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Redemption and reconciliation. The theological-political comparison between Hegel and Schleiermacher
This paper examines the concept of redemption as understood by Hegel and Schleiermacher. Both authors conceive of redemption in dialectical terms, and their ideas are deeply rooted in the history of philosophical and Judeo-Christian thought. They both want to maintain a reciprocal relationship between subjectivity and universality, and devote considerable attention to the essence of the idea of Christ’s incarnation. However, the Hegelian dialectic is based on a unity which is entirely explicable in terms of an idealistic-rational sublation, while that of Schleiermacher is based on a transcendent unity which can only be fully explained in realist-existential terms.
“Il cristianesimo è una configurazione peculiare della pietà religiosa nella direzione teleologica, configurazione peculiare che si differenzia da tutte le altre perché ogni suo singolo aspetto viene riferito alla redenzione tramite la persona di Gesù di Nazareth”, scrive Schleiermacher nella Introduzione alla propria Dogmatica, la Dottrina della fede, la cui prima edizione uscì nel 1821[1]; “anche il cane ha sentimenti di redenzione, quando la sua fame è appagata da un osso” ribatte Hegel, l’anno dopo, nella Prefazione alla Filosofia della religione del suo allievo Hinrichs[2].
In questa Prefazione polemica e propositiva, quasi un manifesto delle proprie concezioni di filosofia della religione, Hegel è violentissimo, infatti, non solo contro la designazione schleiermacheriana della “pietà religiosa” in generale come “sentimento della dipendenza assoluta”, ma anche, appunto, contro la designazione in particolare della pietà religiosa cristiana attraverso la “redenzione tramite la persona di Gesù di Nazareth”.
Tale polemica aveva per Hegel, esplicitamente, una intensa valenza politica: discutendo dei dogmi del cristianesimo si andavano a toccare i nuclei teoretici e genetici della statualità moderna e della connessa concezione di libertà, civile e politica[3]. Anche Schleiermacher, del resto, in modo differente, intendeva esplicitamente rispondere all’esigenza, decisiva nel loro tempo, di riformulare i rapporti della propria provenienza religiosa e spirituale di fronte alle sfide politiche e culturali dell’illuminismo e della modernità e tale esigenza comune è ammessa pure da Hegel, benché così polemico con la soluzione di Schleiermacher.
Le trattazioni del concetto di redenzione, nei due pensatori, dunque, all’interno delle loro differenti articolazioni di cristianesimo, filosofia e politica, possono offrire significativi spunti di riflessione su quello scorcio storico così importante per l’elaborazione teorica della statualità moderna e dei suoi rapporti con la tradizione filosofica e religiosa precedente.
Nella Prefazione a Hinrichs Hegel comincia parlando di una “pace dell’indifferenza”[4] che si è venuta a formare tra fede e ragione e le cui cause sono viste in un processo di crisi che si è esplicitato nell’illuminismo.
“L’intelletto astratto”, accusa Hegel, “si è volto con ogni determinatezza, ha svuotato la verità di ogni contenuto e non si è conservato null’altro che, da un canto, il puramente negativo stesso, il caput mortuum di essenza solo astratta, e, dall’altro, il materiale finito”[5]. Così il contenuto religioso, scisso dalla riflessione astratta, è rimasto qualcosa che si potrebbe approcciare solo in modo meramente storico o in modo meramente soggettivo e sentimentale: “la religiosità nella forma qui considerata è fuggita nel sentimento, abbandonando lo sviluppo e l’obiettività, e ha polemicamente dichiarato il sentimento come la forma esclusiva e prevalente”[6]. Ma confinare la religiosità nel sentimento, accusa Hegel, porterebbe a schiacciare il contenuto religioso, incentrato sullo spirito assoluto, all’indietro verso lo spirito soggettivo, intriso ancora di rapporti con la natura: “tra i sentimenti dell’uomo naturale si trova anche un sentimento del divino, una cosa però è il sentimento naturale del divino, altro lo spirito di Dio”[7]. Preso da questo doppio attacco, da parte dell’intellettualismo astratto, da un lato, e dalla fuga nel sentimento soggettivo-naturale, dall’altro, il contenuto religioso viene così svuotato verso una trascendenza mai attingibile concettualmente: “Dio senza determinazioni, senza predicati e attributi [è] elevato in un aldilà del sapere o piuttosto degradato ad assenza di contenuto”[8]. Sottotraccia a questa “pace insoddisfacente” tra intelletto e sentimento, che “non sembra offrire alcun fianco al pensiero per un attacco dialettico”[9], rimane però “un’ostilità”, la quale, se non risolta, “continuerebbe a marcire nel profondo dell’interiorità”[10].
La risposta che Hegel propone, a questo punto, è proprio un deciso “attacco dialettico” a tale “pace insoddisfacente” ed elogia opere come quella del suo allievo Hinrichs che contrastano la “superficie dell’epoca” coeva, nella quale “neanche ciò che si proclama filosofia, e che ha sempre in bocca il nome di Platone, ha più alcuna idea di quale sia la natura del pensiero speculativo, della considerazione dell’idea”, ponendo “il sentimento individuale e l’opinare soggettivo al posto della dottrina della fede”[11].
Nel corso di tutta la Prefazione a Hinrichs ricorre dunque quella concezione di dialettica che Hegel, nel § 31 della da poco uscita Filosofia del diritto, aveva polemicamente contrapposto ad una concezione considerata deteriore. Quest’ultimo senso deteriore, aveva scritto Hegel, “è solo un modo negativo”, “riguarda come suo ultimo risultato solo il contrario di una rappresentazione”, per quanto appaia “frequentemente anche in Platone” e di recente sia ritornato “fiaccamente” sotto forma “di approssimazione alla verità, mezza misura moderna”: la dialettica resta qui un procedimento che “dissolve, rende confuso, porta qua e là un oggetto, una proposizione ecc., dato al sentimento, alla coscienza immediata”[12]. Al contrario, “la superiore dialettica del concetto è produrre e apprendere la determinazione non meramente come termine e contrario, bensì, movendo da essa, il risultato e contenuto positivo, come quello attraverso il quale essa è unicamente sviluppo e progredire immanente”[13] (Hegel qui evidenzia solo “positivo” e “sviluppo”, ma vale la pena di sottolineare anche l’“immanente”). “A questo sviluppo dell’idea come ad attività propria della di lei ragione”, egli continua, “il pensiero come pensiero soggettivo soltanto guarda, senza da parte sua aggiungere alcun ingrediente”[14].
Così, mentre la dialettica deteriore tiene separati intellettualisticamente, o connessi solo in un’ambigua approssimazione, il soggettivo rispetto all’oggettivo, la dialettica che Hegel chiama “superiore” si ritiene invece in grado di articolarne il rapporto in un’unità compiuta. La dialettica deteriore si cura solo di mantenere la “rappresentazione” in un rapporto “negativo” con il sapere, come suo contrario, mentre la dialettica superiore sa articolare pienamente il contenuto della rappresentazione nella forma più compiuta del concetto. In questo modo, i particolari non sono più contrapposti all’universalità concettuale, bensì risultano compiutamente “prodotti” a partire da questa.
Hegel non vuole, dunque, certo rinunciare al soggettivo, al naturale, al sentimento, ma ritiene che, tramite un preciso “attacco dialettico”, beninteso di dialettica “superiore”, essi debbano pienamente “riconciliarsi” con l’oggettivo, lo spirituale, il concetto, senza rimanere in statiche fratture o in ambigue approssimazioni.
Più volte ricorrente nella Prefazione a Hinrichs è, infatti, il termine “riconciliazione” (Versöhnung) (mentre “redenzione” [Erlösung] si riscontra una sola volta – nel passo citato in cui essa viene, nel cane, appagata dall’osso): Hegel raggiunge anzi toni, per lui inconsueti, quasi profetici quando scrive che l’“energia infinita, che il principio del conoscere possiede in sé e in cui si trova la possibilità più profonda della sua futura riconciliazione con la fede, si ribellerà alla coazione del regno finito dell’intelletto”[15]. La riconciliazione torna anche alla fine dello scritto, quando Hegel lascia la parola al suo allievo: “La scienza mi sottrasse l’elemento rappresentativo, nel quale ero abituato a contemplare la verità, e, cosa c’era di più naturale che sforzarmi di superare la scissione profonda e la somma disperazione provocata in me dalla scienza e guadagnare così la riconciliazione nell’elemento del sapere?”[16].
Ai “sentimenti di redenzione” schleiermacheriani, eccessivamente affetti da immediatezza, da soggettività sentimentale, Hegel oppone dunque una “riconciliazione” come passaggio mediato attraverso una scissione, uno scontro dialettico, fino a giungere a un compiuta unità articolata di fede e sapere. La Prefazione a Hinrichs è così firmata “Berlino, il giorno di Pasqua 1822” e tale indicazione non appare affatto casuale: è evidentemente alluso il superamento dogmatico del venerdì santo speculativo, la morte della fede come mera affezione soggettiva e la sua resurrezione nell’identità di contenuto con il concetto. Difficilmente Hegel non poteva non avere in mente, qui, il suo scritto Fede e sapere del 1801, che si concludeva proprio con i concetti di venerdì santo e di resurrezione speculativi, proponendo una reinterpretazione dialettica della dogmatica pasquale cristiana di fronte alla frattura illuministica di fede e sapere, i cui diversi passaggi erano visti in Kant, Fichte, Jacobi e appunto Schleiermacher, ai cui Discorsi sulla religione erano già riservati violenti strali polemici per mantenere un appaiamento considerato insoddisfacente di sapere e fede[17].
Hegel tende, dunque, a leggere la “redenzione” della fede cristiana a partire dalla sua “riconciliazione” con il sapere. Il rapporto della “redenzione” con la “riconciliazione” – termini entrambi, nel cristianesimo, di origine paolina – risulta, infatti, stretto nei vari corsi hegeliani di filosofia della religione[18]: varie volte i termini sono usati in coppia, in un contesto, comunque, di netta prevalenza, non a caso, del secondo termine sul primo.
Nel manoscritto del 1821, Hegel dice, parlando della religione mussulmana, che in essa vi è una “condizione del timore di Dio, del sentimento fondamentale della sua dipendenza, cioè della schiavitù”, laddove “un essere al servizio dell’Uno implica l’illimitatezza e la fluidità di ogni sussistere. Questa accettazione vale una volta per tutte e ciò che subentra al posto della riconciliazione, della redenzione, è una accettazione in sé già avvenuta in generale – una scelta gratuita, senza libertà”[19]. A proposito di un’altra religione del mondo “orientale”, l’induismo, nel resoconto di Strauss delle lezioni del 1831 si dice che in essa “è non redenzione affermativa, ma redenzione negativa della finitudine, ottundimento e annientamento della coscienza; invece di liberazione solo fuga dalla particolarità”[20].
Il cristianesimo rappresenta, invece, dice il manoscritto del 1821, “l’oggettività come spirito finito, la manifestazione dell’idea di lui – redenzione e riconciliazione – come storia divina e, al contempo, come toglimento dell’oggettualità esteriore in generale e, così, compimento reale dello spirito”[21]. “Il fondamento della redenzione” dunque “è quella storia, sottrarsi al naturale (Absterben zum Natürliches)”[22]. Se, invece, afferma ancora il manoscritto, “si dica, parlando di Dio, della redenzione: ‘Il mio sentimento di dipendenza, di bisogno di redenzione è la prima cosa’, in questo modo viene tolta anche la vera e propria oggettività della verità”[23]. “Se Cristo viene posto ancor sempre al centro della fede come riconciliatore e redentore”, aggiungono i quaderni degli uditori del 1827, “ciò che in altri tempi nella dogmatica ortodossa si chiamava l’opera della redenzione, ha invece acquisito un significato così fortemente psicologico e prosaico che dell’antica dottrina ecclesiale è rimasta solo la parvenza”[24].
Lungi, dunque, da restringere il carattere del cristianesimo a un rapporto di dipendenza da Dio, tramite il riferimento sentimentale con il Redentore, occorre, invece, concentrarsi sul contenuto oggettivo dell’opera della redenzione e in particolare sulla “divinità di Cristo, l’elemento dogmatico che è proprio della religione cristiana”[25], già ampiamente sviluppato “dai padri della chiesa” che “hanno studiato la filosofia greca”[26]. Tale contenuto dogmatico palesa che nella riconciliazione cristiana il rapporto oppositivo tra uomo e Dio è stato superato e il ritorno a sé dello spirito può compiutamente manifestarsi nella libertà del concetto, in cui ogni precedente aspetto sentimentale e psicologico è stato completamente “redento”[27].
La ripercussione politica di questo contenuto dogmatico si vede, come argomentano ampiamente le lezioni sulla filosofia della storia, soprattutto con la Riforma protestante, dopo un lungo periodo in cui il precedente mondo latino e greco faticava a mutarsi radicalmente secondo il nuovo principio cristiano. Con la Riforma, la piena libertà dello spirito si concretizza, dunque, anche politicamente con la nascita dello stato moderno, che ha superato la sua dipendenza dalla chiesa, dando piena realizzazione storico-politica al principio cristiano dell’immanenza di libertà e realtà.
Nell’orazione che, in qualità di rettore dell’Università di Berlino, tenne in latino, alla presenza della corte, nel solenne anniversario della Costituzione Augustana, il 25 giugno 1830, Hegel afferma così che lo stato moderno si pone come libertà istituzionale che ha integrato compiutamente al proprio interno la consapevolezza razionale di un Dio che “sia verità, ragione eterna”[28]; la coscienza della verità assoluta “non può rimanere nel recesso dell’animo ed essere preclusa dalla ragione agente e dalle istituzioni di vita”[29]: “il potere dei principi viene riconciliato con quello della chiesa, quello viene associato alla volontà divina, mentre questa abdica all’ingiusta pretesa di dominio”[30].
Derubricare il contenuto dogmatico del cristianesimo a un sentimento di dipendenza a Dio per tramite del Redentore significava, dunque, per Hegel indebolire essenzialmente il contenuto di libertà razionale oggettiva che il cristianesimo veicolava e, senza questo contenuto oggettivo, sedimentatosi nell’ethos dello stato moderno, lo stato moderno stesso poteva collassare nelle sue tensioni interne, perché le libertà dei singoli cittadini non sarebbero state più in grado di “redimersi”, “riconciliarsi” e superarsi nella sfera statale superiore[31].
Le ambiguità della ragione finita illuministica si ripercuotevano, infatti, secondo Hegel, dalle insufficienze della concezione generale della verità alla concezione irrisolta della comunità politica. Così la “pace insoddisfacente” tra “intelletto astratto” e “fede interiore” in sede di rapporto con la verità promuoveva, nell’ambito dello spirito oggettivo, un contesto di separazione tra legge giuspubblicistica solo formale, da un lato, e convinzioni solo interiori, dall’altro. Il processo di riflessione illuministica, dunque, se non affrontato fino in fondo dalla ragione dialettica, rischiava di produrre un riflusso all’indietro della storia: la religione cristiana rischiava di perdere il suo ruolo di religione della libertà razionale dispiegata e si sarebbe ritornati alla religione come veicolo di schiavitù e dipendenza, tipico, secondo Hegel, del mondo orientale.
Una soluzione produttiva si poteva avere, invece, secondo Hegel, solo mettendo in rilievo la riconciliazione, a livello di contenuto, tra la legge pubblica e la convinzione interiore in un unico processo etico, conclusivamente statuale. Centrale per Hegel diveniva, dunque, il fatto che le comunità religiose e scientifiche dovevano ammettere il ruolo statale, non solo formale, di primazia complessiva, cedendo ad esso tutti i propri contenuti propriamente etici.
Hegel pensava alla religione e alla scienza come elementi essenziali di stutturazione unitaria dell’eticità moderna, nello snodo tra il civile e il politico – e, non a caso, nei diversi corsi berlinesi di filosofia della religione accentua sempre più l’aspetto comunitario del cristianesimo[32]; la sua interpretazione del dogma cristiano trinitario come libera razionalità dispiegata doveva, allora, supportare lo snodo tra libertà civile e potere politico[33], mentre l’integrazione compiuta tra chiesa e stato veniva a rispecchiare, a livello di spirito oggettivo, quella di religione e filosofia razionale, a livello di spirito assoluto[34].
Il problema, però, era che questo snodo tra la libertà civile e la statualità si andava comunque a concludere stutturalmente, sul piano oggettivo, con una forte gerarchizzazione sul politico, sia a livello interno, sia a livello esterno[35]. In primo luogo, così, le libere comunità dello spirito assoluto, le religiose, ma anche le scientifiche, le une e le altre per loro natura sovra-nazionali e refrattarie a rimanere racchiuse in un unico ambito statuale, dovevano invece accettare la subordinazione, nel piano mondano dello spirito oggettivo, allo stato inteso anche in senso politico[36]; in secondo luogo, il passaggio dallo spirito oggettivo a quello assoluto si configurava in una filosofia della storia dai marcati contorni bellicistici tra popoli-stati, oscillante tra l’esibita certezza che i conflitti principali fossero già confinati nel passato, da un lato, e una continua preoccupazione che i conflitti e le tensioni dialettiche non fossero affatto finite, dall’altro[37]. In tutto l’ultimo periodo, Hegel appare, infatti, oscillare tra, da un lato, un’esibita certezza che lo stato moderno, almeno nel mondo protestante, ha compiutamente “riconciliato” le tensioni dialettiche di cui è il risultato, e, dall’altro lato, l’altrettanto esibita preoccupazione che anche nello stesso mondo protestante contemporaneo permangano ancora pericolose tensioni dialettiche come quella tra l’illuminismo radicale, da una parte, e il “sentimentalismo” alla Schleiermacher, dall’altra. E sappiamo bene, d’altra parte, come di fatto nella storia dello hegelismo prevalsero spesso visioni che utilizzarono il suo metodo storico-dialettico per giustificare nuove conflittualità o, nella linea politicamente di destra, rispetto alla conflittualità tra popoli-stati, o, nella linea politicamente di sinistra, rispetto alla conflittualità tra classi. Entrambe le linee insistevano che per combattere l’individualismo e il sentimentalismo occorresse radicalizzare i conflitti fino a giungere a una risoluzione compiutamente universale[38].
Una volta aver delineato i violenti attacchi di Hegel a Schleiermacher, sui piani filosofico, teologico e politico, cerchiamo ora, anche alla luce di queste sollecitazioni, di riconsiderare le questioni trattate dal punto di vista di Schleiermacher.
Filosoficamente parlando, in effetti Schleiermacher non considera possibile per la conoscenza umana un sapere assoluto, il sapere umano resta finito e su questo egli rimane più vicino di Hegel ai confini illuministico-kantiani. Parallelamente, la concezione della dialettica in Schleiermacher configura, proprio come nell’accusa hegeliana del § 31 della Filosofia del diritto, un sapere per approssimazione, sulla linea della philo-sophia del Convito platonico[39].
Occorre dire, comunque, che Schleiermacher, nelle proprie lezioni di dialettica, non concepisce una frattura totale e statica tra fenomeno e noumeno: la conoscenza scientifica, infatti, per quanto finita e parziale, mai assoluta e totale, è comunque reale e in un processo di miglioramento infinito per continua approssimazione configura sempre meglio una visione scientifica dinamica del mondo circostante al soggetto conoscitivo. L’idea di mondo, dunque, è, per Schleiermacher, nel contempo regolativa e costitutiva in senso dinamico, un termine ad quem asindotico dell’intero sapere scientifico in movimento[40].
Schleiermacher, dunque, non entra, come Hegel, in un circolo integralmente idealistico di soggetto ed oggetto, nella sua dialettica il soggetto e l’oggetto, il conoscere e la realtà restano due ambiti distinti anche se correlati. Egli intende il processo scientifico come una sempre migliore interazione di essi che renda sempre più conto della realtà attraverso la capacità designativa del conoscere: tra conoscere e realtà, pensiero ed essere, rimarrà però sempre – come in tutte le prospettive non idealistiche – un’interazione, sempre più precisa, mai un’identità assoluta[41].
La corrispondenza parziale, relativa, di pensiero ed essere è garantita da Schleiermacher da un sentimento fondamentale che, nel momento in cui avverte proprio la relazione realistica del conoscere, relativizza la differenza, altrimenti assoluta, tra pensiero ed essere, coscienza e realtà. Tale sentimento permette di collocare i rapporti soggettivi con il mondo su una base coscienziale indivisa, immediata, una compiuta consapevolezza di sé, un’autocoscienza. Si tratta però di un sentimento, non di un concetto, perché è immediato, non riflesso, e perché si avverte che la corrispondenza di pensiero ed essere è appunto relazionale, parziale, relativa, non totale, ossia i due termini – pensiero ed essere, conoscenza e realtà, soggetto e mondo, conoscente e conosciuto – mantengono una loro relativa differenza di piani mai completamente eliminabile[42].
Per questo, secondo Schleiermacher, il rapporto relativo di pensiero ed essere rimanda, come referente finale del sentimento di tale relatività, ad una dimensione superiore tanto al pensiero che all’essere, dimensione superiore che sia da un lato l’origine comune di entrambi e, dall’altro lato, non possa essere confinata né nell’uno (il pensiero, il soggetto), né nell’altro (l’essere, il mondo). La coscienza soggettiva, di fronte al rapporto di libertà e dipendenza relativa che intrattiene con il mondo, argomenta Schleiermacher nell’Introduzione alla Fede cristiana, si relaziona a questa superiore dimensione nei termini di una dipendenza assoluta, perché avverte contemporaneamente tanto se stessa quanto il mondo come provenienti da un’origine superiore ed irriducibile ad entrambi. “La locuzione Dio” indica per approssimazione proprio questa “provenienza [Woher] della nostra esistenza [Dasein] passiva e spontanea”[43].
Tale sentimento specifico non è equivocabile, dunque, né con un primitivo sentimento animale – nel quale coscienza e mondo sono ancora tra loro confusi – né con un qualsiasi altro sentimento umano – nel quale il rapporto tra coscienza e mondo è sempre cosituito in una reciprocità relativa di libertà e dipendenza: si tratta invece di un sentimento che supera la reciprocità di libertà e dipendenza che caratterizza la relazione coscienziale nel mondo e si qualifica come dipendenza assoluta verso una dimensione irriducibile tanto al mondo quanto alla coscienza[44].
Questo snodo dialettico Schleiermacher lo ritrova già nella tematica platonica dell’agathón di Repubblica, 509b. Commentando questo passo nelle proprie lezioni di storia della filosofia, egli scrive, infatti, che “Platone pone questa unità delle opposizioni come un’unità assoluta, come il theós e agathón che si libra al di sopra di ousia ed epistéme. In questo modo la sua dialettica non è solo, come lato formale, lo specchio del lato reale, etico e fisico, ma anche il principio euristico dell’assoluta unità, ossia l’idea della divinità che egli sempre presuppone soltanto, nelle sue esposizioni etiche e fisiche, ma qui evoca (…) Essere giunti, con questo percorso, all’idea di divinità mostra come ogni filosofia ellenica debba essere teistica”[45].
Il sentimento di dipendenza assoluta, ossia il sentimento pio, dunque, continua Schleiermacher nell’Introduzione alla Fede cristiana, è da un lato superiore al sentimento comune che caratterizza i rapporti coscienziali relativi con il mondo, dall’altro lato, come ogni sentimento, non è mai completamente esprimibile in termini concettuali, anzi, dato che qui si toccano i limiti estremi della coscienza stessa nel suo complesso, la capacità concettuale tocca qui ancor più i propri limiti di esprimibilità. Ecco perché le stesse filosofie teistiche come quella platonica riescono a descrivere solo in astratto la relazione verso la trascendenza, mentre le religioni concrete offrono sempre una modalità storico-reale, in termini sentimentali-esistenziali, di tale relazione, modalità mai compiutamente descrivibile in forme puramente concettuali e universali[46]. Il “sentimento pio” si configura, infatti, come “un rapporto esistenziale immediato” (ein unmittelbares Existentialverhältniß)[47], dice Schleiermacher, mai riducibile integralmente a un concetto o a un ragionamento che presuppongono sempre delle comunanze mediate.
Il sentimento della dipendenza assoluta, prosegue l’Introduzione alla Fede cristiana, nelle religioni monoteistiche ottiene la massima purezza, perché la dimensione superiore è vissuta come integralmente trascendente a qualsiasi elemento coscienziale o mondano, ossia come rapporto verso l’unico Dio, mentre nei livelli storicamente inferiori – il feticisimo o il politeismo – il rapporto religioso è vissuto verso frammenti di tipo mondano o di tipo coscienziale (un singolo animale considerato come divinità, ma anche la dea dell’amore, il dio del mare ecc.)[48].
In tutte le religioni, comunque, – così come in tutte le filosofie teistiche come quella platonica – la coscienza della propria dipendenza dalla trascendenza non può mai darsi in modo completamente puro dai propri rapporti relativi con il mondo, almeno in questa vita coscienziale. Ecco dunque che insieme alla coscienza del proprio rapporto con la trascendenza nasce un senso di impedimento che il proprio rapporto relativo con il mondo frappone alla completa e definitiva relazione alla trascendenza stessa (si vedano, in questo senso, i miti platonici legati alla “caduta”).
Nelle religioni monoteistiche che Schleiermacher chiama “teleologiche”, come l’ebraismo e il cristianesimo, la superiore relazione alla trascendenza divina produce nel rapporto relativo tra coscienza e mondo il dovere della prima di agire nel modo il più possibile libero, come volontà, nei confronti del secondo (laddove nelle religioni che Schleiermacher chiama “estetiche”, come il paganesimo, avviene il contrario: il rapporto religioso si attua dando il più possibile prevalenza alla passività della coscienza verso il mondo, come piacere, rimuovendo il più possibile quella libertà che costituisce l’impedimento ad un senso di armonia con il mondo stesso)[49].
Nella religione monoteistico-teleologica cristiana, in particolare, l’impedimento ad accogliere completamente il rapporto con Dio è definito come peccato, mentre il superamento di tale impedimento, definito “redenzione”, è necessariamente comportato dalla figura caratterizzante tale religione, il Redentore universale, Gesù di Nazareth: per i cristiani “redenzione” “significa in generale un passaggio da uno stato negativo, che viene raffigurato come un essere prigioniero, a uno migliore, e questo è il lato passivo del trapasso, ma poi significa anche l’aiuto da un altro per tale passaggio, e questo è il lato attivo”[50].
Il riferimento al Redentore resta per Schleiermacher a segnalare il fatto che il rapporto con la trascendenza divina è innanzitutto un fatto esistenziale-determinato. Con ciò non si nega affatto, bensì si ribadisce il contenuto dogmatico dell’incarnazione e della redenzione universale, perché l’incarnazione cristiana è per Schleiermacher caratterizzata esattamente dal diventare storico ed esistenziale del rapporto trascendente universale con Dio, con l’Infinito (per usare il termine dei Discorsi sulla religione); tale universalità, però, può essere vissuta solo nel modo esistenziale con cui la visse Cristo, non può essere compiutamente oggettivata in un concetto o in un ragionamento, che restano per Schleiermacher fatalmente sempre troppo astratti[51].
Anche l’attività riconciliatrice di Cristo, come quella redentiva, deve essere rivissuta dal credente a livello esistenziale, in quanto “il Redentore eleva i credenti al potenziale della sua coscienza di Dio, e questa è la sua attività redentrice”[52] e “il Redentore eleva i credenti alla comunione (Gemeinschaft) con la sua intatta beatitudine, e questa è la sua attività di riconciliazione”[53]. Il contenuto dogmatico della riconciliazione di Cristo come Redentore universale è dunque visto da Schleiermacher nel fatto che l’esistenza umana non resta più irrelata o ostile alla trascendenza assoluta di Dio, bensì tale trascendenza viene comunicata all’esistenza stessa, tramite il Redentore incarnato. Non si tratta ovviamente anche qui di una comunicazione meramente logico-concettuale, bensì di una comunicazione esistenziale, che solo come tale è compiutamente reale ed esperibile.
Il cristianesimo si caratterizza, dunque, per una tensione mai risolvibile in modo meramente logico tra la storicità determinata del Redentore, da un lato, e la funzione universale della redenzione, dall’altro[54]. Una tensione dialettica tra storicità ed universalità resta, infatti, per Schleiermacher, ineliminabile in ogni vicenda religiosa ed etica, volerla risolverla unitariamente a favore della universalità non farebbe che snaturarla: perché resterebbe in mano non l’unità piena, che resta sempre trascendente, ma solo una generalità astratta[55]. L’Infinito, Dio, resta dunque per Schleiermacher un riferimento trascendente che l’individuo tiene sempre presente nella sua tensione etica e redentiva, tra storicità ed universalità, senza che questa redenzione possa mai costituirsi in un modo soltanto logico-immanente, come in Hegel.
A partire da Cristo come Redentore universale, Schleiermacher circoscrive così la propria concezione di ortodossia cristiana della redenzione di fronte a limiti opposti che possono riguardare sia la natura umana in relazione alla redenzione, sia il Redentore in quanto tale. “Se si inclina troppo ad escludere il peccato dall’ambito della dipendenza assoluta da Dio”, dice Schleiermacher, “si sfiora inevitabilmente il manicheismo”[56], perché “si ammette come originaria e contrapposta a Dio, una realtà in sé del male, e si pensa la natura umana prigioniera di quell’incapacità in forza di un potere che questo principio originario esercita su di essa”[57]; viceversa, “se si vuole accordare (vertragen) il peccato con la perfezione originaria dell’uomo a stento si può evitare il pelagianesimo”[58], perché qui “la capacità di accogliere la redenzione viene ammessa in modo così radicale (…) che (…) il bisogno di redenzione diventa tanto vicino allo zero da non aver più il bisogno di un Redentore singolo”[59].
La soluzione propriamente cristiana del nesso peccato/redenzione, a questo punto, è vista da Schleiermacher trattando da un lato “il peccato come ciò che non sarebbe esistito se non ci fosse dovuta essere anche la redenzione” e “allora si dilegua qualsiasi necessità di avvicinarsi al manichesimo”, e, dall’altro lato, considerando “anche il peccato come ciò che dovendo sparire, lo può solo mediante la redenzione”, ottenendo, così, che “partendo da questa visione potremmo quasi solo per temerarietà cadere nel pelagianesimo”[60].
Il pelagianesimo, infatti, che intende accordare in termini puramente universali il rapporto storico-determinato con la redenzione, fa cadere completamente la condizione di peccato che invece è necessaria al rapporto redentivo in questa vita; viceversa, impostazioni come quelle dei manichei considerano la natura umana in quanto tale come irredimibile e il peccato non è compreso nella sua consistenza meramente funzionale e subordinata alla redenzione (dal punto di vista storico-culturale, il pelagianesimo esclusivizza, dice Schleiermacher, la componente ellenizzante del cristianesimo, mentre i manichei ne estremizzano quella orientale[61]).
Questo rapporto tra peccato e redenzione si avvicina a quanto, nei Discorsi sulla religione, si dice della “sacra mestizia” (heilige Wehmut, espressione ricavata da Klopstock) come il “tono dominante” “di “tutti i sentimenti religiosi” del “cristiano”[62]. La stessa intensità del rapporto con l’Infinito fa sentire profondamente tutte le ristrettezze della relazione con il mondo finito: “la corruzione e la redenzione, l’inimicizia e la mediazione, sono questi i due aspetti, tra loro legati inscindibilmente”, “dell’intuizione fondamentale del cristianesimo”[63], si dice nei Discorsi, e già qui questo non significa affatto rifiuto del mondo, bensì confronto continuo con esso alla luce del rapporto superiore con l’Infinito, per redimere, partendo dall’Infinito stesso, quanto altrimenti rimarrebbe solo corruzione.
Tale rapporto con l’Infinito, però, non è quello di una legge morale puramente formale o universale, la specificità dell’impostazione schleiermacheriana è che il rapporto oppositivo teologico-religioso tra peccato e redenzione, così come i rapporti oppositivi etici (tra vizio e virtù, tra trasgressione e dovere, tra male e bene), vanno vissuti esistenzialmente nella propria peculiare individualità.
Sul piano etico, ogni singolo deve affrontare quanto della sua peculiarità più propria può trasformarsi in un apporto significativo e intrasferibile al bene complessivo dell’umanità, il sommo bene, e quanto rappresenta invece solo una generica zavorra egoistica che si frappone allo sviluppo di tale apporto; analogamente, sul piano teologico, ogni cristiano, affrontando continuamente il peccato a partire dalla redenzione, partecipa, secondo le proprie possibilità, ad un’unitaria pneumatologia redentiva, costituita dall’apporto intrasferibile di ogni credente nel corpo mistico complessivo[64]. La “riconciliazione” cristiana prospetta, dunque, la possibilità di vivere la propria naturalità e la propria storicità determinate non più come impedimenti ma come contributi specifici di una comunità con Dio: con ciò, però, la naturalità e la storicità particolari non sono “tolti” in modo immanente, bensì vissuti più veracemente in relazione con la trascendenza dell’Infinito. Ecco perché Schleiermacher intende mantenere un significato specifico a quegli aspetti psicologico-naturalistici e storico-particolari che Hegel considera invece meramente contingenti di fronte alla logica dell’incedere spirituale immanente[65].
Se Schleiermacher combatte con forza, dunque, fin dai Discorsi, ogni concezione della religione come mera stampella per giustificare, nella proiezione retributiva di un altro mondo, le ingiustizie etiche e politiche del mondo attuale, egli sottolinea invece che la saldezza del rapporto con l’Infinito rende più sicuri e attivi nel promuovere, qui e ora, il bene come apporto specifico di ognuno alle realizzazioni spirituali dell’umanità tutta, rispetto al male, inteso come vuoto egoismo fine a se stesso (egoismo di singoli o egoismo di comunità); tale egoismo va continuamente combattuto e “redento” in termini spirituali-comunitari, anche a prezzo della sofferenza che può sorgere dall’infragerlo[66]. Lo stesso Cristo, come viene chiaramente detto nel quinto discorso, affontò il dolore del mondo, non certo per rifiutare il mondo stesso, bensì per redimerlo. La religione aiuta così a liberare la morale “dall’invidia e dall’orgoglio dispotico”[67], promuovendo invece un rapporto cooperativo verso l’ambiente circostante, gli altri individui, le molteplici comunità etiche[68]. Questo è il legame profondo tra la filosofia della religione dei Discorsi e l’etica propositiva dei Monologhi, della Critica della morale e degli scritti successivi[69].
Si tratta ancora una volta di uno schema dialettico di origine platonica, rinforzato però da una maggiore attenzione, comportata, sottolinea Schleiermacher, dal cristianesimo, alla tensione tra storicità esistenziale e visione storico-sociale progressiva. Il rapporto religioso con l’Infinito trascendente, cioè, viene vissuto in modo storico-esistenziale e rafforza, nello stesso tempo, il rapporto etico con il mondo e gli altri uomini, così come già in Platone il rapporto con le idee e l’agathón è dialetticamente connesso, e non certo slegato, con l’agire etico nel mondo sensibile. In questo senso, il rapporto religioso di dipendenza assoluta con l’Infinito, non si trasforma affatto in schiavitù nelle interazioni reciproche con il mondo e con gli altri uomini, bensì promuove un agire collaborativo e non egoistico, come Schleiermacher argomenta anche nella predica di introduzione alla celebrazione della Confessione di Augusta, basata sul testo di I Cor., 7, 23: “siete stati riscattati a caro prezzo, non diventate schiavi degli uomini”[70]. Non per nulla, come si è visto, Schleiermacher sottolinea che il cristianesimo, come l’ebraismo, è una religione “teleologica”.
Già nei Discorsi Schleiermacher appare non certo meno preoccupato di Hegel verso gli sviluppi nichilistici delle individualità moderne nelle morali utilitaristiche, laddove “i superbi isolani (…) non conoscono altra parola d’ordine che guadagnare e godere”[71], “nell’uniforme susseguirsi di un morto affaccendarsi”[72]. Hegel ritiene, come si è visto, che la risposta a tale svuotamento individualistico vada trovata in contenuti universali unitari, sia a livello politico-sociale, sia a livello teoretico-razionale, i quali siano in grado, come egli si esprime nel § 31 della Filosofia del diritto, di produrre dialetticamente i propri particolari. Schleiermacher ritiene invece che occorra lavorare innanzitutto all’interno delle stesse peculiarità individuali, per non lasciarle allo svuotamento egoistico, e valorizzarne, invece, gli apporti intrasferibili agli ambiti sociali e spirituali complessivi.
Rispetto alla filosofia sociale, come abbiamo visto, Hegel insiste, quindi, sull’unitaria progressione gerarchica dell’eticità verso la comunità politica, che sola, a suo avviso, può garantire la relativizzazione dei conflitti interni tra gli individui, aprendosi, però, nel contempo, alla conflittualità esterna che viene lasciata come momento caratterizzante lo sviluppo storico.
Schleiermacher, al contrario, lavorando maggiormente sugli apporti specifici che ogni individuo può dare alle diverse comunità giunge ad una strutturazione sociale non gerarchizzata sul politico (anche se quella politica resta ovviamente una comunità importante), relativizzando nel contempo le conflittualità tra i popoli, tramite la valorizzazione delle comunità sovranazionali, come quelle religiose e scientifiche[73]. Da questo punto di vista, egli sottolinea, molto più di Hegel, il fatto che il cristianesimo abbia rotto, in forza del carattere universale del suo messaggio di redenzione, l’esclusività politica che caratterizzava le comunità antiche[74]. Analogamente, nelle proprie lezioni di ethos cristiano, Schleiermacher si sofferma sull’“idea del diritto dei popoli che contiene il presupposto di un universale stato di diritto tra i popoli, che in questo modo si sta gradualmente realizzando”[75] sottolineando quanto siano stati qui storicamente rilevanti l’universalità del messaggio redentivo cristiano, al di là di qualunque barriera nazionale o politica, e la divisione non ostile tra comunità religiosa e stati, su cui anche i Discorsi si soffermano a lungo: le funzioni della comunità religiosa e di quella politica possono e devono stare “una accanto all’altra, ma senza intrecciarsi e confondersi”[76].
Se la dimensione politica diventa il vertice di un’ascendenza comunitaria di tipo gerarchico, per Schleirmacher, al contrario di Hegel, nasce il rischio che lo stato si chiuda nel proprio egoismo e diventi, quindi, anti-etico[77]. Per Schleiermacher, il compito dello studioso di etica non è quello di far convergere l’etica stessa nella politica, bensì di mostrare la pluralità di opzioni comunitarie – statuali ed extra-statuali – su cui l’individuo deve liberamente compiere le proprie scelte contenutistiche[78]. E’ ovvio che questo dà uno spettro maggiore di scelta alla morale individuale (uno spettro maggiore in cui Hegel vedeva pericoli di anarchia): per Schleiermacher è impossibile convogliare unitariamente alla direzione politica una area di libertà che non può che rimanere più ampia: il contrasto male/bene non può alla fine che essere affrontato esistenzialmente dall’individuo, nella pluralità di possibilità comunitarie che si oppongono al mero egoismo regressivo, così come il contrasto religioso peccato/redenzione non può che rimanere un fatto esistenziale, prima che scientifico o politico.
L’anno dopo l’arrivo di Hegel a Berlino, il trentunenne Arthur Schopenhauer pubblicò, nel disinteresse pressoché generale, un libro – Il mondo come volontà e rappresentazione – che presentava una concezione per cui la “perfetta santità” era vista nella “negazione e abbandono d’ogni volere”, nella “redenzione da un mondo, la cui esistenza intera ci si presentò come dolore”, nel “passare al vuoto nulla”[79]. Schopenhauer si richiamava certo a una propria interpretazione di Lutero, del cristianesimo e della dialettica platonica ma lo faceva allo scopo di portare lucidità all’interno dei “miti” degli Indiani, come il “nirvana dei Buddisti”. Il senso di rottura con la ragione occidentale moderna, nel suo rapporto propositivo con il mondo, era radicale.
Per Schleiermacher e Hegel, invece, di fronte alle ingenti sfide dell’illuminismo e della modernità era necessario rileggere in modo dialettico, né in senso distruttivo, né in senso nostalgico, l’intera storia spirituale precedente e trovare profondi motivi di connessione tra il lungo passato e l’incerto futuro: il rapporto propositivo con il mondo andava meglio fondato, non certo negato.
La redenzione in Hegel è letta a partire dalla riconciliazione immanente della natura nello spirito, del sentimento nella ragione, della chiesa nello stato, del soggetto nell’oggetto, riconciliazione che per Hegel era essenziale per non lasciare il mondo etico e veritativo a uno svuotamento egoistico arbitrario, strisciante in una visione unilaterale dell’illuminismo; in Schleiermacher la redenzione esprime invece un riferirsi a una trascendenza assoluta che permette nel contempo un rapporto più libero e cooperativo con se stessi, con il mondo e con gli altri, combattendo, anche in questo caso, seppure in modo diverso, quello svuotamento egoistico-arbitrario che pure Schleiermacher vedeva in agguato in un illuminismo unilaterale.
Si tratta di soluzioni entrambe “dialettiche”, ed entrambe profondamente radicate nella lunga storia del pensiero occidentale, tanto rispetto alle radici filosofiche greche, quanto rispetto alle radici religiose ebraico-cristiane. Sia Hegel che Schleiermacher vogliono mantenere così la soggettività e l’universalità in una relazione reciproca e entrambi si soffermano parimenti sul contenuto essenziale dell’incarnazione cristiana, per quanto la dialettica hegeliana si strutturi su un’unità integralmente esprimibile in termini di superamento idealistico-razionale, mentre la dialettica schleiermacheriana si fondi su un’unità trascendente pienamente esperibile solo in termini realistico-esistenziali.
Per Hegel, però, il ruolo autonomo riservato all’esistenziale e al soggettivo, in teologia e in etica, da autori come Schleiermacher significava aprirsi al rischio di pericolosi ritorni alla religione e alla politica del mondo che chiamava “orientale”, ritorni come quelli che di fatto stavano già prospettandosi in pensatori quali appunto Schopenhauer. Per Schleiermacher era invece possibile trovare un equilibrio tra sentimento esistenziale e ragione dialettica, senza né franare verso l’irrazionalismo, né arrogarsi un’illusoria ragione assoluta.
Il grande successo della integrazione dialettico-concettuale hegeliana – un successo giunto anche a non pochi eccessi pure politici, tanto, da destra, nella linea basata sulle contrapposizioni tra popoli-stati, quanto, da sinistra, nella linea basata sulle contrapposizioni tra classi – ha spesso suscitato il contro-successo di proposte radicalmente a-dialettiche e irrazionalistiche, come quella di Kierkegaard, o quella a cui, passando da Schopenhauer, approdò Nietzsche.
La soluzione di Schleiermacher, anch’essa dialettica, come l’hegeliana, seppure in un senso diverso e senza ambire ad un sapere assoluto, è stata per lungo tempo tenuta molto più in disparte, almeno presso pubblici vasti (per quanto i suoi effetti “carsici” siano ancora non abbastanza approfonditi). Oggi, comunque, dopo le alterne vicende di una ragione spesso troppo paga di sé, da un lato, e di un irrazionalismo adialettico spesso altrettanto autocompiaciuto, dall’altro, una concezione come quella di Schleiermacher può fornire non banali spunti di riflessione, a partire dalla sua peculiare tensione dialettica propositiva, senza appiattimenti reciproci, tra ragione ed esistenza, tra universalità e storia[80]: quella stessa tensione che possiamo riscontrare nella sua trattazione della redenzione.
[1] F.D.E. Schleiermacher, Der Christliche Glaube, § 18 (prima edizione), in F.D.E. Schleiermacher, Kritische Gesamausgabe, de Gruyter, Berlin-New York 1980, ss. (d’ora in poi KGA), sezione I, vol. 7.1, p. 61. Dei testi di Schleiermacher e di Hegel citerò anche le traduzioni italiane, qualora presenti, talvolta ritoccate per fini di omogenietà terminologica. Sulla concezione schleiermacheriana della redenzione, nei suoi rapporti con Lutero, cfr. C.-D. Osthövener, Erlösung. Transformationen einer Idee im 19. Jahrhundert, Mohr-Siebeck, Tübingen 2004, pp. 1-107; precedemente cfr. anche H. Stephan, Die Lehre Schleiermachers von der Erlösung, Mohr, Tübingen 1901.
[2] G.W.F. Hegel, Vorwort zu H.F.W. Hinrichs, Die Religion im inneren Verhältnis zur Wissenschaft, Heidelberg 1822, in G.W.F. Hegel, Gesammelte Werke, in Verbindung mit der Deutschen Forschungsgemeinschaft hrsg. Von der Nordrhein-Westfälischen Akademie der Wissenschaften, Meiner Verlag, Hamburg 1968 ss. (d’ora in poi GW), vol. 15, p. 137; tr. it. Prefazione alla Filosofia della religione di Hinrichs, a cura di S. Achella, Orthotes, Napoli-Salerno 2014, p. 79. Per una precisa contestualizzazione di questo scritto si veda S. Achella, Introduzione, ivi, pp. 5-60 (con indicazione di ulteriore ampia bibliografia). Della Prefazione vi sono anche precedenti traduzioni italiane: in G.W.F. Hegel, Scritti di filosofia della religione, a cura di F. Chiereghin e G. Poletti, Verifiche, Trento 1975 e G.W.F. Hegel, Prefazione alla Filosofia della religione di Hinrichs, a cura di S. Sorrentino, Morano, Napoli 1975.
[3] Sull’intreccio di questioni politiche e religiose nella polemica hegeliana contro Schleiermacher si veda E. Cafagna, Una devozione di tipo polemico. Religione e politica nel confronto di Hegel con Schleiermacher, in D. Bosco – F.P. Ciglia – L. Gentile – L. Risio (eds.), Testis Fidelis. Studi di filosofia e scienze umane in onore di Umberto Galeazzi, Orthotes, Napoli 2012, pp. 105-121. Cfr. anche R. Crouter, Hegel and Schleiermacher at Berlin: a many-sided debate, in Id., Friedrich Schleiermacher. Between Enlightenment and Romanticism, Cambridge University Press, Cambridge 2005, pp. 70-97. Sul complesso nesso di religione e politica nello Hegel berlinese si vedano, inoltre, A. Arndt – Ch. Iber – G. Kruck (eds.), Staat und Religion in Hegels Rechtsphilosophie, Akademie Verlag, Berlin 2009; R. Garaventa, Le Lezioni di filosofia della religione di Hegel come momento di disputa filosofico-teologica e confronto politico-ecclesiale, in M. Castellana – F. Ciraci – D.M. Fazio – D. Ria – D. Ruggieri (eds.), Filosofia e storiografia. Studi in onore di Giovanni Papuli, Congedo Editore, Lecce 2008, pp. 353-371; A. Nuzzo (ed.), Hegel on Religion and Politics, Suny Press, New York 2013.
[4] GW, vol. 15, p. 126 ; tr. it. cit., p. 65.
[5] GW, vol. 15, p. 130; tr. it. cit., p. 70.
[6] GW, vol. 15, p. 136; tr. it. cit., p. 77.
[7] GW, vol. 15, p. 136; tr. it. cit., p. 78. Oltre al citato saggio di Cafagna, si veda su questo punto P. Valenza, “Cos’è una teologia senza la conoscenza di Dio?”. La polemica di Hegel con la teologia del sentimento, in T. Pierini – G. Sans – P. Valenza – K. Vieweg (eds.), L’Assoluto e il Divino. La teologia cristiana di Hegel, Fabrizio Serra Editore, Roma 2011, pp. 13-28.
[8] GW, vol. 15, p. 133; tr. it., p. 74.
[9] GW, vol. 15, p. 135; tr. it. cit., p. 77.
[10] GW, vol. 15, p. 126 ; tr. it. cit., p. 65.
[11] GW, vol. 15, p. 142; tr. it. cit., p. 85.
[12] GW, vol. 14, p. 47; tr. it. Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, Laterza, Bari-Roma 1999, p. 44.
[13] Ibid.
[14] Ibid.
[15] GW, vol. 15, p. 130; tr. it. p. 70. Corsivo mio.
[16] GW, vol. 15, p. 142; tr. it. cit. p. 86. Corsivo mio.
[17] Sia Cafagna che Valenza segnalano opportunamente i rapporti tra la Prefazione a Hinrichs del 1822 e Fede e sapere. Sul confronto giovanile tra i due filosofi cfr. G. Bonacina, La posizione di Schleiermacher, in R. Bonito Oliva – G. Cantillo, Fede e sapere. La genesi del pensiero del giovane Hegel, Guierini, Milano 1998, pp.84-90; P.L. Valenza, La serietà tragica della religione, ivi, pp. 313-329; E. Cafagna, Sentire l’infinito. Sul confronto di Hegel con Schleiermacher, in “Il cannocchiale” 38 (2013), pp. 73-97; Id., Positivität und Polemik. Hegel als Leser der Reden über die Religion von Schleiermacher, in «Hegel Studien» 48 (2014), pp. 155-185; O. Brino, Individuo e società nelle prospettive di Schleiermacher e Hegel, in «La società degli individui», 49 (2014), pp. 97-109.
[18] G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, ed. W. Jaeschke, voll. 1-3, Meiner, Hamburg 1993-1995; tr. it. cit. Lezioni di filosofia della religione, a cura di R. Garaventa e S. Achella, Guida, 3 voll., Napoli 2003-2011.
[19] Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, cit., vol. 2, p. 64; tr. it. cit., vol. 2, p. 79. Corsivi miei.
[20] Ibid., p. 620; tr. it. cit. p. 560.
[21] Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, cit., vol. 3, p. 28; tr. it. cit., vol. 3, pp. 53-54; i termini in corsivo sono evidenziati da Hegel.
[22] Ibid., p. 64; tr. it. cit., p. 85. Si noti qui che, letteraralmente, Absterben significa “morire” con, quindi, una probabile allusione di tipo cristologico.
[23] Ibid., p. 92; tr. it. cit., pp. 111-112.
[24] G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, cit., vol. 1, p. 67; tr. it. cit., vol. 1, p. 122.
[25] Ibid., p. 67; tr. it. cit. pp. 122-123.
[26] Ibid., p. 67; tr. it. cit. p. 123.
[27] Sulla trattazione filosofico-teologica del concetto hegeliano di “riconciliazione” nella sua relazione con la tradizione precedente, tra cui anche Schleiermacher e Fichte, resta fondamentale F. Ch. Baur, Die christliche Lehre von der Versöhnung in ihrer geschichtlichen Entwicklung von der ältesten Zeit bis auf die neueste, Osiander, Tübingen 1836. Più recentemente cfr. P.C. Hodgson, Hegel and Christian Theology. A Reading of the Lectures on the Philosophy of Religion, Oxford University Press, Oxfors 2005 (in part. Cap. 8 Christ and Reconciliation). In tema di redenzione, un classico confronto con Hegel è in Der Stern der Erlösung (1921) di F. Rosenzweig, che si mostra critico verso il modo in cui “la dialettica di Hegel crede di potere e di dover giustificare se stessa riproducendo sé a se stessa” (La stella della redenzione, tr. it. di G. Bonola, Vita e pensiero, Milano 2008, p. 263). Espliciti elementi della critica hegeliana di Rosenzweig in F. Valagussa, Impossibile sistema. Metafisica e redenzione in Kant e Hegel, Il Prato, Padova 2009.
[28] GW, vol. 16, p.316. L’importanza di questo scritto del tardo Hegel fu sottolineata da J. Ritter e dai suoi allievi come R. Maurer (cfr. J. Ritter, Hegel und die Reformation, in Id., Metaphysik und Politik, Suhrkamp, Frankfurt a. Main 1969, pp. 310-317; tr. it. Metafisica e politica, a cura di G. Cunico, Marietti, Casale Monferrato 1983, pp. 188-195 e R. Maurer, Hegels Politischer Protestantismus, in «Der Staat» 10 (1971), pp. 455-479). Più recentemente cfr. F. Cacciatore, Protestantesimo e filosofia in Hegel, Rubettino, Soveria Mannelli 2003.
[29] GW, vol. 16, p. 317.
[30] GW, vol. 16, p. 315 (“Potestas principum reconciliatum est cum ecclesiæ dum illa consociatur cum divina voluntate, haec dominatus injuria sese abdicat”).
[31] Sull’applicazione etica e politica in Hegel del concetto teologico di “riconciliazione”, cfr. E. Rózsa, Versöhnung und System. Zu Grundmotiven von Hegels praktischer Philosophie, Fink, Frankfurt a. Main 2005; M. Lilla, Hegel and the Political Theology of Reconciliation, in «The Review of Metaphysics» 54, (2001), pp. 859-900; M. O. Hardimon, The Project of Reconcilation: Hegel’s Social Philosophy, in «Philosophy & Public Affairs» 21 (1992), pp. 165-195.
[32] Su questi sviluppi cfr. C. Melica, La comunità dello spirito in Hegel, Verifiche, Trento 2007 e R. Garaventa, Nota introduttiva, in Hegel, Lezioni di filosofia della religione, cit., vol. 3 (2011): “la religione non riesce più ad appagare (come figura separata) il supremo bisogno dello spirito, il suo contenuto spirituale (la sua sostanza) può essere tuttavia non solo trasmesso alla filosofia, ma anche trovare realizzazione nella realtà sociale”.
[33] Questo snodo è stato ampiamente sottolineato negli studi di W. Jaeschke. Cfr. ad es.: “La tradizionale contrapposizione di stato e chiesa, religione, eticità e filosofia può solo nel presente essere superata, dato che qui essa viene tolta. Le contrapposizioni diventano un’unità nel concetto della libertà. Nella storia del mondo – in senso ampio, comprendendo la storia delle religione – questo concetto viene riconosciuto nel principio del cristianesimo, nella ‘autocoscienza della libertà’”, W. Jaeschke, Staat aus christlichem Prinzip und christlicher Staat, in «Der Staat» 18 (1979), p. 358.
[34] Cfr. la conclusione dell’estratto di Strauss dall’ultimo corso (1831) di filosofia della religione: “La vera realizzazione della religione nella sfera mondana è allora quella interiore, che cioè si organizzi in una vita statuale etica e giuridica. Nella misura però in cui si stabilisce una tale vita statuale, questa, che è a sua volta l’elemento divino in questo ambito, assorbe quell’intera espansione del divino, cosicché l’intero contenuto collassa. Come le leggi dello stato vengono sapute come universali, così il pensiero si solleva anche contro il contenuto di Dio, affinché esso si legittimi di fronte al pensiero. Il pensiero è adesso lo spirito che vuole dare testimonianza. Nella fede è il contenuto vero, ma nella forma della rappresentazione; ora gli deve essere data la forma del pensiero”, Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Religion, cit., vol. 3, p. 289; tr. it. cit., vol. 3, p. 291. Su quest’ultimo corso come approdo dello snodo teologico-politico in Hegel cfr. M. Monaldi, Storicità e religione in Hegel, ETS, Pisa 1996, pp. 217-233.
[35] Molto equilibrata mi sembra l’analisi di Siep: “Teologia politica – possiamo riassumere così – significa dunque per Hegel sanzionamento dello stato secolare mediante un’interpretazione del mondo che si accorda con esso, interpretazione che procura al singolo la certezza della sua unità con un sapere e un volere assoluti. Nella misura in cui lo stato hegeliano poggia sui diritti della persona, sull’autonomia di gruppi (famiglie, ceti) limitata mediante la legge, così come su una forma determinata di divisione dei poteri, si potrebbe parlare di una ‘fondazione ultima’ dello stato di diritto pratico-religiosa e filosofica. Al tempo stesso però anche i contenuti più problematici della sua filosofia dello stato riposano sull’interpretazione filosofica dell’accordo di stato razionale e ‘religione compiuta’: la concezione della monarchia, l’insopprimibilità degli Stati individuali realizzati nei popoli e il ‘tribunale supremo’ della storia sul progresso della costituzione”, L. Siep, La filosofia politica di Hegel, in «Verifiche» 20 (1991), pp. 238-239.
[36] Cfr. ad esempio GS, vol 14, p. 11; tr. it. cit, p. 10: “Presso di noi la filosofia non viene esercitata, come per esempio presso i Greci, al modo di un’arte privata, sibbene ha una pubblica esistenza, che tocca il pubblico, specialmente o unicamente ad opera di funzionari statali”.
[37] Sulle tensioni di filosofia della storia e politica nello Hegel berlinese restano fondamentali R. Bodei, Sistema ed epoca in Hegel, Il Mulino, Bologna 1975 (nuova ed. La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel, ivi 2014) e C. Cesa, Hegel filosofo politico, Guida, Napoli 1976. Più recentemente cfr. G. Bonacina, Storia universale e filosofia del diritto, Guerini, Milano 1989; M. Monaldi, Hegel e la storia. Nuove prospettive e vecchie questioni, Guida, Napoli 2000; W. Dudley (ed.), Hegel and History, Suny Press, New York 2010.
[38] Di fronte alle estremizzazioni dello hegelismo politicamente di destra e di sinistra, a partire dal secondo dopoguerra la ricerca su Hegel ha cercato il più possibile di sottolineare il rapporto “dialettico” che lo stato intrattiene con la società civile e che la stessa eticità comunitaria intrattiene con la moralità individuale. Fondamentale su questo è stato il lavoro di J. Ritter, di K.-H. Ilting e delle loro scuole. Se i lavori di Ritter e Ilting hanno certamente contribuito a rimettere Hegel in una tradizione “occidentale” attenta alla libertà civile (cfr. anche le equilibrate osservazioni in L. Siep, Praktische Philosophie im Deutschen Idealismus, Suhrkamp, Frankfurt a. Main 1993), occorre tenere però ben presenti i rilievi che mossero loro fin dall’inizio grandi studiosi di Hegel come N. Bobbio, C. Cesa, H. Ottmann: il rischio è qui che una visione latamente “apologetica” del filosofo, a partire dall’assetto costituzionale degli odierni stati “occidentali”, metta in secondo piano le tensioni interne al suo impianto sistematico e con esse anche gli aspetti più provocatori e intellettualmente stimolanti di esso. Su tutto questo cfr. O. Brino, L’interpretazione liberale di Hegel e il diritto statuale della Bundesrepublik. Da Joachim Ritter a Ernst-Wolfgang Böckenförde, in «Filosofia politica» 26 (2012), pp. 267-290.
[39] Cfr. KGA, sezione II, vol. 10.1, pp. 93, 149, 157, 165 e passim.
[40] Cfr. KGA, sezione II, vol. 10.1, p. 149.
[41] Sul tema idealismo/realismo cfr. KGA, sezione II, vol. 10.1, pp. 109-110, in cui Schleiermacher precisa quanto aveva esposto sul “realismo superiore” nei Discorsi sulla religione. Su questi temi cfr. S. Sorrentino – T.N. Tice (eds.), La dialettica nella cultura romantica, NIS, Roma 1996; I. Hübner, Wissenschaftsbegriff und Theologieverständnis, Eine Untersuchung zu Schleiermachers Dialektik, de Gruyter, Berlin-New York 1996; Ch. Helmer – Ch. Kranich – B. Rehme-Iffert – Ch. Helmer (Eds.), Schleiermachers Dialektik. Die Liebe zum Wissen in Philosophie und Theologie, Mohr-Siebeck, Tübingen 2003.
[42] Cfr. KGA, sezione II, vol. 10.1, pp. 142-143.
[43] KGA, sezione I, vol. 13.1, pp. 38-39; tr. it. La dottrina della fede, a cura di S. Sorrentino, Paideia, Brescia 1981-1985, vol. 1, p. 160.
[44] Cfr. KGA, sezione I, vol. 13.1, p. 43.“Se dunque Hegel”, commenta Valenza, “sostiene che il sentimento, e quindi anche il sentimento di dipendenza secondo la visione di Schleiermacher, è una forma vuota nella quale si può introdurre qualsiasi contenuto, Schleiermacher invece pensa che il sentimento come essenza della religiosità ha un contenuto fondamentale determinato”, Valenza, “Cos’è una teologia senza la conoscenza di Dio?”, cit., p. 26. Il sentimento ha, così, in Schleiermacher una dimensione evolutiva e contenutistica, non è mera naturalità e basta, bensì accompagna l’intera coscienza dal primo stadio confuso, intriso di naturalità, fino al livello massimo in cui la coscienza stessa trova il proprio rapporto ultimativo con Dio.
[45] F. Schleiermacher, Sämmtliche Werke, Reimer, Berlin 1835-1864, sezione III, vol. 4.1, p. 21.
[46] Cfr. su questo S. Sorrentino, Ermeneutica e filosofia trascendentale. La filosofia di Schleiermacher come progetto di comprensione dell’altro, Clueb, Bologna 1984, in part. pp. 121-128 (paragrafo intitolato “L’ermeneuticità del ‘logos’ e il linguaggio religioso”).
[47] KGA, sezione I, vol. 13.1, p. 318.
[48] Cfr. KGA, sezione I, vol. 13.1, pp. 64-73.
[49] Cfr. KGA, sezione I, vol. 13.1, pp. 74-80. cfr. G. Moretto, Religione estetica e religione teleologica. Ebraismo, ellenismo e cristianesimo nell’interpretazione di Schleiermacher, in Id., Ispirazione e libertà. Studi su Schleiemacher, Morano, Napoli 1986, pp. 303-334.
[50] KGA, sezione I, vol. 13.1, pp. 95-96; tr. it. cit., vol. 1, pp. 210-211.
[51] Si veda il commento di Troeltsch sul confronto tra la concezione schleiermacheriana e la concezione hegeliana della redenzione: “La redenzione in virtù di un’energia più alta che ci dev’essere infusa, riappare in Schleiermacher. Essa muove dal nesso con Gesù, ma nel senso di una trasposizione della sua vita e della sua energia: redenzione è diventare certi di Dio, guardando alla persona di Gesù. (…). Hegel presenta un’altra concezione ancora: in lui domina l’idea dell’unità essenziale di Dio e uomo in Gesù. Questa fusione di Divino e finito in Gesù continua ad avere efficacia e consuma anche in noi il finito. Vediamo così che l’idea ha subito delle trasformazioni lungo tutta la storia del cristianesimo. Ciò ci dà il diritto di comprenderla a nostra volta in un modo particolare. Noi, qui, ci riallacciamo a Schleiermacher: redenzione è semplicemente fede, è diventare certi di Dio in virtù dell’impressione suscitata dall’immagine di Cristo. Essa non è un intervento divino avvenuto una volta per tutte, ma un processo puramente interiore tra Dio e l’anima, che si compie sempre di nuovo”, E. Troeltsch, Glaubenslehre, Nach Heidelberger Vorlesungen aus den Jahren 1911 und 1912, Duncker & Humblot, München-Leipzig 1925; tr. it. Dottrina della fede, a cura di R. Garaventa, Guida, Napoli 2005, p. 355. Sui profondi rapporti tra Schleiermacher e Troeltsch cfr. R. Garaventa, Introduzione, ivi, 7-51.
[52] KGA, sezione I, vol. 13.2, p. 104; tr. it. cit., vol. 2, p. 192; corsivo mio.
[53] KGA, sezione I, vol. 13.2 p. 112; tr. it. cit., vol. 2, p. 200, corsivo mio. Come si vede Schleiermacher tende a interpretare il concetto di “riconciliazione” a partire da quello di “redenzione”, così come Hegel tende specularmente a interpretare quest’ultimo a partire dall’altro. Se dunque nella letteratura critica su Hegel prevale di gran lunga, da Baur in poi, l’analisi della “riconciliazione”, nella letteratura critica su Schleiermacher prevale di gran lunga l’analisi della “redenzione” (si vedano per esempio le già citate monografie di Stephan e Osthövener).
[54] Su questo vi è una precisa continuità tra il quinto dei giovanili Discorsi sulla religione e la matura Fede cristiana.
[55] Cfr. O. Brino, Universalità e storicità nella concezione schleiermacheriana della religione, in «Annali di Studi Religiosi» 4 (2003), pp. 291-327 (con discussione della letteratura precedente).
[56] KGA, sezione I, vol. 13.1, p. 404; tr. it. cit., vol. 1, p. 500.
[57] KGA, sezione I, vol. 13.1, pp. 157; tr. it. cit., vol. 1, p. 267.
[58] KGA, sezione I, vol. 13.1, p. 404; tr. it. cit., vol. 1, p. 500.
[59] KGA, sezione I, vol. 13.1, p. 157; tr. it. cit., vol. 1, p. 268.
[60] KGA, sezione I, vol. 13.1, p. 404;tr. it. cit., vol. 1, p. 500. Sul problema del male e del peccato in Schleiermacher, cfr. G. Moretto, Schleiermacher interprete di Agostino, in Id., Ispirazione e libertà. Studi su Schleiemacher, cit., pp. 277-302; sul nesso peccato/redenzione cfr. W.E. Wyman, Sin and redemption, in J. Mariña (ed.), The Cambridge Companion to Friedrich Schleiermacher, Cambridge University Press, Cambridge 2005, pp. 129-150.
[61] Cfr. KGA, sezione I, vol. 13.1, pp. 159-160
[62] KGA, sezione I, vol. 2, p. 320; tr. it. F.D.E. Schleiermacher, Scritti filosofici, a cura di G. Moretto, UTET, Torino 1998, p. 247. Cfr. G. Moretto, Etica e storia in Schleiermacher, Bibliopolis, Napoli 1979, pp. 486-501.
[63] KGA, sezione I, vol. 2, p. 316, corsivo mio; tr. it. cit., p. 242.
[64] Si veda su questo tutta la sezione intitolata “La condizione del mondo in rapporto alla redenzione” §§ 113-163 della Fede cristiana. Sulla connessione tra la dottrina teologica della redenzione e l’etica sono importanti le lezioni di ethos cristiano che Schleiermacher tenne a più riprese è che per ora sono disponibili solo nell’edizione ottocentesca. Cfr. su questo Osthövener, Erlösung, cit., pp. 80-89.
[65] L’articolazione dello spirito in Schleiermacher è infatti divesa da quella di Hegel, non vi è un passaggio dialettico-gerarchico tra spirito soggettivo, oggettivo e assoluto. Le articolazioni natura/spirito e individuale/universale sono infatti trasversali a ogni contenuto etico, laddove l’etica comprende non solo lo spirito oggettivo, come in Hegel, ma tutti insieme quei contenuti che Hegel gerarchizza in spirito soggettivo, oggettivo e assoluto. Su questo fondamentali gli studi raccolti in G. Scholtz, Ethik und Hermeneutik. Schleiermachers Grundlegung der Geisteswissenschaften, Suhrkamp, Frankfurt a. Main 1995 (con importanti confronti con Hegel). Cfr. anche E. Brito, Deux théories de l’esprit: Hegel et Schleiermacher, in «Revue Philosophique de Louvain» 91 (1993), pp. 31-65.
[66] Su questo già signiciativi i primissimi manoscritti sull’etica dello Schleiermacher poco più che ventenne. Eccellente sul rapporto tra questi scritti iniziali e l’intera concezione filosofica successiva è D. Thouard, Schleiermacher. Communauté, individualité, Communication, Vrin, Paris 2007. Sull’importanza dei primi scritti cfr. anche E. Giacca, La formazione del pensiero etico di Schleiermacher, Fabrizio Serra, Roma 2015.
[67] KGA, sezione I, vol. 2, p. 263; tr. it. cit., p. 177.
[68] Cfr. ancora una volta quanto afferma Troeltsch: “E’ questa rinascita che viene da Dio ciò che chiamiamo redenzione. E’ la redenzione dal mondo ma non nel senso del buddismo per cui lasciamo alle nostre spalle il mondo e la sofferenza. (…) La nostra redenzione è essere riempiti di contenuti vitali positivi che ci liberano dalla stretta e frantumante prigionia dell’Io e ci fanno crescere verso il superamento della vacuità della vita”, p. 367. Sia Troeltsch che Schleiermacher, così, rifiutano tanto un appiattimento della trascendenza sul mondo, quanto una relazione meramente repulsiva della prima sul secondo. Anzi, per Schleiermacher, Cristo ha proprio redento dall’ostilità del mondo con Dio, senza peraltro aver schiacciato Dio sul mondo. Cfr. quanto dice Garaventa su Troeltsch che può valere per molti rispetti anche per Schleiermacher: “La trascendenza di Dio (teisticamente e personalmente inteso) rispetto al mondo, che resta uno dei tratti essenziali e costitutivi della fede di Troeltsch, non comporta tuttavia una separazione e una contrapposizione assoluta di Dio e mondo (come avviene nella teologia barthiana e gogarteniana) e un abbassamento della realtà terrena a puro disvalore, a temporalità priva di ogni barlume di eternità”, Introduzione, in Troeltsch, Dottrina della fede, tr. it. cit., pp. 45-46. Su Schleiermacher e Troeltsch cfr. inoltre F. Ghia, Chiesa istituzione e Chiesa comunità. Ernst Troeltsch e l’interpretazione schleiermacheriana della Chiesa “liberale”, in «Humanitas» 65 (2010), pp. 671-182.
[69] Su questo cfr. O. Brino, L’architettonica della morale. Teoria e storia dell’etica nelle Grundlinien di Schleiermacher, Editrice Università degli Studi di Trento, Trento 2007.
[70] KGA, sezione III, vol. 12, pp. 217-227.
[71] KGA, sezione I, vol. 2, p. 195; tr. it. cit., p. 93.
[72] KGA, sezione I, vol. 2, p. 197; tr. it. cit., p. 95.
[73] Cfr. G. Scholtz, Ethik und Hermeneutik, cit., pp. 35-64.
[74] Cfr. O. Brino, Système et histoire dans l’éthique de Schleiermacher, in «Archives de philosophie» 77 (2014), pp. 237-258, in part. pp. 246-251, con i passi schleiermacheriani ivi citati.
[75] F. Schleiermacher, Sämmtliche Werke, sezione I, vol. 12, Appendice, p. 126. Cfr. A.von Scheliha, Die Beziehungen der Völker nach Schleiermachers Staatslehre, in «Zeitschrift für Neuere Theologiegeschichte» 12 (2005), pp. 1-15.
[76] KGA, sezione I, vol. 2, pp. 282-283; tr. it. cit., p. 201.
[77] Cfr. “Una chiesa intollerante, uno stato chiuso sono egoisti”, F.D.E. Schlermacher, Brouillon zur Ethik (1805/06), a cura di H.-J. Birkner, Meiner, Hamburg 1981, p. 27.
[78] Sulla relazione tra etica e politica in Schleiermacher e in generale sul suo pensiero sociale e politico cfr. M. Wolfes, Öffentlichkeit und Bürgergesellschaft. Friedrich Schleiermachers politische Wirksamkeit, 2 voll., de Gruyter, Berlin-New York 2004; A. von Scheliha, Schleiermacher als politischer Denker, in A. Arndt – K.V. Selge (eds.), Schleiermacher – Denker für die Zukunft des Christentums?, de Gruyter, Berlin-New York 2011, pp. 83-99; M. Rose, Schleiermachers Staatslehre, Mohr-Siebeck, Tübingen 2011. “Nel tardo Schleiermacher è lecito affermare una autentica confluenza di Romanticismo e liberalismo”, ha scritto C. Cesa, Le astuzie della ragione. Ideologie e filosofia della storia nel XIX secolo, Aragno, Torino 2008, p. 72.
[79] A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, Brockhaus, Leipzig 1819, p. 585. Corsivo mio. Sulla “redenzione” in Schopenhauer e sull’impatto che la sua concezione ebbe nei suoi iniziali seguaci Wagner e Nietzsche cfr. Osthövener, Erlösung, cit., pp. 108-256.
[80] Interessante, per esempio, la riconsiderazione di Schleiermacher in un autore così attento ai rapporti tra storia del pensiero e politica come J. Habermas: “All’opposto di Hegel, geloso del suo avversario accademicamente più fortunato, io valuto positivamente il pensiero del tardo Schleiermacher (si vedano i primi paragrafi della Dogmatik del 1830). Sua l’idea geniale di separare la giustificazione filosofica del sentimento religioso, inteso come universale antropologico, dalla dogmatica teologica ecclesiasticamente organizzata che – interpretando dall’interno una tradizione particolare tra le altre – vuole inserire la propria comunità confessionale nel quadro di una società moderna ideologicamente pluralistica”, J. Habermas, Nachmetaphysisches Denken II. Aufsätze und Repliken, Suhrkamp, Frankfurt a. Main 2012; tr. it. Verbalizzare il sacro. Sul lascito religioso della filosofia, tr. L. Ceppa, Laterza, Roma-Bari, p. 195. Cfr. anche le osservazioni di C. Cesa, Attualità di Schleiermacher, in «Humanitas» 65 (2010), pp. 619-625.