rimedio a questa condizione? Invero, essi fecero torto a se stessi, essendo corrivi ai progetti dei malvagi, che lo facessero per convinzione o solo perché persuasi, poiché la loro debolezza e la loro incapacità di mobilitarsi li ha indotti a dichiararsi soddisfatti e proni allo status quo…Invece, i versetti li mettono in modo perentorio di fronte alle loro responsabilità. Se, impossibilitati a mobilitarsi all’interno, hanno spazio per emigrare…ebbene la terra è vasta e non respinge nessuno…Chi emigra, affinché la parola di Dio si erga suprema a istituire la verità e la giustizia sulla Terra, mantenendosi lontano da ogni tipo di pressione che costringa a un comportamento deviante, ebbene troverà grande spazio per farlo…E se muore trovandosi sulla via di Dio, la sua ricompensa è un impegno per Dio (ajruhu ‘ala allah),  poiché è morto migrante verso Dio e il suo Inviato».

 

L’impegno attivo “sulla via di Dio” coinvolge gli uomini in un processo, da Dio stesso determinato e diretto, che conferisce senso alla storia. Fadlallāh (ma anche il precedentemente citato Sharī‘atī) sono due esponenti di quello sciismo rivoluzionario che ha rappresentato una delle correnti più interessanti dell’alternativa islamica novecentesca[18]. Esso è altamente consapevole della necessità di tradurre la credenza in praxis, forse ancora di più del sunnismo. Ma sciiti e sunniti allo stesso modo si ritrovano attorno alla Kaʻba e, circumambulandole attorno durante i riti del pellegrinaggio, si mescolano gli uni agli altri, cementando la umma o comunità dei credenti, unica ben oltre le differenze dogmatiche o le ostilità politiche, almeno nell’auspicio dei volonterosi. In questo modo, sunnismo e sciismo convergono nel fare emergere il valore ortopratico della simbologia religiosa del Tempio.

 

III

Credo sia ora possibile svolgere qualche osservazione e puntualizzazione conclusiva. Partiamo col sottolineare un punto cruciale: la (ri)costruzione della Ka‘ba da parte di Abramo non significa solo la (ri)costituzione del monoteismo ma anche la (ri)costruzione della Comunità. Abramo restaura il culto monoteistico delle origini (la hanifiyya che è la natura, o fitra, in cui gli uomini sono stati creati [cfr. soprattutto Q.30:30]), che era andato corrotto dal cedimento degli uomini al shirk o politeismo, e in questo modo inaugura una nuova era dell’umanità: Abramo è infatti il “padre dei credenti”. Si tratta di un fatto evidentemente teologico-politico, nel senso che la riscoperta della religione ha ricadute sociali, restaura la Umma. Il versetto coranico già citato è Q. 2:125-127 di cui ricordiamo la parte essenziale:

 

«Quando abbiamo fatto della Casa (bayt) un luogo sacro per gli uomini, abbiamo detto: “Occupate come luogo di preghiera il luogo in cui sostò Abramo”. E comandammo ad Abramo e Ismaele: “Purificate la mia Casa per coloro che circumambulano attorno ad essa, coloro che restano e coloro che si chinano e si prostrano” ».

 

La storia di Abramo e della Ka‘ba sancisce dunque pure la sacralità di un luogo: la moschea che ospita la Ka‘ba, che appunto è harām, sacra e interdetta ai non musulmani, e attorno ad essa la stessa città di Mecca, altrettanto sacra e interdetta ai musulmani.

Ora, l’analisi delle teologie politiche sviluppatesi all’interno del mondo islamico non è frequente in Italia. Lo ha fatto, tra gli altri, Stefano Salzani, che non è un islamologo. Questo suo non essere islamologo, non gli ha consentito di essere sempre preciso e puntuale. Tuttavia, egli conclude un suo interessante saggio interpretativo della teologia politica islamica con queste suggestive parole:

 

«Il pensiero islamista, nel suo sforzo di fondare sul tawhīd [unicità di Dio] la politica, tenta di prendere d’assalto e accedere alla Makka [Mecca nella traslitterazione dell’originale arabo] occultata in questo mondo immaginale. Questo tentativo, nel momento in cui discende sulla Madina terrena, passando “giù per li rami”, trascina con sé le polveri corrosive dell’ideologia, le scorie carnali del potere. Nel suo percorso verso la politica, l’immaginale tende a diventare immaginario, Makka tende a diventare Utopia, un’utopia del nomos. Ci sembra che questa sia una dinamica in cui poter cogliere il problema della teologia politica islamica, la Makka in cui risiede il khalīfa [califfo] (al-insān al-kāmil [uomo perfetto] è il mondo archetipicamente mediatico del  barzakh; al suo centro, nella Kaʻba, rimane intangibile il memoriale del patto attualizzato da Abramo, su cui nasce una comunità. “Contempla la Casa (Kaʻba): per i cuori purificati la sua luce brilla apertamente. Essi la guardano con Dio, senza veli, e il suo segreto augusto e sublime appare (Muhy al-Din Ibn ‘Arabi, Futūhāt al-Makkiya, I, 47)”»[19].

 

Fatta la tara all’enfasi e alla ridondanza linguistica, il brano suggerisce una chiave interpretativa della teologia islamica stimolante e evidenzia tre concetti centrali del pensiero politico. La chiave interpretativa consiste nel risolvere la teologia politica islamica nella polarità Mecca-Medina, la prima simbolo, sogno, mondo immaginato; la seconda prosaicamente reale. I tre concetti centrali sono quelli di utopia, legge (nomos) e patto.

La metafora della polarità Mecca-Medina è spiegabile innanzi tutto con quello che ho detto più sopra riguardo la sacralità del luogo della Ka‘ba e della stessa città che la ospita. In questo senso, Mecca, una volta che il Profeta l’ha abbandonata con l’Egira (e si badi: non vi tornerà più stabilmente; l’Egira lo porta definitivamente a Medina), diventa un’utopia, un sogno, un punto d’arrivo, forse irraggiungibile. Al contrario, Medina, sede della Umma, e poi, dopo la morte del Profeta, dello Stato Islamico dei califfi Ben Guidati, appare un luogo solo o eminentemente “terreno”, dove vige il potere e quindi dove può affermarsi la corruzione. Il mundus imaginatus della Ka‘ba è l’istmo (barzakh) che collega il sogno utopico di Mecca alla realtà prosaica di Medina, che però ormai rappresentano polarità opposte.

Salzani utilizza il linguaggio caratteristico dello gnosticismo mistico illuminativista (il barzakh e il tono tutto dell’argomentazione riecheggiano Ibn ‘Arabī e Suhrawardī). Nel linguaggio dei mistici e degli illuminativisti, il mondo immaginale è il mondo trascendente delle luci in cui si manifesta la realtà eterna dell’uomo perfetto (al-insān al-kāmil), cioè il Profeta stesso; il barzakh è l’”istmo”, ovvero il limite, il passaggio, tra il mondo immaginale e il mondo reale. Quindi, nella visione sulfurea di Salzani, Mecca, che ospita la Kaʻba, è il luogo (il mundus imaginatus) dove si è elaborato il mito, l’utopia: col trasferimento del Profeta a Medina, l’utopia è diventata solo un sogno irrealizzabile (il mondo immaginario), mentre la realtà prosaica si è corrotta col potere e l’ideologia. Gli islamisti radicali contemporanei, nel loro velleitario tentativo di ricostituire il mundus di Muhammad, tentano di ritornare a Mecca, di rinnovare il mito combattendo il potere in essere (i Sauditi per esempio, nella fattispecie) e le ideologie che non condividono.

Salzani dice in modo immaginifico e contorto, attraverso la sua originale metafora della polarità Mecca-Medina, la stessa cosa che io ho detto in modo più prosaico e banale, cioè che nel pensiero politico islamico, soprattutto in quello radicale o islamista, domina un’idea di utopia retrospettiva: il passato (Mecca nella metafora di Salzani) è un mito, il mito della perfezione e dell’inveramento dell’ideale; il presente (Medina nella metafora di Salzani) è il reale in cui dominano l’oppressione e l’ingiustizia. Naturalmente, la metafora di Salzani non funziona affatto per quanto, nel pensiero politico islamico, soprattutto in quello radicale o islamista, anche Medina, e non solo Mecca, è parte del mito. A Medina il Profeta continua la sua missione, mentre è solo con la fitna, ovvero con la guerra civile tra ‘Alī e Muʻāwiya (656-661), che si frange l’incanto della perfezione della comunità islamica primitiva benedetta da Dio e la Umma torna ad allontanarsi dallo stato originario della perfetta professione del monoteismo[20]. Tuttavia, la polarità Mecca-Medina teorizzata da Salzani risponde bene al problema qui dibattuto del carattere teologico-politico dei luoghi, soprattutto dei luoghi santi (come è Mecca e al suo interno la Kaʻba).

Relativamente a quest’ultimo aspetto – la sacralità dei luoghi – l’Islam ha avuto nei secoli un atteggiamento che potrebbe sembrare ambivalente. Lo statuto della Ka‘ba è ovviamente particolare visto che si tratta della “casa di Dio” nel senso più stretto: quando Muhammad riconquistò Mecca nel 630 ripulì la Ka‘ba dagli idoli che la deturpavano e dalle pitture che l’adornavano (tranne, si dice, per una immagine di Maria e Abramo[21]), e in ogni caso, da quel momento in poi, il sacello rimarrà vuoto. Ma per quanto riguarda la moschea harām in sé, costruita attorno alla Ka‘ba, le cose sono più complesse. È utile riportare il discorso alla contemporaneità. Il movimento Wahhabita (il movimento iper-tradizionalista e iper-puritano fondato nel XVIII secolo da Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhāb e ancor oggi teologia di stato in Arabia Saudita) aveva addirittura vagheggiato di distruggere la tomba del Profeta (sic!) a Medina perché anche il culto del Profeta sarebbe blasfemo. Oggi i re sauditi si vantano di essere i custodi dei luoghi santi e brandiscono questo onere privilegiato come il lasciapassare per rivendicare la loro egemonia sul mondo islamico[22]. D’altra parte, il presidente egiziano Gamāl Abdel Nasser (1954-1970) affermava che il raduno annuale attorno alla Ka‘ba per il pellegrinaggio doveva diventare una specie di congresso periodico in cui i musulmani avrebbero deciso del loro futuro politico[23]. Come si vede, Mecca rimane un luogo vagheggiato e immaginato, ma per un fine (o più fini) umano troppo umano.

Questo in breve per quanto riguarda l’utopia. Quanto al nomos e al patto, le loro valenze teologico-politiche sono ovvie ed evidenti, seppure forse non ancora pienamente indagate.

Il rapporto tra il potere e la legge, che notoriamente in Islam è di origine divina (la sharīʻa) ma viene elaborata e messa in pratica dagli uomini (il fiqh), è chiaramente delineato da un celebre brano di Abū Hāmid al-Ghazālī (m. 1111), anch’esso da me citato altre volte:

 

«La religione e il potere sono sorelle gemelle; la religione è quella solida base di cui il sultano deve essere il guardiano. Ciò che non ha basi si frantuma e ciò che non è sorvegliato finisce per andare perduto. A nessun uomo intelligente sfuggirà che, date le differenze di classe e di opinioni, la gente perirà se non vi sarà un sultano potente e obbedito capace di imporsi alle diverse, opposte tendenze. In conclusione, l’autorità politica è indispensabile per l’ordine della vita sociale, e l’ordine della vita sociale è indispensabile per garantire la religione, e la religione è necessaria per guadagnarsi la vita futura».[24]

 

L’autorità si legittima con la religione e la difende; la religione veicola la Legge, applicando la quale lo stato adempie il suo compito. Non ci troviamo peraltro in un regime teocratico poiché il potere non è esercitato dagli uomini di religione. Gli uomini di religione elaborano la legge umana (il fiqh) sulla base delle indicazioni soprattutto etiche di Dio (la sharīʻa). Gli uomini di potere proteggono la legge, ma la loro autorità non è subordinata a quella degli ‘ulema (dotti religiosi). Ciò implica un rapporto di parallelismo e non di subordinazione tra potere pubblico e potere religioso: ancora una volta la teocrazia non è possibile poiché gli ‘ulema non pretendono di subordinare i sultani, anche se li legittimano fin quando i sultani difendono la religione e la Legge religiosa. In realtà nella storia islamica v’è stata più una strumentalizzazione del religioso da parte del politico che una strumentalizzazione della politica da parte della religione: in altre parole, appunto, più un cesaropapismo che una teocrazia[25].

Relativamente al patto, vale la pena di rifarsi nuovamente al Corano. Il Corano afferma che gli uomini si sono caricati dell’onere di stringere un patto con Dio: “Noi [parla Iddio] abbiamo offerto il patto (amāna) ai cieli, alla terra e alle montagne, ma essi si rifiutarono di farsene carico avendone paura. Allora se ne fece carico l’uomo che però è ingiusto e ignorante” (Q. 33:72). Per questo, l’uomo è “califfo” o “vicario” (khalīfa) di Dio sulla Terra: “Quando il tuo Signore disse agli angeli: Io porrò sulla terra un mio vicario…”, cioè Adamo (Q. 2:30). Nel contesto coranico, però, come si vede, il “califfato” o “vicariato” dell’uomo non ha affatto carattere politico: è un califfato morale e spirituale. La trasformazione del califfato in funzione politica è extra-coranica ed è legata alla necessità di sostituire il Profeta defunto in quelle funzioni che sono alla portata degli uomini comuni (la profezia non è da “uomo comune”), cioè appunto quelle politiche. Il primo “califfo” di Muhammad, suo suocero Abū Bakr (r. 632-634), proclamò a scanso di equivoci di non essere khalīfat Allāh, “vicario” di Dio, ma solo khalīfat rasūl Allāh, “vicario dell’Inviato di Dio”. Abū Bakr non rivendicava alcun potere religioso. Fin dall’inizio, la funzione religiosa e quella politica si separavano (l’Islam non è teocratico!): il carisma religioso è proprio dei profeti (ma Muhammad era morto); l’autorità politica è propria degli uomini. Fu più tardi con gli Omayyadi che progressivamente il “califfato di Dio” prese il sopravvento sul califfato degli uomini, con tutte le conseguenze teologico-politiche che si possono immaginare: la sacralizzazione di un potere che originariamente era solo umano.[26]

Inoltre, il fatto di aver stretto il patto con Dio fa sì che le benedizioni e la preferenza di Dio si riversino sugli uomini, ma nel contempo l’uomo non può e non deve superare i “limiti” di Dio, gli hudūd Allāh. Gli hudūd sono quei “reati” che solo Dio, non gli uomini, può perdonare, cioè  il loro rispetto è normativamente vincolante: il furto, il brigantaggio, il consumo di bevande alcooliche, la fornicazione, e la falsa accusa di fornicazione. Ancora nella seconda sūra, “della Vacca”, per esempio, a breve distanza troviamo: «Questi sono i termini di Dio (hudūd Allāh), non li sfiorate» (Q. 2:187) e «Questi sono i termini di Dio (hudūd Allāh), non oltrepassateli» (Q. 2:229). Il primo caso si riferisce a non infrangere la prescrizione di non avere rapporti sessuali durante il giorno del mese di Ramadan, dedicato al digiuno e alla meditazione; il secondo si riferisce a non infrangere le regole stabilite da Dio per il ripudio. Il non trasgredire i “limiti di Dio” ha un valore ortopratico e un versetto topico lo lega all’imperativo etico, altrettanto centrale nella visione islamica, del “prescrivere il bene e proibire il male”. Dice infatti il Corano che il successo supremo è garantito a «coloro che si convertono, che adorano, che lodano, che pregano, che si chinano, che si prostrano, che invitano al bene (al-amirūna bi’l-maʻrūf), che sconsigliano il male (al-nāhūna ‘an al-munkar), che osservano i termini di Dio (al-hāfizūna li-hudūd Allāh)» (Q. 9:112).

Potrebbe naturalmente sembrare audace cercare di ridurre a sintesi nel concetto teologico-politico di tempio quelli di utopia, legge e patto. È significativo però come partendo dall’analisi del tempio siamo stati condotti a una conclusione che coinvolge utopia, legge e patto. Si tratta della conferma del carattere olistico della Weltanschauung islamica, di una comprensività che ha indotto Sayyid Qutb (1906-1966) ad affermare:

 

«un legame strettissimo esiste tra la natura del concetto-credenza (al-tasawwur al-iʻtiqādī) e quella dell’ordinamento sociale (al-nizām al-ijtimāʻī), un legame che non si spezza […]. L’ordinamento sociale esprime comprensivamente la realtà dell’esistente, il posto che l’uomo occupa in essa e la sua funzione […]. La corrispondenza fra la credenza e la natura umana è una necessità organizzativa (tanzīmiyya) e conoscitiva (shuʻūriyya[27].

 

 [1] Cfr. la voce a firma di autori vari dell’Encyclopedie de l’Islam, 2° edizione, vol. VI, 1991, pp. 629-695.

[2] J. Hoag, L’architettura islamica, Electa, s.l., 1975, p. 13.

[3] R. Hillenbrand, Islamic Architecture, Edinburgh University Press, Edinburgh 1994, p. 63.

[4] D. B. Abouseif, Cairo of the Mamluks, I.B. Tauris, London and New York 2007, p. 15.Cfr. anche alcuni passaggi in N.O. Rabbat, Mamluk History through Architecture: Monuments, Culture and Politics in Medieval Egypt and Syria, I.B. Tauris, London 2010.

[5] Utilizzo la traduzione di A. Bausani, Il Corano, Rizzoli, Milano 1988 e successive ristampe. Più recente la pregevole traduzione di Ida Zilio Grandi per Mondadori, Milano 2012.

[6] ‘Alī Sharī‘atī, Histoire et Destinée, Sindbad, Paris 1982, p. 29-31 passim.

[7] Per il significato della fenomenologia nell’esegesi filosofica del Corano cfr. M. Campanini, Philosophical Perspectives on Modern Qur’anic Exegesis, Equinox Publishing, Sheffield UK e Bristol CT 2016. Naturalmente non è possibile in questa sede dettagliare il paradigma filosofico cui qui si allude.

[8] Cfr. anche M. Campanini, First Steps towards a Structuralist Interpretation of the Qur’an, in F. Meroi (ed.), Le parole del pensiero. Studi offerti a Nestore Pirillo, ETS, Pisa 2013, pp. 297-306.

[9] F. Rahman, Major Themes in the Qur’an, Chicago University Press, Chicago 2001; H. Hanafī, Method of Thematic Interpretation of the Qur’an, in Islam in the Modern World, Anglo-Egyptian Bookshop, Cairo 1992, vol. I,  p. 407-428.

[10] Sebbene poi sia anche invalso l’uso di indicare il masjid come “casa di Dio”.

[11] Per le citazioni cfr. la voce a firma di A. Wensinck e J. Jomier, in Encyclopedie de l’Islam, 2° edizione, vol. IV, 1978, pp. 331-337.

[12] Citato in al-Azraqī, La Kaʻbah, tempio al centro del mondo. Akhbār Makkah, a cura di R. Tottoli, Irfan Edizioni, San Demetrio Corone (CS) 2015, p. 15.

[13] Il termine fitna è un termina complesso, che ha anche il significato di “discordia” (così lo rende Zilio Grandi) o  “ribellione”. Bausani lo traduce addirittura come “scandalo”, termine poco felice. Qui scelgo la versione di Abdel Haleem perché è chiaro che il contesto si riferisce ai musulmani che sono stati perseguitati dai miscredenti e che dunque sono stati costretti a combattere e a uccidere per difendersi.

[14] Ovviamente, il primo emigrante è stato il Profeta Muhammad. Ma si ricordi che l’emigrazione, cioè l’allontanamento da quei territori o stati dove non vige la Legge di Dio, è uno dei motivi ricorrenti dell’ideologia degli islamisti radicali.

[15] La letteratura sul jihād è ovviamente vastissima. Per due orientamenti  opposti cfr. D. Cook, Understanding Jihad, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 2005, che ritiene l’idea di “guerra santa” inerente allo stesso pensiero musulmano e al Corano, e A. Afsaruddin, Striving in the Path of God. Jihad and Martyrdom in Islamic Thought, Oxford University Press, Oxford-New York 2013, che invece ritiene l’idea del jihād aggressivo formulata più tardi e non implicita nel messaggio coranico.

[16] In generale il masjid  non è “casa di Dio” nel senso in cui lo sono la sinagoga e soprattutto la chiesa. Dio non “risiede” nel masjid, non vi sono tabernacoli o sancta sanctorum che ne ospitino il simulacro o anche solo la presenza spirituale. Ciò è dimostrato prosaicamente e fisicamente dall’architettura stessa della moschea. Il cuore della moschea, la sala della preghiera (a prescindere dalle strutture architettoniche – colonnati, cortili, eccetera – che circondano questa sala della preghiera) di norma evidenzia molto sobriamente la qibla per mezzo della nicchia del mihrāb; e vi compare il minbar o pulpito per il sermone (khutba) del venerdì. La semplicità della moschea raffigura bene la “vuotezza” di Dio. L’essenza di Dio è trascendente e inconoscibile. Dio è “vuoto”, non è una presenza reale: il suo carattere “mono” e “assoluto” lo rende irriducibile e irraffigurabile dalla spazialità, e vieppiù dalla transustanziazione o dall’incarnazione.

[17] M.H. Fadlāllah, Al-Islām wa mantiq al-quwwa, Dār al-Malak, Beirut 2003, pp. 61ss.

[18] M. Campanini, L’alternativa islamica. Aperture e chiusure del radicalismo, Bruno Mondadori, Milano 2012.

[19] S. Salzani, Teologia politica islamica. Un approccio, in Id. (ed,), Teologie politiche islamiche, Marietti 1820, Genova-Milano 2006, pp. 56-57.

[20] M. Campanini, Ideologia e politica nell’Islam, Il Mulino, Bologna 2008; Id., L’alternativa islamica, Bruno Mondadori, Milano 2012;  Id., Oltre la democrazia. Temi e problemi del pensiero politico islamico, Mimesis, Milano-Udine 2014; Id., Islam e politica, Il Mulino, Bologna 20153.

[21] Cfr. A. Ventura (ed.),  Vite e detti di Maometto, Meridiani Mondadori, Milano 2014, p. 408.

[22] Cfr. M. al-Rasheed, Storia dell’Arabia Saudita, Bompiani, Milano 2002.

[23] Nasser, Falsafat al-thawra (Filosofia della rivoluzione), Madbūlī, Cairo 2003.

[24] al-Ghazālī, Al-Iqtisād fī’l-Ítiqād (Il giusto medio nella credenza), Maktabat al-Jindi, Cairo 1972, p. 196-197.

[25] Ancora M. Campanini, Islam e politica, cit.

[26] Cfr. P. Crone e M. Hinds, God’s Caliph. Religious Authority in the First Centuries of Islam, Cambridge University Press, Cambridge 1986; e per un punto di vista “interno”, musulmano, M. ‘Abed al-Jābrī, Al-‘Aql al-siyāsī al-‘arabī (l’Intelletto politico arabo), Markaz Dirāsāt al-Wahda al-‘Arabiyya, Beirut 1992.

[27] S. Qutb, Khasā’is al-tasawwur al-islāmī (Le caratteristiche del concetto islamico), Dār al-Shurūq, Cairo 1997, p. 24.