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The temple, the visible Church and the invisible Church. Some notes on theological juridism from Rudolph Sohm onwards
This essay begins with the theological anti-legalism of Rudolph Sohm in order to reconstruct some of the ecclesiological implications of the debate between legalism and anti-legalism, referring to Weber, Troeltsch, Schmitt, Jellinek, Bonhoeffer, and others. According to Sohm, Church law is in conflict with the essence of the Church. He emphasizes the absolute logical, theo-logical and chrono-logical precedence of the invisible, spiritual, charismatic, loving Church over the visible, institutional and spatial Church of law. The spatialization of the sacred in the individual consciousness cannot admit that normative human sources, emanating from the visible Church, give rise to legal obligations which are theological requisites for personal salvation.
Nel 1973, il grande teologo francese Yves Congar pubblicava, sulla «Revue des sciences philosophiques et théologiques», un articolo dal significativo titolo Rudolph Sohm nous interroge encore[1]. Tre anni prima, le edizioni berlinesi Duncker und Humblot avevano ridato alle stampe (riprendendo la seconda edizione del 1923, mentre la prima è del 1892) l’opera più celebre di Rudoph Sohm, i due volumi del suo Kirchenrecht. In essa, fin dalle primissime battute, si trova lapidariamente formulata la tesi che doveva decretare la fortuna, in termini sia di consenso, sia di dissenso, del giurista di Rostock e la ragione per cui una tale tesi, agli occhi di Congar, ancora dovrebbe interrogarci[2]: «Das Kirchenrecht», scriveva infatti Sohm, «steht mit dem Wesen der Kirche in Widerspruch», «il diritto della Chiesa si trova in contraddizione con l’essenza della Chiesa»[3]. Immediatamente nel prosieguo di tale affermazione, Sohm chiariva che il «Wesen der Kirche» di cui qui si tratta è essenzialmente un «Wesen des Katholizismus»:
«Tutta l’essenza del cattolicesimo poggia sull’affermazione dell’ordine giuridico come necessario per la Chiesa. La Chiesa, infatti, dipende per esso dalla verità oggettiva, dal fatto cioè che, in verità, la Parola di Dio e la sua volontà siano annunciate, offerte al mondo e rese in tal modo efficaci [wirksam]. Per contro, il diritto dipende essenzialmente dalla forma (summus jus summa injuria) e, anzi, deve dipendere primariamente da essa, ché solo così può rappresentare una decisione al di sopra delle parti, ossia una decisione che, nonostante gli interessi contrapposti, s’imponga nondimeno come giusta per entrambi i contraenti, non derivando da influssi del momento, ma da principi immutabili, fondati sulla tradizione e universalmente validi. Ne consegue che, benché il concetto di diritto non esiga di per sé la forza, tuttavia esso tende a una sorta di realizzazione coattiva; l’essenza della Chiesa, per contro, rigetta la forza, perché unicamente la libera ricezione del divino ha valore spirituale»[4].
Come appare evidente, riecheggia espressamente, nell’affermazione secondo cui solo il freier Genuß des Göttlichen serbi valore spirituale, la celebre formula fissata da Jean Bodin nel Colloquium Heptaplomeres de rerum sublimium arcanis abditis: «religionem imperare non possumus, quia nemo cogi potest, ut credat invitus» («non possiamo istituire per legge una religione, giacché nessuno può essere costretto a credere contro la propria volontà»).
Ne va cioè dell’individuazione di uno spazio, quello dell’interiorità, che, a onta dell’effetto generato dalla tradizione del compelle intrare presso tutti gli epigoni, a vario titolo, del Grande Inquisitore dostoevskijano, sancisce una inviolabilità di principio di quello spazio che nessun intervento esterno è autorizzato a forzare. Se il diritto secolare si avvale, per affermarsi, di strumenti amministrativi e regolativi umani e terreni, ivi inclusi quelli della coercizione e della forza legittima, la Chiesa, nella sua essenza, non può (nel senso del tedesco dürfen, ovvero non le è costitutivamente lecito) fare propri tali strumenti. E non può, a ben guardare, in virtù dello stesso dettato evangelico che la fonda, ossia in virtù del processo di interiorizzazione e spiritualizzazione del culto quale si evince, p.es., dall’allusione agli «adoratori in spirito e verità» di Gv 4,23-24, all’assenza di qualsivoglia tempio nella Gerusalemme celeste di Ap 21,22 e al corpo come «tempio dello Spirito Santo» di 1Cor 6,19: è dunque solo la Parola, che fonda e istituisce la Chiesa, a produrre e mantenere l’ordine, revocando ab origine ogni legittimità a qualsivoglia atto coattivo esercitato autoritativamente dalla struttura istituzionalizzata[5].
Il principio qui evocato era già stato anticipato da Sohm nella Kirchengeschichte im Grundriß (Storia della Chiesa in compendio), la cui prima edizione era apparsa nel 1887. Quest’opera aveva suscitato, come si sa, una vivace discussione tra lui e Adolf von Harnack, specie in virtù della contestazione che ivi veniva mossa alla teoria harnackiana della «doppia organizzazione», elaborata dal teologo liberale a partire dalla curatela del libro di Hatch sulla costituzione sociale della Chiesa delle origini[6].
Suppergiù in contemporanea con la pubblicazione della Didaché, la «Dottrina dei dodici apostoli», considerata la prima raccolta conosciuta di scritti «canonici»[7], Harnack sosteneva che il costituirsi in forma strutturata delle prime comunità cristiane era stata preceduta da una «organizzazione carismatica» di apostoli, profeti e maestri (didaskaloi) che si era poi mantenuta, se pure con funzione subalterna, accanto all’organizzazione amministrativa. Come opportunamente rimarcato da Max Weber, era nella Lettera agli Ebrei che Harnack rinveniva lo «specimen della sua metodica interpretativa»[8]; la cosiddetta Lettera agli Ebrei, infatti, ruotando attorno alla dialettica tra l’antico tempio sacerdotale e il nuovo tempio rappresentato da Cristo («Cristo, invece, è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione» Eb 9,11), segnalerebbe in maniera plastica la compresenza di un originario impulso carismatico e, contestualmente, la progressiva strutturazione di un impianto giuridico-amministrativo.
Ora, se Alfred Loisy, una decina d’anni dopo, ne L’Evangile et l’église, avrebbe contestato la discontinuità storica, individuata da Harnack, tra la comunità apostolica dei primi due secoli dopo la morte di Cristo e la successiva rigida organizzazione cultuale e sacramentale della Chiesa, sorretta, sociologicamente, da una netta distinzione gerarchica tra clero e laicato[9], rinviando per contro a un rapporto di dipendenza logica tra il messaggio originario di Gesù riportato nei vangeli e la necessità, ai fini di una universale propagazione missionaria di tale messaggio, di una codificazione giuridico-positiva che trovi nella liturgia (la razionalizzazione del culto) e nella ministerialità sacerdotale (la razionalizzazione della missione) i suoi due punti di forza irrinunciabili e vincolanti[10], per Sohm il punctum dolens di tutta la questione concerneva i rapporti tra la dimensione visibile e quella invisibile della Chiesa, ovvero tra la Chiesa im Rechtsinn e la Chiesa im Lehrsinn.
Con il «Widerspruch» alluso da Sohm ne andrebbe in sostanza di una contraddizione interna alla Chiesa tra la sua dimensione giuridica (il «Rechtsinn») e la sua dimensione economica, ovvero dottrinale, pastorale e soterica (il «Lehrsinn») o, come si legge in Kirchengeschichte im Grundriß, la dimensione del Tatsächlich-geistliche («Fattuale-spirituale»)[11]. Si potrebbe dunque asserire che la questione è meno giuridica che ecclesiologica: è infatti proprio l’immagine e la rappresentazione della Chiesa a essere qui ultimamente in gioco; una rappresentazione euristica che, come ha messo in rilievo molto bene Max Weber nel saggio del 1904 Die «Objektivität» sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis, è legata a doppio filo con la concezione di ciò che, del cristianesimo, ne costituisce, idealtipicamente, l’«essenza»[12].
Naturalmente, Weber si mostra consapevole del fatto che l’applicazione della concezione dell’Idealtypus alla questione dell’«essenza del cristianesimo» comporta notevoli difficoltà, evidenziate dal fatto che le tipizzazioni ideali presenti nella enucleazione dell’essenza pretendono di avere validità non solo sotto il profilo logico, ma anche sotto quello pratico. Propriamente, tali tipizzazioni acquistano infatti una valenza non più descrittiva, ma normativa, in quanto contengono ciò che il cristianesimo dovrebbe essere secondo la convinzione dell’autore, cioè ciò che in esso è per l’autore essenziale, in quanto philosophia perennis. Così, le formulazioni idealtipiche che dovrebbero evidenziare l’essenza,
«contengono degli ideali ai quali l’autore riferisce valutativamente il Cristianesimo: sono compiti e fini verso cui egli orienta la sua “idea” del Cristianesimo, e che naturalmente possono essere assai diversi, e senza dubbio sempre lo saranno, dai valori ai quali gli uomini del tempo, per esempio i cristiani delle origini, riferivano il Cristianesimo. In questo significato, le idee non sono più concetti a cui la realtà viene commisurata comparativamente, bensì sono ideali in base ai quali essa è giudicata valutativamente»[13].
Insomma, è inevitabile – e questa sembra essere la conclusione di Weber in merito al dibattito tra Harnack e Loisy – che la determinazione dell’essenza del cristianesimo possa svolgersi solo implicando, all’interno di un procedimento idealtipico, l’inserzione di giudizi di valore, l’abbandono del terreno della pura ricerca empirica e l’inoltrarsi nella regione impervia delle professioni di fede individuali. Nondimeno, e proprio con riferimento al cristianesimo delle origini, lo stesso Weber non si è sottratto a questo compito di una interpretazione valutativa del cristianesimo allorché ha affrontato l’importanza culturale che assume, all’interno della storia del cristianesimo e della cultura occidentale, il rapporto tra carisma, comunità e istituzione[14] con la conseguente «secolarizzazione» del carisma mediante il suo razionalizzarsi e «quotidianizzarsi»[15].
Non è un caso che Martin Riesebrodt, nella sua accurata ricostruzione sistematica della concezione weberiana del carisma, abbia vigorosamente sottolineato come, ai fini di una più precisa comprensione di che cosa Weber intenda con «carisma», sia di estremo interesse
«ricostruire innanzitutto, nelle sue linee principali, l’argomento di Sohm. L’analisi di Sohm del cristianesimo delle origini […] è centrata sul concetto di “organizzazione carismatica”. Questa si basa su una opposizione tra Stato e Chiesa, tra potere mondano e potere spirituale così come sulle forme giuridiche da ciò derivate. Secondo Sohm la vera Chiesa non può basarsi sul diritto umano, ma solo sul governo divino. Ma già anche solo il concetto di “diritto canonico” contraddice in tal modo l’essenza del cristianesimo. In polemica con Harnack e Hatch, Sohm afferma che nelle comunità della prima Chiesa non esisteva alcun funzionario amministrativo. L’intera organizzazione era fondata esclusivamente su una dottrina ispirata carismaticamente»[16].
In sostanza, per Sohm la dicotomia tra carisma e burocrazia non sarebbe in alcun modo ascrivibile alle prime comunità cristiane, all’interno delle quali è il solo carisma, con la sua diversa distribuzione tra i membri della comunità, il criterio-base di ogni organizzazione funzionale (basata sulla tripartizione di profezia, insegnamento e ammonimento)[17]:
«La Chiesa delle origini – prosegue Riesebrodt – non conosce un carisma ministeriale, ma solo un carisma personale. Manca non solo qualsivoglia diritto canonico, ma anche qualsivoglia organizzazione e amministrazione finanziaria dei beni di proprietà ecclesiastica. Queste sono tutte forme di evoluzione successiva che secondo Sohm contraddicono l’essenza del cristianesimo inteso come organizzazione carismatica. Non è difficile riconoscere quanto fedelmente Weber segua il modello di Sohm. Il carisma viene da lui messo in contrapposizione all’organizzazione e all’amministrazione. Esso non conosce né regolamentazioni giuridiche né razionalità economica. Il carisma funziona invece solo come relazione sociale nella quale è di importanza capitale il riconoscimento volontario del carisma individuale da parte della comunità di seguaci»[18].
Indubbiamente, nel corso della storia, man mano cioè che veniva affermandosi il forte nesso tra potere spirituale e potere temporale, assommato in uno nella struttura gerarchica della Chiesa cattolica e nel pontefice, l’organizzazione e la struttura giuridica della Chiesa (visibile) si è viepiù dimostrata una necessità pratica, il che naturalmente non ha risolto, ma se mai acuito, la contraddizione di cui s’è detto. Giova al proposito richiamare un lucido passaggio storiografico di Paolo Prodi:
«Nell’ordinamento giuridico – sia sul piano normativo che su quello giudiziario – si riflette la doppia faccia, bifronte, del pontificato, con una commistione che, se in un primo tempo facilita il cammino verso l’assolutismo e il centralismo, si ripercuote in un secondo tempo contro il potere apprendista-stregone che l’aveva suscitata. Sin che il dominio temporale rappresentò un’appendice secondaria del papato, esso poté essere considerato sostanzialmente omogeneo alle altre regioni della cristianità, con alcune peculiarità non determinanti dovute alla facoltà del papa di disporre in modo autonomo del potere temporale per imporre l’osservanza della norma canonica. Quando esso si costruì in Stato, al superamento della dottrina teocratica con l’affermazione della teoria del potere indiretto corrispose sul piano del diritto un processo parallelo di sdoppiamento tra un ordinamento canonico universale e un ordinamento canonico statale, la cui contraddizione era destinata ad aumentare ed esplodere proprio nella misura in cui il papato, con la Controriforma, riprendeva una sua funzione universale, senza rinunciare alla sua anima attuale ormai cresciuta e quindi trovandosi in posizione sempre più anomala rispetto alla dinamica che andava investendo, in un processo di verticalizzazione e di razionalizzazione, tutti gli altri ordinamenti dell’Occidente»[19].
Ora, a ben guardare, la contraddizione tra libertà e levità dell’essenza teorico-ideale e costrizione e rigidità dell’apparato organizzativo-pratico, tra dimensione unsichtbar e quella sichtbar, appartiene a una dinamica tipica di tutti gli aggregati sociali e politici, ed è quindi, come tale, per lo più ineliminabile, anche in relazione alla Chiesa e al suo processo di spazializzazione giuridica[20]. È per questo che Sohm, volendo ripristinare, contro ogni abuso, fraintendimento e violazione, il vero volto della Chiesa di Cristo, rimarca quella che ai suoi occhi è l’assoluta priorità logica, teo-logica e crono-logica della unsichtbare Kirche, ossia della Chiesa spirituale, carismatica, della carità rispetto alla Chiesa visibile e istituzionale del diritto[21]. Oggetto di critica è la Chiesa visibile giuridica, in quanto colpevole di tradimento rispetto alla genuina comunità cristiana delle origini, ovvero rispetto alla attualizzazione puramente carismatica delle parole di Gesù in Mt 18,20: «dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».
Per Sohm, come s’è detto, nelle comunità della prima Chiesa non esisteva alcun funzionario amministrativo. L’intera organizzazione era fondata esclusivamente su una dottrina ispirata carismaticamente: il carisma, con la sua diversa distribuzione tra i membri della comunità, appare pertanto come il solo criterio-base di ogni organizzazione funzionale (basata sulla tripartizione di profezia, insegnamento e ammonimento). Versammlung, ovvero «adunanza», «assemblea», è, in questo contesto, il vero e proprio terminus technicus: la storia del Kirchenrecht comincia per Sohm proprio da questo atto del riunirsi fisicamente in un luogo, da questa, cioè, materializzazione di qualche cosa che, da spiritualmente invisibile, si fa spazialmente visibile, diventando «atto pubblico». La Versammlung rinvia così, per così dire, a una Verräumung, una segmentazione e divisione dello spazio: ciascuno occupa fisicamente un posto e, progressivamente, il posto occupato diventa una funzione, un ruolo definito all’interno di un sistema che via via si organizza e struttura.
Un esempio di che cosa ne vada con questo processo di Verräumung della Versammlung lo si può trovare, un po’ inaspettatamente, in un autore in apparenza abbastanza distante da Sohm, ossia nel breve schizzo di Kirchenrecht tratteggiato da Georg Jellinek nel «Sistema dei diritti pubblici soggettivi». Qui, tra le altre cose, si legge la seguente importante notazione:
«Per comprendere la natura peculiare del diritto ecclesiastico tanto nei riguardi dello Stato, quanto dei membri della Chiesa occorre tenere ben presente la relatività dei nostri concetti giuridici. Noi siamo soliti identificare il concetto statuale di diritto con quello di diritto in generale. Lo Stato, tuttavia, considera il diritto dei suoi membri a partire dal proprio punto di vista e pertanto si dà, per esso, solo un diritto pubblico, costituito prevalentemente in funzione del suo ordinamento, e un diritto privato, costituito prevalentemente in funzione dell’interesse autonomo dei singoli. Ben diversamente si presenta invece la questione se si abbandona il terreno del diritto statuale e si prende in considerazione, come ottica visuale, l’ordinamento interno della Chiesa. Considerato in base al proprio criterio specifico, e non a quello dello Stato, il potere ecclesiastico e il suo diritto appaiono una forza ben esorbitante i singoli membri della Chiesa; come tale, una forza di dominio, ancorché con strumenti diversi rispetto allo Stato. La Chiesa cattolica considera addirittura tutto il diritto come subordinato alla Chiesa o, quantomeno, come da essa concesso; in ogni caso, sottomesso al suo controllo. Si dà pertanto un diritto pubblico in senso statale e un diritto pubblico in senso ecclesiastico. Il diritto ecclesiastico è sempre un diritto pubblico per la Chiesa stessa; se, e in quale entità, possegga questo carattere anche per lo Stato dipende dalla misura in cui lo Stato consideri il diritto ecclesiastico necessario per i propri scopi e lo inserisca perciò come componente essenziale del suo stesso ordinamento»[22].
L’originaria uguaglianza di appartenenza alla Versammlung diventa così Verteilung e Trennung, distinzione, separazione, diversificazione: gli assenti, coloro che momentaneamente non occupano lo spazio e la funzione loro assegnata, vengono sostituiti in forma vicaria. La Stellvertretung, inizialmente concepita in senso sincronico, diventa così diacronica, incarnazione dell’essenza stessa dell’atto sacramentale, rappresentazione vivente dell’origine[23].
La conseguenza che se ne deduce è che, storicamente esaminato, il giuridismo teologico è più l’effetto secondario di un processo di organizzazione del religioso che non una scelta deliberata in tutte le sue articolazioni. Parimenti, la spazializzazione del sacro nella coscienza individuale, la sua localizzazione in interiore homine non può ammettere che da fonti normative umane possano sorgere doveri giuridici ipso facto teologicamente vincolanti per la salvezza della persona.
Si tratta, come è noto, di un principio ecclesiologico-politico che ha attirato su di sé l’opposizione di Carl Schmitt:
«Nella letteratura politica e giuridica dell’ultimo secolo si è inteso con il termine “rappresentazione” [Repräsentation] una rappresentanza popolare, cioè una rappresentazione del popolo contrapposta a un altro rappresentante, al re; ma entrambi, oppure – nel caso di costituzioni repubblicane – il solo parlamento rappresentano “la nazione”. Si dice quindi della Chiesa che non ha “istituzioni rappresentative”, dato che non ha parlamento e che i suoi rappresentanti non traggono dal popolo l’autorizzazione del loro potere. Coerentemente, la Chiesa rappresenta “dall’alto”. Nel corso dell’Ottocento, nella lotta della rappresentanza popolare contro il principio monarchico, la giurisprudenza ha perduto il senso e il concetto specifico della rappresentazione. Particolarmente la dottrina dello Stato tedesca ha elaborato, a questo riguardo, una mitologia intellettuale al tempo stesso mostruosa e ingarbugliata: il parlamento, in quanto organo statuale secondario, rappresenta un altro organo primario (e cioè il popolo), ma questo “primario” non ha altra volontà all’infuori del secondario, almeno per quei casi che non gli competono come “riserva particolare”; due persone ne sono così una sola, formano due organi e tuttavia soltanto una persona, e così via. A questo proposito, si legga solo il curioso capitolo Repräsentation und repräsentative Organe nella Allgemeine Staatslehre di Georg Jellinek. Il semplice senso del principio rappresentativo è dunque questo, che i deputati attuano la rappresentanza di tutto il popolo e hanno perciò, rispetto agli elettori, una dignità autonoma, senza cessare tuttavia di trarla dal popolo (non dai singoli elettori). “Il deputato non è vincolato da mandati né da ordini, e risponde solo alla propria coscienza”. Ciò significa che nella personificazione del popolo e dell’unità del parlamento come suo rappresentante c’è una complexio oppositorum almeno dal punto di vista ideale: infatti la molteplicità degli interessi e dei partiti è pensata in modo tendenzialmente unitario, in via rappresentativa e non economica»[24].
Ora, un esempio di quanto affermato da Schmitt circa il concetto di Repräsentation è certamente fornito dalle conseguenze ricavate da Rudolph Sohm dalla dottrina cattolica della efficacia ex opere operato dei sette sacramenti. La grazia efficace e oggettiva del sacramento derivante direttamente dalla potenza di Dio, e non dalla dignità morale e dalla santità personale di chi lo amministra o di chi lo riceve, implica una connessione visibile e concreta tra il segno sacramentale e i suoi effetti salvifici. L’eliminazione di tale connessione attribuisce per contro gli effetti di grazia all’azione diretta di Dio nella persona, sottraendo qualsiasi spazio di azione visibile e pubblica alla mediazione ecclesiale: ne deriva che il rapporto interpersonale tra il ministro del sacramento e colui che lo riceve risulta privo di una oggettiva rilevanza salvifica. È in tal modo revocata radicalmente in dubbio la possibilità di un diritto ecclesiale nell’ambito sacramentale: se pure si potrà ammettere una qualche rilevanza giuridica d’indole organizzativa alla celebrazione cultuale e sacramentale, tale rilevanza non dovrà mai essere intesa nel senso di un rapporto di giustizia tra persone rispetto al bene salvifico del sacramento in quanto tale. Diritto e sacramento restano nella loro essenza dimensioni reciprocamente estrinseche.
Del resto, l’obbligo in coscienza di conformare la propria vita a determinate disposizioni emanate dall’autorità ecclesiastica o dalla stessa comunità significherebbe accogliere in toto la concezione della giustificazione mediante le opere della Legge. Così, i precetti della Chiesa si troverebbero in contraddizione con il precetto di servire secondo lo Spirito e non secondo la lettera fissato da Rom 7,6: «Ora invece, morti a ciò che ci teneva prigionieri, siamo stati liberati dalla Legge per servire secondo lo Spirito, che è nuovo, e non secondo la lettera, che è antiquata». È dunque l’endiadi lettera/Spirito a rendere vano ed effimero, per Sohm, qualsiasi legame intrinseco tra l’ordine giuridico esterno e la sfera religiosa attinente alla salvezza della persona. La mediazione della Chiesa-istituzione e le sue concrezioni in ognuno dei tre munera Ecclesiae (docendi, sanctificandi, regendi) riguardanti rispettivamente i beni salvifici della parola, dei sacramenti e della disciplina, appaiono incompatibili con l’unicità della mediazione di Cristo[25].
Ora, l’enfasi sempre maggiore che, in ottica anti-giuridista, viene posta sulla unicità della mediazione di Cristo trova il suo riscontro nella progressiva identificazione tra la Versammlung cultuale e la persona Christi esemplata sull’identificazione tra il tempio visibile e il corpo di Cristo di Gv 2,18: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». D’altro canto, il rigido ortodossismo genera, per una sorta di eterogenesi dei fini, il bisogno e lo stabilizzarsi di comunità religiose vive e dinamiche: infatti, se la Chiesa, in quanto ordinamento razionalizzato dalla dogmatica, rappresenta un indubbio momento di sclerotizzazione, con le sue ferree regole e dettami, della vitalità originaria del religioso, che respira nella spontaneità e nell’intima libertà del suo atto creativo, è però proprio all’interno della Chiesa, in virtù della forza che proviene dal suo costituirsi come comunità operante di fede, che nascono (a volte con effetto devastante, come nel caso delle eresie e degli scismi) le spinte per un rinnovamento e un aggiornamento del contenuto kerygmatico e salvifico della sua predicazione.
Ha dunque avuto buon diritto Ernst Troeltsch, evocando il plesso di problemi qui dischiusi da Sohm, a sottolineare come
«durevoli comunità religiose vengono create solo da epoche di assolutismo dogmatico. Per altro verso, anche l’ortodossia più rigida e più corazzata contro ogni critica non si può sottrarre al bisogno di dinamicità del pensiero, alla collaborazione dell’individuo, agli influssi del mondo sociale circostante e, in tutti i frangenti, si trova al cospetto anche del compito di un riordino della vita spirituale. In tal modo, però, essa accoglie in sé possibilità di antitesi e moti che portano o all’indirizzo opposto di una rigida centralizzazione o a un rilassamento imprevedibile. Il modernismo cattolico è qui altrettanto istruttivo quanto quello protestante»[26].
Due sono stati per Troeltsch i modelli ecclesiologici in cui più palesemente si è fatto valere questo processo sociologico-politico: il centralismo del cattolicesimo romano[27] e il principio delle Chiese libere (Freikirchentum) del calvinismo, in cui la democrazia e il liberalismo hanno visto la giusta soluzione al problema politico-religioso e quindi la possibilità di un corretto disciplinamento del sistema separazionistico tra lo Stato e la Chiesa[28]. Comune a questi due modelli è l’esplicitarsi e rafforzarsi del concetto di istituzione applicato alla Chiesa, nella quale, come ha acutamente spiegato Dietrich Bonhoeffer,
«viene promesso all’uomo un determinato dono efficace se egli apporta una contropartita corrispondente. Un parallelo è, in certo senso, l’università dove premessa per ricevere il dono è il pagamento di denaro, ma per riceverlo in modo efficace è richiesta una certa “collaborazione”. Così anche nella chiesa-istituzione ogni membro è registrato, gravato di imposte, però, poi, con un regolare utilizzo del mezzo della grazia, con la sottomissione all’ordinamento dell’istituzione, ai suoi comandamenti e ai suoi castighi, gli viene garantita la salvezza eterna»[29].
Sennonché, dal punto di vista teologico-politico, Bonhoeffer ha pieno diritto di sottolineare che una simile concezione istituzionale finisce per misconoscere il carattere eminentemente e specificamente religioso dell’ecclesialità interumana, la quale, per affermarsi nel dominio storico, ha certo bisogno di darsi una configurazione sociologica e giuridica, ma la cui essenza autenticamente comunitaria non può mai essere ridotta al mero esercizio di un do ut des. Infatti,
«nonostante la diversità strutturale tra istituzione e comunione, esse sono state mantenute in piedi l’una accanto all’altra, come appare chiaro già in Agostino. La “istituzione” evangelica non è creata da Dio al di sopra della comunità, bensì è opera della comunità stessa, poiché anche il ministero appartiene alla comunità e deve essere pensato in connessione con questa. In questo modo, però, il senso sociologico proprio del concetto di istituzione viene a mancare, nella misura in cui non esiste alcuna istituzione senza comunità come nel cattolicesimo e nella misura in cui i doni che vengono promessi nella chiesa sono quelli che Dio diede a una comunità di persone, affidandole la parola della predicazione, per mezzo della quale egli, inoltre, mantiene in vita la comunione stessa»[30].
Ora però, con questa critica, Bonhoeffer si mostra straordinariamente vicino, probabilmente più di quanto egli stesso supponesse, all’idea troeltschiana di comunità religiosa cui il singolo, nel suo aprirsi allo spazio trascendente, aspira e alla quale, con l’esplicitazione del suo sentimento religioso, liberamente aderisce. Un passo del saggio del 1911 di Troeltsch sull’importanza di Gesù per la fede può forse aiutare a illustrare meglio questo concetto:
«La mancanza di comunità e di culto costituisce la vera e tipica malattia del cristianesimo contemporaneo e della religiosità contemporanea in generale. Essa ottiene, con ciò, quel carattere confuso e caotico, arbitrariamente individualistico, “entusiastico” e dilettantesco, intellettualistico e conforme alla visione del mondo, che la contraddistingue. Essa non ha un centro da cui trarre alimento: ci sono tanti centri quanti sono gli individui che sentono il problema religioso e ne cercano una soluzione. Ma la religione contemporanea non è diventata solo caotica ed indeterminata, bensì anche debole e malferma, e questo proprio perché le manca l’effetto di ritorno della comunità e dello spirito unitario di una comunità sull’individuo, perché le manca quella forza di elevazione e di guida, di stimolo e di propagazione, soprattutto quella capacità di proporre fini comuni che sono proprie appunto della comunità e dello spirito unitario di una comunità»[31].
Unkirchlichkeit, ovvero frammentazione sclerotizzante, allentamento del senso di comunità, depauperamento del contenuto essenziale della dimensione liturgico-soterica e conseguente esteriorizzazione formale della dimensione cultuale: questa dunque, per usare un termine della Glaubenslehre di Troeltsch, la malattia di cui tanto Troeltsch quanto Bonhoeffer vedevano soffrire, stretta nel dibattito, innescato da Sohm, tra giuridismo e anti-giuridismo teologico, la religione contemporanea.
Una malattia dalla quale molti segnali inducono a pensare che ancora oggi essa non sia guarita…[32]
[1] Y.M.-J. Congar, Rudolph Sohm nous interroge encore, in «Revue des sciences philosophiques et théologiques» 57 (1973), pp. 263-294.
[2] Si tratta, come appare evidente, delle ragioni che, per suo conto, il teologo domenicano aveva esposto vent’anni prima nella sua opera più significativa, Vera e falsa riforma della Chiesa, individuando la «vera riforma» della Chiesa in una riforma della «vita» della Chiesa, ossia in un ricupero dell’originaria comunione vigente nelle prime esperienze cristiane. A questa «vera riforma» si contrapporrebbe l’illusione di una «falsa riforma», ovvero di una riforma della dottrina della Chiesa. Il rinnovamento ecclesiale non passerebbe, dunque, per una revisione della struttura dogmatica della Chiesa, ma per un rinnovamento della prassi di vita della Chiesa, più attenta alle istanze dei poveri e degli ultimi. Sul punto cfr. É. Fouilloux, Frère Yves, Cardinal Congar, Dominicain: itinéraire d’un théologien, in «Revue des sciences philosophiques et théologiques», 79 (1995), pp. 379–404.
[3] R. Sohm, Kirchenrecht, Nachdruck zweiter Auflage Berlin 1923, Duncker & Humblot, Berlin 1970, p. 1.
[4] Ibi, p. 2.
[5] Cfr. ibi, p. 700.
[6] Cfr. E. Hatch, Die Gesellschaftsverfassung der christlichen Kirchen im Althertum, hrsg. v. A. Harnack, Ricker, Gießen 1883. Sul tema si veda H.-J. Schmitz, Frühkatholizismus bei Adolf von Harnack, Rudolph Sohm und Ernst Käsemann, Patmos, Düsseldorf 1977.
[7] Cfr. A. v. Harnack (ed.), Die Lehre der zwölf Apostel. Nebst Untersuchungen zur ältesten Geschichte der Kirchenverfassung und des Kirchenrechts, Hinrich, Leipzig 1884.
[8] M. Weber, Economia e società, a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Torino 19993,vol. II, p. 203.
[9] Cfr. A. v. Harnack, L’essenza del cristianesimo, tr. it. a cura di G.F. Bonola e P.C. Bori, Queriniana, Brescia 1980, spec. pp. 189-192.
[10] Cfr. A. Loisy, Il vangelo e la Chiesa, tr. it. a cura di L. Bedeschi, Borla, Roma 1975, spec. pp. 173-175.
[11] Cfr. R. Sohm, Kirchengeschichte im Grundriß, Ungleich, Leipzig 189811, p. 28, ove si legge che l’autorità esercitata dalla comunità apostolica delle origini «era esclusivamente spirituale, fattuale, non si fondava su alcuna competenza giuridicamente definita». Su questa frase si veda il penetrante commento di Roberto Righi: «Si può di certo leggere la frase come l’ennesima ribattuta della tesi dell’incompatibilità di Chiesa e diritto della Chiesa. È però lecito sperimentare anche una diversa lettura, che punti su una diversa distribuzione delle parti. In quest’altra lettura l’acme della frase (e la chiave, forse, dell’intera teoria di Sohm) è l’abbinamento di “spirituale” e “fattuale”. Lo “spirituale” e il “fattuale” si oppongono al “giuridico”; e non è che si oppongono entrambi, ovvero ciascuno per conto proprio, quasi a individuare due fronti distinti. Al “giuridico” lo “spirituale” e il “fattuale” si oppongono insieme: perché stanno insieme; e non è che risultino semplicemente solidali: l’uno nell’altro si intersecano. Un minimo spoglio delle occorrenze e delle inflessioni, in Sohm, di tatsächlich (e Tatsache) e geistlich (e Geist) basta a dimostrare che i termini hanno certi tratti comuni. “Fattuale”, per Sohm, è paradigmaticamente l’accadimento. Proprio come lo “spirituale”, il “fattuale” viene, avviene. Proprio come lo “spirituale”, il “fattuale” non necessita di altre credenziali che la sua stessa effettività, che il suo stesso darsi come efficacia» (R. Righi, L’organizzazione dell’invisibile. Tra Sohm e Troeltsch, in «Humanitas» 71 [2/2016], pp. 265-277, qui p. 271).
[12] «Tutte le rappresentazioni di un’essenza del Cristianesimo, per esempio, costituiscono tipi ideali che hanno sempre, e necessariamente, soltanto una validità molto relativa e problematica se pretendono di essere considerate come un’esposizione storica di ciò che esiste empiricamente; e sono invece di alto valore euristico per la ricerca e di alto valore sistematico per tale esposizione se vengono impiegate semplicemente come strumenti concettuali per la comparazione e per la commisurazione della realtà in base a esse. In questa funzione risultano addirittura indispensabili» (M. Weber, Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Torino 2001, p. 194).
[13] Ibi, p. 195.
[14] Cfr. M. Riesebrodt, Charisma, in H.G. Kippenberg – M. Riesebrodt (eds.), Max Webers «Religionssystematik», Mohr Siebeck, Tübingen 2001, pp. 151-166.
[15] Sul punto cfr. C. Seyfahrt, Alltag und Charisma bei Max Weber. Eine Studie zur Grundlegung der «verstehenden Soziologie» in R. Grathoff – W.M. Sprondel (eds.), Alfred Schütz und die Idee des Alltags in den Sozialwissenschaften, Klett-Cotta, Stuttgart 1979, pp. 155-177.
[16] M. Riesebrodt, Charisma, cit., pp. 155-156.
[17] Ibi, p. 156.
[18] Ibi, p. 157.
[19] P. Prodi, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, Il Mulino, Bologna 1982, pp. 161-162.
[20] Per un inquadramento giuscanonistico di questa dinamica si vedano le considerazioni illuminanti di C. Fantappiè, Chiesa romana e modernità giuridica, tomo I: L’edificazione del sistema canonistico (1563-1903), tomo II: Il Codex Iuris Canonici (1917), Giuffrè, Milano 2008, spec. T. II, pp. 975ss.
[21] Cfr. R. Righi, Rudoph Sohm e il diritto canonico. L’eventuale, il contingente, il fattuale e M. Nicoletti, Carl Schmitt e il diritto canonico. Tra Sohm, Kelsen e Barion, in C. Fantappiè (ed.), Itinerari culturali del diritto canonico nel Novecento, Giappichelli, Torino 2003, pp. 33-71 e pp. 123-149.
[22] G. Jellinek, System der subjektiven öffentlichen Rechte, Mohr (Paul Siebeck), Freiburg i. B. 1892, pp. 261-262.
[23] Lo ha ben compreso Niklas Luhmann, così affermando, a proposito del rapporto tra rappresentazione e valore-guida nelle scienze sociali e giuridiche: «La via consueta di uscita, da Georg Jellinek e Max Weber in poi, è sempre quella di orientarsi alla rappresentazione (fattuale) di un legame tra determinati valori etico-giuridici e le idee-guida. Qui si ricollegano poi le ricerche delle scienze sociali che tentano di capire come si formano tali rappresentazioni. In tal modo, si costituisce il circolo secondo cui l’individuo può fondare la sua rappresentazione non sulla fatticità del suo atto rappresentativo, bensì deve riconoscere come valore, diritto, idea-guida ecc. ciò che non risulta da questo riconoscimento. Il “da dove” [Woher] rimane quindi aperto» (N. Luhmann, Selbstlegimitation des Staates in «Archiv für Rechts- und Sozialphilosophie», XV, 1981, p. 70). In tal modo, secondo Luhmann, la tradizione della Staatslehre peculiarmente tedesca conserverebbe un ultimo, irriducibile, resto di teoria romantica di scopo che il positivismo avrebbe, nella sua essenza, messo radicalmente in crisi: «L’assunzione del modello classico di razionalità orientata a uno scopo (Zweckrationalität) e l’eliminazione di tutte le difficoltà nel rapporto tra i membri [di un gruppo sociale] mediante il vincolo artificioso di un modello idealtipico reca con sé un fardello pesante. […] La sottovalutazione dei problemi di un limite al sistema toglie importanza a tutti i limiti, giacché in tal modo il comportamento verso l’esterno non può più apparire come ostacolato e difficile» (Id., Zweck – Herrschaft – System. Grundbegriffe und Prämissen Max Webers, in «Der Staat», 1964, n. 3, pp. 129-158, qui p. 157).
[24] C. Schmitt, Cattolicesimo romano e forma politica, a cura di C. Galli, Il Mulino, Bologna 2010, pp. 52-53.
[25] Cfr. R. Sohm, Kirchenrecht, cit., p. 125.
[26] E. Troeltsch, Schleiermacher und die Kirche, in E. Troeltsch, A. Titius, P. Natorp, P. Hensel, S. Eck, M. Rade e F. Naumann, Schleiermacher der Philosoph des Glaubens, Berlin-Schöneberg, Buchverlag der Hilfe, 1910, pp. 9-35, qui pp. 15-16.
[27] «Il cattolicesimo si rinforzò mediante la completa centralizzazione della Chiesa nel papato, il superamento della Chiesa territoriale [Landeskirchentum] e la totale consegna del ministero episcopale alla istanza centrale romana che, mediante una nuova formazione dogmatica, ha annunciato a tutto il mondo nel Concilio Vaticano [scil. Primo] questa sua rinsaldata posizione fissandola come irrefutabile per sempre» (ibi, p. 10).
[28] Cfr. ibi, pp. 11-12.
[29] D. Bonhoeffer, Sanctorum communio. Una ricerca dogmatica sulla sociologia della chiesa, tr. it. di E. Polli, Queriniana, Brescia 1994, p. 164.
[30] Ibi, p. 165.
[31] E. Troeltsch, Die Bedeutung der Geschichtlichkeit Jesu für den Glauben, Mohr, Tübingen 1911, p. 25.
[32] Vale forse la pena rileggere e meditare oggi, a questo riguardo, le parole con cui il filosofo Alberto Caracciolo interpretava il tentativo del Concilio Vaticano II di unire in feconda sintesi l’esperienza religiosa individuale e soggettiva con il linguaggio deputato a comunicare e trasmettere pubblicamente quella esperienza: «Il Vaticano II nasce, sul piano istituzionale cattolico, con forza pastorale più intensa (e ciò forse, non malgrado, ma proprio anche grazie a quella mediazione istituzionale), da un problema assai vicino a quello da cui, in campo protestante, una ventina d’anni prima, era nato, su piano non istituzionale, il dibattito sulla demitizzazione. La Chiesa conosce se stessa come annunciatrice di un messaggio di verità salvifica universale; avverte che il suo annunciare non trova l’eco che l’intrinseca natura e destinazione di questo comporterebbero: il suo annunciare, cristiano, s’afferma già distinto, anzi in contrasto nei confronti di quelle chiese che pure predicano il Cristo: il suo annunciare, religioso, si arresta conflittualmente di fronte a quello di religioni che, in quanto tali, pur nella diversità del motivo e della formulazione teologica, dovrebbero avere comune il fatto di riguardare la stessa dimensione dell’esistere e il fatto di alludere in qualche modo allo stesso Termine intenzionale… Perché il parlare della Chiesa non trova ascolto? Perché – per usare una distinzione heideggeriana – parla e non dice? Si tratta di annunciare la Parola che salva parlando in modo che attraverso la parola annunciante quella Parola dica se stessa. La Parola che salva è evidentemente nella concezione cristiana cattolica non una semplice dottrina che si predica, ma una Grazia che, manifestandosi, si compie» (A. Caracciolo, Pensiero contemporaneo e nichilismo, Guida, Napoli 1976, pp. 152-153).