01
NOV
2017

Temple-II. In-depth: Dalla tenda di Abramo alle dimore dei credenti. La sacralità dell’ospite nella tradizione islamica (Ida Zilio-Grandi)

 Abstract

From Abraham’s tent to the homes of believers. The sacredness of the guest in Islamic tradition

This essay deals with the concept of hospitality in the Islamic tradition. According to a Koranic verse dedicated to the various components of “true pity” (in Arabic birr, Q2,177), a good Muslim is someone who gives a part of his belongings to a “son of the street”. In the exegetical tradition, this usually refers to the guest, in Arabic, ḍayf.  Like in English (and unlike the Italian ospite or the French hôte, which refers to both the receiver and the giver of hospitality), ḍayf is unidirectional and means “he who asks, and possibly receives, hospitality”. The word is derived from the verb ḍāfa. Arabic lexicologists of the classical period illustrate other meanings of the verb ḍāfa; on one hand, it can mean “to deviate” (cfr. mayl), and, on the other, “to be added or annexed” (cfr. iḍāfa). The latter suggests “annexation”, a technical term in Arabic grammar used to indicate the determination of a noun through the use of another noun in the genitive case. Another noteworthy element in the lexicologists’ explanations is the recurrence of the verb qarraba, meaning “to approach” or “to allow others to approach”, but also “to offer to God” and therefore “to sacrifice”. In summary, ḍayf or “guest” is one who deviates from his own path, seeking help from another, and who, in joining with his host in a sort of “sacred ceremony”, determines him as “virtuous” (or not) and a participant (or not) in “true pity”.

DALLA TENDA DI ABRAMO ALLE DIMORE DEI CREDENTI. La sacralità dell’ospite nella tradizione islamica

Premessa

 Questo contributo, dedicato all’ospitalità nella tradizione islamica, nasce da alcune riflessioni attorno alla presenza di migranti sul suolo italiano. Le allarmanti emergenze della nostra contemporaneità fanno ripensare per contrario a un grande simbolo dell’accoglienza, la bella immagine biblica della tenda di Abramo.

Quasi tutti sanno ormai che Ebraismo Cristianesimo e Islam si raggruppano sotto la comune definizione di “religioni abramitiche” giacché il patriarca Abramo è considerato l’antenato di tutti, degli ebrei e dei cristiani attraverso Isacco, il figlio di Sara, e dei musulmani attraverso Ismaele, il figlio di Agar. Ma pochi sanno che tenda è un termine piuttosto vicino a tabernacolo, il quale non è che una tenda; almeno all’inizio, prima di indicare le piccole cappelle con le immagini sacre, il tabernacolo consisteva di un’ossatura di tavole di legno – da cui appunto il nome – e di una copertura di tela distesa, come una tenda appunto. Ciò che la Bibbia chiama il “tabernacolo del Signore” era la tenda in cui gli ebrei conservarono l’arca dell’alleanza durante gli anni di peregrinazione nel deserto; tenda che riproduceva in miniatura quella sorta di padiglione smontabile e trasportabile con facilità, usato ora come allora dai popoli nomadi del Medio Oriente.

Nel contesto generalmente biblico, la tenda di Abramo è un’immagine piena di sacralità. E lo stesso accade della dimora di Abramo secondo la tradizione islamica.

 

  1. Il buon credente e il dovere del dono

Nel secondo capitolo del Corano, la sura della Vacca, si trova un passo celeberrimo e con buona ragione, che spiega cosa vuol dire essere un buon musulmano[1]. È una definizione ampia di birr, la “vera pietà”, la pietas secondo l’Islam[2]  che spazia dagli articoli di fede all’etica giuridica fino al dominio delle virtù personali:

 

«la vera pietà (birr) non è volgere il viso verso oriente o verso occidente, la vera pietà è quella di chi crede in Dio e nell’ultimo giorno, negli angeli, nel libro e nei profeti, di chi dà i propri beni, per quanto li ami[3], ai parenti, agli orfani, ai poveri, al figlio della strada e ai mendicanti, e per il riscatto dei prigionieri, è quella di chi compie la preghiera e paga l’elemosina e tiene fede al patto dopo averlo stipulato, di chi è paziente nei dolori, nelle avversità e nei momenti di tribolazione. Ecco quelli che sono sinceri, ecco quelli che temono Dio» (Q2,177)[4].

 

Nel “figlio della strada” (ibn al-sabīl) ovvero il viandante cui è dovuto il dono dei propri beni inter alia, i commentatori coranici riconoscono solitamente l’ospite; spiegano infatti questa espressione come ayf, “ospite”[5]. Si tratta segnatamente dell’ “ospite che si ferma dai musulmani”, come insegna per esempio Ibn Kathīr (m. 774/1373); questo autore di scuola ḥanbalita riprende così l’opinione di Ibn ʿAbbās (m. ca. 68/687-8), un cugino del Profeta celebrato come massimo interprete del Corano. Un altro antico esegeta tra i più autorevoli, al-Ṭabarī (m. 310/923)[6], spiega altrimenti il viandante come il viaggiatore che “ti passa accanto” (yamurru ʿalay-ka), figura dietro la quale si cela, evidentemente e da capo, l’ospite[7].

Il Corano riconosce volentieri nel viandante/ospite una categoria protetta; assimila infatti il “figlio della strada” non soltanto ai consanguinei e ai parenti ma anche ai bisognosi per eccellenza e cioè gli orfani di padre. In questo modo l’ospitalità rientra nel grande dovere islamico della carità. Sempre nella seconda sura è detto:

 

«Ti chiederanno cosa devono dare in carità (cfr. nafaqa). Rispondi: Quel che darete di bene (khayr) sia per i genitori, i parenti, gli orfani, i poveri, il figlio della strada. Tutto il bene che farete, Dio lo conoscerà» (Q2,215).

 

Ancora un esempio, tratto dalla sura quarta delle Donne. Qui la doverosa accoglienza dell’ospite figura, insieme alle altre forme della carità, come una riparazione o comunque una sorta di contraccambio per la previa generosità di Dio:

 

«adorate Dio e non associate nulla a Lui, e fate del bene (cfr. isān) ai genitori, ai parenti, agli orfani, ai poveri, al prossimo che vi è parente e al prossimo che vi è estraneo, al compagno di viaggio, al figlio della strada e allo schiavo, Dio non ama chi è superbo e vanesio, né coloro che sono avari e invitano gli uomini all’avarizia e tengono nascosti i beni che Egli ha dato loro […]» (Q4,36-37).

 

Si è detto che la definizione coranica di buon musulmano fa appello a elementi eterogenei che vanno dalla dottrina al comportamento giuridicamente connotato all’etica della virtù: infatti la “vera pietà” o birr è – si ricordi – quella di chi crede, , prega, versa l’elemosina e adempie ai patti, e di chi è paziente (Q2,177). Queste componenti concorrono insieme a formare la pietas, che si perfeziona solo con la presenza di ciascuna di esse. Tra le quali va appunto annoverata la carità rivolta all’ospite, intesa peraltro in un’accezione molto elevata sotto il profilo morale: si tratta infatti di dare all’altro non il superfluo ma “ciò che si ama”. Dare agli altri ciò che si ama è un atto disinteressato: lo afferma tra l’altro l’antica sura dell’Uomo, quando definisce i “servi di Dio” (ʿibād Allāh) come coloro che

 

«[…] nonostante il loro amore per il cibo, nutrono il povero, il prigioniero e l’orfano: «noi vi nutriamo per il volto di Dio (li-wajhi ‘llāh), non vogliamo da voi alcuna ricompensa, e nemmeno gratitudine […]» (76,8-9).

 

Dare agli altri una cosa a loro gradita senza esigere in cambio un prezzo o una ricompensa oppure la  restituzione si chiama, naturalmente, dono[8]: e nel pensiero coranico l’ospitalità, proprio in quanto è dono, non risponde a una logica utilitaristica e non richiede reciprocità.

 

  1. Inclinazione, annessione e definizione

Veniamo ora al termine privilegiato dalla lingua araba e dallo stesso Corano per dire “ospite”, cioè, come si è visto, ayf. A differenza dell’italiano ospite o del francese hôte, e similmente all’inglese guest, questa voce araba è a senso unico, e indica colui che chiede e ottiene ospitalità. I dizionari insegnano infatti che il significato primario del verbo ḍāfa [impf. yaḍīfu], di cui ḍayf è un nome d’azione, è «chiedere ospitalità a qualcuno»[9].

Il noto vocabolario della lingua classica dal titolo Le misure della lingua (Maqāyīs al-lugha) di Ibn Fāris (m. 395/1004) – in questo ripreso da Ibn Manẓūr (m. 711/1311-2) nell’ancora più celebre La lingua degli Arabi (Lisān al-ʿArab)[10] – premette un’osservazione sul contenuto fondamentale del verbo in questione: si tratta dell’inclinazione, della curvatura e della propensione (mayl) di una cosa nei confronti di un’altra cosa. L’autore offre come esempi il sole che tramonta e declina verso l’orizzonte, e la freccia che devia dalla traiettoria e manca il bersaglio. Similmente devia dal proprio cammino chi fa visita a qualcuno per ottenere ospitalità[11].

Allo stesso tempo, sempre secondo i dizionari classici, la radice di ḍayf contiene le idee di aggiunta, unione e connessione. Si pensi in particolare alla IV forma verbale aḍāfa [impf. yuḍīfu], che vuol dire sì “accogliere ospitalmente” – come la II forma ayyafa – ma anche “aggiungere”, “accludere”, “annettere”. Nel magistrale compendio pubblicato a Londra nel 1863 e intitolato  Arabic-English Lexicon, Edward W. Lane segnala che l’ospite si chiama ḍayf perché si aggiunge ai familiari e riceve il cibo insieme a loro[12]. Ma chiunque conosca i rudimenti della lingua araba non può non pensare anche a un termine tecnico della grammatica, cioè iḍāfa, “annessione” o “stato costrutto”, con cui si indica la determinazione di un termine grazie a un altro termine, aggiunto (muḍāf) al precedente (che a sua volta è detto “quello che riceve un’aggiunta”, al-muḍāf ilay-hi) e messo in caso genitivo. Un esempio: se la frase in questione fosse “la mano di un ragazzo”, mano sarebbe il termine che viene determinato – “che riceve un’aggiunta”, oppure “che ospita” – e ragazzo  il termine annesso ovvero “ospitato”.

Le riflessioni che precedono, per quanto sommarie, possono contribuire a chiarire la percezione dell’ospitalità nella cultura araba e islamica: l’ospite è innanzitutto qualcuno che devia dal proprio cammino, essendo però la sua deviazione in qualche modo necessaria – al pari del tramonto o della legge di gravità – giacché dettata dalla legge della sopravvivenza; pensiamo agli immensi territori desertici della Penisola Arabica, agli sporadici centri sedentari e ai rari accampamenti. Questa richiesta di ospitalità, inevitabile come le leggi di natura, comporta un diritto di protezione[13]; ed è vero che prima e dopo l’avvento dell’Islam, l’ospitalità degli Arabi include, oltre al trattamento amichevole dell’ospite, anche la garanzia del suo benessere[14].

Inoltre, “ospite” è colui che, aggiungendosi provvisoriamente alla famiglia – cioè alla tavola –  di chi gli dona ospitalità, contribuisce a determinare costui; lo definisce, per l’appunto, nella sua capacità di accogliere e d’essere caritatevole, e in questo modo lo specifica in quanto buon musulmano, partecipe o meno della “vera pietà”  o birr[15].

 

  1. I buoni credenti e i loro ospiti

Il Corano non enfatizza il peso dell’ospitalità[16] che evidentemente considera scontato, ma vi accenna comunque in varie occasioni. La radice deputata a esprimere questo concetto ricorre infatti sei volte, cinque volte attraverso l’impiego del termine ayf, “ospite”, e all’interno del racconto sugli angeli che fecero visita ad Abramo (Q15,51; 51,24) e poi a Lot (Q54,36-37; 15,68; 11,78). La sesta ricorrenza riguarda invece il profeta Mosè il quale, in viaggio con un misterioso personaggio dalla sapienza soprannaturale, si vede rifiutare accoglienza dagli abitanti di una città (Q18:77). Se ora ripensiamo alle due accezioni dell’ospitalità richiamate sopra – la deviazione necessaria, e la definizione di altri – possiamo osservare che la capacità di accoglienza di Abramo e Lot li qualifica senza dubbio come dei buoni credenti, partecipi dello statuto eccellente che il Corano denomina “vera pietà” o birr.  Ed è vero il contrario per la gente che non ospitò Mosè.

Nella sura di al-Ḥijr è detto:

 

«Racconta loro degli ospiti di Abramo quando entrarono da lui e gli dissero: – Pace. Rispose: – Abbiamo paura di voi (innā min-kum wajilūn, cfr. wajal). Non temere (lā tawjal), – dissero, noi ti annunciamo un giovane sapiente. Rispose: – Mi portate questo lieto annuncio quando sono vecchio ormai? Cosa mi annunciate? […]» (Q15,51-54).

 

Un altro passo analogo si trova nella piú antica sura delle Creature che disseminano:

 

«Ti è giunto il racconto degli onorati (mukramīn)[17] ospiti di Abramo? Quando entrarono da lui gli dissero – Pace, ed egli rispose: – Pace, ed era gente sconosciuta. Si ritirò dai suoi e poi tornò con un vitello grasso che offrì loro (qarraba-hu ilay-him); chiese: – Non mangiate?[18], e si inquietò (awjasa, cfr. wajs). Non avere paura, – dissero, e gli annunciarono la nascita di un bambino sapiente» (Q51,24-28).

 

Come nel racconto biblico (cfr. Gn 18,1-9), l’annuncio riguarda la nascita di Isacco, e gli ospiti di Abramo sono degli angeli. Quel che spicca nella versione coranica della storia, e allo stesso tempo rappresenta una differenza sostanziale rispetto alla versione biblica, è l’insistenza sul timore, o apprensione o timidezza (wajal), e anche sull’inquietudine o trepidazione o presagio del peggio (wajs) che la presenza di questi viandanti stranieri e sconosciuti produce in Abramo; timore e inquietudine che però non valgono a distogliere il patriarca dal dovere del dono.

In questo modo, il Corano illumina il volto più vero e alto dell’ospitalità: è un puro atto di fiducia, del tutto privo di garanzie sociali; da un lato espone certamente al rischio, ma dall’altro consente il manifestarsi di una rivelazione[19].

La Tradizione islamica insiste sull’importanza di Abramo nel contesto dell’ospitalità, e, per esempio, fa dire al Profeta Muhammad che Abramo, considerato – come si è detto – il padre dei monoteisti, fu anche il primo a dare ospitalità[20]. Gli antichi musulmani lo considerano un eroe, un principe dell’accoglienza. Ad esempio, secondo ʿIkrima, uno dei “Successori” (tābiʿūn), Abramo era chiamato “il padre degli ospiti” e il suo palazzo aveva quattro porte affinché non lo mancasse nessun viandante, qualunque fosse la provenienza di costui[21].  Un altro, Muğāhid, spiega che quando il Corano dice “gli onorati ospiti di Abramo” (Q79,24) vuol dire che il patriarca si era messo al loro servizio e li aveva serviti personalmente[22]. Un altro ancora, ʿAṭāʾ, narra che quando Abramo voleva mangiare percorreva un miglio o due per cercare chi avrebbe mangiato con lui[23].

Lasciato Abramo, gli angeli si dirigono da Lot per annunciargli il castigo del suo popolo. E qui occorre ricordare che la turpitudine del popolo di Lot è in prima istanza presentata dal Corano come ricusazione delle leggi dell’ospitalità, e non come aberrazione sessuale. La sura della Luna afferma ad esempio che i concittadini di Lot

 

«dubitarono degli avvertimenti [divini] e vollero distoglierlo (rāwadū-hu) dai suoi ospiti (ʿan ayfi-hi)» (Q54,37).

 

Come si evince dalla citazione che precede, il rifiuto dell’ospite da parte del popolo di Lot era conseguenza di una preesistente empietà: quel popolo disconosce l’ospitalità proprio perché a monte ha già disconosciuto i messaggeri del Signore, e perché, ancora più a monte, ha negato la realtà della profezia. La mancanza di timore di Dio ovvero taqwā che caratterizza il popolo di Lot spicca anche in un passo della sura di al-Hijr:

 

«Lot disse loro: – Sono ospiti miei (ayfī), non mi disonorate, abbiate timore di Dio (ittaqū ‘llāha), non umiliatemi. Dissero: – Non ti abbiamo proibito [di accogliere] chiunque al mondo (lett. “i mondi”)?» (Q15,68-70).

 

Insomma, nel pensiero coranico e islamico il rifiuto dell’ospite va di pari passo con la miscredenza, e per converso l’accoglienza dell’ospite è parte della fede. È del tutto coerente il seguente detto del Profeta Muhammad tramandato tra gli altri da Ibn Abī al-Dunyā (m. 281/894): «Chi crede in Dio e nell’ultimo giorno, onori il suo ospite»[24].

 

  1. Celebrare la presenza dell’ospite. Conclusioni

Il Corano – si è visto – rapporta l’ospitalità alla religione e rende l’osservanza dei diritti dell’ospite un aspetto dell’osservanza dei diritti di Dio e del Profeta. A ciò si aggiunga che gli unici esseri qualificati di ayf o “ospiti” nel Corano sono gli angeli di Abramo e di Lot; è un modo per dire la sacralità dell’ospite e inoltre, per via transitiva, la sacralità della dimora che si trovi ad accogliere un ospite.

Un altro modo grazie al quale il Libro dell’Islam ribadisce l’alto valore religioso dell’accoglienza passa attraverso il rapporto che lega l’ospitalità all’offerta di cibo.

Nella sura delle Creature che disseminano, citata anche sopra, è detto che Abramo accolse i viandanti sconosciuti e quindi

 

«si ritirò dai suoi e poi tornò con un vitello grasso che offrì loro (qarraba-hu ilay-him) e chiese: – Non mangiate?» (Q51,26-27).

 

L’atto di offrire è qui espresso per via di un verbo carico di senso nel nostro contesto, cioè qarraba: a partire dal significato di “avvicinare” o “lasciare avvicinare”, qarraba può alludere all’avvicinamento a Dio o di Dio; in tal modo, esso viene a significare “offrire a Dio un sacrificio”. Non è lontana la sura della Conversione dove si tratta di “avvicinamenti” ottenuti grazie alla carità:

 

«Tra i beduini c’è chi crede in Dio e nell’ultimo giorno, ed è convinto che la carità versata procuri degli avvicinamenti a Dio (qurubāt ʿinda Allāh) e [procuri anche] le preghiere dell’inviato. Non è forse prossimità (qurba) per loro, questa?» (Q9,99).

 

Qarraba compare anche nella storia coranica dei figli di Adamo. Qui il verbo in questione è reso ancora più forte dalla compresenza del sostantivo affine qurbān, “offerta sacrificale”: i due «sacrificarono un sacrificio» (qarrabā qurbānan), chi un agnello e chi una spiga, e Dio accettò dall’uno e all’altro rifiutò (cfr. Q5,27)[25]. Attingendo mutatis mutandis allo stesso bagaglio semantico, gli Arabi cristiani impiegano qarraba per dire “amministrare la comunione”.

D’altro canto, e sempre a partire dall’idea di avvicinamento, qarraba può intendersi come “accogliere qualcuno nella propria famiglia”. Pensiamo anche a qurbā, derivato dalla medesima radice e attestato spesso nel Corano nell’espressione ahl al-qurbā o “gente della prossimità” nel senso preciso di “parenti”. Questo ci riporta all’ospitalità e ai verbi che la esprimono[26] con il loro senso di aggiunta, acclusione e annessione. Su questi verbi ascoltiamo nuovamente il lessicografo Ibn Manẓūr il quale insegna: «Lo hai ospitato (aḍafta-hu, ayyafta-hu) vuol dire che lo hai fatto fermare da te come ospite (anzalta-hu ʿalay-ka ayfan), che lo hai lasciato deviare verso di te (amalta-hu ilay-ka). E vuol dire – conclude – che qarrabta-hu”»

Vale a dire, da una parte, «che lo hai avvicinato e/o lasciato avvicinare a te prendendolo come famigliare e aggiungendolo alla tua tavola»; e dall’altra, «che lo hai avvicinato e/o lasciato avvicinare a Dio offrendo al Signore questa tua carità».

L’autore aggiunge infine, sull’autorità di un garante antico, che “ospitare” (ḍayyafa) significa propriamente “dare da mangiare” (aʿama), e che ospitalità (taḍyīf) vuol dire nutrire (iʿām)[27].

Nel pensiero coranico e in genere islamico l’ospitalità si configura dunque e piuttosto apertamente come un atto cultuale e rituale, giacché porta con sé l’avvicinamento di Dio e a Dio. In tal modo, il consenso all’avvicinamento dell’altro e specie dello sconosciuto e dello straniero assume i tratti di una sacra funzione durante la quale la presenza altrui viene celebrata grazie all’offerta e alla condivisione del cibo; e proprio quest’ultimo aspetto, cioè il frazionamento e la distribuzione della sussistenza disponibile quale dovere religiosamente orientato, capace di produrre l’unificazione dei partecipi come se fossero membri di un’unica famiglia, si offre con forza alla coscienza e alla riflessione di chi appartiene ad altra tradizione culturale.

 

[1]            O, in altri termini, cosa vuol dire “temere Dio”, cfr. Q2,189: «la vera pietà è quella di chi ha timor di Dio”(al birr man ittaqā […] )».

[2]            Cfr. il Nome divino al-Barr, spesso reso come “il Benefattore”. L’esegesi di questo versetto (qui e in seguito per le citazioni tratte dai commentari coranici, cfr. www.altafsir.com) conferisce alla voce birr l’intera gamma dei contenuti della rettitudine; essa è intesa variamente come “ubbidienza a Dio” (ṭāʿat Allāh), come conformità alla profezia e al patto con Dio, come l’ingresso nella religione di Muhammad, come verità (aqq), oppure come “ciò che piace a Dio si tratti di parola o di azione”; cfr. ad es. al-Ṭabarī (m. 310/923). E anche come  “bene e giustizia” (al-khayr wa al-maʿrūf), cfr. ad es. al-Zamakhsharī (m. 538/1144). Al-Rāzī (m. 606/1209) vincola birr alla prassi, facendone ogni azione di bene ivi compresa la pietas filiale: «è ogni azione di bene (ism jāmiʿ li-aʿmāl al-khayr); ne fa parte la pietà nei confronti dei genitori (birr al-wālidayni) cioè l’ubbidienza di loro […]».

[3]            Questa traduzione – e non «per amore di Lui» come legge anche Alessandro Bausani – è la più conforme alla tradizione esegetica, nonché  coerente con Q3,92: «non avrete parte della pietà (birr) finché non donerete parte di ciò che amate […]».

[4]            Qui e in seguito la traduzione dei brani coranici è di chi scrive. Cfr. anche A. Ventura, a cura di, Il Corano, trad. I. Zilio-Grandi, Mondadori, Milano 2010.

[5]            Cfr. al-Ṭabarī, al-Zamakhsharī, al-Rāzī e anche al-Qurṭubī (m. 671/1272).

[6]            Si appella a Qatāda ibn Diʿāma (m. 117/735); secondo questo antico dotto, e sempre nel recosoconto di al-Ṭabarī, il Profeta era solito dire che «il dovere di ospitalità è di tre notti, e tutto quel che va oltre è elemosina (ṣadaqa)».

[7]            Un altro suggerimento, che proviene dal moderno al-Shawkānī (m. 1250/1834): si tratta del viaggiatore in sosta forzata (al-musāfir al-munqaiʿ).

[8]            Cfr. Marcel Mauss nel suo celebre Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés archaïques (ed. or. in “L’Année Sociologique”, 1923-1924, tr. it. Einaudi, Torino 2002): dono è ciò che non comporta un’equivalenza  prestabilita.

[9]            Il senso reciproco di «colui che offre ospitalità» è attestato solo in epoca tarda, J. Lecerf, Ḍayf, in Encyclopaedia of Islam, Second Edition, ed. by P. Bearman, Th. Bianquis, C.E. Bosworth, E. van Donzel, W.P. Heinrichs (d’ora in poi EI2), http://referenceworks.brillonline.com/entries/encyclopaedia-of-islam-2/dayf-SIM_1766.

[10]         D’ora in poi LA. Qui e in seguito per il ricorso ai dizionari cfr. http://www.baheth.info.

[11]          Cfr. ancora J. Lecerf, Ḍayf.

[12]          «[…] so called because ajoined to the family and fed with them» (l’autore si appoggia a sua volta ad al-Tabrīzī, Šar al-amāsa), cfr. b. I, p. 1814, e cfr. http://ejtaal.net/aa/#hw4 s.v. ḍayf.

[13]          E in questo ayf è affine ad altri termini della lingua araba, come dakhīl, lett. “interno”, oppure jār, lett. “prossimo”. Cfr. ancora J. Lecerf, EI2, ss.vv. Dakhīl e Djār.

[14]          Forse si può considerare una derivazione dell’ospitalità così intesa anche la cosiddetta dhimma, l’istituto giuridico attraverso il quale la comunità islamica deve accordare appunto ospitalità e protezione ai membri delle religioni rivelate diverse dall’Islam (cfr. l’espressione ahl al-dhimma, “gente della protezione”), cfr. Glossary and Index of Terms, EI2, s.v. D̲h̲imma.

[15]          Quest’idea dell’ospite come discrimine, e della sua presenza come «interrogazione per la definizione di chi lo ospita» fa pensare per molti versi alle riflessioni di Jacques Derrida, De l’hospitalité, Calmann-Lévy, Paris 1997 (coll. “Petite bibliothèque des idées”). passim.

[16]          Cfr. Valerie J. Hoffman, Hospitality and Courtesy, in Encyclopaedia of the Qurʾān, gen. ed. Jane Dammen McAuliffe, Georgetown University, Washington DC, Brill Online (d’ora in poi EQ): «Although the Qurʾān places a great deal of stress on the need to be charitable to the poor, the enormous emphasis on hospitality in Islamic culture seems to be derived from pre-Islamic Arab values and draws its greatest validation in ḥadīth […]. The Qurʾān has little to say about the broader practice of hospitality — inviting and providing for the needs of guests — or the elaborate practices of courtesy for which Muslim societies are often famous».

[17]          Mukram è participio passivo di IV forma, e ha il senso di “colui cui è donato, colui che è ospitato” (cfr. anche http://www.almaany.com/en/dict/ar-en/, «feerly or free from meanness or prejudice»).

[18]          Poiché il dono di cibo formalizza l’ospitalità (su questo vedi anche in seguito), il rifiuto del cibo rivela un intento che contraddice la richiesta di ospitalità ed è quindi aggressivo, cfr. Q11,70.

[19]          Cfr. l’autore della Lettera agli Ebrei: «[…] Non dimenticate l’ospitalità (lett. φιλοξενία, “amore per lo straniero”); alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo» (Eb 13,1-2).

[20]          Cfr. ad esempio Ibn Abī al-Dunyā (m. 281/894), Qurā al-ḍayf, ed. ʿAbd Allāh ibn Ḥamd al-Manṣūr, Aḍwaʾ al-salaf, Riad 1418/1997, p. 18, no. 5.

[21]  Ibidem, no. 7.

[22]  Ibi, pp. 18-19, no. 8.

[23]  Ibi, p. 19, no. 9.

[24]          Cfr. Qurā al-ḍayf, ed. ʿAbd Allāh ibn Ḥamd al-Manṣūr, Aḍwaʾ al-salaf, Riad 1418/1997, p. 16 (no.1).

[25]          Non è questa l’unica ricorrenza coranica del sostantivo qurbān nel senso preciso di offerta sacrificale. Nella sura della Famiglia di Imran i miscredenti dichiarano: «Dio ha stretto un patto con noi: non presteremo fede ad alcun messaggero finché non ci porterà un’offerta sacrificale che il fuoco consumi […]» (Q3,179). La terza e ultima ricorrenza del termine qurbān si trova nella sura di al-Aḥqāf,  dove ha il senso di «mediazione con gli idoli» (Q46,28).

[26]  In partcolare aāfa in IV forma e ayyafa in II, vedi sopra.

[27]  E qui, osserva ancora l’autore, si trova secondo alcuni la differenza di senso tra tra la II e la IV forma verbale.