01
NOV
2017

Temple-II. In-depth: Corbin e la meditazione sul tempio (Francesca Forte)

Abstract

Corbin and the meditation on temple

This essay examines the extent to which the theological-political understanding of the temple as a space and a territorialisation of the sacred, and the interpretation offered by Henri Corbin of the concept of the imago templi, differ. Corbin`s conception is of a symbol of a superior spiritual reality, in which the true meaning of the temple is expressed; this interpretation appears very far from the theological-political one, since the temple as a physical sacred space has lost its centrality and appears to be merely a simulacrum of the spiritual reality: the real temple is the person of faith who, by following a mystical, spiritual path, reaches Heaven. 

CORBIN E LA MEDITAZIONE SUL TEMPIO

Non sono i luoghi che conferiscono all’anima una santità di cui loro, per primi, sarebbero rivestiti; è invece l’anima ‘santa’ che santifica i luoghi, ossia li ‘sostanzia’ della sua propria santità.

Henri Corbin (Le Combat pour L’Ange)

Il visionario vede all’improvviso il Tempio di pietra divenire un essere vivente.

Henri Corbin (L’immaginazione creatrice)

1.     Introduzione

Nel contesto della riflessione di Corbin lo studio sul tempio assume una rilevanza particolare dal momento che, per l’islamologo francese, va inserito nella più vasta interpretazione della relazione tra l’uomo e il mondo spirituale. Alcune conferenze specifiche dedicate al tema nei colloqui di Eranos rappresentano il punto di partenza di questo contributo[1] che vorrebbe evidenziare in modo particolare la distanza tra il tema teologico-politico del tempio, come spazio e territorializzazione del Sacro, e l’interpretazione offerta da Corbin del concetto di imago templi, sulla scia del proprio approccio epistemologico e storiografico al pensiero islamico. L’imago templi appare il simbolo di una realtà spirituale superiore, in cui si sostanzia la funzione e si esprime, dunque, il vero significato del tempio. L’interpretazione dello studioso francese appare quindi molto lontana da un approccio teologico-politico al tema dal momento che in essa il tempio come spazio fisico del Sacro perde la sua centralità e appare un puro simulacro della realtà spirituale: il vero tempio è il fedele che raggiunge la casa celeste attraverso una via mistica e spirituale. In quest’ottica si comprende anche l’interpretazione evidenziata da Corbin del pellegrinaggio verso il tempio sacro della Ka’ba: questo appare molto meno importante del pellegrinaggio spirituale che il fedele deve compiere per volgersi alla vera fede, così come le stazioni del cammino rappresentano simboli delle tappe di ascesa spirituale del pellegrino.

La meditazione sul tempio appare emblematica dell’approccio di Corbin a tutta la teologia e spiritualità islamica: egli mette in evidenza la continuità di tale tradizione con la storia della spiritualità in generale, escludendo dal proprio orizzonte interpretativo gli aspetti più legati alla specificità della storia islamica e, quindi, anche quelli di valore teologico-politico.

 

2.     Corbin: una visione della storia delle filosofia islamica

Per contestualizzare la riflessione di Corbin sul tempio occorre accennare brevemente al suo approccio storiografico al pensiero islamico. La sua definizione di filosofia islamica (locuzione problematica e densa di contraddizioni, come dimostrano le diverse interpretazioni date dagli studiosi[2]) appare estremamente importante come punto di partenza:

 

«L’ecumenicità del concetto religioso di Islam non può essere né trasferita né circoscritta entro i limiti di un concetto nazionale o etnico, profano. Si tratta di un’ovvietà per chiunque abbia vissuto in paesi islamici non arabi. […] Intenderemo dunque per filosofia islamica quella filosofia il cui nascere e le cui modalità sono legati essenzialmente al fatto religioso e spirituale dell’Islam […]. Nell’Islam, in modo tutto particolare, storia della filosofia e storia della spiritualità rimangono inseparabili».[3]

 

Il presupposto teorico di Corbin è quello per cui la storia della filosofia in terra d’Islam coincide con la storia della spiritualità, intesa quest’ultima in maniera ampia ed escludendo per lo più il pensiero teologico-giuridico più tradizionale e ortodosso (al-Ghazali XI sec. e Ibn Taimiyya XIV sec.) e quello politico in senso stretto (Ibn Khaldun XIII).

Sayyed Hossein Nasr, studioso iraniano allievo di Corbin[4], uno degli intellettuali oggi più influenti nell’ecumene islamica, sposa la tesi del maestro e collabora alla stesura della Storia delle filosofia islamica (1964), un testo che propone una vera e propria rivoluzione del punto di vista storiografico prevalente fino ad allora: considerando per la prima volta la filosofia orientale post-avicenniana e i suoi interpreti come Sohrawardi (XII sec.), Ibn Arabi (XII sec.) e Molla Sadra (XVI sec.), alla stregua della tradizione peripatetica, del kalam e del pensiero mu’tazilita i due autori segnano un cambiamento notevole.[5]

Il nuovo corso fu inaugurato da Henry Corbin: egli avviò una radicale trasformazione della storia della filosofia islamica, che riguardò soprattutto l’epoca successiva al 1200. […] Le tesi di Corbin valsero a mettere in discussione parecchie certezze apparenti. Anzitutto esse indicarono una direzione della ricerca: quella di liberarsi dalla tradizionale fissazione sulla storia dello spirito europeo.[6]

Per l’approccio storiografico di Corbin, che segue in parte le tracce di padre Louis Massignon[7], l’autentica filosofia è di fatto teosofia e in questa prospettiva la tradizione islamica si inquadrerebbe nell’evoluzione di quella “philosophia perennis” che accomuna tante tradizioni e si basa su presupposti ermetici.

Tale orientamento storiografico è stato definito illuminazionista da Dimitri Gutas[8], poiché sarebbe l’erede di quella tendenza orientalista che definiva la filosofia arabo-islamica come prevalentemente mistico-religiosa: questo approccio, come si è già accennato, pone notevoli problemi di periodizzazione, così come esclude il tema del rapporto tra filosofia e teologia nell’Islam.

Henry Corbin rifiuta di pensare nell’opposizione periodica tra la teologia e la filosofia: secondo lui, essa pregiudica con una dualità priva di senso in un mondo intellettuale fondamentalmente ternario (anima, corpo, spirito), come testimoniano l’alchimia, la dottrina dell’Anima, l’ermeneutica dei colori, ecc.[9]

Ma anche l’approccio di Corbin va contestualizzato: figlio della cultura francese ed europea e sensibile al clima culturale creato ai colloqui di Eranos da Jung ed Eliade, dove spesso è stato ospite e animatore degli incontri[10], egli tenta uno studio del patrimonio islamico che lo inserisca nella storia universale della spiritualità e che abbraccia una visione ampia del divenire storico, cercando corrispondenze e continuità al di là dei dati storici e archeologici. Come sottolinea egli stesso il suo è un approccio fenomenologico che analizza e studia testi e autori come testimoni, e non storico in senso stretto[11]. Nel pensiero di Corbin i temi tradizionalmente politici sono lasciati in second’ordine e anche concetti che abitualmente hanno valore teologico-politico vengono trasformati o re-interpretati alla luce di una visione mistico-spirituale della storia e della concezione dell’uomo come viator.

 

La riflessione sul tempio: dal rituale alla liturgia interiore attraverso la gnosi shiita isma’ilita.

Per comprendere l’approccio di Corbin al tema del tempio come spazio interiore occorre fare un breve excursus sullo strumento ermeneutico del ta’wil[12] (termine che letteralmente significa ricondurre all’origine e che designa solitamente l’ermenutica del testo sacro, contrapposto al tafsir, il commento tradizionale e letterale), che l’autore utilizza riprendendo l’interpretazione data dalla corrente  shiita isma’ilita (la branca più spirituale dello shiismo) [13].

Per Corbin il ta’wil designa una universale legge di interiorizzazione, l’attuazione delle corrispondenze simboliche che si trova attestata in ogni tradizione spirituale ed è praticata da ogni corrente esoterica. Il ta’wil è ciò che trasfigura il rituale in liturgia interiore.

Ora, il ta’wil è essenzialmente comprensione simbolica, trasmutazione di ciò che è visibile in cifra simbolica, intuizione di un’essenza o di una persona in una Immagine, che non è né l’universale logico né la specie sensibile, ed è insostituibile per significare ciò che deve essere significato.[14]

Nel caso del tempio il ta’wil fa sorgere il tempio di luce nascosto dietro il tempio materiale: lo spazio simbolico supera e nullifica lo spazio fisico; ciò che è sacro non può trovare casa se non nel cuore del fedele, per questo il credente stesso diventa tempio di Dio e là Dio troverà la sua vera casa.

In che modo questa interpretazione è erede dell’approccio ermenutico shiita isma’ilita? Per questa corrente teologica esistono precise corrispondenze tra il mondo terrestre e il mondo spirituale e ogni figura del mondo terrestre ha il suo archetipo nel mondo celeste. Il concetto di tempio celeste (o tempio di luce) di cui si occupa Corbin appare strettamente legato all’angelologia isma’ilita e alla concezione della storia come storia sacra (ierostoria) propria di questa corrente islamica: accedere al tempio celeste significa infatti anche conoscere l’Angelo (figura archetipica) che lo governa e ne è il Signore e attraverso quest’ultimo accedere al Signore dei Signori (Dio). Si tratta quindi di una vera e propria ascesa spirituale che si compie a partire dal tempio terrestre, immagine del tempio celeste e porta d’accesso alla contemplazione divina. Nella concezione isma’ilita l’Angelo non ha solo un significato cosmologico (come nella tradizione neoplatonica), ma anche un significato antropologico; esso rappresenta il fine e il compimento dell’Antrophos: l’angelologia fa conoscere all’uomo la sua condizione futura e gli apre il segreto della sua iniziazione e del suo ingresso nel tempio dell’imamato (tempio di Luce)[15].

Il ta’wil (l’esegesi spirituale) appare dunque come lo strumento fondamentale anche per comprendere la trasfigurazione del concetto di tempio e il suo significato profondo:

 

«Con un’operazione identica a quella alchemica che fa apparire il batin (ciò che è nascosto) dei corpi naturali, il ta’wil del rituale perviene a far sorgere (resuscitare) la persona spirituale angelica interiore nascosta dietro la maschera della personalità terrena, il Tempio di luce nascosto dietro il tempio del corpo materiale».[16]

 

Si tratta quindi di uno svelamento, di un movimento al contempo ascendente e che procede all’essenza interiore dell’uomo. Il Tempio materiale dove pregano gli uomini rappresenta un simulacro del tempio celeste di luce; in tale concezione lo spazio sacro in senso classico perde il suo valore di “casa di dio” e diventa solo una porta di passaggio verso il vero tempio.

 

3.     Corbin e l’imago templi

Negli studi su Ibn ‘Arabi e gli Ishraqiyyun (i filosofi dell’illuminazione, corrente post avicenniana iniziata da Sohrawardi) Corbin affronta il tema dell’Immagine del tempio (imago templi). Per spiegare cosa intende con questa espressione, lo studioso francese si rifà a un testo di Avicenna, il racconto visionario Hayy Ibn Yaqzan[17], in cui alla domanda del mistico che chiedeva al messaggero celeste da dove venisse viene risposto: vengo dal tempio (bayt al-Maqdis), letteralmente la “casa santissima”; il termine arabo indica Gerusalemme ma, sottolinea Corbin, non la Gerusalemme terrestre, bensì il tempio celeste di cui essa è immagine. La stessa risposta appare nei racconti di Sohrawardi, l’iniziatore della scuola degli Ishraqiyyun a cui Corbin ha dedicato studi magistrali[18]. Il tempio di cui parla l’angelo si trova al livello di quel mundus imaginalis (‘alam al-mithal) intermedio tra quello intellegibile e quello della percezione sensibile. Per comprendere questo livello occorre rifarsi alla metafisica dell’immaginazione di Ibn ‘Arabi e Sohrawardi[19]. L’immaginazione ha infatti un duplice aspetto, uno passivo o rappresentativo e uno attivo, e in questo secondo aspetto può divenire anche cogitativa e meditativa (mettendosi a servizio dell’Intelletto). L’immaginazione creatrice di cui parla Ibn ‘Arabi è quella che ci apre al mondo sottile dell’immaginale, quel mondo intermedio che sta alla “confluenza dei due mari” (majma’ al-bahrayn) e dove è possibile accedere all’immagine del tempio. Così l’imago templi che interessa a Corbin rappresenta la forma attraverso la quale si riflette nell’anima la realtà trascendente.

Le parole di Corbin chiariscono il livello a cui lo studioso vuole porre la sua riflessione:

 

«Parlando di Imago Templi intendo mantenermi al livello di una fenomenologia, potremmo dire di una “temenologia” (dal greco temenos-tempio) relativa al mundus imaginalis (alam al-Mital), mondo di mezzo, posto alla confluenza dei due mari».[20]

 

Se il luogo dell’Imago templi è quel mundus imaginalis intermedio, il mondo spirituale e delle realtà sottili che la nostra contemporaneità ha perduto, il tempo di questa visione è un tempo discontinuo e che va al di là del tempo storico (ierostoria). Si tratta di una tempo che non sottostà alla causalità cronologica della storia profana, è un tempo discreto che vede in ogni manifestazione dell’imago templi un’unità a sé stante che introduce un proprio tempo specifico. Corbin parla proprio di «unità di tempo discontinue che irrompono nel nostro tempo come bagliori di eternità» e attraverso queste ierofanie la storia assumerebbe il suo vero significato, quello che va al di là del susseguirsi cronologico e causale degli eventi e che trasforma la storia in parabola.

Nella visione di Corbin, la norma che regola il persistere dell’imago templi nel tempo e nella contemporaneità, al di là del disincanto del mondo, rappresenta un fronte contro l’irrompere delle norme profane che testimoniano una realtà de-sacralizzata: si tratta di considerare l’esistenza di un ordine altro, che supera le leggi delle scienze profane che nella modernità hanno preteso di spiegare tutti i fenomeni della realtà, trovando delle spiegazioni razionali e relegando la dimensione gnostica e spirituale fuori dal mondo. Contro questo disorientamento del mondo (perdita del suo oriente) Corbin considera la continuità dell’imago templi come possibilità di accedere al mondo immaginale, quel mondo delle realtà sottili dove è possibile trovare l’essenza di luce e la verità di ogni essere terrestre, la possibilità di un mondo spirituale ancora intatto che governa e custodisce il mondo della percezione sensibile: «il mondo sottile, alam al-mithal che Sohrawardi chiama il medioriente delle Anime Celesti, il cui organo è l’immaginazione teofanica»[21].

Si tratta quindi di rovesciare i parametri di giudizio con cui si legge la storia e guardare agli eventi con occhi nuovi. Quello di Corbin è un programma gnoseologico e spirituale, ma anche politico.

In quest’ottica il tema del tempio risulta centrale sia perché fornisce la metafora ideale per parlare della presenza di Dio nel mondo e quindi della relazione dell’uomo con Dio, sia perché, essendo un’immagine transculturale e transtorica, permette di indagare le continuità della presenza visibile del sacro nel mondo. Il tempio, la sua distruzione e le sue ricostruzioni rappresentano momenti ideali della ierostoria di cui si interessa Corbin.

Lo studioso sottolinea come questa idea dell’Imago templi non deve confondersi con l’idea antica del mondo come tempio della divinità (la cosiddetta Imago templi mundi), nonostante le possibili e apparenti affinità: in realtà accedere all’imago templi di cui parlano gli Ishraqiyyun significa superare le apparenze del mondo sensibile, che rappresenta piuttosto la cripta del Tempio: l’iniziato, per accedere al tempio di Luce di cui parla l’Angelo (“vengo dal Tempio”), deve ricordarsi della sua origine e uscire dalla cripta. Qui si inserisce il tema dell’esilio, ricorrente in tutta la riflessione di Corbin e tema centrale della gnosi shiita isma’ilita.

La critica a questa spiritualità esteriore, propria dell’interpretazione di Corbin, assume un valore paradigmatico nel contesto della riflessione teologico-politica: se il vero tempio è solo quello spirituale e appartiene a un mondo “altro” (mundus imaginalis) al quale si accede solo attraverso una conversione interiore alla vera fede, i luoghi sacri classici perdono completamente il loro valore e sono ridotti a simulacri. Si può sostenere che la meditazione di Corbin sul concetto di tempio gli toglie qualsiasi valore politico, perché lo spoglia completamente della funzione di territorio del sacro, così come di spazio di incontro dei fedeli: manca l’idea e la necessità di un luogo della comunità dei credenti, perché manca l’idea di comunità in senso classico. La religiosità spirituale di cui parla Corbin non necessita di luoghi perché è transtorica (in una parte della visione sufi, ma anche dell’isma’ilismo, le guide spirituali non sono presenti fisicamente), riservata alle élites e contrassegnata dai percorsi individuali di ciascun fedele (anima) verso Dio.

 

Esilio e viaggio iniziatico

Nella ierostoria di cui si occupa Corbin la storia dell’umanità inizia con l’esilio (il primo esule è Adamo), esilio che comincia proprio con la distruzione del Tempio come evento ideale, la profanazione del tempio santo («del sancta sanctorum in cui Dio aveva messo la conoscenza»): la distruzione del tempio segna l’ingresso dell’uomo nel mondo dell’esilio e la continua ricerca di tornare alle origini. Anche le distruzioni storiche (del tempio di Salomone, del secondo tempio, ecc.) sono tutti episodi della storia dell’esilio. L’obbiettivo degli iniziati è lottare per la ricostruzione del tempio, non tanto di quello materiale ma, attraverso questo, del tempio di luce del mondo spirituale; in quest’ottica la ricostruzione assume un valore superiore di restaurazione cosmica (come la chiama Corbin), di lotta contro la desacralizzazione del mondo e del suo disorientamento, «guidati dall’Angelo che viene dal Tempio».

Una religione iniziatica è necessariamente connotata dalla segretezza: i fedeli, quando si incontrano in gruppo, lo fanno di nascosto e manca completamente l’idea di una dimensione pubblica, per questo il tempio viene re-interpretato nella sua dimensione spirituale.

L’iniziazione dei mistici che viene dispensata direttamente dall’Angelo è orientata a far uscire l’anima dalla cripta (viene subito in mente la grotta platonica, ma in realtà la gnoseologia che presuppone Corbin è tutt’affatto diversa) per accedere al tempio celeste di cui quello terrestre è immagine. Non si tratta tuttavia dell’immagine sbiadita di una realtà ontologica superiore, si tratta di cambiare lo sguardo che l’individuo ha sulle cose: riprendendo l’insegnamento degli stoici, i mistici non considerano diversi livelli di realtà, ma diversi stati dell’individuo a cui corrispondono percezioni differenti. A partire da queste premesse si comprende in che senso Corbin definisca «la rottura tra angelologia e astronomia come distruzione del Tempio da cui l’Angelo proclama di provenire più che un semplice episodio della storia delle scienze»[22].

Tutto il suo discorso richiama anche la lettura della storia della filosofia islamica e quindi, più in generale, la sua epistemologia: Averroè, campione della falsafa e dell’artistotelismo arabo, vuole ricostruire l’autentico peripatetismo e conduce una critica molto dura nei confronti del neoplatonismo avicenniano, rifiutando l’idea di Emanazione ed escludendo la gerarchia degli Angeli/anime celesti dalla struttura cosmologica; questa distruzione astronomica appare parallela alla distruzione antropologica operata dal concilio di Costantinopoli del IX secolo che sostituisce alla triade «spirito, anima e corpo il dualismo, poi cartesiano, di anima e corpo, spirito e corpo, pensiero ed estensione»[23].

Come sottolinea Corbin, questa divaricazione tra angelologia e astronomia, ancora strettamente legate nel pensiero avicenniano, comporta di fatto la scomparsa della seconda gerarchia angelica quella degli Angeli o Animae Caelestes, soglia del mondo dell’immaginale, scompare con esso il potere sovrano dell’immaginazione attiva (imaginatio vera) cioè il mondo intermedio. Di qui un’immagine del mondo non più regolata dall’imago templi, ma un universo come sistema di leggi meccaniche (disincanto).

La venuta al mondo delle anime rappresenta dunque una sorta di esilio, una discesa da quell’oriente che è rappresentato dal tempio, una discesa verso l’occidente, il mondo come cripta del tempio. Da qui il racconto dell’esilio occidentale di Sohrawardi[24], ma anche la parabola biografica di Ibn ‘Arabi (dal Maghreb al Mashreq); in entrambi i casi oriente e occidente geografici rappresentano i simboli di una geografia spirituale, il viaggio è quello iniziatico verso il proprio oriente e il proprio tempio di Luce. La storia della salvezza delle anime, la storia annunciata dalla parola e dal verbo dei profeti non può confondersi con la storia apparente fatta di cronologie e concatenazioni causali, di un prima e di un dopo sulla linea del tempo: come già detto il piano dove avviene la rivelazione e dove avviene la risalita dell’anima dall’esilio al proprio tempio è quello della storia sacra, una storia che non può in alcun modo misurarsi con i parametri del nostro mondo.

Poiché noi moderni abbiamo perduto il potere di immaginare e visualizzare dobbiamo prestare un’attenzione particolare a quanto ci dicono i teosofi dell’islam sulla visione del Tempio che ci verrà proposta. Non si tratta infatti semplicemente di una rappresentazione concettuale ma, al tempo stesso, di una visione e configurazione del malakut (il mondo dell’anima), tanto più oggettivamente reali, dovremmo dire, in quanto avvengono nel mondo dell’Anima[25].

Se le anime del mondo sono in esilio sulla terra non ha senso alcuna forma di lotta o sforzo per la trasformazione del mondo in essere: i fedeli sono in transito (uomo come viator) e la religione iniziatica abdica il compito del cambiamento poiché il Sacro ha il suo territorio in interiore homine.

 

Disincanto e modernità vs ierostoria

Con la riflessione sul tempio Corbin affronta anche il tema delle scienze della modernità, della filosofia della storia novecentesca e della sociologia, ponendosi in diretta polemica con la visione razionalista e illuminista della storia. Da un punto di vista storiografico la sua posizione appare molto discutibile, ma solleva d’altra parte alcuni nodi estremamente centrali nella storiografia filosofica: la filosofia che ha in mente Corbin è difficilmente adattabile alle categorie storiografiche occidentali più tradizionali, non è forse nemmeno filosofia nel senso stretto del termine (se pensiamo che alcuni autori definiscono come  filosofia islamica classica solo i cosiddetti falasifa, di fatto i commentatori di Aristotele); tuttavia, al di là delle definizioni e dei nomi, quello che conta e che emerge in tutte le opere dello studioso francese è l’insistenza sull’esistenza di un altro modello di ragione che nel mondo islamico è cresciuta e si è sviluppata parallelamente alla ragione strettamente filosofica, al pensiero giuridico e a quello teologico-politico. Quello che trova Corbin negli autori di cui si occupa rappresenta un’epistemologia alternativa a quella delle scienze che risalgono invece al modello di ragione aristotelico-tomista-cartesiano. La riscoperta di questi autori rappresenta per Corbin una via che all’uomo moderno è data per riconnettersi con il suo oriente; si tratta quindi di un pensiero fortemente orientato e forse della possibilità di una vera e propria epistemologia islamica che assume valore transtorico e transculturale.

L’Islam valorizzato da Corbin è una meta come l’Oriente per il suo pellegrino andaluso Ibn ‘Arabi; nulla che possa avere a che fare con l’appartenenza etnica, perché si tratta di un orientamento esistenziale. L’Oriente come luogo geografico, non è una condizione sufficiente per ricevere la qualifica di “orientale”, nel senso spirituale-filosofico. L’Oriente geografico simboleggia l’Oriente della gnosi e questa topografia spirituale corrisponde anche allo sviluppo del pensiero filosofico: «così in occidente si assisteva alla progressiva sparizione dell’avicennismo causata dall’avvento dell’averroismo, mentre non si poteva nemmeno immaginare che, all’altra estremità del territorio islamico, nel mondo iranico, l’avicennismo continuasse a prosperare»[26].

Anche in questo caso viene naturale formulare l’analogia per cui se l’oriente geografico appare solo un pallido simulacro dell’oriente esistenziale, il tempio terrestre, luogo e territorio del sacro, perde la sua funzione tradizionale e diventa simbolo, anzi simulacro, della vera realtà.

 

4.     Il pellegrinaggio spirituale di Adamo

Tornando al concetto di tempio e al suo valore simbolico, una nota a parte va dedicata al pellegrinaggio mitico di Adamo come simbolo per eccellenza del peregrinare dell’uomo esule nel mondo alla ricerca del proprio Tempio.

Corbin prende in considerazione l’opera del filosofo shiita Qazi Sa’id Qommi (XVII secolo), autore rappresentativo di un’ermeneutica spirituale, che interpreta – alla luce della raffigurazione cosmologica propria della teosofia (gerarchia di universi che si dispongono per gradi crescenti di luce e purezza – ‘alam al-sahadat, mondo fenomenico; ‘alam al-molk, il mondo soprasensibile; malakut, mondo dell’anima) – il significato esoterico del pellegrinaggio di Adamo intorno alla Ka’ba. Grazie alla meditazione di questo autore Corbin intende indagare il senso esoterico del pellegrinaggio e il livello in cui la Ka’ba si innalza a Tempio invisibile della fede. «Si tratterà di vedere perché per il pellegrino mistico entrare nel tempio significhi eo ipso disporre del potere delle chiavi (potestas clavium) grazie alla quale l’uomo spirituale raggiunge la piena realizzazione di se stesso[27]»

Il racconto di iniziazione da cui parte il filosofo shiita è attribuito all’Imam Jafar. Adamo, cibatosi dell’albero proibito, scende dal paradiso terrestre e si lamenta della desolazione dei luoghi. L’arcangelo Gabriele gli viene in soccorso e lo conduce verso l’iniziazione spirituale attraverso una serie di tappe che saranno quelle dei pellegrini musulmani.

Innanzi tutto dal cielo scende una nube bianca che proietta la sua ombra sul terreno e qui il primo comando dell’angelo ad Adamo di tracciare un solco sul terreno che sarà il perimetro del tempio della ka’ba. Una prima riflessione si inserisce a questo punto del racconto e ne spiega le premesse: la tradizione teosofica shiita interpreta il dramma di Adamo come dramma della conoscenza; Adamo vuole impadronirsi infatti di una conoscenza che non è in grado di sopportare, mangia dall’unico albero proibito del paradiso (a lui era concesso di cibarsi di tutti i frutti di tutti gli alberi tranne di quello): la violenza di Adamo è una violazione, la volontà di raggiungere l’esoterismo puro senza la mediazione delle figure simboliche (la conoscenza escatologica per lo shiismo non è attingibile in modo diretto, ma grazie alla mediazione degli imam). Per il fatto di essersi cibato dell’albero proibito Adamo discende dal paradiso (più che esserne cacciato), perché discende nel mondo dell’illusione e dell’inganno, diventa quindi esule e pellegrino alla ricerca del ricongiungimento con la vera realtà. Corbin sottolinea che il gesto di Adamo lo porta al dubbio e all’agnosticismo, cioè all’insicurezza riguardo all’esistenza stessa del mondo spirituale da cui si è allontanato (il volersene impadronire con la forza è un tentativo votato all’insuccesso). Ma Adamo non viene lasciato solo e Gabriele, Angelo della conoscenza, «il soccorso delle anime», come lo chiamano gli esoteristi come Qommi, lo guida nel suo percorso iniziatico: «si tratta di un’iniziazione al senso esoterico del pellegrinaggio e dei suoi riti, iniziazione al primo pellegrinaggio compiuto dal primo degli uomini»[28]. Ogni tappa del pellegrinaggio che Adamo compirà nei dintorni del Tempio di cui ha tracciato il perimetro sarà una tappa del pellegrinaggio dei fedeli ma, grazie alla mediazione dell’Angelo, si trasfigura in una tappa del pellegrinaggio del cuore verso il Tempio spirituale; d’altra parte nella tradizione mistica si trova l’indicazione di compiere tawaf attorno a se stessi, perché lì abita veramente Dio e non in un luogo concreto come la ka’ba. Parlando del pellegrinaggio di Ibn Arabi che lo porterà alle sue meditazioni mistiche nel Libro delle conquiste spirituali della Mecca (Futuhat al-Makkiya), Corbin sottolinea il valore simbolico dei gesti rituali:

 

«Le circumambulazioni, reali o mentali, intorno alla Ka’ba, interiorizzata come “centro cosmico”, nutrono uno sforzo speculativo che viene confermato attraverso l’esperienza delle visioni interiori e delle percezioni teofaniche».[29]

 

Adamo ha tracciato quindi il perimetro del tempio sull’ombra proiettata dalla nube, mettendo in diretta corrispondenza mondo terrestre e mondo celeste come universi omologhi; tracciando inoltre il perimetro del territorio haram intorno al tempio, Adamo traccia una vera e propria topografia spirituale e costituisce un paesaggio sacro. Questi atti iniziali di Adamo corrispondono alla conoscenza rappresentativa attraverso cui gli uomini hanno accesso alle forme della realtà: da qui occorre partire per il pellegrinaggio che condurrà l’uomo Adamo e i suoi discendenti ed emuli alla conoscenza esoterica delle forme spirituali.

Occorre ora proseguire verso Minà che rappresenta la prima vera tappa del pellegrinaggio e del suo senso esoterico: qui Adamo è guidato dal desiderio di Dio, desiderio ardente che condiziona l’intero pellegrinaggio e senza il quale questa iniziazione non avrebbe successo. Da qui Adamo si sposta verso al-Arafat (montagna a pochi chilometri da Mecca); questo spostamento simboleggia l’ingresso definitivo nella Via spirituale, l’abbandono e l’evasione dal luogo e dal livello in cui ci si trovava. Il tempo dell’arrivo in questo luogo è il tramonto, la scomparsa del Sole, della Luce della Verità, a Occidente (torna qui il significato simbolico della dicotomia tra oriente e occidente spirituali e geografici); Adamo simboleggia l’uomo esiliato dalla luce divina, l’uomo dis-orientato nel suo “esilio occidentale”. La tappa successiva vede il pellegrino recarsi a Mozdalifa, una collina tra Mecca e al-Arafat, qui si veglia una notte intera fino all’aurora dove si riprende la strada verso Minà. Questa stazione del pellegrinaggio simboleggia un riavvicinamento dopo l’allontanamento dell’esilio; questa tappa è anche definita come jam‘ (riunione) perché qui i pellegrini si riuniscono in preghiera nell’attesa del levarsi del sole che è anche levarsi del sole spirituale, a oriente. Gabriele prescrive ad Adamo sette atti di confessione della sua colpa che corrispondono a di-svelamenti del volto divino: a ognuno di questi atti Adamo come pellegrino mistico si avvicina a un grado della visione teofanica che «esplode nello splendore mattinale dell’aurora»[30].

A questo punto Adamo e l’angelo Gabriele, angelo della conoscenza salvatrice, della gnosi che dis-vela il volto di Dio, riprendono il cammino verso Mecca, ripassando per Minà dal momento che Adamo ha raggiunto la meta del suo desiderio, desiderio che gli ha permesso di intraprendere il peregrinare iniziatico. L’incontro con la figura che rappresenta Iblis-Satana e la sua lapidazione rituale (jamra) sono l’ultimo atto che il pellegrino deve compiere per non annullare il suo sforzo; l’interpretazione mistica di questo gesto è la tentazione di fermarsi al compiacimento della propria situazione iniziatica e di annullamento nella divinità (una sorta di autocontemplazione del mistico, l’esclamazione di al-Hajj: io sono Dio), per questo occorre allontanare e scacciare questo pericolo annullando lo stesso annullamento (la famosa mistica doppia negazione): «solo così può compiersi completamente il viaggio che va da Dio in compagnia di Dio verso le creature». Ora Adamo può tornare al Tempio e compiere tawaf intorno al suo centro: andando in processione attorno al polo del Tempio Adamo è come se rientrasse dall’esilio, perché ha ri-creato un contatto con il mondo superiore delle realtà Spirituali ed ha quindi compiuto il pellegrinaggio del cuore attraverso cui tutti gli uomini raggiungono la pienezza interiore e la conoscenza delle realtà spirituali.

La meditazione sul concetto di tempio trova quindi il suo scioglimento, superando il livello materiale e ritrovando il suo pieno valore simbolico e spirituale come luogo della teofania, del dis-velamento del volto di Dio:

 

«Il Tempio. Divenendo vivo e trasparente, lascia infine trapelare il segreto che rinchiudevano le sue mura, quella “forma di Dio” che il Sé, o, piuttosto, la Figura che la personalizza e si fa conoscere come l’Alter Ego divino del mistico (in questo caso del pellegrino spirituale)».[31]

 

5.     Conclusioni

Nella riflessione di Corbin il concetto di tempio rappresenta la figura archetipica della mediazione tra cielo e terra, il luogo e la norma che permettono all’uomo di lottare contro il disincanto e riconnettersi con il mondo spirituale (il suo proprio oriente), trasformando la norma in liturgia: esempio di questa trasfigurazione è il valore simbolico del pellegrinaggio di Adamo e il permanere di questo cammino iniziatico in ogni pellegrinaggio compiuto negli stessi luoghi; alla fine del suo percorso Adamo ritrova il proprio centro e diventa uomo-tempio: diventa egli stesso spazio di contemplazione, cioè spazio consacrato.

Questa riflessione sul tempio appare strettamente connessa all’approccio di Corbin alle scienze contemporanee e alla sua visione della storia: l’imago templi di cui parla rappresenta la prova del permanere del legame con il mondo spirituale e con la dimensione celeste che la tradizione razionalista ha ridotto a insieme di leggi meccaniche. La distruzione del tempio come evento centrale della ierostoria appare allora come la distruzione dell’uomo-tempio, la de-sacralizazzione dell’uomo e del mondo dell’uomo. Per Corbin la distruzione del Tempio è la distruzione del campo visivo: «la contemplazione viene meno per mancanza di spazio, per mancanza di un orizzonte al di là di questo mondo. Il cielo e la terra hanno smesso di comunicare: non c’è più tempio né contemplazione». Ma non è questa l’ultima parola di Corbin che, invece, vede il valore taumaturgico dell’imago templi, «capace di sciogliere quel nodo, ristabilendo la comunicazione tra cielo e terra e rendendo liberi tutti gli spazi al di là»[32].

In questa cornice appare del tutto estranea l’idea di una territorializzazione del sacro in senso classico. Nel momento in cui il tempio, inteso tradizionalmente come luogo del sacro, perde il proprio valore e diventa simulacro del tempio spirituale (inteso come luogo dell’ascesa dell’anima verso Dio), non può in nessun modo assolvere una funzione politica: mentre lo spazio profano si costruisce in alternativa a quello sacro e viceversa, nel momento in cui il sacro non ha più luogo definito è difficile anche individuare lo spazio del profano.

Da un punto di vista teologico-politico quindi la riflessione di Corbin sul tempio appare significativa in due sensi: da un lato il tempio perde il valore di territorio del sacro e viene quindi a mancare la contrapposizione con il profano come luogo per eccellenza della politica, dall’altro il tempio abdica alla funzione di spazio della comunità dei fedeli (spazio pubblico-politico della religione) poiché non si fa riferimento a una comunità tradizionale ma a gruppi di fedeli e iniziati, o a percorsi spirituali individuali.

Appare piuttosto significativa l’insistenza sulla funzione dell’imago templi come strumento di ri-connessione e riappropriazione della dimensione spirituale perduta dal mondo disincantato e dis-orientato: solo in questo specifico senso è possibile attribuire un qualche valore teologico-politico al concetto di tempio nella meditazione di Corbin.

 

 

[1] H. Corbin, L’immagine del tempio, tr. it. a cura di B. Fiore, SE, Milano 2010, p.48,  il testo raccoglie delle conferenze tenute a Eranos e incluse nel volume di Ch. Jambet (ed.), Temple et contemplation, Flammarion, Paris 1980.

[2] Si vedano a proposito gli studi di D. Gutas, The Study of Arabic Philosophy in the Twenthieth Century. An Essay on Historiography, «British Journal of Middle Eastern Studies», 29:1 (2002), pp. 5-25; U. Rudolph, La filosofia islamica, trad. it. di C. Baffioni, Il Mulino, Bologna 2006, in particolare si veda la Prefazione; M. Campanini, Introduzione alla filosofia islamica, Laterza, Roma Bari 2004, in particolare pp. 63-70.

[3] H. Corbin, Histoire de la Philosophie islamique, Gallimard, Paris 1964; tr. it. Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano 1989, pp. 13-15.

[4] S.H. Nasr (ed.), Melanges offerts a Henry Corbin, Institute of Islamic Studies, Teheran 1977.

[5] R. Lemay, Seyyed Hossein Nasr. Sciences et savoir en Islam, in «Cahiers de civilisation médiévale» 99-100 (1982), p. 296.

[6] U. Rudolph, La filosofia islamica, cit., p. 8.

[7] Louis Massignon è stato un grande interprete del pensiero islamico e, in particolare della tradizione mistica, si pensi al suo studio magistrale sul mistico al-Hajjaj, L. Massignon, La passion d’Al Hosayn-ibn-Mansour al Hallaj Martyr Mystique De L’Islam, Geuthner, Paris 1922; Corbin fu suo allievo e interprete, cfr. H. Corbin, L. Massignon, in Louis Massignon, cahier de l’Herne, l’Herne, Paris 1970.

[8] D. Gutas, The study of arabic philosophy, cit., p. 16.

[9] Ch. Jambet, La logique des Orientaux. Henry Corbin et la science des formes, Seuil, Paris 1983, p. 222.

[10] Sul tema si veda un testo che ha fatto molto discutere gli interpreti, S.M. Wasserstrom, Religion after Religion. Gershom Scholem, Mircea Eliade, and Henry Corbin at Eranos, Princeton University Press, Princeton 1999.

[11] Cfr. H. Landolt, Henry Corbin, 1903-1978: Between Philosophy and Orientalism, in «Journal of the American, Oriental Society», 3 (1999), pp. 484-490, G. Pasqualotto, Dalla prospettiva delle filosofia comparata all’orizzonte della filosofia interculturale, in Id. (ed.), Per una filosofia interculturale, Mimesis, Milano-Udine 2008, pp. 35-57.

[12] I. Poonawala, voce ta’wil in Enciclopedie de l’Islam, vol. X, Brill, Leiden 2000, pp. 390-391; anche se il modo di intendere l’esegesi spirituale di Corbin si discosta dalla tradizionale dicotomia ta’wil/tafsir.

[13] Cfr. M.A. Amir Moezzi – Ch. Jambet, Qu’est-ce que le shi’isme?, Fayard, Paris 2004.

[14] H. Corbin, L’imagination créatrice dans le soufisme d’Ibn Arabi, Flammarion, Paris 1958; tr. it. L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 14.

[15] M.A. Amir Moezzi, Le guide divine dans le shi’isme originel. Aux sources de l’ésoterisme en Islam, Verdier, Paris 1992.

[16] H. Corbin, L’immagine del tempio, cit., p. 48.

[17] H. Corbin, Avicenne et le récit visionnaire, 1, Étude sur le cycle des récits avicenniens; 2, Le récit de Hayy ibn Yaqzan, Adrien-Maisonneuve, Téhéran-Paris 1954 (ultima edizione, Verdier, Lagrasse 1999).

[18] Id., En Islam iranien. Aspects spirituels et philosophiques, Le shi’isme duodécimain; Sohrawardi et les Platonicien de Perse, Gallimard, Paris 1971 (ultima edizione 1991).

[19] Cfr. in particolare lo studio sul sufismo e su Ibn Arabi, H. Corbin, L’immaginazione creatrice, cit.

[20] Id., L’immagine del tempio, cit., pp. 145-6.

[21] Id., L’immaginazione creatrice, cit., p. 33.

[22] Id., L’immagine del tempio, cit., p. 153.

[23] Ibidem

[24] Il racconto di Sohrawardi rappresenta una iniziazione che riconduce il mistico alla sua origine, al suo Oriente, in H. Corbin, Storia della filosofia islamica, cit., p. 223.

[25] Id., L’immagine del tempio, cit. p. 73.

[26] Id., L’immaginazione creatrice, cit., p. 10.

[27] Id., L’immagine del tempio, cit., p. 75; il testo originale è La Configuration du Temple de la Ka‘ba comme secret de la vie spirituelle d’après l’oeuvre de Qazi Sa‘id Qommi (1103/1691), in «Eranos-Jahrbuch», XXXIV (1965), pp. 79-166.

[28] Id., L’immagine del tempio, cit., p. 115.

[29] Id., L’immaginazione creatrice, cit., pp. 47-8.

[30] Id., L’immagine del tempio, cit., p. 119.

[31] Id., L’immaginazione creatrice, cit., p. 243.

[32] Id., L’immagine del Tempio, cit., pp. 246-7.