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Politics and redemption in Otto Pfleiderer’s Paulinismus. A note on the Letter to the Colossians
This paper discusses Otto Pfleiderer’s interpretation of the Letter to the Colossians in his Paulinismus. The cosmological-historical valence that Paul gives to Christ’s act of redemption is highlighted, and described in economic and political terms. At the ‘economic’ level this action is identified with the pardoning of the debt contracted by human sinners (referring, too, to the chirograph of Col 2,13-14, interpreted as symbolizing law transcended by the Holy Spirit), while at the ‘political’ level Christ’s reconciliation is enacted through his depriving princes and potentates of their power, and triumphing over them. Pfleiderer’s reading is discussed in the context of the theological debate of his time: we see some similarities with the interpretation of Albrecht Ritschl, according to whom the key note of the Pauline vision was his having opposed the Pharisees’ concept of the supremacy of the Law with the supremacy of the grace of God.
Una «germanizzazione del cristianesimo» (Germanisierung des Christentums)[1], ossia «la convinzione che il Cristianesimo sia in generale la configurazione più alta della coscienza religiosa, che esso riveli una profondità dell’anima unita in Dio e un intimo vincolo dell’umanità, una forza eroica del superamento della sofferenza e della colpa e una certezza del futuro orientata a scopi di vita supremi e ultimi, che rappresentano un vertice assoluto nella vita religiosa dell’umanità»[2]: un Kampfwort di Arthur Bonus[3] fatto poi tristemente proprio dal famigerato movimento dei «Cristiano-Tedeschi»[4].
A destarsi e a separarsi nettamente da ogni teologismo e da ogni religione filosofica è, in questa «germanizzazione», secondo la caratterizzazione offertane da Ernst Troeltsch,
«l’anti-intellettualismo religioso, un anti-intellettualismo che non respinge o ignora i risultati della scienza oggettiva, tuttavia vuole vedere preservata la religione vera e propria da ogni commutazione nella scienza oggettiva, da ogni confronto con essa e con le sue certezze. Esso non si rifiuta di riconoscere i risultati della cosmologia e della biologia, della psicologia e della storia, tuttavia non vuol vedere la religione trasformata in un risultato della scienza. Esso apprezza la scienza, ma è sospettoso nei confronti della filosofia e quando ne assume le nozioni si volge di preferenza al pragmatismo di un William James o al biologismo di Bergson che non ai sistemi basati su una necessità logica onnipervasiva. Si richiama volentieri alla celebre distinzione kantiana tra ragione teoretica e ragione pratica, ma solo per stravolgerla del tutto, per fare cioè della prima un importante ordine, esclusivamente pratico, dell’esperienza e della seconda una realizzazione superiore della volontà della vita»[5].
Il cristianesimo appare come «il grande mito religioso del mondo odierno che, sempre e in ogni luogo, dà innanzitutto espressione al sentire e al pensare religiosi e cresce e si modifica impercettibilmente con la vita stessa»[6], compendiando così le altre formazioni storiche[7].
Ora, una inculturazione specificamente tedesca della tradizione cristiana rappresenta, in estrema sintesi, il programma teologico anche di Otto Pfleiderer, nato a Stetten im Remstal, nel Baden-Württenberg, il 1 settembre 1839 e morto a Groß-Lichterfelde presso Berlino il 18 luglio 1908, figura di un certo rilievo della teologia liberale di fine diciannovesimo secolo[8].
Autore di un’imponente Religionsphilosophie auf geschichtlicher Grundlage che, a partire dalla seconda edizione del 1883/84, appare in due volumi: Geschichte der Religionsphilosophie von Spinoza bis auf die Gegenwart e Genetisch-spekulative Religionsphilosophie, Pfleiderer, successore sulla cattedra berlinese – che già fu di Schleiermacher – di August Detlef Christian Twesten (1789-1876), uno dei primi scolari di Schleiermacher a Berlino, è convinto che solo un colto «cristianesimo tedesco» possa essere in grado di offrire alla società frammentata e pluralista fin du siecle una omogeneità di senso in cui i gruppi e le classi reciprocamente in conflitto trovino riunificazione e riconciliazione. Con un simile programma di riconciliazione civile e religiosa ‘cristiano-tedesca’, che avrebbe da ultimo dovuto concretizzarsi in un modello di Stato culturale socialmente integrato e strettamente collegato a una forte Chiesa di popolo, egli prepara dunque il terreno per le teologie dell’integrazione degli anni Venti del Novecento, e in questo senso non è certo un caso che, analogamente a come farà poi Friedrich Gogarten, nel 1877 Pfleiderer pubblichi una biografia di Fichte, di taglio popolare e divulgativo, recante il sintomatico sottotitolo di Biografia di un pensatore tedesco e di un patriota, tratteggiata per il popolo tedesco (Lebensbild eines deutschen Denkers und Patrioten, für das deutsche Volk geschildert ).
Come già per il tubinghese Ferdinand Christian Baur (1792-1860), di cui subisce l’influsso (al pari, più in generale, della scuola del teismo speculativo), Pfleiderer riconosce nel cristianesimo il necessario prodotto di sviluppo dello spirito religioso dell’umanità, alla cui formazione sono tesi gli sforzi dell’intera storia del mondo antico e nella cui configurazione tutti i portati spirituali dell’Oriente e dell’Occidente hanno trovato la loro valorizzazione e, nel contempo, il loro affinamento e la loro armonizzazione[9]. L’originalità della filosofia della religione pfleidereriana risiede pertanto nell’inserzione della storia della religione nella disputa sull’essenza della religione e in tale ottica un ruolo significativo lo gioca l’opera su cui ci concentreremo in questa breve nota, ossia il saggio sul «Paolinismo», una disamina accurata ed esaustiva, condotta con l’ausilio di quelli che all’epoca apparivano i più avanzati metodi esegetici appresi alla scuola di Tubinga, sul corpus paolino, letto e interpretato come il nucleo fondamentale di una «teologia del cristianesimo delle origini» che si costruisce in costante dialogo e interazione con la tradizione ellenistica[10].
In aperta e esplicita polemica con Albrecht Ritschl e l’interpretazione ‘positiva’ del cristianesimo che veniva elaborata nella sua scuola, ovvero la concentrazione unilaterale ed esclusiva dell’attenzione sul cristianesimo come dato rivelato, ossia posto (positum), in e da Gesù Cristo, e quindi la negazione di ogni disposizione ‘naturale’ dell’uomo all’accoglimento del religioso come struttura autonoma della coscienza, Pfleiderer fa soprattutto valere l’eredità di Hegel e dell’idealismo speculativo, intendendo la religione come riconciliazione (Versöhnung) fra Dio e l’uomo e quindi come appianamento delle differenze sussistenti tra l’essere e il pensiero, tra l’Io e il mondo, tra l’individuo e la società, come cioè superamento del dualismo nel monismo.
Nonostante il ricorso a Hegel, Pfleiderer critica tuttavia la possibilità di una conoscenza umana del sapere assoluto e, nello stesso tempo, contesta, nonostante il suo apprezzamento per Schleiermacher, l’idea della religione come sentimento. Non è infatti sufficiente, afferma Pfleiderer, affermare che la religione è il sentimento della dipendenza assoluta, ossia elementare, se contemporaneamente non si dimostra anche che tale dipendenza presuppone sempre e comunque un impegno etico da parte dell’uomo. La religione deve pertanto condurre, in linea di principio, a una autonomia dell’uomo di fronte al mondo e a un annullamento della perfetta libertà del mondo nella perfetta dipendenza da Dio[11]. In questa risoluzione speculativa del rapporto tra l’uomo, il mondo e Dio, Pfleiderer mira a realizzare una Aufhebung della fede nell’autorità, inverandone il contenuto nel «regno della ragione e della verità, in cui Dio è il solo principio dominante della comunità»[12]. Ora, la Lettera ai Colossesi appare a Pfleiderer l’esemplificazione più paradigmatica di una tale edificazione di un Reich der Vernunft und der Wahrheit. In essa, infatti, il teologo di Stetten vede, insieme con la Lettera agli Ebrei, «uno dei documenti più istruttivi della teologia deuteropaolina»; la Lettera, cagionata dal diffondersi, in Frigia e in Siria, di dottrine che miravano a unire sincretisticamente ascesi ebraica e ascesi pagana, demonologia e culti misterici, mostra assai efficacemente come gli elementi ellenistici della teologia paolina «vengano sviluppati, in un collegamento sempre più stretto con la filosofia della religione alessandrina, nella direzione di una speculazione cristiana e, parimenti, [mostra] come gli elementi farisaici del paolinismo delle origini vengano in parte accantonati, in parte però trasformati nel senso di una speculazione e di una demonologia trascendentale»[13].
Il nucleo di tale speculazione e demonologia trascendentale lo si coglie fin da subito nell’inno cristologico di Col 1, 13-20: è Cristo che «ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore»; è per mezzo suo che «abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati. Egli è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potenze. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono. Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose. È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza [pleroma] e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli». L’intento di questa poderosa dossologia cristologica è per Pfleiderer evidente: ne va con essa della presentazione di Cristo come «dell’unico e compiuto mediatore tra Dio e il mondo», ben sottolineata sia dalla qualificazione di Gesù come immagine del Dio invisibile, sia dalla attribuzione al Cristo della primazìa rispetto al creato e dell’enfasi posta sulla originaria e pre-esistente sussistenza in lui di tutte le cose[14].
Interessante, tuttavia, per Pfleiderer, come, nella conclusione dell’inno cristologico della Lettera ai Colossesi, si passi abbastanza bruscamente dalle altezze della speculazione metafisica su Cristo come «principio del mondo» (speculazione nella quale si avverte secondo l’eco della polemica apologetica contro un incipiente gnosticismo[15]) alla descrizione, al versetto 18, del rapporto storicamente individuato tra Cristo e la comunità ecclesiale, ovvero la sua designazione come «capo del corpo». Si tratta di un passaggio che segna un momento di transizione teologica all’interno del corpus paolino e che fa propendere per una pseudoepigrafia della lettera: infatti, se il paragone della comunità ecclesiale con il corpo di Cristo è «zwar altpaulinisch», «certamente tipico del primo Paolo», non lo è però la designazione di Cristo come capo di questo corpo[16]. Di norma, rimarca Pfleiderer, Cristo è piuttosto rappresentato da Paolo come lo spirito che vivifica il corpo della comunità[17]; se in tale contesto, dunque, egli viene designato come il «capo del corpo», ciò ha lo specifico e caratteristico significato di simboleggiare
«quella assoluta dipendenza [si noti: schlechtinnige Abhängigkeit, ossia volutamente l’espressione dello Schleiermacher della Glaubenslehre! Fg] della comunità da Cristo, per la quale anche la posizione cosmica del Cristo pre-esistente doveva costituire unicamente lo scenario metafisico e attorno alla quale ruotava, fondamentalmente, l’intera polemica contro le errate dottrine [che si stavano diffondendo a Colossi]»[18].
La dipendenza della comunità ecclesiale da Cristo si legittima non solo a partire dal «privilegio metafisico» dell’essere Cristo «primogenito di tutta la creazione», ma anche, e soprattutto, a partire dal «privilegio storico» che fa di Gesù il «primogenito di quelli che risorgono dai morti», l’origine cioè di quell’umanità nuova edificata proprio, come si legge in 1Cor 15,29, sul concetto di risurrezione dai morti. Ora, però, se l’inno cristologico di Colossesi vede il fondamento del «privilegio storico» di Gesù nella nozione di una «pienezza» (pleroma) che in lui inabita, una tale asserzione esorbita, agli occhi di Pfleiderer, dall’orizzonte teologico paolino: per tale orizzonte, infatti, «Cristo è sì esistito in forma divina e ha certamente contemplato in volto lo splendore di Dio; tuttavia, che la «pienezza della divinità», della sua potenza di vita e di salvezza abbia «corporalmente» (somatikos) abitato in lui, come si legge in Col 2,9, non lo si trova in nessun altro luogo attribuito a Paolo. Da qui la conclusione secondo cui l’autore della Lettera ai Colossesi abbia ricavato l’espressione non dal precedente corpus della teologia paolina, ma da Filone di Alessandria che in effetti, nel De somniis (I, 11), definisce il Logos un luogo che «Dio stesso ha riempito [ekpepleroken] di forze incorporee»[19].
In quest’ottica, la locuzione pleroma verrebbe ad assumere la funzione di un vero e proprio terminus technicus, in quanto espressione già abitualmente in uso presso diversi circoli gnostici per designare la totalità delle potenze o degli eoni contenuti nell’essenza divina e da essa irradiantesi:
«il modo immediato», argomenta Pfleiderer, «in cui l’autore della Lettera ai Colossesi introduce questo concetto in 1,19 fa supporre che si trattasse di un concetto largamente in uso nella cerchia dei suoi lettori e che dunque egli scrivesse in un periodo in cui la gnosi cominciava a diffondersi»[20].
Ora, l’opera e l’azione di Cristo assolve nella Lettera ai Colossesi la medesima funzione che essa svolge nella cristologia giovannea, ossia quella della realizzazione temporale e storica di ciò che Cristo rappresentava, in rapporto al mondo, fin dall’origine. Se Cristo, secondo Col 1,16 («in lui furono create tutte le cose»), è ab origine il punto cosmico mediano nel quale e dal quale ogni cosa è stata creata, se egli è cioè il momento iniziale e primigenio della storia intesa come Heilsgeschichte, lo scopo della sua azione terrena altro non può essere se non quello di «riprodurre anche nella realtà l’unità che il mondo aveva idealiter già da sempre in lui, nel suo cioè principio trascendentale, e che tuttavia non esisteva fattualmente più o non esisteva ancora»[21]. L’azione redentiva di Cristo assume dunque in questo contesto una valenza weltgeschichtlich, cosmico-storica: il mondo e la storia vengono ‘riscattati’ dalla schiavitù della frammentazione,
«il frammentato viene ricondotto a lui, come centro ideale, e parimenti ciò che è interiormente scisso viene riconciliato a unità»[22].
Il culmine di una tale azione redentiva cosmico-storica lo si raggiunge in Col 2, 14-15. Qui l’opera riconciliatrice di Cristo viene descritta a due livelli: economico e politico. Sul piano ‘economico’ tale opera viene identificata con la remissione del debito contratto dagli uomini con il peccato e quindi con la cancellazione del cheirographon tois dògmasin, o hen ypenantìon hemìn, «il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario»: la cambiale di debito viene tolta di mezzo inchiodandola alla croce. Sul piano ‘politico’, l’opera conciliatrice di Cristo consiste nel privare della loro forza i Principati e le Potenze e nel farne pubblico spettacolo, trionfando su di loro. In entrambi i casi, decisivo è il carattere di pubblicità, di Öffentlichkeit di tale opera. Che cosa rappresenta tuttavia, esattamente, il chirografo, la cambiale di debito che fa qui, quasi ex abrupto, la sua comparsa? L’interpretazione che ne fornisce Pfleiderer è interessante e, a quanto mi consta, anche piuttosto originale.
Esso è, afferma lapidariamente il teologo di Stetten, la legge, das Gesetz, ossia un documento positum, posto (come plasticamente rappresentato dal suo essere inchiodato sulla croce dalla quale pende il Cristo). Nella misura in cui, però, un tale documento viene posto, esso diventa gramma, littera. E to gramma apokteinei, «la lettera uccide», come si legge in 2Cor 3,6. Insomma, la redemptio operata da Cristo coincide con la speranza migliore che subentra al letteralismo della legge che, secondo la Lettera agli Ebrei, «non ha portato nulla alla perfezione» (Eb 7,19), è cioè il pneuma zōopoienten, lo spirito che vivifica:
«la caratteristica locuzione ‘chirografo’», spiega dunque Pfleiderer, «è scelta con riguardo al fatto che la lettera della legge che condanna il trasgressore è qui una cambiale di debito che consegna il debitore nelle mani di forze spirituali ostili. Ora, queste ultime, similmente a quanto si riscontra anche nella Lettera agli Ebrei, subentrano nel posto che Paolo ha generalmente riservato alla personificazione della legge; ciò che Paolo ha rappresentato come affrancamento dalla legge che ci tiene imprigionati sotto la sua maledizione si ristruttura qui secondo due direttrici: in primo luogo, la cambiale di debito, ossia la notifica del nostro essere condannati dai divieti della legge, è tolta di mezzo e viene appesa sulla croce, il che equivale a dire che la colpa che secondo la lettera della legge grava su di noi cessa definitivamente di essere il muro di cinta tra noi e Dio; in secondo luogo, le forze ostili, che, per così dire, erano le legittime depositarie di quella cambiale di debito e che, in forza di ciò, ci tenevano sotto il loro comando e il loro imperio sono, con l’estinzione della cambiale, private del loro potere su di noi»[23].
Insomma: la metafora del ‘chirografo’ ha lo scopo di inverare quella liberazione dal potere delle tenebre e il conseguente trasferimento nel Regno del Figlio amato nel quale conseguiamo la redenzione, ovvero la remissione dei peccati, di cui si allude in Col 1,13.
L’oscillazione semantica, quando non la vera e propria trasposizione lessicale, tra ‘peccato’ e ‘debito’ è peraltro un topos del contesto neotestamentario: se, per esempio, nel terzo Vangelo, e segnatamente nel passo della Oratio dominica (il «Padre Nostro»), non si trova alcun riferimento al ‘debito’ e in Lc 11, 4 si parla, genericamente, di «peccata», in greco: «amartìas» (il passo suona, secondo la Vulgata: «dimitte nobis peccata nostra, siquidem et ipsi dimittimus omni debenti nobis»), è nel Vangelo di Matteo, l’autore che non a caso la tradizione identifica con Levi, esattore di imposte nella città di Cafarnao e uno dei Dodici (cfr. Mt 9, 9-13; Mc 2, 14-17; Lc 5, 27-32), che compare espressamente la locuzione «debita» (in greco: «opheilēmata») poi adottata nella pratica devozionale e liturgica: «Et dimitte nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris» (Mt 6, 12).
In tale prospettiva, la «remissione del debito» della Oratio dominica viene ad assumere una valenza tutta particolare di allusione alla redenzione operata dalla passione, morte e risurrezione di Cristo. Che allora si tratti di «debita», secondo la lezione matteana della Oratio, o di «peccata», secondo invece la lezione lucana, decisiva, nell’ottica di una lettura teologico-politica, appare comunque l’irriducibile concentrazione cristologica del rapporto tra credito, debito, riduzione a schiavitù e liberazione redentrice, secondo la mirabile sintesi offerta, con un grande affresco di teologia della Menschheitsgeschichte, dall’incipit del quarto capitolo della Lettera ai Galati che inserisce nuovamente il discorso redentivo nella dinamica, accennata da Pfleiderer, del rapporto tra la lettera e lo spirito:
«Dico ancora: per tutto il tempo che l’erede è fanciullo, non è per nulla differente da uno schiavo, benché sia padrone di tutto, ma dipende da tutori e amministratori fino al termine prestabilito dal padre. Così anche noi, quando eravamo fanciulli, eravamo schiavi degli elementi del mondo. Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!”. Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio» (Gal 4, 1-7)[24].
Ora, se nel contesto della Lettera ai Galati, «l’avvento dell’inizio dell’eschaton, della giustificazione degli empi in vista dell’imminente giudizio escatologico»[25] è individuato nella possibilità di predicare a tutti gli uomini, ebrei e gentili[26], nell’impero come anche fuori di esso, nella Lettera ai Colossesi, invece, l’affrancamento dalla condizione servile e l’adozione del titolo di figlio sono raffigurati come l’effetto dell’azione del Padre che rende gli uomini «capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce» (Col 1,12). Questa partecipazione, sottolinea Pfleiderer, «è la gloria [doxa] futura nella cui eredità i cristiani già ora, come figli di Dio, sono inseriti»[27]; un’eredità scandita da una precisa ritmica storica: se c’è stato un tempo in cui gli uomini erano «stranieri e nemici, con la mente intenta alle opere cattive» (Col 1, 21), la crocifissione di Cristo segna il punto di svolta nella storia, il momento in cui egli riconcilia gli uomini «nel corpo della sua carne mediante la morte» (Col 1,22).
A ben guardare, la concentrazione sulla morte in croce di Gesù come punto di svolta epocale della storia, come cardine essenziale di una filosofia teologica della storia, rappresenta per Pfleiderer il nucleo tematico fondamentale dell’intero paolinismo. In ciò, egli mostra di condividere e di portare a compimento un’intuizione delle Vorlesungen über neutestamentliche Theologie di Ferdinand Christian Baur:
«Se sovrapponiamo», scrive dunque Baur, «l’insegnamento dell’apostolo Paolo all’insegnamento di Gesù, ci avvediamo immediatamente della grande differenza che sussiste qui tra un insegnamento che si esprime ancora nella forma di un principio generale e un concetto dottrinale già orientato alla definizione del dogma; tra i due insegnamenti intercorrono moltissimi elementi che rappresentano il presupposto indispensabile senza il quale una tale evoluzione non sarebbe mai stata possibile. È soprattutto la morte di Gesù, con tutto ciò che essa comporta, il momento fondamentale di questo processo evolutivo, quello cioè in virtù del quale il cristianesimo assume una forma essenzialmente diversa da quella delle origini. È mediante la sua morte che la persona di Gesù acquista l’alto significato che detiene per la coscienza cristiana»[28].
Un’idea ripresa da Albrecht Ritschl secondo il quale la tonalità di fondo del Nuovo Testamento nella interpretazione paolina consisterebbe nell’aver contrastato il predominio farisaico della Legge con il predominio della Grazia, con ciò anteponendo l’etico-religioso al formalismo della lettera e del ritualismo[29]. Come è noto, Ritschl è colui che, nell’ambito di una rielaborazione della cosiddetta Vermittlungstheologie, di derivazione schleiermacheriana, cioè del tentativo di conciliazione e mediazione tra il contenuto dottrinale della fede e le istanze storiche e pratiche della coscienza moderna, ha maggiormente incorporato elementi kantiani, sottolineando la preminenza della fede pratica rispetto alla dottrina, dell’eticità individuale rispetto alla metafisica[30]. Ne consegue per Ritschl una preferenza accordata alla vita activa rispetto a ogni elemento mistico e contemplativo scaturente dall’esperienza religiosa – al punto che un fenomeno come il pietismo viene da lui letto, nella monumentale Geschichte des Pietismus, come una sorta di degenerazione cattolicizzante[31] – e la sua dogmatica risulta così fortemente orientata in senso etico, dovendo la sua fondazione non ad una qualche teologia naturale, bensì ad un teismo personalistico basato sulla redenzione in Gesù Cristo.
Una preferenza tutt’altro che improblematica e nella quale si riflette, con tutta probabilità, l’intima fibrillazione degli ultimi sviluppi della teologia ritschliana al cospetto della trasformazione in chiave «mistico-spiritualista» della teologia liberale operata in particolare da Ernst Troeltsch[32]; a ogni modo sia, non sussiste dubbio circa il fatto che è proprio nella linea di tale preminenza etica della vita activa che da ultimo va inquadrato il contributo di Pfleiderer (quale che ne sia il giudizio che a oltre un secolo di distanza se ne voglia dare) a una teologia politica del paolinismo.
[1] Cfr. A. Radmüller, Zur Germanisierung des Christentums, in «Zeitschrift für junge Religionswissenschaft» [Online], 7/ 2012, http://zjr.revues.org/399 (ultima consultazione: 15.11.2017).
[2] E. Troeltsch, Logos e mito nella teologia e nella filosofia della religione, in F. Ghia (ed.), Scritti scelti di Ernst Troeltsch, Utet, Torino 2005, pp. 185-221, qui p. 199.
[3] Cfr. A. Bonus, Religion als Schöpfung. Erwägungen über die religiöse Krisis, Leipzig 1902..
[4] Cfr. W. Fenske, Wie Jesus zum “Arier” wurde. Auswirkungen der Entjudaisierung Christi im 19. und zu Beginn des 20. Jahrhunderts, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 2005.
[5] E. Troeltsch, Logos e mito nella teologia e nella filosofia della religione, cit., p. 201.
[6] Ivi, p. 200. Per questo motivo, prosegue Troeltsch, «il Cristianesimo non è semplicemente l’unica forza religiosa della nostra cerchia culturale a noi accessibile, ma anche in generale la grande forza religiosa dell’umanità. Non turbati dalle impressioni lasciate dai grandi sistemi religiosi esterni, né da ogni filosofia naturalistica o idealistica e neppure dai cedimenti umani della storia cristiana, si crede qui con superiore certezza di sé e con decisione puramente soggettiva e religiosa in una importanza e in una forza non ancora esaurita del mondo vitale cristiano. Espressione di questo mondo vitale non è una dottrina o una teoria, ma il farsi valere artistico e suggestivo della sua forza interiore. Esso non agisce mediante dimostrazioni, ma mediante un modello e l’eccitazione della fantasia» (ibid).
[7] Sul punto cfr. F.W. Graf, Die Wiederkehr der Götter. Religion in der modernen Kultur, Beck, München 20043.
[8] Per un inquadramento teologico e filosofico delle intenzionalità dell’opera di Pfleiderer si veda G. Ghia, J.G. Fichte und die Theologie. Elementen und Figuren einer theologischen Interpretations- und Wirkungsgeschichte von Fichtes Philosophie, Dr. Kovač, Hamburg 2004, pp. 149-170 («Der ethische Idealismus Fichtes als Form spekulativer Religionsphilosophie: Otto Pfleiderer»).
[9] Cfr. O. Pfleiderer, Das Urchristenthum. Seine Schriften und Lehren, in geschichtlichem Zusammenhang beschrieben, Berlin 19022, Bd. I, p. VII.
[10] Cfr. Id., Der Paulinismus. Ein Beitrag zur Geschichte der urchristlichen Theologie, zweite, verbesserte Auflage, Leipzig 1890.
[11] Id., Religionsphilosophie auf geschichtlicher Grundlage, Bd. II: Genetisch-spekulative Religionsphilosophie, Berlin 18963, pp. 328-329.
[12] Id., Geschichte der Religionsphilosophie von Spinoza bis auf die Gegenwart, Berlin 18933, p. 294.
[13] Id., Der Paulinismus, cit., p. 377.
[14] Ivi, p. 379.
[15] Ivi, p. 378.
[16] Ivi, p. 380.
[17] Infatti, rimarca Pfleiderer, la speranza che innerva in maniera sostanziale la trama del corpus paolino rinviene «il suo motivo religioso nella mistica della fede paolina in Cristo, in cui il cristiano si sente in una comunione spirituale con il Signore, che è Spirito, talmente intensa da rinvenire già qui e ora il proprio elemento autentico nell’essenza del pneuma, dunque della vita ultraterrena, celeste ed eterna, che non è spezzata dalla morte del corpo e che anzi neppure viene per così dire interrotta da una temporaneo stato di sonno, ma piuttosto giungerà al suo pieno compimento nella gloria dei figli di Dio e si manifesterà in un organismo a ciò conforme nel Regno dei cieli» (ivi, p. 283).
[18] Ivi, p. 381.
[19] Ibid.
[20] Ibid. Resta naturalmente aperta la questione se qui Pfleiderer non enfatizzi eccessivamente il debito dell’autore della Lettera verso lo gnosticismo e se forse il giudizio non vada piuttosto sfumato nella direzione di più generiche categorie ellenistiche.
[21] Ivi, p. 383.
[22] Ibid.
[23] Ivi, p. 385.
[24] Con la Lettera ai Galati, infatti, ne va «da un lato della autonomia dell’attività apostolica di Paolo, dall’altro lato del pieno diritto di esistenza all’interno della comunità dei credenti in Cristo di un cristianesimo di derivazione pagana, senza che i pagani di un tempo, come invece volevano i loro oppositori, fossero obbligati ad accogliere la legge ebraica e quindi a diventare, oltre che cristiani – per esempio mediante la circoncisione –, anche ebrei; una disputa che riportava da ultimo a un confronto sulla validità di principio della legge mosaica in quanto tale» (ivi, pp. 293-294).
[25] M. Pesce, Marginalità e sottomissione. La concezione escatologica del potere politico in Paolo, in P. Prodi – L. Sartori (eds.), Cristianesimo e potere, Bologna 1986, p. 55.
[26] CFr. O. Pfleiderer, Der Paulinismus, cit., p. 300.
[27] Ivi. p. 387.
[28] F. C. Baur, Vorlesungen über neutestamentliche Theologie, hrsg. v. F. F. Baur, Leipzig 1864 (repr. Nachdr.: Darmstadt 1973), p. 123.
[29] Cfr. A. Ritschl, Die christliche Lehre von der Rechtfertigung und Versöhnung, Bd. II : Der biblische Stoff der Lehre, Bonn 18893.
[30] Per una presentazione della teologia di Ritschl e del suo contesto cfr. H. Stephan – M. Schmid, Geschichte der evangelischen Theologie in Deutschland seit dem Idealismus, Berlin-New York 19733, pp. 246-385 (Von A. Ritschl bis zum ersten Weltkrieg). Sul rapporto di Ritschl con Kant si veda l’articolo di P. Wrzecionko, Der geistesgeschichtliche Horizont der Theologie Albrecht Ritschls in «Neue Zeitschrift für systematische Theologie» V (1963), pp. 214-234.
[31] K. Barth, Die Kirchliche Dogmatik, IV/1, Zürich 1953, p. 427. Si consideri questa acuta notazione di K.E. Apfelbacher: «Troeltsch è religiosamente e teologicamente di casa nella tradizione mistico-spiritualistica. La teologia di Ritschl invece è marcatamente segnata in senso anti-mistico (…) Questa contrastante attitudine per la tradizione mistico-spirituale dovrebbe di fatto essere il punto peculiare sul quale è fallita, nella sostanza, la ricezione della teologia di Troeltsch da parte della teologia specialistica. Non solo la scuola di Ritschl, ma l’intera teologia ‘positiva’ e la direzione ecclesiale da essa plasmata vogliono salvare la sostanza cristiana della tradizione e la stabilità della chiesa ricacciando il più possibile indietro dalla teologia e dalla chiesa l’universo concettuale mistico-spiritualista e la soggettività, ad esso connessa, dell’esperienza religiosa personale. Troeltsch invece è convinto che si può trovare una via d’uscita dalla disorientata situazione religiosa e spirituale solo se le chiese e la tradizione mistica si compenetrano a vicenda» (op. cit., p. 174 s.).
[32] Cfr. sul punto T. Rendtorff, «Meine eigene Theologie ist spiritualistisch». Zur Funktion der Mystik als Sozialform des modernen Christentums, in F.W. Graf – T. Rendtorff (eds.), Troeltsch-Studien VI: Ernst Troeltschs Soziallehren. Studien zu ihrer Interpretation, Gütersloher Verlag, Gütersloh 1993, pp. 178-192.