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The angel of Israel and the angels of nations in Midrashic sources
The essay focuses on one of the fundamental books for Jewish exegesis, namely the Bereshit Rabbà, and particularly on two episodes that concern the patriarch Ja’akov, better known as Jacob, present in Genesis: the dream of the angelic staircase and the fight with a mysterious figure called ish (both set up at night, where man escapes from rationality to move towards a more symbolic language). Through an interpretation inspired by Emmanuel Lévinas, which analyzes the text in order to philosophically understand its content, the author highlights the constant dialectical tension between Israel and the other nations, or gojim, which as clearly explained in the article, still constitutes a strong element of Jewish religious and ethnic identity.
Il saggio si concentra su uno dei testi centrali dell’esegesi ebraica, ossia il Bereshit Rabbà, e in particolare su due episodi riguardanti il patriarca Ja’akov, meglio conosciuto come Giacobbe, contenuti nella Genesi: il sogno della scala angelica e la lotta notturna con un misterioso individuo chiamato ish (entrambi ambientati di notte, dove si fuoriesce dall’ambito della razionalità per trascendere verso un linguaggio maggiormente simbolico). Attraverso una lettura ispirata ad Emmanuel Lévinas, che analizza il testo al fine di comprenderne filosoficamente il contenuto, l’autore evidenzia la costante tensione dialettica tra Israele e le altre nazioni, o gojim, che come esplicitato chiaramente nell’articolo costituisce ancora oggi un forte elemento dell’identità religiosa ed etnica ebraica.
Il mio contributo si concentrerà sull’analisi di alcuni midrashim sul tema degli angeli contenuti nel Bereshit Rabbà[1] allo scopo di mettere in luce la dialettica di incontro/scontro, tipica del pensiero rabbinico classico, tra Israele e le nazioni (gojjim). Si tratta di una dialettica dalla duplice rilevanza teologica e politica, che la letteratura ebraica medioevale ha elaborato in forma di esegesi e di interpretazioni di specifici passi biblici e che, come tale, costituisce fino ad oggi un elemento fondamentale dell’autocoscienza del giudaismo nelle sue due dimensioni costitutive: quella religiosa e quella etnica. Non mi preoccuperò dunque in questa sede di mostrarne l’attualità (che forse affiorerà spontaneamente nel lettore) ma solo di seguirne la trama ermeneutica, la ricca simbolica e quel tanto di pathos storico che ogni mitopoiesi incorpora per poi riflettere nella molteplicità delle sue codificazioni poetico-letterarie. Trattandosi poi di esegesi rabbinica su personaggi ed eventi della Genesi/Bereshit – testo fondamentale della cultura occidentale che narra delle origini del mondo e delle vite dei patriarchi Avraham, Izchaq e Ja’akov, e delle matriarche loro spose – non mi soffermerò sui rudimenti di cultura biblica che costituiscono il pre-testo e la cornice di tali midrashim[2]; piuttosto cercherò di offrire una lettura à la Levinas, ovvero un’analisi testuale finalizzata a una ricomprensione filosofica, ricca di implicazioni religiose e politiche, del tema “angelo di Israele/angeli delle nazioni” e, come ho detto, della dialettica che lo caratterizza.
In materia di angeli è senz’altro Ja’akov [Giacobbe] il patriarca che, secondo la narrazione biblica e le interpretazioni del midrash, vanta più esperienza. Sono due gli episodi della sua vita che richiamano la nostra attenzione: il sogno angelofanico della scala, che si legge in Gen 28,10-22; e la storia della lotta notturna con ish, un vivente dalla forma umana che pare ora angelo ora divinità, narrata in Gen 32, 23-33. Si tratta di due eventi notturni, di natura diremmo onirica, che hanno a che fare con una sfera sfuggente alla ragione diurna. Come a dire che, quando si parla di angeli o demoni, si va ad interrogare una sfera dell’esperienza umana – in questo caso dell’esperienza ebraica – che si sottrae alle categorie classificatorie del logos greco e preferisce esprimersi con un linguaggio oscuro e sfocato come è il linguaggio simbolico. Nondimeno, e in ossequio alle regole dell’ermeneutica rabbinica, va subito notato che questi due episodi sono incastonati in due storie più ampie e di ben più concreto, diurno valore (due storie che non esiterei a chiamare “politiche” in senso lato). Da una parte, il sogno della scala è circoscritto da e anticipa l’incontro tra Ja’akov e lo zio materno Labano, che si rivelerà per lui un amico-nemico, un congiunto-antagonista, un simile-diverso; d’altra parte, la lotta notturna con ish si svolge nel bel mezzo del reincontro tra Ja’akov e il fratello Esaù, a sua volta temuto come nemico e percepito come altro da sé, come ancestrale antagonista. Figli della stessa madre, Rivka [Rebecca], la tradizione li rappresenta fin dal grembo materno in conflitto e con buone ragioni di risentimento (la primogenitura e la promessa sono la posta in gioco economico-religiosa di questo conflitto). I due episodi, dunque, prendono il loro significato se letti in questi due contesti, e il Bereshit Rabbà non fa che raccogliere, senza preoccuparsi di renderlo coerente, il variegato materiale interpretativo sulle figure angeliche che attorniano il terzo patriarca che di quegli episodi notturni è il protagonista quasi assoluto. Il midrash, infatti, non risponde a un sistema logico-argomentativo ma a una simbolica rivelativa nella quale il principio di non-contraddizione non trova applicazione.
La LXVIII parashà commenta Gen 28, 10-13, con molta enfasi posta sul versetto 12 che dice: «E sognò [Ja’akov] di vedere una scala che poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco degli angeli di Dio che salivano e scendevano su di essa». Il paragrafo 12 si apre con una discussione sul valore dei sogni, dove si confrontano due tesi opposte: quella Rabbi Abbahu, per il quale i sogni non hanno influenza alcuna, e quella di Bar-Qapparà, per il quale «Non esiste sogno che non abbia spiegazione». Affermato dunque il pluralismo totale in materia di interpretazione dei sogni (inclusa la negazione che i sogni debbano essere interpretati), il Bereshit Rabbà elenca alcune possibili spiegazioni del versetto. Chi sono dunque gli angeli in questo contesto? Essi sono i sommi sacerdoti, che salgono sulla scala/piano inclinato del Tempio di Gerusalemme. Ma angeli sono anche Mosè e Aronne, le guide del popolo nell’esodo dall’Egitto. Più avanti, al paragrafo 13 (dove si sottolinea che «questi versetti si riferiscono all’esilio»), angeli sono i giovani Anania, Mishael e Azaria di cui parla il Libro di Daniele, quel Daniele che è angelo a sua volta. Nel trattato talmudico Shabbat 88a, a Rabbi Elazar è attribuito il detto: «Allorché i figli di Israele risposero ‘faremo e ascolteremo’, si fece sentire una bat qol [una voce dal cielo] che disse. Chi ha rivelato ai miei figli il segreto di cui solo i miei angeli sono depositari?». Dunque, tutti i bene’ Israel [i figli di Israele, gli ebrei], ai piedi del Sinai e ogni volta che ripetono l’adesione alla Torà, sono come angeli e dimostrano di conoscere il segreto e le prerogative degli angeli. Da questi passi si evince subito che il termine ebraico malakh [angelo] non va inteso come un concetto ontologico univoco ma piuttosto come un simbolo per una condizione aperta, come una categoria applicabile a diversi tipi di persone e, potenzialmente, a tutto il popolo di Israele. Ho citato il trattato Shabbat perché quell’idea viene ripresa e sviluppata proprio nel nostro testo, al paragrafo 12: «Rabbi Levi [disse] in nome di Rabbi Shmuel ben Nachman: Gli angeli del servizio divino, poiché svelarono i segreti del Santo, Egli sia benedetto, furono allontanati dal loro recinto per 138 anni». Forse questo spiega quel viavai angelico tra cielo e terra… che per gli angeli è una sorta di punizione, non dissimile dall’allontanamento di Prometeo dall’Olimpo, per aver sottratto agli dèi il fuoco facendone dono agli uomini.
Il testo continua: «Un’altra spiegazione: Gli angeli che accompagnavano Ja’akov in terra di Israele non lo accompagnavano fuori di essa. Quelli che lo accompagnavano in terra di Israele salivano; quelli che lo accompagnavano fuori della terra d’Israele scendevano». Questa spiegazione è un passaggio cruciale per diverse ragioni. Anzitutto, attribuisce agli angeli compiti diversi nei confronti di Ja’akov, destinato a diventare presto Israele; poi applica loro l’idea religioso-geografica dell’’alijà [salita] e della connessa jeridà [discesa], idea che si applica agli ebrei che vanno salendo in terra di Israele, o se ne dipartono scendendo; infine sottolinea il fatto che il protagonista del racconto, Ja’akov, sta per fare un’esperienza qualitativamente diversa, sta per andare – per scendere – in esilio. Ja’akov è diretto verso le terre di Labano, che per lui non sono casa ma luogo di inganno, di rischio, di lotta per la sopravvivenza. Come si legge nell’aggadà di Pesach [la liturgia pasquale]: «Considera quello che l’arameo Labano volle fare a Ja’akov nostro padre. Mentre Faraone decretò (di annientare) solo i maschi, Labano volle annientare tutto, secondo quanto è detto [Dt 26,5]: L’arameo volle distruggere mio padre (il quale poi scese in Egitto dove dimorò come straniero con poca gente e divenne là un popolo grande, potente e numetoso)». Questo midrash a Dt 26,5 costituisce l’avvio del racconto pasquale, che è il cuore dell’esperienza e dell’autocoscienza ebraiche: l’uscita dall’Egitto (=terra di schiavitù, sfruttamento e alienazione) al fine di ricevere la Torà (=riconoscimento della signoria di JHWH) e di entrare in Canaan (=terra promessa di libertà e benessere). Il midrash forza qui il senso letterale del passo deuteronomico per trovare un senso nuovo all’esperienza di Ja’akov/Israele, ed esagera anche la cattiveria di Labano. Il Maharal di Praga lo spiega così: «L’autore del midrash ha voluto dire che in ogni generazione sorgono nemici contro di noi [ebrei] senza ragione alcuna»[3].
Dunque, il contesto più profondo della lettura midrashica del sogno di Ja’akov è l’esperienza dell’esilio, durante il quale Dio provvede a Ja’akov/Israele con uno stuolo di angeli di custodia per proteggerlo dai nemici. La punizione degli angeli («allontanati dal loro recinto») si trasforma in un dono per Israele, che ne gode così la premurosa presenza quando, suo malgrado, è lontano dalla sua terra. Cos’è infatti l’esilio dal punto di vista delle Scritture? È il luogo del confronto e dello scontro tra Israele e le nazioni, simboleggiato dall’incontro/scontro tra Ja’akov e lo zio Labano da una parte (Gen 28-31), e dall’altra dall’incontro/scontro tra Ja’akov e il fratello Esaù (Gen 32-33). L’esilio significa instabilità e rischio di persecuzione, di fallimento, di morte; ma significa anche possibilità di esperire una speciale protezione divina, ossia l’intervento redentore di Dio tramite i suoi angeli. Si spiega così, a mio parere, l’ultimo paragrafo della parashà che stiamo analizzando. In Bereshit Rabbà LXVIII,14, infatti, i compilatori del midrash accostano ai versetti della Genesi alcuni passi del Libro di Daniele, libro esilico per antonomasia, e non a caso il primo testo canonico della tradizione ebraica a parlare esplicitamente di angeli delle nazioni[4]. Anania, Mishael e Azaria, e poi lo stesso Daniele, sono salvati dall’angelo del Signore e assurgono loro stessi a dignità angelica cioè a messaggeri divini, a martiri che Dio salva dalla distruzione, a eroi positivi dell’esperienza esilico-diasporica. Ma, come accennato, dentro questo contesto persiano anche le nazioni hanno i loro angeli che le difendono e le rappresentano davanti a Dio, che ne incarnano lo spirito e il destino. Nel nostro testo, il sogno di Ja’akov è anticipazione e cifra del sogno di Nabucodonosor ed è spiegato così: «Ed ecco gli angeli di Dio salivano (Gen 28, 13). Due scendevano, due salivano: essi sono i principi dei quattro imperi, coi quali si completa il loro dominio nel mondo». Dove principi ed angeli sono termini intercambiabili, ad indicare l’eguale dignità di guide e di ambasciatori. Quali sono questi quattro imperi? Lo sappiamo appunto dal Libro di Daniele: sono Babilonia, Media, Persia e Grecia. Il midrash prosegue:
«Salivano e scendevano: qua non sta scritto scendevano e salivano; sta invece scritto salivano e scendevano. Essi salgono, ed avranno un’ascesa, ma ciascuno di essi è inferiore a quello che lo precede. Sta scritto: La sua testa era di oro puro, le sue braccia d’argento, il suo ventre ed i suoi lombi di rame, le sue cosce di ferro, ecc. [Dan 2, 38]. Babilonia sta al di sopra di tutti, come sta scritto: Tu sei la testa d’oro [Dan 2, 38]; e sta scritto: Dopo di te sorgerà un regno inferiore al tuo [Dan 2, 39]; e sta scritto: Ed il terzo regno sarà di rame [Dan 2, 39]; e sta scritto: Alla fine [Dan 2,42]. E le dita dei piedi in parte di ferro ed in parte di argilla, poiché una parte del regno sarà forte ed una parte sarà fragile [Dan 2, 42]. Ed ecco il Signore stava sopra di lui [Gen 28, 13], come sta scritto: Ed ai giorni di quei re, il Dio del cielo farà sorgere un regno, che in eterno non sarà distrutto, ecc. [Dan 2. 44]».
Questa citazione, che costituisce la chiusura dell’intera parashà LXVIII, sembra voler suggellare la lettura teologico-politica del midrash al sogno di Ja’akov, e sancirne il peso specifico che assume per il giudaismo contemporaneo alla sua codificazione. L’esilio è come un palcoscenico dove si esibiscono i regni di questo mondo, che sorgono (salgono) e muoiono (scendono), in attesa che Dio instauri il suo regno su/per mezzo di Israele. Ja’akov è cifra di Israele, sul quale transitano come su una scala i principi di questo mondo, simboleggiati dai loro angeli in continuo andirivieni; ma a differenza di quelli, a Ja’akov/Israele Dio garantisce un regno eterno, un regno che non tramonta. La tesi di questa parashà è semplice e contiene un chiaro messaggio che è, ad un tempo, religioso e politico: mentre i popoli con i loro re e regni passano, il popolo d’Israele – il cui re è Dio – non passa ed è destinato a rimanere come una scala che unisce cielo e terra. Si tratta di un messaggio di messianismo politico, destinato a consolare e rafforzare la speranza del popolo sconfitto che nella desolazione dell’esilio aspetta riscatto e redenzione da un eroe (un angelo o un messia) mandato da Dio (un Ciro? un Daniele? un Asmoneo?). Ma si tratta anche di un messaggio teologico di natura profetica, in virtù del quale Israele sa di essere un popolo-ministro, un popolo-ponte, un popolo-scala – ecco il sogno – di cui i gojjim, gli altri popoli, si servono per conoscere e ascendere al vero Dio. La scala è simbolo del Tempio ma anche del monte Sinài, e dunque della rivelazione che Israele assume su di sé attraverso il «giogo dei precetti». Il midrash lo ha detto chiamando angeli le due nutrici di Israele al Sinài: Mosè e Aronne. Ecco svelato il segreto dell’esilio ebraico e il suo significato agli occhi di Dio: punizione e missione, castigo e ambasceria, solitudine e nobiltà, disprezzo (leggi: antisemitismo) e gelosia (leggi: riconoscimento dell’unicità e del valore del messaggio di cui Israele è portatore). Questo vide in segno, secondo il midrash, il terzo dei patriarchi, colui che al popolo diede addirittura il nome di Israele, un nome il cui significato sarà rivelato nell’episodio seguente ma che sta già tutto in nuce in questa visione notturna che prepara Ja’akov alla dura lotta con Labano.
Entriamo ora in un corpo a corpo con il commento alla storia del conflitto tra Ja’akov e ish. Le vicende del rientro (o salita) del patriarca dalle terre di Labano alla terra di Canaan, il guado del fiume Jabbok e l’incontro con il fratello Esaù sono trattate nelle parashot LXXIV e LXXV. Ma occorre prima fermarsi su alcuni passi che ne costituiscono una premessa di senso. In Gen 32, 2-3 leggiamo: «Mentre Ja’akov continuava il suo viaggio, gli si presentarono davanti gli angeli di Dio. Disse allora Ja’akov al vederli: Questo è l’accampamento [in ebraico, machaneh] di Dio! E chiamò quel luogo con il nome di Machanajjim». Il passo è così commentato da Rabbi Chunà in nome di Rabbi Ajbù secondo il Bereshit Rabbà: «Sessanta miriadi di angeli danzavano davanti a nostro padre Ja’akov quando entrò in terra d’Israele, come sta scritto: E disse Ja’akov quando li vide: Questo è un accampamento di Dio, e alla Presenza divina non stanno meno di sessanta miriadi. II nostri maestri dissero: centoventi miriadi» (LXXIV, 17)[5]. Poiché una miriade corrisponde a diecimila unità, centoventi miriadi fanno salire il numero degli angeli che accompagnarono Ja’akov nella sua alijà a un milione e duecentomila. Tale era il valore di Ja’akov e del suo viaggio di ritorno agli occhi di Dio. Il versetto biblico successivo, Gen 32, 4, continua: «Poi Ja’akov mandò avanti a sé dei messaggeri a suo fratello Esaù, nel paese di Seir, la steppa di Edom». Questi messaggeri hanno il compito di ingraziarsi Esaù, di verificarne i sentimenti e di saggiarne le intenzioni, cioè di preparare diplomaticamente l’incontro tra i due fratelli che si erano lasciati in stato di conflitto. Gen 32, 7 conclude: «I messaggeri tornarono da Ja’akov dicendo: Siamo stati da tuo fratello Esaù; ora egli stesso sta venendoti incontro ed ha con sé quattrocento uomini». Fin qui il testo biblico, dal quale si evince l’importanza numerica di questi accompagnatori. Già in LXXIV, 17 il midrash aveva anticipato: «Rabbi Judan disse: [Ja’akov] prese di questi e di quelli [ovvero dai due machanajjim, scegliendo tra il milione e duecentomila angeli a sua disposizione] e ne mandò dei messi davanti a lui». In LXXV, 4 il commento ribadisce quest’interpretazione: «Messi. Messi in carne ed ossa. I nostri maestri hanno detto: Proprio gli angeli».
Assodato che Ja’akov avesse mandato angeli come ambasciatori di pace e riconciliazione al fratello, abbiamo qui un’interpretazione aggiuntiva che potrebbe illuminare l’episodio, misterioso ma fondamentale, della lotta notturna. In LXXV, 10, infatti, si legge un computo diverso: «Perché due accampamenti [machanajjim]? Ci insegna che furono assegnati a Ja’akov quattro miriadi di angeli del servizio divino [cioè quarantamila angeli], che assomigliavano agli eserciti reali. Alcuni erano vestiti di ferro; altri cavalcavano cavalli; altri sedevano su carri. Esaù incontrò quelli vestiti di ferro e chiese loro: A chi appartenete? Gli risposero: A Ja’akov». Cosa sta succedendo e cosa vuol dire questa storia? Succede che, prima che Ja’akov si incontri con il fratello Esaù, è questi ad incontrare gli angeli-ambasciatori di Ja’akov; di più, prima che Ja’akov s’imbatta nottetempo con ish – che, come vedremo, potrebbe essere l’angelo di Esaù – è Esaù ad imbattersi con gli angeli («simili a un esercito reale») che proteggono il patriarca. Il significato è: Ja’akov teme che Esaù sia ancora adirato con lui, che intenda distruggerlo, e che le di lui forze gli siano superiori. Gli angeli lo precedono nell’incontro per far sapere a Esaù che anche Ja’akov dispone di difese e di protezione (due interi accampamenti; o almeno quarantamila unità), e di converso per rassicurare Ja’akov affinché non si faccia prendere dalla paura di essere impari nel confronto con Esaù. Questi midrashim, in un certo qual modo, preparano la scena descrivendo l’atmosfera di guerra/scontro e rammentando così il vero contesto dell’episodio di Gen 32,23-33. A questo punto dovremmo forse cambiare il titolo dell’intera riflessione: non l’angelo di Israele e gli angeli delle nazioni; piuttosto gli angeli di Israele e l’angelo delle nazioni. Infatti, qui Esaù è cifra di tutte le nazioni del mondo e in qualche modo le rappresenta. Come lo sappiano? Dal midrash stesso.
In LXXVI, 6 leggiamo un passo che esplicitamente identifica Esaù con l’impero romano, punto terminale e simbolico di tutti gli imperi che salgono e scendono. «Salvami da mio fratello Esaù [Gen 32, 12]. Salva i miei discendenti in futuro dai suoi discendenti che saranno contro di loro per la forza di Esaù, come sta scritto». Segue citazione dal Libro di Daniele 7,8. «Questo corno aveva occhi umani ed una bocca che diceva cose grandi: Questo è il regno malvagio (Roma) che arruola soldati da tutte le nazioni del mondo». Pertanto, l’incontro/scontro tra Ja’akov ed Esaù assume un significato dal valore diacronico: è la guerra storica tra il popolo ebraico (i discendenti di Ja’akov/Israele) e i gojjim, le nazioni (i discendenti di Esaù/Edom/Roma). Su tale calco midrashico, tutta la tradizione rabbinica leggerà l’incontro/scontro tra Ja’akov ed Esaù come un conflitto tipico, di natura teologico-politica, dell’esperienza ebraica nella diaspora ma anche dentro la terra d’Israele. Si veda ad esempio il commento biblico di Rabbi Bachjà ben Asher, attivo tra il XIII e il XIV secolo a Saragozza: «Noi [figli di Israele] dovremmo seguire le orme dei nostri padri, cioè prepararci all’incontro con i figli di Esaù con doni, con un linguaggio umile e con preghiere a Dio. È impossibile per noi [vale a dire, ci è proibito] incontrarli in guerra, come è detto: Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme [Ct 8, 4], non provocate la guerra con le nazioni»[6]. A questo punto siamo pronti ad affrontare quell’evento della vita di Ja’akov noto, non a caso, con il nome di «lotta con l’angelo». La domanda: Chi è l’angelo dello Jabbok? può giustamente fare da guida alle molteplici interpretazioni che di questo passo biblico la storia dell’esegesi, ebraica e non, ha registrato[7]. Data la sua importanza nella presente riflessione lo riportiamo per intero.
Durante quella notte Ja’akov si alzò, prese le sue due mogli, le sue due serve, i suoi undici figliuoli, e passò il guado dello Jabbok. Li prese e fece passare loro il torrente, e fece passare anche tutto il suo avere. Ma Ja’akov rimase solo, ed ish [un uomo] lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Poi quello vide che non riusciva a vincerlo ed allora lo toccò all’articolazione del femore, e l’articolazione del femore di Ja’akov si slogò, mentre egli continuava a lottare con quello. Che disse: «Lasciami andare, perché l’aurora è spuntata». Rispose: «Non ti lascerò se non mi avrai benedetto!». Gli disse quello: «Qual è il tuo nome?». Rispose: «Ja’akov». Riprese: «Non più Ja’akov sarà detto il tuo nome ma Israel, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini, ed hai vinto!». Ja’akov allora gli chiese: «Dimmi il tuo nome, ti prego». Gli rispose: “Perché mai chiedi il mio nome?». Ed ivi lo benedisse. Allora Ja’akov chiamò quel luogo con il nome di Penuel «Perché – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva». Il sole spuntò quando egli ebbe passato Penuel e Ja’akov aveva l’anca claudicante. È per questo che i figli di Israele, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico che si trova sull’articolazione del femore, per il fatto cioè che quello aveva toccato l’articolazione del femore di Ja’akov sul nervo sciatico. Poi Ja’akov alzò gli occhi e vive Esaù che arrivava avendo con sé quattrocento uomini. [Gen 32, 23-33; 33, 1].
Chi è dunque ish, l’essere vivente che cambiò nome e destino a Ja’akov e alla sua discendenza? Il Bereshit Rabbà (LXXVII, 2-3) registra a questa domanda diverse risposte. Il già menzionato Rabbi Chunà disse: «Gli apparve sotto l’aspetto di un pastore» ossia di un competitore-antagonista; di più: «Gli apparve come un capo di briganti». Come non leggervi in controluce le figure di Labano e di Esaù, che per Ja’akov sono sì parenti ma anche competitori-antagonisti-nemici: il primo incute paura a Ja’akov dal passato; il secondo gli incute paura dal futuro… Ma il più esplicito è Rabbi Chamà ben Rabbi Chaninah, che disse: «[Ish, l’uomo senza nome dello Jabbok] era il principe di Esaù [ossia l’angelo protettore di Esaù] quello cui Ja’akov allude: Poiché ho visto il tuo volto come si vede il volto di un essere divino [Gen 33, 10]». Più avanti: «Rabbi Berekjà disse: Da ciò che sta scritto non sappiamo se ha vinto l’angelo o Ja’akov. Chi si è coperto di polvere? L’uomo che era con lui». E poco oltre il commento si fa più chiaro con una parabola: «E’ simile ad un re, che aveva un cane selvatico ed un leone addomesticato. Il re prese suo figlio, lo aizzò contro il leone, perché se fosse venuto il cane a combattere contro il figlio avrebbe detto: Il leone non ce l’ha fatta a prevalere e tu vuoi combatterlo! Così le nazioni del mondo vengono a combattere con Israele, dice loro il Santo, Egli sia benedetto: Il vostro principe non ce l’ha fatta a prevalere contro di lui, e voi cercate di combattere contro i suoi figli?». Dunque, colui che lottò [wa-ye’aveq] allo Jabbok contro Ja’akov (tutti i commenti non mancano di segnalare la stretta assonanza tra le tre parole ebraiche cui ho messo il corsivo) altri non è che l’angelo protettore di Esaù, il suo principe-guida-rappresentante, il quale in quanto simbolo dei romani è sintesi e cifra di tutte le nazioni che angustiano, vessano e mettono in pericolo l’esistenza dei figli di Israele. La lotta allo Jabbok è l’icona dell’eterno conflitto religioso e politico tra Israele e i gojjim, ma seppur ferito Israele esce sempre vincitore perché protetto non da un angelo né da un esercito di angeli ma da Dio stesso, il re. Questo è il senso immediato della parabola testé riportata. Sempre secondo il midrash Ja’akov avrebbe anche detto all’angelo di Esaù: «Vuoi farmi paura con questo? Io sono tutto di fuoco, come sta scritto: E sarà la casa di Ja’akov di fuoco» [Abdia 1, 18].
Se l’interpretazione di ish come l’angelo/principe di Esaù/Roma è quella prevalente, non è certamente l’unica, soprattutto in luce dell’oscurità del brano, un’oscurità semantica e non solo meramente temporale. Cosa significa: «Hai lottato con Dio e con gli uomini, e hai vinto»? Al versetto 31, Ja’akov aveva anche detto: «Ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva». L’essere vivente con cui il patriarca lotta è forse più di un angelo, è una dimensione stessa di Dio. La tradizione rabbinica sa, infatti, che in Dio esiste anche un lato oscuro, sinistro, notturno, per così dire demoniaco, chiamato appunto sitra achrà, l’altra parte. Che sia con quest’altra parte di Dio che Ja’akov ha combattuto? In un’altra fonte si dice che l’angelo dello Jabbok ha nome Metatron, ma «poiché spesso Metatron è identificato con Michele [il custode di Israele], ne consegue qui che l’angelo opposto a Ja’akov era lo stesso mandato ad assisterlo»[8]. Ciò configura una situazione nuova, un diverso livello di senso per il brano: la lotta con l’angelo sta a significare un conflitto interiore, una lotta di Israele con sé stesso per diventare altro da sé, per diventare Israele. Infatti dalla lotta Ja’akov esce vincitore ma con il nervo sciatico dolente e con un nome nuovo, ossia con un’identità e una missione trasformate. Che dire poi del mistero della berakhà [benedizione] che Ja’akov chiede, anzi strappa, al suo avversario? Non doveva essere proprio il discendente di Avraham colui che benedice: «Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione… In te saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12, 2-3)?
L’identità di Ja’akov, ora divenuto Israele, deriva da questa lotta notturna e da questa berakhà strappata a forza (che richiama un po’ la primogenitura strappata con l’inganno al fratello Esaù). Il versetto di Gen 32, 29 è chiaro: «Non ti chiamerai più Ja’akov ma Israele, perché hai combattuto con elohim [esseri divini] e con anashim [esseri umani] e hai prevalso». Così il Bereshit Rabbà lo commenta in LXXVIIII, 3: «Coi celesti: si riferisce all’angelo. Rabbi Chamà ben Rabbi Chaninah disse: Era il principe di Esaù quello cui Ja’akov allude: Perché ho visto il tuo volto come si vede il volto di un essere divino (Gen 33, 10). Come il volto di un essere divino indica giudizio, ma anche il tuo volto indica giudizio, come per il Volto di Dio: E non vedranno il mio Volto a mani vuote (Es 23, 1), anche qui non vedranno il tuo volto a mani vuote. Con uomini, ed hai prevalso: si riferisce ad Esaù e ai suoi principi». Questo commento è rilevante per due ragioni: da una parte, conferma la lettura data sin qui, che ish è lo spirito-angelo-principe del fratello-nemico Esaù-Roma nel suo aspetto metafisico (religioso) ed umano (politico); dall’altra, collega il termine elohim di Gen 32, 29 con il termine elohim in Gen 33, 10, creando così un legame forte tra l’ish della lotta ed Esaù, e mettendo enfasi sull’immagine del volto (panim) al quale è connesso il concetto di giudizio. Il che, nella logica della nostra riflessione sul permanente conflitto esistenziale tra Israele e le genti, ha il significato di porre l’identità/missione di Israele costantemente dinanzi al «volto di Esaù/elohim», anzi costantemente sotto il giudizio di Esaù/elohim, come se tra il volto/giudizio delle genti e il volto/giudizio di Dio, per Israele, non vi fosse sostanziale differenza. In altre parole, qui Esaù rappresenta anche Dio. Ovviamente, il senso non è che l’anti-giudaismo dei popoli costituisce un giudizio di Dio su Israele (anche se il mistero della costante avversione dei popoli nei confronti di Israele può stimolare tale interpretazione sul piano di una teologia della storia). Piuttosto, il senso è che l’identità e la missione di Israele sono in costante tensione – come una lotta – con il resto del mondo, una tensione dialettica in virtù della quale Israele è ad un tempo autonomo e dipendente, benedicente e benedetto, giudice e giudicato, custode e custodito. Israele nasce esattamente da questa dialettica con le genti, le quali hanno sia diritto – come «volto di elohim» – a giudicare Israele, ma hanno parimenti il dovere di custodirlo e benedirlo, come se fossero l’angelo Metratron-Michele. In LXXVIII, 1 è scritto: «Rabbi Meir dice: Chi è più grande: il custode o il custodito? Da ciò che sta scritto: Egli per te ha ordinato ai suoi angeli di custodirti (Salmo 91, 11), si rileva che il custodito è più grande dei custodi». Con lo stesso procedimento, Rabbi Jehudà dice: colui che è portato è più grande di colui che lo porta. E Rabbi Shimon dice: colui che invia è più grande di colui che è inviato.
Emblematico è ancora il dialogo che il midrash mette sulle labbra di Dio a riguardo della ferita al nervo sciatico di Ja’akov: «Il Signore redarguì Michele: Perché hai fatto del male al Mio primogenito? E l’angelo: L’ho fatto soltanto per la Tua gloria. Perciò Dio assegnò all’arcangelo Michele la custodia di Ja’akov e della sua stirpe per l’eternità [dicendogli]: Come tu sei di fuoco, così anche lui; come tu sei a capo degli angeli, così lui lo è delle nazioni; come tu sei supremo fra le creature celesti, così egli lo è fra le genti. L’eccelso fra gli angeli sarà dunque preposto all’eccelso fra i popoli, così che interceda per lui presso Colui che è Eccelso fra tutti. Allora Michele disse a Ja’akov: Come puoi farti intimorire da Esaù, tu che hai prevalso su di me che sono il più eminente fra gli angeli?»[9]. La ferita al nervo sciatico nel corpo di Ja’akov/Israele e il divieto di mangiare i nervetti animali costituiscono un memento dell’ambivalente rapporto dialettico popolo ebraico-nazioni, un rapporto che non può mai essere risolto in termini o solo positivi (come se non esistesse un “giudizio delle nazioni”) o solo negativi (come se l’odio fosse l’unico modo per le nazioni di rapportarsi a Israele). Una storia, in LXXVIII, 5, sembra codificare il senso di quella ferita per tutte le generazioni di ebrei: «Ed egli zoppicava per la coscia (Gen 32, 32). Rabbi Jehushua ben Levi andò a Roma; al ritorno, arrivato ad Akko, gli andò incontro Rabbi Chaninah e lo trovò che zoppicava per la coscia ed osservò: Tu assomigli al tuo avo, che così zoppicava per la coscia». Alfredo Ravenna annota: «L’analogia è anche dovuta al fatto che egli tornava da Roma, identificata negli scritti rabbinici con Esaù. Ja’akov incontrò il principe di Esaù, e tu hai incontrato i maggiorenti [cioè il potere politico-militare] di Roma»[10]. Roma sta per la capitale dell’idolatria, per il potere che ha soggiogato il mondo e ha ereditato la malvagità di Babilonia.
Non a caso, nel confronto con l’angelo-principe di Esaù, Ja’akov cita il profeta Abdia (cfr. LXXVIII, 14), il cui brevissimo testo è una dura invettiva contro Esaù/Edom/Roma: «La casa di Ja’akov sarà un fuoco e la casa di Giuseppe una fiamma, la casa di Esaù sarà come paglia… Saliranno [gli esuli figli di Israele] vittoriosi sul monte Sion per governare il monte di Esaù e il regno sarà del Signore» (Abd 1, 18.21). Un’altra traduzione dice: «per giudicare il monte di Esaù». L’intera parashà LXXVIII del Bereshit Rabbà ha questo Leitmotiv che associa, in una comune condizione di sofferenza ma anche di mutuo servizio, i due fratelli-nemici. Al paragrafo 9, lo scontro rivela ancora una volta tutta la sua ambiguità con un gioco di parole fatto con il verbo baciare del versetto Ed Esaù gli corse incontro e lo baciò (Gen 33, 4) che assomiglia al verbo mordere: «Ci insegna che non venne a baciarlo, ma a morderlo, e il collo di nostro padre Ja’akov divenne di marmo e si guastarono i denti di quel malvagio. E che ci insegna [il verbo] piansero? Che questi [Ja’akov] pianse per il collo, e l’altro [Esaù] pianse per i suoi denti». La fratellanza non svanisce davanti alla conflittualità e all’odio, e gli obblighi restano reciproci. Nella scena dell’incontro, infatti, Ja’akov manda molti doni a Esaù, per ingraziarselo. E al termine del paragrafo leggiamo: «Tutti i mesi che Ja’akov risiedette in Bet-El onorava Esaù con regali. Rabbi Pinchas in nome di Rabbi Abbà disse: Tutti gli anni che Ja’akov risiedette in Bet-El non trascurò di offrire libazioni [per Esaù]». Non è un caso che questa citazione stia a commento del versetto E Ja’akov partì per Sukkot (Gen 33, 17). Durante la festa di Sukkot, infatti, a Israele è fatto obbligo dalla Torà (Nm 29, 12-39) di sacrificare settanta giovenchi o tori nel Tempio. Perché settanta? Perché tale è il numero biblico della totalità delle nazioni[11]. D’altro canto, un detto rabbinico riferito a Rabbi Oshajjià, al cui nome è legato l’intera raccolta di midrashim da cui stiamo attingendo[12], aggiunge: «Tutti quei doni che diede nostro padre Ja’akov ad Esaù, le nazioni del mondo li restituiranno al Re Messia in un futuro avvenire», mettendo cosi questa storia biblica nella prospettiva escatologica dell’attesa politico-messianica, quando appunto tutti i popoli riconosceranno l’eccellenza e il primato di Israele salendo sul monte Sion (Cfr. Is 2; Mi 4). Ma fino ad allora, il rapporto è sotto il segno dei volti, esposto al giudizio reciproco e alla reciproca custodia, cade cioè nella dialettica fratellanza-ostilità. Dal punto di vista di Israele, resta la costante trepidazione e il timore di venire sopraffatti da Esaù e dal suo angelo che lotta nella notte. Solo allo spuntar dell’alba Ja’akov/Israele sa di avere vinto; è azzoppato ma “ha visto Dio senza morire”. “E’ questa – si domanda il pensatore ebreo contemporaneo Joseph B. Soloveitchik – solamente la storia di un’esperienza individuale, o non piuttosto la storia della comunità d’Israele, impegnata in un’assurda lotta che dura da migliaia di anni?”[13].
[1] Primo dei dieci “libri” che compongono il grande commento scritturistico chiamato Midrash Rabbà, il Bereshit (o Genesi) Rabbà è una raccolta di midrashim esegetici molto antichi, codificata attorno al V secolo e.v. in terra d’Israele in un ebraico che ha subìto gli influssi dell’aramaico di Galilea e del greco. Si suddivide in 100 parashot, o capitoli, a loro volta composte da simanim, o paragrafi. L’editio princeps è del 1512 (Costantinopoli). La prima edizione critica è stata curata dagli studiosi J. Theodor e Ch. Albeck (Berlino 1912-1929). In italiano è tradotto e annotato da Alfredo Ravenna e pubblicato a cura di Tommaso Federici con il titolo Commento alla Genesi (Bereshit Rabbà) per i tipi della UTET, Torino 1978. Tutte le citazioni sono da quest’edizione.
[2] Per un’introduzione generale sia al lessico delle scienze bibliche che al concetto di midrash si consulti il volume Vademecum per il lettore della Bibbia, a cura dell’Associazione BIBLIA, Morcelliana, Brescia 1996, e in particolare i saggi: Lettura ebraica della Scrittura di Paolo De Benedetti; I metodi dell’interpretazione biblica di Armido Rizzi; e I grandi interpreti della Bibbia nella tradizione ebraica di Piero Capelli. Si veda anche, di David Banon, Le Midrach, Presses Universitaires de France, Paris 1995 (tr. it. Il midrash. Vie ebraiche alla lettura della Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001).
[3] Cit. in Sefer Angelo. Haggadà di Pésach secondo il rito italiano, a cura di Roberto Bonfil, Editrice Fondazione Sally Mayer, Milano 1962, pp.46-47, dove si trova una approfondita riflessione sul significato di questo midrash nel contesto della stessa aggadà.
[4] Ronald H. Isaacs, Ascending Jacob’s Ladder. Jewish Views of Angels, Demons, and Evil Spirits, Aronson, Northvale 1998 (tr. it. Lungo la scala di Giacobbe, Ecig, Genova 2000, p.48: «Il Libro di Daniele è il solo libro della Bibbia [ebraica] in cui gli angeli possiedono distinte personalità: a questi angeli vengono persino dati i nomi propri di Michele e Gabrielel. Inoltre, per la prima volta nel testo biblico, si incontra qui l’idea che ciascuna nazione abbia un angelo protettore, le cui azioni e i cui destini sono legati a quelli della sua nazione»).
[5] La spiegazione per questo gioco di cifre fa a sua volta parte del testo midrashico, che non esita a includere le regole del proprio ragionamento: «Machaneh [singolare per accampamento] sono sessanta miriadi; machanajjim [forma duale di machaneh] sono centoventi miriadi]». Un machaneh equivale a sessanta miriadi, ossia 60×10.000, ricorda A. Ravenna, in quanto seicentomila era il numero dei figli di Israele che uscirono dall’Egitto.
[6] Cit. in Aviezer Ravitzky, Messianism, Zionism, and Jewish Religious Radicalism, The University of Chicago Press, Chicago & London 1996, pp.227-228.
[7] Una recente rilettura del brano è offerta da Elena Loewenthal, Giacobbe: il volto di Israele, in Autori Vari, Alle origini dell’Occidente. L’Antico Testamento, Morcelliana, Brescia 2003, pp.23-33.
[8] Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei. II. Da Abramo a Giacobbe, Adelphi, Milano 1997, p.329 (nota 248). Secondo Ginzberg, anche altre fonti, tra cui il Targum Jerushalmi, confermano quest’interpretazione: l’angelo in lotta con Ja’akov altri non è che Michele, il suo stesso protettore.
[9] Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei, op. cit., pp. 187-188.
[10] Alfredo Ravenna, Commento alla Genesi. Bereshit Rabbà, op. cit., p.646.
[11] Sul significato universale ed escatologico della festa di Sukkot si legga Zc 14, 16: «Allora, fra tutte le genti che avranno combattuto contro Gerusalemme, i superstiti andranno ogni anno per adorare il Re, il Signore degli eserciti, e per celebrare la solennità delle capanne [sukkot]». Diversa e complementare è la festa di Shminì Azeret, che segue immediatamente la festa di Sukkot e che celebra l’intimità e il rapporto diretto tra Dio e i figli di Israele, nella quale di conseguenza è richiesto il sacrificio di un solo giovenco o toro. In un commento ai Pirqè Avot, il qabbalista Abraham Galante, attivo a Safed nel XVI secolo, dice che «la Shekhinà [la presenza immanente di Dio nel mondo] è chiamata Melakhà [cioè lavoro], perché ora, nel segreto dell’esilio, essa è condannata a lavorare per elargire la sua sovrabbondanza agli ‘esterni’ [le forze del male] e ai settanta principi [gli angeli delle nazioni]». La missione [malakhut] di Israele sta nell’operare lo stesso lavoro [melakhà]. Solo quando opera a favore delle nazioni, Israele si rivela essere il vero angelo [malakh] di Dio, il suo ministro [sar], secondo una delle possibili etimologie del nome Israele.
[12] Il Bereshit Rabbà è detto anche Bereshit de-Rabbi Oshajjià, in quanto questo maestro del II secolo e.v. è nominato all’inizio della raccolta.
[13] Joseph B. Soloveitchik, Riflessioni sull’ebraismo, Giuntina, Firenze 1998, p.234.