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Redemption and Reformation: some elements of reflection for a self-critical “political theology”
This paper provides some reflections on the concept of redemption in the Reformed Churches. First, the impact of previous theologies on the Reformation will be mentioned, paying particular attention to the connection made by some patristic and medieval theologians between original sin and politics. I will then go on to examine the same connection, as elaborated by the three main Reformers of the 16th century and to ascertain the part played by the concept of redemption in this ethico-political context. A brief examination of the same question, as dealt with by those who came immediately after the first Reformers, then follows. The paper concludes with some thoughts on the contribution that theologies with an awareness of the implications of the Reformation can give to the understanding of “political theology” in Western society.
Ho accettato il cordiale invito a contribuire sollecitando personalmente l’opportunità di trattare il tema nella prospettiva del quinto centenario della Riforma protestante. Così facendo mi sono, più o meno consapevolmente, attirato varie difficoltà che, in questo testo, potranno essere superate solo parzialmente.
Le Chiese che si rifanno esplicitamente all’evento della Riforma del sedicesimo secolo lo hanno commemorato già nelle scadenze centenarie che ci hanno preceduto[1]. Queste commemorazioni mettono in evidenza anche per noi, spettatori ed attori dell’inizio del secondo millennio, le varie precomprensioni dell’evento stesso e lo spirito che ha animato le commemorazioni che ci hanno preceduto nel tempo. La storiografia più recente ha esaminato e ricostruito le varie letture della Riforma, ne ha denunciato i limiti e le ideologie più o meno nascoste e ci invita ad un riesame critico ed empatico al contempo di questo fenomeno epocale della storia del cristianesimo occidentale[2].
Anche chi osserva oggi il fervore di attività che caratterizza la celebrazione del quinto centenario dal di fuori non potrà non notare alcuni elementi di novità che mettono in evidenza alcune caratteristiche del nostro avvicinarsi contemporaneo a questa vicenda. L’EKD, l’autorità di riferimento delle chiese protestanti tedesche, ha espresso esplicitamente il desiderio che le manifestazioni che si terranno tra il 2015 ed il 2017 non siano puramente germanocentriche e connesse solo con le Chiese nate dalla Riforma stessa. In altre parole, così si sostiene, la Riforma è un fenomeno che va ben al di là dell’area di lingua tedesca e che ancor meno può essere ridotto alla sola figura di Martin Lutero[3]. Anche se si volesse porre lo sguardo al solo sedicesimo secolo, bisognerebbe, per quanto riguarda la Germania, incorporare altre figure che hanno contribuito direttamente a struttura il fenomeno in questione. Pensiamo solo alla funzione decisiva di Melantone, ed al contributo, non solo indiretto, della cosiddetta “ala radicale” della Riforma.
Nelle città di Strasburgo, Zurigo e Ginevra inoltre, la Riforma prenderà, in contemporanea e (nel caso di Calvino a Ginevra) con un leggero scarto temporale, un volto alquanto diverso sia sul piano dell’approccio teologico che su quello dell’organizzazione ecclesiastica[4].
Sempre l’EKD ci ricorda dunque di non limitare gli atti commemorativi solo al filone luterano ed all’area tedesca. Inoltre si sottolinea che oggi, a distanza di cinque secoli, è possibile fare memoria di questo processo storico che ha diviso la cristianità occidentale, sia tra coloro che vi hanno aderito che tra coloro che, dopo averlo combattuto tenacemente, oggi riescono a capirne le ragioni ed a superare così le varie diffidenze reciproche. Non solo: chi ha combattuto tenacemente il fenomeno della Riforma, in primis la Chiesa cattolico-romana, ne è rimasta indirettamente influenzata e così anch’essa è in grado oggi di esercitare questo atto di memoria. L’anniversario diventa così un evento ecumenico, non necessariamente eurocentrico, e non puramente intra-teologico[5].
Il contributo che qui cerco di presentare cercherà di essere fedele a questo sguardo globale, anche se devo ammettere che la mia particolare esperienza biografica di teologo cattolico che ha operato per vari decenni in Facoltà teologiche di matrice riformata, nel contesto pluriconfessionale elvetico, ha evidentemente influenzato non solo il mio sguardo intellettuale ma anche il mio inserimento operativo.
Fatte queste premesse a carattere “ambientale” mi propongo di strutturare le mie riflessioni secondo questo ordine. In un primo momento cercherò di rammentare alcuni influssi avuti sull’evento della Riforma da parte delle teologie che l’hanno preceduta e che l’hanno più o meno direttamente influenzata – tutto questo ponendo particolare attenzione al rapporto che alcune teologie patristiche e medievali vedono tra il peccato di origine e la loro percezione e valutazione del fenomeno politico. In un secondo punto si tratterà di esaminare questo stesso rapporto tra i tre principali riformatori del sedicesimo secolo e di verificare quale ruolo svolga la categoria di redenzione in questo contesto etico-politico. Un sommario esame della stessa problematica, nelle generazioni che hanno seguito immediatamente l’operato dei primi riformatori sarà l’oggetto di un terzo paragrafo. Seguiranno, in conclusione, alcune considerazioni sul contributo che ancora oggi le teologie sensibili al fenomeno della Riforma possono dare ad una corretta comprensione della “teologia politica” nelle nostre società occidentali.
Il tutto andrà compreso come semplice contributo frammentario al vasto tema della sessione di quest’anno.
La ricchissima storiografia attorno al nostro tema ha sottolineato e documentato, accanto ad altri elementi altrettanto importanti, quelli che mettono in evidenza la continuità tra le proposte dei Riformatori e la teologia patristica e medievale che le precede[6]. Tra i molti elementi analizzati dalla ricerca storica evoco qui una sola variante che spiega, almeno parzialmente il retroterra dei tre principali Riformatori. Come è ben noto, Martin Lutero ebbe un accesso fortemente parziale al pensiero filosofico e teologico del Medioevo, poiché la frequentazione delle pubblicazioni di Gabriel Biel lo introdusse al filone nominalista, senza poter accedere ad altre correnti di pensiero. Così è oggi abbastanza chiaramente dimostrato che il Riformatore di Wittenberg non ebbe mai l’occasione di accedere ai testi filosofici e teologici di Tomaso d’Aquino e la sua frequentazione dei testi aristotelici fu molto limitata[7]. Diversa si rivela invece la formazione intellettuale di U. Zwingli, che ebbe modo di seguire la “via media” nei suoi studi teologici a Vienna e di frequentare direttamente il pensiero di vari umanisti dell’area meridionale del mondo tedesco[8]. Calvino infine si formò alla teologia relativamente da solo ed ebbe una formazione giuridica a Parigi, dove incontrò pure vari esponenti dell’umanesimo francese.
Comune ai tre padri della Riforma fu però la lettura costante di testi patristici ed in particolare l’avvicinamento costante ai testi di S. Agostino. Gli effetti di tale comune frequentazione si manifesta secondo modalità differenti in tutti e tre i grandi teologi della Riforma e diventa visibile in ambiti tematici diversi. Qui cercherò di esaminare soprattutto quegli elementi che portano i singoli riformatori a formulare le linee maestre della loro teologia e della loro etica politica. Un’analisi comparativa, anche se estremamente sommaria come è il caso in questo intervento, ci mostrerà come il richiamo ad Agostino possa e debba portare a risultati non sempre identici e talvolta nemmeno analoghi.
E’ presente comunque nel pensiero di tutti i riformatori della prima generazione un richiamo alle riflessioni del vescovo di Ippona quando si tratta di riflettere attorno ai rapporti che intercorrono tra il fenomeno dell’esercizio del potere politico e la condizione di peccato che connota l’esistenza umana sia in ogni individuo che nella sua vita associata. In Lutero il legame con la teologia di S. Agostino è diretto anche se non esente da prese decise di distanza su punti precisi. Già nel 1520 egli afferma perentoriamente che «Omne quod non est ex fide, peccatum est»[9] confermando così l’altrettanta perentoria affermazione di Agostino secondo cui «ubi fides non erat, bonum opus non erat. Bonum enim opus intentio facit, intentionem fides dirigit»[10].
Più sfumato è invece il rapporto di Zwingli con la riflessione del vescovo di Ippona, mentre rimane centrale il suo costante richiamarsi alla teologia della soddisfazione vicaria di S. Anselmo. Zwingli riesce a pensare l’universalità dell’opera redentrice di Cristo mediante l’introduzione della categoria del patto, prodromo della cosiddetta teologia federale[11], connotato specifico della tradizione riformata e della sua teologia politica nei secoli che seguiranno la riforma zurigana.
Per quanto riguarda Calvino il legame con la teologia di S. Agostino mi sembra meno rilevante. La sua formazione parigina lo mise in contatto soprattutto con il pensiero degli umanisti, filtrato attraverso una recezione attenta soprattutto al rinnovamento del diritto, così come ereditato dal Medioevo.
Senza voler minimizzare il ruolo centrale che la teologia agostiniana ha avuto sul pensiero dei Riformatori non va comunque dimenticato anche l’influsso esercitato dalla teologia anselmiana della soddisfazione vicaria, vista come tentativo di rendere plausibile la morte di Gesù sulla croce come atto redentore per tutti coloro che la percepiscono nella fede[12].
Se poniamo il nostro sguardo ora sul tema specifico della redenzione, oggetto del nostro incontro si potrà facilmente vedere come la locuzione Redemptio-Erlösung non sia intensamente documentata negli scritti dei riformatori ed in particolare presso Martin Lutero. Con l’ausilio delle banche dati legate alla Weimarer Ausgabe[13] da una parte ed al Corpus Reformatorum[14] dall’altra si può costatare che la categoria di redenzione sia sì nota, ma ad essa vien preferito il vocabolario paolino della giustificazione e dell’imputazione.
Comune a tutto il lessico sia della redenzione che della giustificazione è lo sfondo, evidentemente paolino, a carattere giudiziario che richiede una concezione del peccato tale da richiedere una pena ed un riscatto. Nei confronti della categoria di giustificazione, centrale in tutti i teologi della Riforma, quella di redenzione meglio si presta a comunicare ai fedeli che non sanno se aderire alla “nuova fede” in che cosa consista la novità del messaggio cristiano. Mi siano permesse solo alcune citazioni tratte da scritti a carattere catechetico di Martin Lutero per illustrare questo mio proposito. Così, commentando il simbolo apostolico al suo secondo articolo, Lutero aggiunge alla dichiarazione cristologica secondo cui Gesù, nato dalla vergine, è vero Dio e vero uomo, questa ulteriore dichiarazione a carattere soteriologico:
«sei mein Herr, der mich verlornen und verdammopten Menschen erlöset hat, erworben, gewonnen…..», cioè «sii mio signore, che ha mi ha redento come uomo perso e dannato, mi ha acquistato e guadagnato».
La redenzione che Cristo ci ottiene è connotata dai verbi “erlösen”, “erwerben” (ottenere), “gewinnen” (guadagnare), tutti diversi tra loro, ma al contempo tutti legati ad un processo o ad una transazione strettamente legata a processi finanziari e giudiziari al contempo.
Si tratta evidentemente di metafore, ma da cui è estremamente difficile staccarsi non solo quando ci si avvicina agli scritti dei Riformatori, ma anche quando si cerca di attualizzare questo linguaggio per la nostra comprensione contemporanea della redenzione. Lutero le riprende dal linguaggio paolino, a sua volta radicato nel linguaggio veterotestamentario.
E’ comunque interessante notare come la “transazione” che Cristo ha ottenuto per tutti gli esseri umani non sia stata ottenuta mediante «Gold oder Silber» cioè con oro od argento, bensì solo con il suo sangue, con il dono della sua vita[15]. La redenzione non viene considerata solo come un’opera precipua di Cristo, bensì la connotazione più centrale della sua stessa Persona. Cristologia e soteriologia sono dunque, sempre presso il Riformatore tedesco, intimamente legati. La signoria di Cristo sull’umanità e su tutta la creazione è intimamente unita alla sua opera di liberazione.
«ipse me liberavit in suam servitutem, ita Dominus i.e.redemptor factus est meus».[16]
Calvino da parte sua usa raramente il termine di redenzione, sia negli scritti in latino che in quelli in lingua francese. Il suo approccio rimane classico, con referenze sia ad Agostino che ad Anselmo, sempre letti comunque sul sottofondo della teologia paolina. Sul tema specifico della redenzione non si distacca in maniera netta da Lutero, senza per altro seguirlo in maniera meccanica. Esaminando invece la valorizzazione che i Riformatori intendono dare al fenomeno politico, sempre all’interno del loro approccio teologico, si potranno riscontrare sensibilità alquanto diverse.
Chi evoca questa sfera presso Lutero proporrà subito la cosiddetta “dottrina dei due regni” o Zweireichelehre, dottrina evidentemente non ritrovabile in maniera sistematica, ancor meno in una esposizione manualistica presso il Riformatore di Wittenberg, ma i cui elementi ritornano frequentemente in vari suoi scritti[17]. Per poter capire ed applicare coerentemente le intuizioni teologiche che Lutero propone attraverso questa espressione bisogna rifarsi all’orizzonte più ampio della sua teologia della salvezza dell’uomo attraverso la sua giustificazione per fede, bisogna tener presente il senso che Lutero da alla distinzione tra legge e Vangelo ed infine aver presenti le funzione che egli affida alla legge, sia per il cristiano di fronte a Dio che a tutti gli esseri umani nel loro vivere in società[18].
Il significato più profondo della distinzione tra legge e Vangelo è accessibile, sempre per Lutero, solo a colui che si affida, nella fede, alla misteriosa sovranità di Dio su tutti gli uomini e su tutta la creazione. Solo nell’adesione fiduciosa a Cristo si può sperimentare la salvezza. In maniera ancora intuitiva si possono ritrovare testimonianze di questa attitudine teologica in scritti che precedono l’anno fatidico del 1517, quando Lutero propone alla cristianità del suo tempo un cambiamento radicale anche del vivere ecclesiale. Così, in una predica del 7 dicembre 1516 affermerà perentoriamente: «Necesse est Christo lege implenti per fidem aderere et confirmari»[19], e ciò è possibile poiché «Christus est iustitia, sanctificatio, redemtio nostra»[20].
Il primato dato al Vangelo non consiste in una proposta di una normativa materialmente nuova, bensì nella capacità che il Vangelo ha di mostrarci plasticamente le funzioni che permangono alla legge, sia per i credenti che per tutti gli esseri umani che vivono in società.
Tali funzioni, presso Lutero, sono riducibili a due: innanzitutto il cosiddetto “usus politicus” o “usus civilis” e, in seconda battuta, l’“usus theologicus legis”.
Per legge si deve intendere qui non solo le norme del diritto positivo, bensì tutte le varie forme di normatività che l’essere umano incontra nella sua vita sociale. Sotto il termine legge Lutero sussume anche le norme morali che il cristiano incontra nel testo biblico, a partire dal decalogo fino alle indicazioni morali del nuovo testamento. Nel suo commento alla lettera ai Galati Lutero caratterizza in questi termini la funzione politica di ogni normativa :
«L’autorità deve avere nel suo esercizio una certa qual “grinta” (iram). Senza di essa il pedagogo, il magistrato, il principe, la’mministratore non vale nulla. Per l’uomo di governo essa è necessaria più di ogni altra qualità. Essa deve essere però modesta, non puerile e femminea e vendicativa. Il padre ed il precettore non correggono per desiderio di vendetta, bensì per togliere il vizio mediante il castigo. Così pure la madre. Tutte queste sono delle ire o aggressività buone, dettate dallo zelo, ed in cui nel fratello o suddito vogliono emendare e non cercare il male. Questa è la giusta grinta (ira), dove essa venga a mancare, nulla funziona».[21]
Contrariamente alle interpretazioni prevalenti durante la fase “liberale” ed “imperialista” del protestantesimo tedesco lungo il diciannovesimo secolo Lutero non intendeva, attraverso la sua comprensione della funzione politica e civile di ogni legge, legittimare o persino glorificare i rapporti di potere realmente esistenti nel contesto sociopolitico in cui vive ed opera, come manifestazioni indiscusse della volontà di Dio. L’autorità, sia essa politica o educativa ha disposizione, attraverso lo strumento della legge, il diritto-dovere di garantire una pacifica convivenza umana. La sua sottolineatura del carattere costrittorio e sanzionatorio delle leggi non è espressione di pessimismo o di autoritarismo politico, bensì espressione del ruolo pedagogico e correttivo della legge stessa. Direi di più: per il Riformatore questa funzione “infima” della legge nasconde un suo ruolo teologico più alto. In altre parole, per Lutero, la «lex iræ» non è altro che la «lex charitatis latens»[22].
La seconda funzione della legge, sempre secondo Lutero, è accessibile in maniera piena solo al credente e riguarda il suo rapporto con Dio. Questa funzione è un «usus proprius, perutilis et maxime necessarius»[23], poiché essa mantiene costantemente il suo valore fino alla fine dei tempi. Si tratta della cosiddetta funzione “teologico-accusatoria” di ogni normatività proposta al credente, che ricorda costantemente a colui che è stato reso giusto dalla giustizia attiva di Dio il fatto che egli permane comunque, nonostantela gratuita salvezza, sempre un peccatore[24].
Questa duplice valorizzazione teologica della legge mette in evidenza il suo carattere squisitamente “interinale” connotato da una forte tensione escatologica. Ed è proprio questa tensione che porta Lutero a voler evitare ad ogni costo ogni sovrapposizione o equiparazione tra le due funzioni della legge. Come afferma a giusta ragione Valdo Vinay, «ogni confusione tra le due parole significa offuscamento del Vangelo, illusione umana di una possibile autoredenzione e quindi opera di Satana»[25].
Bisogna comunque sempre interpretare le affermazioni del Riformatore di Wittenberg non come slegate dal contesto in cui esse sono proposte al lettore o all’ascoltatore, bensì sempre in maniera estremamente dialettica. La distinzione tra legge e Vangelo è teologicamente decisiva, ma non esclude il fatto che le due realtà siano costantemente tra loro intimamente legate. Secondo Lutero «Lex respicit ad Evangelium….et Evangelium respicit ad legem»[26] e tra le due realtà si opera uno scambio senz’altro produttivo. Così «Evangelium […] dat intellectum per quem vetus lex revelatur et perscrutatur»[27]. Ciò che è decisivo, per il Riformatore, è la funzione sostanzialmente diverse delle due istanze di fronte a cui ogni credente deve correttamente posizionarsi. Non si tratta di due “regni” completamente diversi, bensì di due istanze («fora») che rispondono ad esigenze del tutto diverse.
Ciò spiega anche la caratterizzazione specifica e la connotazione teologica che Lutero fa delle posizioni dei suoi avversari. Egli lotta su due fronti che hanno comunque in comune un “peccato metodologico” nelle loro rispettive teologie ed etiche, quello della confusio regnorum.
Nella tentazione o deformazione “papista” che Lutero incontra soprattutto nella bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII, la menzionata confusione consiste soprattuto nel voler mettere la legge a servizio del Vangelo, tradendone così la loro relativa specificità. Nell’ideologia del braccio secolare, e nell’enfatizzazione del ruolo del diritto canonico Lutero localizza i frutti marci di questo mescolamento, teologicamente scorretto, di carte.
Sul fronte opposto, quello dell’ala radicale della Riforma, il rimprovero di Lutero sarà specularmente opposto. Secondo la prospettiva di una teologia dei due fora l’entusiasmo di Müntzer e dei suoi seguaci consiste nel mettere il Vangelo a servizio di un progetto mondano, costringendo (mediante un compelle intrare rovesciato) la società ad una riconciliazione completa tra Dio ed il mondo. In altre parole l’orientamento dell’ala radicale della Riforma «rende spirituale ed interiore tutto ciò che Dio vuole corporale ed esteriore e viceversa».[28]
Concludendo queste sommarie indicazioni dell’orientamento teologico e politico dell’approccio luterano al nostro interrogativo penso che si possa affermare che Lutero abbia voluto sempre mantenere un rapporto fortemente equilibrato tra la novità radicale dell’annuncio del Vangelo e le non decadute esigenze morali della convivenza sociale. Il contesto entro cui egli ha voluto proporre questo rapporto era marcato da conflitti di diverso tipo, non ultimo dall’esigenza di poter salvare sia la sua sopravvivenza fisica mettendosi sotto la protezione di un sovrano locale, dalla volontà di garantire un prolungamento del suo progetto ecclesiologico al di là della propria vita terrena, dalla presenza di conflitti sociali e politici, come la rivolta dei contadini, che si appellavano scorrettamente ad argomenti teologici e quindi non ha potuto esplicare tutta la sua energia positiva.
La nascita di culture teologiche fortemente marcate dalla diversità confessionale così come una recezione degli scritti di Lutero in chiave politicamente conservatrice hanno impedito alle sue intuizioni sui due fora di fronte a cui ogni cristiano deve vivere ed operare, di produrre modelli etico-politici positivi e liberatori.
La riflessione di Calvino attorno alla categoria di redenzione e la sua dottrina che prevede una terza funzione per la legge correggerà in parte il pensiero di Lutero[29]. Il contesto geopolitico in cui si articola la riflessione del Riformatore di Ginevra, la formazione di chiese sul modello ecclesiologico previsto da Calvino e soprattutto la feroce persecuzione di cui saranno vittime le comunità riformate in Francia, con la loro dispersione in vari paesi europei, porteranno ad effetti maggiormente interessanti per la problematica della “teologia politica” che ci occupa qui.
Si può affermare, pur con la prudenza di chi scrive senza essere uno specialista della storia della Riforma, che in Calvino siano riscontrabili gli elementi fondamentali della dottrina dei due regni già formulata da Lutero. Calvino comunque intende “correggere leggermente il tiro”, cercando di superare gli elementi maggiormente dualistici del teologo di Wittenberg. Gli anni che separano le due rispettive biografie ed il tipo di società in cui i due Riformatori sono inseriti, in un principato classico presso Lutero, in una “città libera” nel caso di Calvino, danno alle due riflessioni teologiche una specificità di accenti che non può non saltare agli occhi dei lettori contemporanei, anche in quelli meno addentro nelle dispute specifiche di quel tempo.
Nell’incontro che Calvino ebbe a Ratisbona con Melantone il teologo e giurista francese ebbe modo di ascoltare attentamente il præceptor Germaniæ affermare con chiarezza che «il y a toujours danger de mêler l’office de la puissance politique avec le ministère de l’Evangile».[30]
Quest’ultimo, cioè l’annuncio della buona notizia dei piani di Dio nei confronti dell’umanità peccatrice consiste in una remissione completa del peccato. Questa è, secondo Calvino, la corretta comprensione del termine redenzione, così come è presentata e commentata nel capitolo quarto del terzo libro della sua Institutio,[31]con riferenza polemica alla posizione cattolica che riterrebbe che siano necessarie ancora indulgenze per rimettere completamente il fardello della pena legato alla colpa.
In questa prospettiva la legge assume, sempre presso il Riformatore ginevrino, una terza funzione e cioè quella di accompagnare i credenti nel loro itinerario di santificazione. A dire il vero questa funzione non rappresenta una specificità pensiero di Calvino, ma è ritrovabile, con accenti e sottolineature diverse, anche già in Zwingli, in Melantone e in Bucero. Più che di una vera e propria diversità di vedute tra Lutero e la Riforma delle città svizzere, di Strasburgo e di Ginevra, siamo di fronte qui ad una diversa sensibilità nella percezione del senso della presenza del messaggio cristiano nelle società in cui i vari riformatori ed i loro ascoltatori sono inseriti.
L’ala “riformata” della Riforma protestante ha così messo in evidenza, fin dal suo sorgere, una maggiore sensibilità per i risvolti etico-sociali e politici del proprio approccio, rispetto alle preoccupazioni, quasi completamente intra-teologiche, di Martin Lutero. L’esperienza della persecuzione politica, l’incertezza dei seguaci di Calvino nel rispettare, in linea di principio, l’obbedienza al monarca ed al contempo di teorizzare varie possibilità di resistenza, hanno segnato le varie versioni di un “calvinismo politico” diffusosi in varie regioni europee, provocando esiti tra loro alquanto diversi[32].
Questa diversa sensibilità ed accentuazione porterà frutti copiosi e maturi già a partire dalla seconda generazione che segue quella dei grandi Riformatori. L’esempio maggiormente rivelatore al riguardo mi sembra essere quello della formulazione di un diritto di resistenza nei confronti del sovrano ingiusto e persecutore da parte dei teologi che hanno seguito Calvino nella conduzione delle comunità riformate, sia a Ginevra che nelle varie città francesi sottoposte alla corona dei re di Francia.
In Calvino non sembra esserci spazio per un vero e proprio diritto di resistenza da parte dei singoli sudditi : «resisti magistratui non potest, quia simul deo resistatur»[33], ma con il tempo, si manifesta pure in lui una comprensione nei confronti dei membri della nobiltà intermedia quando interviene per limitare perlomeno il potere assoluto del sovrano supremo. Con Beza ed ancor più con i cosiddetti monarcomachi si arriva, sempre a partire da posizione teologiche classicamente riformate, a formulare un vero e proprio diritto di resistenza, senza necessariamente entrare in contraddizione con la formulazione classica della funzione civile e politica della legge morale e della regolamentazione giuridica[34].
Questa continuità nel sottolineare la pertinenza della distinzione tra legge e Vangelo ed al contempo nel prendere autonomamente una decisione etica autonoma quando si tratta di combattere un regime chiaramente immorale è esemplarmente visibile nel secolo ventesimo, nella presa di posizione di Barmen da parte della Chiesa confessante. Non a caso le due figure principali che si esprimono in questo contesto sono Dietrich Bonhoeffer per il filone luterano e Karl per quello riformato.[35] Il loro pensiero teologico, pur di provenienza confessionale diversa, converge nella convinzione comune, alla quinta tesi :
«Respingiamo la falsa dottrina secondo cui lo stato, al di là del suo compito particolare, dovrebbe e potrebbe diventare il solo e totale ordinamento della vita umana tanto da assolvere anche funzione cui è destinata la chiesa. Respingiamo la falsa dottrina, secondo cui chiesa, al di là del suo compito particolare, dovrebbe e potrebbe attribuirsi caratteri, compiti dignità propri dello stato, tanto da diventarne essa stessa uno degli organi»[36].
A partir da questa esperienza storica è stato possibile un avvicinamento sempre più intenso tra le due anime della Riforma protestante che ha avuto conseguenze sia sul piano dell’etica sociale e politica e su quello della vita interna alle chiese che si richiamano a questi stessi due diversi filoni[37].
Concludendo in maniera del tutto sommaria e frammentaria le considerazioni finora presentate attorno al nodo tra annuncio del Vangelo di salvezza per grazia, legge morale e politica e possibilità di una “teologia politica”, mi chiedo se quanto presentato in questa veloce carrellata storica possa o debba ancora produrre elementi di piena attualità a 500 anni dall’inizio di una Riforma che ha avuto esiti confessionali, ma che oggi viene vissuta in piena fraternità anche dalla Chiesa cattolica e da tutta l’ecumene.
Sono d’avviso che il contributo maggiormente originale che ci viene dalla Riforma protestante, nella pluralità delle sue voci e dei suoi diversi orientamenti teologici, sia duplice. Da una parte la teologia protestante ha contribuito, in forte vicinanza con teologi di matrice cattolica, alla ripresa della locuzione “teologia politica” a partire dagli anni ’60 del secolo scorso[38], senza per questo rinunciare alla pertinenza di principio della distinzione tra “legge” e “Vangelo”. Le opere di Jürgen Moltmann e di Johann Baptist Metz, pur partendo da orizzonti e da sensibilità tipiche della loro specifica appartenenza confessionale, hanno rivelato una forte convergenza non solo di intenti ma anche di risultati. Comune è stato anche il loro sforzo di differenziare le categorie di redenzione e di emancipazione, entrambe proposte intensamente durante gli anni ’60 e ’70 del ventesimo secolo[39] come possibile articolazione attuale della coppia classica di concetti (legge e Vangelo).
Da un altro angolo prospettico si può leggere la Riforma protestante, nella sua proposta qui evocata, come un permanente antidoto nei confronti di qualsiasi forma di identificazione tra sforzi di autoemancipazione di gruppi sociali, di genere e di altre realtà sociali da un lato, e la redenzione donata da Cristo in un atto gratuito di amore per l’umanità e per il cosmo intero, dall’altro. I 500 anni di presenza protestante hanno prodotto, come ogni realtà umana, varie contraddizioni ed attitudini peccaminose (si pensi all’esempio dei deutsche Christen, bersaglio della Chiesa confessante di Bonhoeffer e di Barth), ma al contempo hanno preservato tutta la cristianità da varie tentazioni “entusiaste” di identificare gli sforzi collettivi di emancipazione e di liberazione con la Redenzione, che è ricevuta invece in maniera del tutto gratuita.
L’anniversario che si festeggia è dunque un’ottima occasione al fine di rendere presente alla nostra memoria questo duplice contributo che ci viene dalla Riforma protestante. Con le parole di Karl Barth: «La legge non è altro che la forma necessaria del Vangelo, il cui contenuto è la grazia»[40].
[1] Per un esame critico di questi eventi commemorativi che ci hanno preceduto cfr. soprattutto S. Kranich, Der Geist der Zeiten – protestantische Deutungsmuster in universitären Reformationsjubiläen, in «Zeitschrift für Religions- und Geistesgeschichte» 65 (2013), pp. 18-31; D. Wendebourg, Das Reformationsjubiläum von 1921, in «Zeitschrift für Theologie und Kirche» 110 (2013), pp. 316-361; Id., Die Reformationsjubiläen des 19. Jahrhunderts, in «Zeitschrift für Theologie und Kirche» 108 (2011), pp. 270–335; Chr. Strohm, Medien, Themen und Ertrag des Calvin-Jubiläums 2009, in «Archiv für Reformationsgeschichte» 102 (2011); J. Hund, Erinnern und feiern. Das Calvin-Jubiläum im Kontext moderner Erinnerungskultur, in «Verkündigung und Forschung» 57 (2012), pp. 4-18; M. Honecker, Luthers Theologie im Reformationsgedenken, in «Theologische Rundschau» 81 (2015), pp. 114-119; Th. Kaufmann, Die deutsche Reformationsforschung seit dem Zweiten Weltkrieg, in «Archiv für Reformationsgeschichte» 100 (2009), pp. 15-46; M. Carbonner-Burkard, Les jubilés de la Réforme. Des constructions protestantes, in Célébrer Luther ou la Réforme ? 1517-, Labor et fides, Genève 2014, pp. 217-230.
[2] In alcuni casi una prospettiva decostruttiva arriva persino a mettere radicalmente in discussione la pertinenza dell’evento “Riforma” in quanto tale. Cfr. come esempio i dati ripresi da A. Schubert, Wie die Reformation zu ihrem Namen kam, in «Archiv für Reformationsgeschichte» 107 (2016), pp. 343-354.
[3] Cfr. la dichiarazione delle Chiese evangeliche tedesche in: Consiglio della Chiesa evangelica in Germania, Giustificazione e libertà. Documento base per il giubileo della Riforma 2017, EDB, Bologna 2016. Per una conoscenza dei testi comuni alle Chiese evangeliche tedesche ed alla Chiesa cattolica cfr. http://www.ekd.de/EKD-Texte/erinnerung_heilen_gt_24.html
[4] Cfr. per una prima esplorazione cfr. https://www.500-jahre-reformation.ch/en/reformationschweiz
[5] La Conferenza episcopale italiana (CEI) ha esemplarmente organizzato a Trento un convegno ecumenico in cui la Riforma è stata letta ed attualizzata in prospettiva italiana. Cfr. http://banchedati.chiesacattolica.it/pls/cci_new_v3/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=82866&rifi=guest&rifp=guest
[6] Tra la marea di pubblicazioni in materia segnalo solo alcune che ho esplicitamente frequentato anche nella stesura di questo testo. Cfr. dunque, per un’attenzione particolare al ruolo svolto dagli ordini religiosi nel tardo medioevo A. Lexutt – V. Mantey, V. Ortmann (eds.), Reformation und Mönchtum. Aspekte eines Verhältnisses über Luther hinau, Mohr Siebeck, Tübingen 2008; per una presentazione maggiormente generale cfr. W. Kinzig – V. Leppin – G. Wartenberg. (eds.), Historiographie und Theologie. Kirchen- und Theologiegeschichte im Spannungsfeld von geschichtswissenschaftlicher Methode und theologischem Anspruch, Leipzig 2004.
[7] Ciò non ha impedito a teologi contemporanei di ipotizzare un dialogo “fuori tempo” tra i due teologi. Cfr. tra i lavori pionieristici in questo ambito S. Pfürtner, Luther und Thmoas im Gespräch. Unser Heil zwischen Gewissheit und Gefährdung, Kerle Verlag, Heidelberg 1961; di permanente attualità è rimasta la ricerca di O.H. Pesch, Theologie der Rechtfertigung bei Martin Luther und Thomas von Aquin: Versuch eines systematisch-theologischen Dialogs, Ostfildern 1985. Per un esame dell’incontro-scontro tra Lutero ed il cardinal Cajetano cfr. Ch. Morerod, Cajetan et Luther en 1518. Edition, traduction et commentaire des opuscules d’Augsbourg de Cajetan. 2 Tomes, Cahiers œcuméniques 26, Fribourg 1994.
[8] Per un esame delle fonti del pensiero teologico di Zwingli cfr. U. Gäbler, Huldrych Zwingli. Eine Einführung in sein Leben und sein Werk, Beck Verlag, München 1983; W.P. Stephens, Zwingli. Einführung in sein Denken, TVZ Verlag, Zürich 1997. In italiano si veda F. Schmidt-Clausing,: Zwingli. Riformatore, teologo e statista della Svizzera tedesca, Claudiana, Torino 1978.
[9] Cfr. WA 6, 380, 23, 26.
[10] Enar. in Ps. 31.2.4.
[11] Cfr. su questa categoria cfr. M. Miegge, Sulla politica riformata: “vocatio” e “foedus”, in Modernità, politica e protestantesimo, Claudiana, Torino 1994, pp.152-154. Cfr. anche C. Malandrino, Teologia federale, in «Il Pensiero Politico» 32 (1999), pp. 427 – 446.
[12] La EKD evoca esplicitamente la teologia anselmiana in una sua pubblicazione tesa ad attualizzare la nozione di redenzione. Cfr. Die Bedeutung von Leiden und Sterben Jesu Christi. Ein Grundlagentext des Rates der Evangelischen Kirche in Deutschland (EKD), Güterloher Verlagshaus, Gütersloh 2015.
[13] D’ora in poi WA, consultabile parzialmente su http://www.lutherdansk.dk/WA/D.%20Martin%20Luthers%20Werke,%20Weimarer%20Ausgabe%20-%20WA.htm, ultima consultazione 01.02.2018.
[14] Consultabile su https://archive-ouverte.unige.ch/unige:650, ultima consultazione 01.02.2018.
[15] Cfr. soprattutto WA 45, 11-24.
[16] WA 30/1, 90. Le sottolineature sono di Lutero stesso. Su tutta la tematica cfr. C.-D. Osthövener, Erlösung. Transformationen einer Idee im 19. Jahrhundert, Mohr Verlag, Tübingen 2004.
[17] La letteratura su questa tematica è immensa, a causa anche della sua interpretazione, della sua complessa recezione lungo i secoli che hanno seguito il sedicesimo, ed a causa anche di un suo chiaro abuso durante gli anni dell’imperialismo tedesco dapprima e della dittatura nazista poi. Per una corretta presentazione ci si può affidare oggi soprattutto a U. Duchrow, Christenheit und Weltverantwortung, Klwett-Cotta Verlag, Stuttgart 19837; J. Heckel, Lex charitatis. Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1973. Ricchi di spunti interpretatori sono anche i Lutherstudien, Mohr Verlag, Tübingen 1971-1985 di Gerhard Ebeling. Oggi solo il primo volume è rimasto in commercio.
[18] Per una prima presentazione di questa distinzione rimando ai seguenti volumi collettanei: E. Kinder – K. Haendler, Gesetz und Evangelium, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1968; S. Pinckaers – L. Rumpf, Loi et Evangile. héritages confessionnels et interpellations contemporaines, Labor et Fides, Genève 1982.
[19] Cfr. WA 1, 105, 25.
[20] Ibidem.
[21] Cfr. WA 40, 1, 309, 8. Riprendo il testo originale, come era uso a quel tempo, in una mescolanza di latino e di tedesco, segnale del carattere orale delle considerazioni di Doctor Martinus: «Majoritas regendi officium, usus bey sich haben iram, quia sine ira non potest geri nec res pacis nec belli. Præceptor, magistratus, princeps, œconomus nisi irascatur, nihil valet. Ideo ira tam necessaria in magistratu ut unquam alia virtus. Ideo debet esse tam modesta, non puerilis et muliebris, qui petat vindictam. Pater, præceptor, non sic corrigit, ut vindictam, sed spectat vitium, quod vult emendare. Sic mater etc….Das sind bonæ iræ i.e. zeli ubi in fratre vel subdito volo purgare non qu ro pernitiem, comodum, eruditionem, mores. Das heist ira bona et not, ubi non stehts nicht wol ».
[22] Cfr. WA 1, 160, 27, come pure WA 3, 427, 4.
[23] Cfr. WA 40, 1, 481.
[24] Sul tema classico del “simul justus et peccator” cfr. K.O Nilson, Simul. Miteinander der Göttlichen und Menschlichem in Luthers Theologie, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1966.
[25] Cfr. sua voce “Lutero”, in Enciclopedia delle religioni, Vallecchi ed., Firenze 1971, vol. 3, qui a p. 1746.
[26] Cfr. WA 4, 134, 29.
[27] Cfr. WA 4, 32, 69.
[28] Cfr. nei confronti di Karlstadt in WA 18, 167, 27.
[29] Sembra mancare, almeno fino ai nostri giorni, una presentazione globale e sistematica del pensiero etico di Calvino. Ciò è dovuto anche alla dispersione dei suoi scritti in cui si ritrovano elementi della sua concezione dell’etica, ed al fatto che la Institutio, opera sistematica, ü rimasta relativamente unica nel suo genere e non può essere facilmente messa a paragone con altre sintesi teologiche delle prime due generazioni della Riforma. Un tentativo recentissimo propone una sistematizzazione del pensiero etico di Calvino, ma ne ho potuto prendere conoscenza quando questo saggio era già definitivamente redatto. Cfr. F. Dermange, L’éthique de Calvin, Labor et Fides, Genève 2017.
[30] Cfr. Les actes de la journée impériale, tenue en la cité de Regenspourg, autrement dicte Ratisbonne, l’an 1541, sur les differens qui sont aujourd’huy en la Religion, in Opera Calvini CO, 5, 575.
[31] Cfr. nell’edizione Jean Martin, Lyon 1525, qui al l. III, ch. 4.
[32] Per un’analisi dettagliata di queste varie tendenze interne alle comunità riformate presenti in Europa cfr. C. Malandrino – L. Savarino (eds.), Calvino e il calvinismo politico, Claudiana, Torino 2011; M. Hofheinz, Johann Calvins theologische Firedensethik, Kohlhammer Verlag, Stuttgart 2012.
[33] Cfr. Institutio, IV, 20, 23. Per una presentazione del pensiero di Calvino nel suo sviluppo biografico cfr. H. Bost, Calvin lecteur de Romains 13, in M. M. Fragonnard – M. Peronnet (eds.), Tout pouvoir vient de Dieu…, Actes du 7e colloque Jean-Boisset, Sauramps, Montpellier 1993, pp. 140-61; M. Engammare, Calvin monarchomaque ? Du soupçon à l’argument, in «Archiv für Reformationsgeschichte» 89 (1998), pp. 207-226; P.A. Mellet (ed.), Et de sa bouche sortait un glaive : les monarchomaques au XVIe siècle Actes de la journée d’étude tenue à Tours en mai 2003, Droz, Genève 2006; P.A. Mellet, Le roy des mouches à miel: tyrannie présente et royauté parfaite dans les traités monarchomaques protestants (verso 1560-vers 1580), in «Archiv für Reformationsgeschichte» 93 (2002), pp. 72-96.
[34] Per un ulteriore approfondimento delle posizioni dei monarcomachi cfr. I. Bouvignies, Le droit de résistance et le fondement moral de la politique, in «Revue de théologie et philosophie» 136 (2004), pp. 209-230; H. Daussy, Les huguenots et le roi. Le combat politique de Philippe Duplessis-Mornay (1572-1600), Droz, Genève 2002. Tra le pubblicazioni meno recenti cfr. E. Fuchs – Chr. Grappe, Le droit de résister. Le protestantisme face au pouvoir, Labor et Fides, Genève 1990, come pure P.-A. Mellet (ed.), “Et de sa bouche sortait un glaive”: Les Monarchomaques au XVIe siècle. Actes de la journée d’étude tenue à Tours en mai 2003, Droz, Genève 2006. Per un accesso diretto ai testi cfr. P.-A. Mellet (ed.), Les traités monarchomaques. Confusion des temps, résistance armée et (1560 – 1600), Droz, Genève 2007; S. Bildheim, Calvinistische Staatstheorien. Historische Fallstudien zur Präsenz monarchomachischer Denkstrukturen im Mitteleuropa der Frühen Neuzeit, Peter Lang, Bern-Frankfurt am Main 2001 ; J. Racine St. Jacques, L’honneur et la foi. Le droit de résistance chez les Réformés français (1536-1581), Droz, Genève 2012. Per una recente presentazione globale ed attenta alle varianti confessionali cfr. P. Foresta, Concilio e diritto di resistenza agli esordi della Riforma protestante, in «Revue d’histoire ecclésiastique» 112 (2017), pp. 91-125.
[35] Cfr. S. Bologna, La Chiesa confessante sotto il nazismo: 1933-1936, Feltrinelli, Milano 1967.
[36] Cfr. il testo in italiano ritrovabile in K. Barth, Esistenza teologica oggi!, ed. F. Ferrario, Claudiana, Torino 2015. Per un esame delle radici classiche luterane in Bonhoeffer poi evolute lungo la sua vita rimando al mio: Autour de la réception catholique de l’éthique politique de Bonhoeffer, in «Revue d’éthique et de théologie morale» (2007), pp. 115-125.
[37] Cfr. la cosiddetta dichiarazione o concordia di Leuenberg. Essa è consultabile presso : http://www.pftim.it/ppd_pftim/1027/materiale/Concordia%20di%20Leuenberg.pdf , ultima consultazione 01.02.2018
[38] La bibliografia al riguardo è immensa. Rimando al mio Teoria critica ed etica cristiana, EDB, Bologna 1979.
[39] Cfr. il volume collettaneo L. Scheffczyk (ed.), Erlösung und Emanzipation, Herder Verlag, Freiburg i. Br. 1973. Cfr. anche Th. Vgl. Pröpper, Erlösungsglaube und Freiheitsgeschichte. Eine Skizze zur Soteriologie, Kösel, München 19913 ; Id. : Evangelium und freie Vernunft. Konturen einer theologischen Hermeneutik, Herder Verlag, Freiburg i. Br. 2001.
[40] „Das Gesetz ist nichts anderes als die notwendige Form des Evangeliums, dessen Inhalt die Gnade ist”, in K. Barth, Evangelium und Gesetz (1935), ora in Rechtfertigung und Recht. Christengemeinde und Bürgergemeinde. Evangelium und Gesetz, TVZ Verlag, Zürich 1998.