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This paper shows that while the Greek parrhesia is above all concerned with the public and political spheres, the one of the Jews integrates and directs both spheres towards a different perspective, in which the religious dimension is strongest. In this new dimension parrhesia is framed within a religion based on the “law”. In such a context, although on the one hand parrhesia is a legitimate claim to freedom, on the other it can be turned into a licence to persecute those who do not obey the law. The history of the term, however, demonstrates how the dialectic between its exclusively political and exclusively religious use is a permanent feature of the biblical interpretation of parrhesia, both in the Jewish context and, subsequently, in that of the New Testament.
1) Voler ricercare il significato e la storia di un concetto (in questo caso parrhesia) sulla base di un’analisi lessicale non è un procedimento metodologicamente corretto, come già aveva fatto osservare a suo tempo James Barr nel suo famoso saggio sulla Semantica del linguaggio biblico[1], rivolto in gran parte a criticare l’impostazione del Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament[2], allora in via di pubblicazione. Tuttavia nel contesto del presente seminario, dedicato appunto allo studio della parrhesia, un termine ricavato dai testi biblici in greco, si può essere giustificati in qualche modo a tentare di chiarire il concetto seguendo la via della ricerca filologica per due motivi. Anzitutto, il seminario stesso sembra orientato a delineare lo sviluppo di un’idea tracciando una sorta di Wortgeschichte, e in secondo luogo, per quanto riguarda la parrhesia stessa, se dal Nuovo Testamento se ne può ricavare una qualche concezione più o meno complessa, per l’Antico Testamento (e anche per la letteratura cosiddetta apocrifa ad esso relativa) non ci si può affidare ad alcun appoggio concettuale previo per iniziare la ricerca. Se si assume come dato di partenza il Nuovo Testamento, si innesca semplicemente un processo anacronistico e circolare, poiché gli scritti neotestamentari rappresentano se mai il punto di arrivo o di uno sviluppo particolare di quanto hanno recepito dalla tradizione scritturistica su cui fonda la loro interpretazione. Pur riconoscendo, in linea generale, che anche la fissazione di un significato lessicale non è mai neutrale, si può in questo caso procedere all’esame dei testi pertinenti semplicemente per curiosità euristica, ed è anzi doveroso farlo per la stessa situazione testuale a cui ci troviamo di fronte.
2) Il sostantivo parrhesia, e il verbo corrispondente, si ritrovano nei testi in greco con una frequenza non molto ampia. Dove esiste anche un corrispondente testo ebraico, la traduzione greca (se tale si può definire) si presenta problematica: non è una semplice resa dell’ebraico e anzi talvolta sembra supporre un originale diverso, a sua volta poco chiaro in se stesso. Ciò potrebbe essere dovuto anche alla storia complessiva del testo biblico, dove ebraico e greco sono rispettivamente originale e traduzione soltanto in linea di principio, poiché di fatto le interferenze tra loro sono molteplici e, com’è noto, il testo masoretico è il punto finale di una tradizione nella quale la versione o le versioni greche si collocano in uno stadio precedente e possono aver influenzato la stessa fissazione dell’ebraico[3]. È però interessante che nel nostro caso l’ebraico dei passi in questione non sia perspicuo e che le divergenze tra ebraico e greco siano notevoli, tanto da fare dubitare che siano dovute semplicemente al lavoro di una “libera” traduzione.
3) Possiamo chiederci allora come mai i traduttori in greco (ovviamente per quei testi di cui possiamo verificare il passaggio linguistico) abbiano fatto ricorso a questo lessico e quale fosse il bagaglio culturale evocato da questa terminologia. E così pure, sarebbe opportuno chiarire quali fossero i punti di riferimento della tradizione culturale e religiosa giudaica a cui intendevano collegare tale evocazione. La scelta di un vocabolo invece di un altro non è indifferente, quando si passa da un sistema linguistico e lessicale a un altro che non gli è affine, poiché rischia di inserire nel testo un patrimonio semantico che è estraneo al suo ambiente di origine. E viceversa, se si vuole rimanere fedeli a quest’ultimo, bisogna adottare un vocabolario che nel suo uso nell’ambiente di arrivo lasci trasparire risonanze analoghe[4]. Non ci resta dunque che analizzare i due vocaboli che qui ci interessano, il sostantivo παρρησιͅα e il verbo παρρησιᾳζομαι, nelle loro ricorrenze nei testi veterotestamentari e in altri ad essi vicini. Va precisato inoltre che dal nostro punto di vista non possiamo formalizzarci su una distinzione canonica che escluderebbe dalla nostra ricerca almeno alcuni scritti che rientrano nella presente tematica: di fatto intendiamo qui per libri dell’Antico Testamento quelli che appartengono al canone cattolico, ma allarghiamo lo sguardo anche ad alcuni testi che rispetto ad esso sono considerati “apocrifi” (o “pseudepigrafi”). I passi che qui prenderemo in esame, naturalmente, sono già stati raccolti e trattati altrove, e specialmente da Heinrich Schlier alla voce corrispondente del Grande Lessico del Nuovo Testamento[5], che resta il nostro punto di riferimento principale, ma li organizziamo qui in maniera diversa e li affrontiamo seguendo un itinerario progressivo, a minore ad maius, suddividendo la rassegna in sei tappe e procedendo con un’analisi essenzialmente filologica, dalla quale cercheremo di trarre di volta in volta le deduzioni necessarie per una comprensione organica del concetto di parrhesia.
Iniziamo da due testi del Siracide, in cui il verbo παρρησιᾳζομαι e il sostantivo παρρησιͅα compaiono in un contesto in cui si danno consigli sul comportamento da tenere nei confronti dell’amico e della donna.
Sir 6,11 LXX (l’amico)
Nella tua fortuna sarà un altro te stesso
e parlerà liberamente con i tuoi servi.
Questa è la traduzione CEI[6] del testo greco che in 11b recita εἰ τοὖ οἰκεͅτα σου παρρησιᾳσεται. Si vuole mettere in guardia contro l’amico che è tale solo di nome, o che è solo ”compagno di tavola” (v. 10a). Il testo ebraico corrispondente, che qui possediamo nel manoscritto A, è più chiaro nell’avvertimento, perché si esprime in 11b con una contrapposizione che riprende quella di 10b (“ma non resiste nel giorno della tua sventura”: il verbo del greco è μἦ παραμειͅνη{ ma quello dell’ebraico, più concretamente, l’ ymṣ’, “non si trova”); 11b ebraico è dunque wbr‘tk ytndh mmk[7], che Luis Alonso Schökel traduce con linguaggio immediato e sbrigativo: “quando te va mal, huyen de ti”[8].
Il greco di 6,11b diverge dunque dall’ebraico. Nel suo commentario al libro del Siracide, Rudolf Smend[9] aveva ritenuto che il greco fosse il testo originale, poiché l’antitesi a 11a si ha propriamente non in 11b ma in 12a (che ancora nella traduzione di Alonso Schökel afferma: “si te alcanza la disgracia, cambian de actitud”, proseguendo poi in 12b: “y se asconden de tu vista”[10]). Per Smend l’ebraico perciò doveva essere diverso, cioè wb‘bwdtk (oppure wb‘bdyk) ytndb, “si comporterà come un despota sulla tua servitù”[11]. Egli suppone questo originale ebraico anche perché in Ez 16,30 Teodozione traduce con παρρησιᾳζομαι il verbo ebraico šlṭ. Ora, effettivamente il testo masoretico di Ez 16,30 parla di ’iššā’ zônāh šalleṭet (“donna fornicatrice che domina/tiranneggia”; CEI: “spudorata sgualdrina”) a cui corrisponde nella tradizione più attestata della LXX semplicemente γυναικο\ ποͅρνη, ma un’altra tradizione aggiunge effettivamente παρρησιαζομεͅνε[12]. Resta tuttavia dubbio il richiamo del verbo ndb ricostruito da Smend (che all’hitpael singifica “decidersi/offrirsi spontaneamente”) a šlṭ, “dominare, tiranneggiare”.
Insomma, sembra che in Sir 6,11 παρρησιᾳζομαι significhi un parlare potente, sfrontato, che anzi non si limita alla sfera verbale ma tende all’agire. Resta però problematico il modo con cui il verbo si rapporta all’ebraico, supponendo che la lezione del manoscritto A sia quella su cui si è fondato il traduttore in greco. Resta cioè il dubbio se l’ebraico potesse essere diverso oppure se la traduzione sia un’interpretazione che trasforma una racomandazione ad allontanarsi fisicamente dall’amico non sincero in una locuzione energica pronunciata da quest’ultimo nei confronti dei servi dell’amico (sincero). Se di interpretazione si tratta, si deve osservare che è piuttosto singolare, anche perché non si precisa in quale senso si parli ”liberamente” ai servi: dal contesto si potrebbe dedurre che il rivolgersi loro senza ritegno possa condurre a una denigrazione del padrone, oppure quasi a sostituirsi a lui come capo della casa e della servitù[13].
Sir 25,25 LXX (la donna)
Non dare all’acqua via d’uscita
né libertà di parlare a una donna malvagia.
Il v. non ha un corrispondente nell’ebraico, dove manca nel manoscritto C (che d’altra parte è antologico), come pure è assente il v. 26, che conclude la pericope sulla donna malvagia (vv. 13-26) con una pena severa: “Se non cammina al cenno della tua mano, separala dalla tua carne”.
In greco 25b è così formulato: μηδε\ γυναικἶ πονηρά{ παρρησιͅαν. Va però notato che una variante in luogo di παρρησιͅαν ha ἐξουσιͅαν (“potere”)[14], e ciò permette di accostare l’affermazione a quella di 30,11, dove si raccomanda di non dare una tale ἐξουσιͅα al figlio nella sua gioventù (e l’ebraico, con il verbo mšl al causativo, è ancora più esplicito: “non far sì che egli abbia potere/autorità”).
Ma di quale libertà o potere si tratta in 25b? Nel greco del manoscritto minuscolo 248 si aggiunge ἐξοͅδου, cui corrisponde il latino (= v. 34) veniam prodeundi, quindi ci si riferirebbe a una libertà di “uscire” o di “comparire”, e ciò sarebbe in parallelo con la “via d’uscita” (διεͅξοδον) dell’acqua di 25a. Un altro manoscritto minuscolo (443) aggiunge però τού λαλείν, ossia “di parlare”. Per completare il quadro, possiamo aggiungere che il siriaco in luogo di παρρησιͅαν ha “volto e potere” (’p’ wšwlṭn’): riferendosi al Thesaurus Syriacus di Robert Payne Smith[15], nel suo commentario Smend[16] afferma che “volto” va inteso nel senso di volto scoperto, cioè senza velo, e in ciò consiste la libertà che non va concessa alla donna; del resto, il siriaco amplia il v. 25 aggiungendo un’affermazione che suona quasi come una nota esplicativa: “poiché come l’irruzione dell’acqua, che va e si ingrandisce, così una donna malvagia va e pecca”.
Sembra dunque che il testo non voglia parlare di una libertà generica o non intenda raccomandare semplicemente di non essere tolleranti verso la donna cattiva[17], ma abbia di mira una licenza più specifica, che nonostante le varianti che insistono sulla mobilità (uscire, mostrarsi) è più probabilmente quella del parlare[18]: la “via d’uscita” dell’acqua in 25a si adatta bene anche all’esercizio della parola schietta che qui diventerebbe sfrontata[19]. Si accentua quindi l’aspetto della locuzione, ma in senso negativo, nella sua applicazione alla donna; ciò è in linea con il contesto, che proprio immediatamente prima del nostro passo contiene la famosa e icastica asserzione : “Dalla donna ha inizio il peccato e per causa sua tutti moriamo” (v. 24).
In questi due testi di Ben Sira la parrhesia ci è ovviamente nota dal greco, che la intende o la applica in accezione negativa, ma va rilevato che non siamo in grado di conoscere quale sia esattamente il corrispondente ebraico. Nel primo caso infatti quest’ultimo è diverso ed è seguito dal siriaco, nel secondo manca ma il siriaco, almeno quoad sensum, si mostra vicino al greco; non sappiamo però se rifletta esattamente un ebraico (e in tal caso accentuerebbe il potere e la libertà, ma forse più nel senso del camminare o del mostrarsi in pubblico, anziché del parlare).
Sotto questo aspetto possono rientrare due testi, tratti dal libro dei Proverbi.
Pr 10,10
Chi chiude un occhio causa dolore,
chi è stolto di labbra va in rovina.
Questa è la traduzione del testo ebraico masoretico, che però in 10b ripete esattamente 8b (“chi è stolto di labbra va in rovina”), mentre il testo greco in 10a è abbastanza simile all’ebraico ma in 10b è diverso:
Chi fa cenno con gli occhi con inganno procura dolore agli uomini,
chi riprende a viso aperto procura pace[20].
Si discute se il greco di 10b oJ de\ ejle/gcwn meta\ parrhsi/aß eijrhnopoieiv sia da ritenersi originale[21], oppure supponga un ebraico diverso[22]. Di fatto aggiungendo μετἆ δοͅλου in 10a (“con inganno”) si crea un corrispondente al μετἆ παρρησιͅα di 10b e il v. viene a strutturarsi così su una contrapposizione dialettica nella quale l’inganno è il contrario di un rimprovero franco che crea pace[23]. La contrapposizione è inoltre più consona al tenore di altri detti del libro, secondo i quali un rimprovero di questo genere ottiene il suo effetto (cfr. 9,7; 25,12; 28,23)[24]. La parrhesia è dunque qui un parlare con franchezza, teso alla correzione morale (in antitesi con l’inganno) e soprattutto efficace.
Pr 13,5
Ebraico:
Il giusto odia la parola falsa,
l’empio disonora[25] e diffama.
Greco (LXX):
Il giusto odia la parola giusta,
l’empio si vergogna e non avrà franchezza.
Qui la contrapposizione tra giusto ed empio è classica e si equivale nell’ebraico e nel greco (rispettivamente ṣaddîq/rāšā‘ e διͅκαιοsͅἀσεβῃ), ma mentre l’ebraico prospetta quali siano le conseguenze sul piano sociale che l’empio procura con il suo parlare, il greco rimane ancora sul piano soggettivo dell’empio, a cui viene negata ogni “franchezza” (οὐχ ε⟧ξει παρρησιͅαν). Anche in questo caso, la “franchezza” del greco crea un’antitesi più marcata con la “parola” di 5a[26], nel caso in cui vada intesa come caratteristica del parlare dell’empio, benché non si possa escludere qui anche una connotazione passiva, e cioè che l’empio fa perdere fiducia alla sua parola da parte degli altri che la ascoltano[27]. Indirettamente si viene a dire allora che la parrhsi/a è una prerogativa del giusto.
In questi due testi di Proverbi la parrhesia è dunque un parlare franco sul piano morale, che qualifica una persona anche dal lato religioso (il “giusto”), con effetti positivi. In ambedue i casi il termine è introdotto dal greco in un ebraico che non conosciamo (10,10) o che si esprime diversamente (13,5) e sembra andare oltre nel definire l’esito che lo stolto e l’empio possono conseguire con la loro parola.
Se si allarga lo sguardo alla sfera pubblica, che coinvolge anche il lato politico, possiamo prendere in considerazione tre o quattro testi, che possediamo soltanto in greco.
Est 8,12s (= E 19-20)
Il primo si trova nei cosiddetti ampliamenti del libro di Ester e si colloca verso la fine della lettera con cui il re Artaserse riabilita i Giudei dopo l’intervento di Ester a loro favore, revocando così in pratica quegli scritti di Aman che avevano scatenato una persecuzione nei loro confronti. Questa lettera – comanda il re – deve essere fatta conoscere in pubblico, in modo che i Giudei possano vivere tranquillamente secondo le proprie leggi (cfr. 8,11). Ma il passo che ci interessa pone qualche problema ed è quindi opportuno riportare anzitutto il suo originale greco, nel testo della LXX[28]:
το\ δε\ ἀντιͅγραφον τήs ἐπιστολήs ταυͅτηs ἐκθεͅντεs ἐν παντἶ τοͅπω{ μετἆ παρρησιͅαs ἐάν τοὖs Ιουδαιͅουs χρήσθαι τοίs ἑαυτών νομιͅμοιs
La difficoltà sintattica sta nel collegare il μετἆ παρρησιͅαs con quanto precede o con la frase infinitiva che segue il verbo ejavn. Di solito l’espressione viene tradotta in unione con ejn panti\ to/pwø e perciò si verrebbe a precisare che l’affissione di una copia della lettera deve avvenire “in ogni luogo pubblicamente”. Non esistono però difficoltà insormontabili a unirla a quanto segue[29] e perciò si otterrebbe il testo seguente (includendo anche una parte di quanto segue il passo citato sopra in greco):
Esposta invece una copia della presente lettera in ogni luogo, permettete ai Giudei di valersi con tutta sicurezza delle loro leggi e prestate loro man forte per respingere coloro che volessero assalirli al momento della persecuzione…
Questa è la traduzione CEI ma anche la “Bible de Jérusalem” intende allo stesso modo[30]. Bisogna osservare tuttavia che nel parallelo testo lucianeo (detto anche testo Alfa) manca μετἆ παρρησιͅαs; inoltre in 8,13 (LXX), al termine della lettera, si ribadisce che “le copie della lettera siano esposte in chiara evidenza (ὀφθαλμοφανώs) in tutto il regno”, usando quindi una diversa espressione[31]. Se però, anziché riferire il μετἆ παρρησιͅαs al banale gesto dell’affissione del documento in luogo pubblico, si può applicare l’espressione all’atteggiamento concesso ai Giudei nell’osservare quanto loro compete, si può dedurre che la parrhesia designa la libertà e la sicurezza nel tener fede alle proprie leggi, o meglio alle proprie “usanze” (νοͅμιμα)[32]. Il senso diviene socio-politico e trova la sua applicazione in un ambiente pluralista: non si tratta propriamente di autonomia politica, ma del riconoscimento dei diritti di un gruppo che vive all’interno di una società, e in questo caso tali diritti hanno una forte colorazione religiosa. Più in generale, ci troviamo di fronte a una situazione che dovrebbe esere regolata dal cosiddetto πολιͅτευμα.
Ciò che rende plausibile intendere il termine in questo senso sono però i due testi seguenti, tratti dall’apocrifo (o pseudepigrafo) terzo libro dei Maccabei.
3 Mac 7,12
Il contesto parla di una lettera con cui il re Tolomeo IV (221-204 a.C.) viene in aiuto ai Giudei (7,1-9). Questi chiedono poi al re di punire quanti tra loro avevano trasgredito la legge, e motivano la richiesta dicendo che costoro, essendo stati infedeli a causa del loro ventre, non sarebbero stati ben disposti nei riguardi degli affari del re (7,11). Ed ecco la risposta:
Dopo che ebbe riconosciuto che dicevano la verità e li ebbe lodati, il re concesse loro il salvacondotto generale per sterminare i trasgressori della legge di Dio in qualsiasi località del regno, in piena libertà senza nessun controllo o supervisione regia (μετἆ παρρησιͅαs α⸉νευ πᾳσηs βασιλικήs ἐξουσιͅαs καἶ ἐπισκεͅψεωs)[33].
La parrhesia non è più solo una facoltà di parlare, ma una libertà[34] di agire, in senso punitivo e contro i trasgressori della legge giudaica. Anche qui, il senso è “politico”[35] con risvolto religioso. Si deve agire in nome della propria legge, e anzi: lo zelo per la legge legittima la parrhesia, addirittura senza l’autorizzazione del re. Si direbbe che l’inquisizione sta dietro le porte.
E a questa accezione della parrhesia giudaica fa allora da riscontro, in senso contrario, lo zelo persecutorio contro gli stessi Giudei, autorizzato dal medesimo Tolomeo in una sua lettera precedente (3,12-29):
3 Mac 4,1
Dovunque questa ordinanza fu diffusa, fu organizzato un festeggiamento a spese pubbliche per i non ebrei con grida e (manifestazioni di) gioia, come se solo ora si esprimesse con piena libertà l’odio che da lungo tempo li infiammava nell’animo (μετἆ παρρησιͅαs νύν ἐκφαινομεͅνηs)[36].
In quest’ambito possiamo collocare allora anche un’accezione particolare della parrhesia, intesa come libertà politico-religiosa (a doppio senso): sul piano bellico più esplicito, essa può trasformarsi in autorizzazione a depredare il nemico, come si legge in 1 Mac 4,18, quando Giuda Maccabeo esorta i suoi a combattere contro Gorgia:
Ora voi siate pronti a opporvi ai nemici e combattete contro di loro; poi farete tranquillamente bottino (λᾳβετε τἆ σκύλα μετἆ παρρησιͅαs).
In conclusione, la parrhesia politico-religiosa ci è attestata soltanto in testi in greco e non ci è possibile quindi sapere come potesse esprimersi in un eventuale testo ebraico (o aramaico). Si potrebbe supporre che in questa sua valenza, cioè come libertà di osservare le proprie leggi, ma anche come possibilità di obbligare altri ad osservarle (e quindi come legittimazione della persecuzione religiosa), essa si sia affermata nell’ambiente della diaspora. Bisognerebbe allora verificare se in questa sua connotazione essa sia collegabile con una precedente o contemporanea concezione greca, oppure se si tratti qui di una interpretazione giudaica originale. Poiché prevale però l’elemento socio-religioso, si sarebbe portati a ritenere più probabile la seconda ipotesi, ma nello stesso tempo non si può fare a meno di rilevare l’ambiguità di questa trasposizione ermeneutica e anche il potenziale di violenza o di intolleranza che può contenere, pur con il paradosso o l’ossimoro che ne deriva (libertà di obbligare).
A conclusione di una sezione di un lungo discorso (Lv 25-26), nella quale si promettono benedizioni e prosperità per chi osserva le leggi (26,2-13, cfr. v. 2), mentre abbondano le maledizioni in caso contrario (26,14-43), YHWH presenta e qualifica se stesso come colui che ha liberato il suo popolo dalla schiavitù egiziana.
Lv 26,13
Io sono il Signore, vostro Dio, che vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, perché non foste più loro schiavi; ho spezzato il vostro giogo e vi ho fatto camminare a testa alta.
In questa traduzione l’espressione “a testa alta”, con cui si conclude il v., rende l’ebraico qômemiyyût, che è un hapax e si potrebbe analizzare come formazione nominale con terminazione in –ût di un aggettivo in –y[37] (peraltro non attestato), usata qui sintatticamente forse come accusativo indiretto con funzione predicativa[38] o più semplicemente con valore avverbiale. Derivando comunque dalla radice qwm (“alzarsi”) esprime l’idea di una posizione eretta, qui in senso sia letterale sia traslato.
Il greco si attiene fedelmente all’ebraico ma rende l’ultima frase con η⸉γαγον ὑμάs μετἆ παρρησιͅαs. Poiché il termine parrhsi/a sta in luogo di un hapax ebraico, e d’altra parte l’espressione è unanimemente attestata, senza alcuna variante[39], non sappiamo se lo si intenda trasporre semplicemente oppure in qualche modo interpretare. Di fatto, ora la frase fa dire a YHWH che ha condotto il suo popolo “con franchezza”[40] oppure “in piena libertà”[41], e in questo si deve intravedere anche una certa dose di sicurezza o di audacia e di coraggio[42]. Con questa traduzione, per Schlier “la παρρησιͅα appare quale segno distintivo dell’uomo libero rispetto al δούλοs“[43] e in ciò conserva ancora uno dei suoi tratti semantici che possiede nel mondo greco-ellenistico. Ma questo lo si deve anche al fatto che il testo parla espressamente di schiavitù. Bisogna però aggiungere che, pur nell’ambito di questa accezione inerente al termine, qui è Dio che la pone in atto, donandola al gruppo che ha fatto uscire dall’Egitto. Una simile provenienza divina rappresenta una novità, soprattutto per il fatto che la παρρησιͅα non si eplica qui a livello antropologico generale, ma è trasposta su un piano storico concreto, dai connotati salvifici: essa acquisisce perciò storicità e dinamicità. Si può concludere allora che questa traduzione greca interpreta un ebraico più generico o per lo meno estraneo a questo concetto applicato alla schiavitù.
La parrhsi/a che viene data dall’alto può così essere intesa come dono divino e proprio per questo può divenire prerogativa di un’altra realtà di origine divina, cioè la sapienza, come risulta dal testo seguente.
Pr 1,20
La sapienza grida[44] per le strade,
nelle piazze fa udire la sua voce.
Greco (LXX):
La sapienza nelle strade è celebrata
nelle piazze fa parrhesia (παρρησιͅαν α⸉γει).
In questa resa letterale di 20b va notata la strana costruzione che si ottiene, quasi con un giro perifrastico[45] che vuole evitare l’uso del verbo παρρησιᾳζομαι. In 2,3b infatti l’ebraico usa la stessa espressione (“dare/far udire la voce”) che viene tradotta alla lettera, come fanno in 1,20 anche Aquila, Simmaco e Teodozione. Ma come va intesa questa traduzione di 20b? Non si tratta di un semplice parlare, anche se l’aspetto allocutorio sta alla base di tutto il v., o per lo meno questo parlare, benché sicuro o fiducioso[46], tende a trasformarsi in azione[47]. L’aspetto del parlare fiducioso è evidente nel greco anche per il fatto che al v. 21b si rende due volte l’ebraico ”pronuncia i suoi detti alle porte della città”, e si discute su quale delle due frasi greche sia propriamente la resa dell’originale e quale ne sia l’aggiunta; la seconda (ἐπἶ δε\ πυͅλαιs ποͅλεωs θαρρούσα λεͅγει, “alle porte della città parla con fiducia”) con θαρρούσα si richiama certamente a παρρησιͅα di 20b[48]. Il connubio però tra parlare e agire, che si realizza in quest’ultimo testo, applicato a una realtà che proviene dall’altto, produce un suo effetto. Se si presta poi attenzione al passivo del verbo di 20a (ὑμνείται), si potrebbe addirittura intravedere una corrispondenza tra la celebrazione della sapienza, da parte di chi la invoca, e l’efficacia della sua azione. Comunque, anche se di fatto la sapienza deve constatare che non è stata seguita (e questo è il contenuto della pericope 1,22-33, introdotta appunto dai vv. 20-21), l’intento performativo che risulta dal greco è certamente nuovo rispetto all’ebraico.
Questi elementi racchiusi in una parrhesia di provenienza divina assumono connotati che possiamo definire “teofanici” in due testi dei Salmi, dove il rapporto tra la traduzione greca e l’ebraico è acora una volta abbastanza complesso.
Sal 93(94),1
Dio vendicatore, Signore,
Dio vendicatore, risplendi!
L’imperativo ebraico hôpîa‘ (“risplendi”)[49] di 1a, che è stato inteso come tale dalle altre versioni greche (Aquila, Simmaco, Teodozione e la cosiddetta “Quinta” di Origene) e anche dalla versione dall’ebraico di Girolamo, come pure dal siriaco, è tradotto qui dalla LXX con l’aoristo indicativo ἐπαρρησιᾳσατο. Di per sé si tratterebbe di versione grammaticalmente corretta, poiché hôpîa‘ è perfetto hifil di yp‘ in Dt 33,2; Sal 50,2 e Gb 37,15, ma qui il contesto dell’invocazione con cui inizia il salmo richiede l’imperativo, che in ebraico ne è forma omografa[50] (e l’imperativo compare infatti ancora due volte al v. 2). Il problema sta però nel vedere se qui il verbo greco supponga veramente un ebraico con yp‘ al causativo hifil. Per Schlier lo si può supporre[51], poiché altrove questo verbo ebraico è tradotto con forme composte del verbo φαιͅνω o comunque con suoi derivati: in Sal 79(80),2 si usa infatti ἐμφαιͅνεσθαι (“manifestarsi”) e in Sal 49(50),2b l’ebraico ’elōhîm hôpîa‘ è reso con ὁ θεο\s ἐμφανώs η⸀ξει, che Schlier traduce con “il Signore viene manifestamente”[52]. La stessa corrispondenza si avrebbe per Schlier anche nell’ἐπεͅφανεν Dt 33,2, ma qui la situazione è problematica, poiché questo verbo greco in 2b traduce l’ebraico zāraḥ, che propriamente si riferisce al “sorgere” degli astri, mentre hôpîa‘ di 2c è tradotto con κατεͅσπευσεν, “si affrrettò” (e sue varianti)[53]. In Dt 33,2, secondo l’ebraico, si parla di YHWH che “viene” dal Sinai (2a), “spunta/sorge” dal Seir (2b) e “appare” dal monte Paran (2c), ma secondo il greco della LXX “appare” dal Seir e “si affretta” dal monte Paran. Si può certo speculare sulla corrispondenza tra zāraḥ (“sorgere” di un astro) e l’ἐπιφαιͅνειν del greco: la manifestazione della divinità sarebbe intesa come un’apparizione del sole, e ciò può aver favorito l’interpretazione cristiana del testo, riferendolo a Cristo[54]. Così pure, benché la corrispondenza tra κατεͅσπευσεν e hôpîa‘ sia ancora più difficile da afferrare[55], si potrebbe pensare che il greco abbia voluto intendere l’ebraico piuttosto in senso metaforico (il “risplendere” come “brillare”, cioè un guizzare, e di qui l’dea di una certa fretta o velocità)[56]. Ma può essere più probabile, invece, che la LXX abbia scambiato semplicemente tra loro i due verbi ebraici, rendendo in 2b quello di 2c (cioè hôpîa‘) e in 2c quello di 2b (cioè zāraḥ)[57], per cui anche qui si confermerebbe quanto si constata in Sal 79(80),2 e 49(50),2. Questa supposizione può essere rafforzata dal fatto che in luogo di κατεͅσπευσεν di 2c Aquila ha ἀνεφᾳνη e Simmaco ἐπεφᾳνη, due verbi che possono richiamare hôpîa‘[58].
Ma restano dubbi sulla Vorlage della LXX. È significativo che nella concordanza della LXX di Hatch-Redpath[59] alla voce παρρησιᾳζεσθαι si indichi per Sal 93(94),1 la corrispondenza ebraica con yp‘ hifil ma si aggiunga un punto interrogativo. Ciò significa che non è del tutto sicuro che il nostro verbo greco voglia tradurre un corrispondente ebraico che in sé può essere ritenuto teofanico, indicando un’apparizione circondata da splendore. Se però questa correlazione potesse essere certa, allora la scelta del verbo greco da parte del traduttore ha inteso aggiungere al fattore della manifestazione o della rivelazione quello della parola. E quindi in definitiva Sal 93(94),1b ὁ θεο\s ἐκδικῃσεων ἐπαρρησιᾳσατο può essere reso con “il Dio delle vendette [si noti il plurale!] ha parlato con franchezza”[60]. La parrhesia interpreta quindi un classico linguaggio teofanico ebraico: diventa un modo di manifestarsi del divino, una forma di “epifania”. L’innovazione non è di poco conto. Forse, si potrebbe aggiungere, la traduzione con una forma verbale al passato potrebbe addirittura lasciar intravedere che ci si riferisce a una manifestazione divina che va considerata “storica”.
Sal 11(12),6
Per l’oppressione dei miseri e il gemito dei poveri,
ecco, mi alzerò – dice il Signore -;
metterò in salvo chi è disprezzato.
L’ultima frase del v. è in ebraico ’āšît beyēša‘ yāpîaḥ lô e viene tradotta in greco con θῃσομαι ἐν σωτηριͅα{, παρρησιᾳσομαι ἐν αὐτώ{, ma la seconda parte (yāpîaḥ lô) è oscura e la traduzione “chi è disprezzato” resta ipotetica. Semplificando alquanto, possiamo dire che la forma verbale yāpîaḥ (intesa come imperfetto hifil) viene usata con il significato “diffonde”, “propaga” in Pr 6,19; 12,17, e preceduta da we in Pr 14,5.25;19,5.9, ma non si adatta qui, dove la terza persona non si concilia con la prima del verbo che precede (’āšît). La si può accostare a yāpēaḥ di Ab 2,3 (weyāpēaḥ) e Sal 27,12 (wîpēaḥ) ma si tratta di due testi incerti: si può vedere in essi ancora una forma verbale[61] oppure, specialmente nel secondo caso, ricorrendo all’ugaritico ypḥ, si potrebbe supporre un sostantivo con il senso di “testimone”[62]. Ma anche questo significato è difficilmente comprensibile in Sal 11(12),6. Riconducendo dunque la forma causativa a quella fondamentale qal, cioè pûaḥ, inteso come “soffiare”, si può conservare o accentuare questo significato anche per l’hifil (cfr. Ct 4,16), ma in due accezioni opposte. Da un lato si potrebbe pensare a un soffio positivo in senso traslato, ossia un anelito o un desiderio, e quindi in Sal 11(12),6 si designerebbe colui che aspira a quanto viene promesso[63] (“darò salvezza a colui che la desidera ardentemente”)[64]. Ma dall’altro potrebbe trattarsi di un soffio negativo, uno sbuffare contro qualcuno: in Sal 10,5 yāpîaḥ, costruito con be (“in” = “contro”) potrebbe essere usato in questa accezione (ma in greco [= Sal 9,26] si ha κατακυριευͅσει); nella nostra frase si può allora conservare il valore verbale di yāpîaḥ ma con costruzione brachilogica: “darò salvezza a colui contro il quale si soffia (con alterigia)”[65], ossia “conto colui che si opprime” o “è disprezzato”[66]. La traduzione data sopra (CEI) va appunto in questa direzione. Come si vede, si resta però sempre sul piano delle congetture[67].
Il greco παρρησιᾳσομαι ἐν αὐτώ{ resta comunque distante dall’ebraico, soprattutto se quest’ultimo è inteso nella seconda delle ipotesi citate, e si può supporre addirittura che abbia letto un testo diverso dal masoretico attuale. Per Schlier[68] si può tradurre con “splendere su di lui”, tenendo presenti i due verbi che nel v. vi sono paralleli nel greco (ἀναστῃσομαι, “sorgerò”, e θῃσομαι ἐν σωτηριͅα{, “collocherò in salvezza”[69]) e anche se si tiene presente Sal 93(94),1. Ma il ricorso immediato a Sal 93(94),1 sa piuttosto di postulato[70]. Occorre invece precisare quale sia l’accentuazione che va data qui al verbo παρρησιᾳζεσθαι. Rendere semplicemente con un verbum dicendi (per esempio “mi rivolgerò con franchezza”) significherebbe impoverire l’espressione e resterebbe la difficoltà del pronome che segue (ἐν αὐτώ{)[71]. La connotazione dell’agire è qui invece primaria, come si deduce anche dal ponam in salutari, fiducialiter agam in eo della Vulgata (iuxta Hebraeos invece: ponam in salutari auxilium eorum). Si potrebbe quindi precisare: “interverrò su di lui manifestandomi apertamente”[72] oppure anche “mi rivelerò in lui”, specificando così in che cosa consista la salvezza promessa al povero e al misero.
In questi due testi salmici si invoca dunque Dio perché intervenga come “vendicatore” in una dimensione collettiva (Sal 93(94),1) oppure come “salvatore “ sul piano individuale (Sal 11(12),6). Ora, la vendetta racchiude un’esigenza di giustizia (come sottintende il termine greco ἐκ-διͅκησιs) e come tale è prerogativa divina (cfr. Dt 32,35-36: “Mia sarà la vendetta e il castigo… Perché il Signore farà giustizia al suo popolo”). La teofania rivendicatrice è quindi ristabilimento di un ordine; se è interpretata come parrhesia si esplica in tutta la sua intransigenza ed efficacia, per non dire assolutezza. La pahhesia, da parte sua, acquisisce allora un valore teologico, che diventa comprensibile, per così dire, nel sistema religioso giudaico, fondato su un agire divino la cui efficacia non è semplicemente annunciata o registrata, ma attuata attraverso la parola. Se altrove la parrhesia è essenzialmente “parola franca”, qui diventa azione che si comunica. La performatività legata alla parola raggiunge il suo livello più alto.
Se tuttavia la parrhesia entra nel mondo giudaico con queste caratteristiche teofaniche, ne assume su di sé anche le conseguenze. Tra queste ultime vi è quella della reciprocità, poiché la teofania richiede una risposta da parte umana che non è soltanto verbale. In altri temini, l’uomo può e deve rivolgersi a Dio con parrhesia. Vediamo dunque come ciò viene esplicitato in un ultimo gruppo di testi.
Di questa parrhesia di ritorno, che si tramuta in atteggiamento umano, parlano due passi del libro di Giobbe, a cui se ne può aggiungere un terzo dal libro dei Proverbi. Nel primo dei due, tratti dall’omonimo libro, Giobbe contesta ancora una volta la propria innocenza ma nello stesso tempo, per contrasto, viene a parlare dell’empio e della sua sorte.
Gb 27,9-10 ebraico
9Ascolterà forse Dio il suo [= dell’empio] grido,
quando la sventura piomberà su di lui?
10Troverà forse il suo conforto nell’Onnipotente?
Potrà invocare Dio in ogni momento?
Gb 27,9-10 greco (LXX)
9O il Signore ascolterà la sua implorazione?
O quando lo colpirà la sventura
10non avrà alcuna parrhesia davanti a lui?
O forse quando chiederà aiuto lo ascolterà?
La struttura sintattica dei due testi è diversa. L’ebraico si esprime con tre domande retoriche e collega l’essere colpito dalla sventura con l’ascolto del grido dell’empio da parte di Dio (9b è strettamente legato a 9a) e in 10a parla solo di un conforto[73] negato all’empio. Il greco invece collega 9b con 10a, traducendo quest’ultimo con μἦ ε⸉χει τινἆ παρρησιͅαν ε⸉ναντι αὐτου, e fa della parrhesia un atteggiamento che ipoteticamente potrebbe essere adottato dall’empio, colpito da sventura, quando si rivolge a Dio[74]. Si conservano le tre domanbde retoriche, che negano all’empio la possibilità di rivolgersi a Dio (cfr. anche v. 8 ebraico: “Che cosa infatti può sperare l’empio quando finirà, quando Dio gli toglierà la vita?”), ma nel loro contesto si viene anche a dire che egli non può stare apertamente davanti a Dio. Si accentua anzi questa asserzione mediante una specie di inclusione, ripetendo l’interrogativa esspressa con il verbo“ascolterà” (εἰσακουͅσεται) in 9a e 10b[75]. Benché qui l’applicazione sia negativa, la parrhesia è un atteggiamento religioso o una fiducia che l’empio non può sperare di fare propria.
Il secondo testo si incontra quando Elifaz, uno degli “amici” di Giobbe, descrive le qualità del giusto, che egli vorrebbe negare al suo interlocutore. Lo leggiamo anzitutto nella sua traduzione dall’ebraico.
Gb 22,23-27
23Se ti rivolgerai all’Onnipotente, verrai ristabilito.
Se allontanerai l’iniquità dalla tua tenda,
24se stimerai come polvere l’oro
e come ciottoli dei fiumi l’oro di Ofir,
25allora l’Onnipotente sarà il tuo oro,
sarà per te come mucchi d’argento.
26Allora sì, nell’Onnipotente ti delizierai
e a Dio alzerai il tuo volto.
27Lo supplicherai ed egli ti esaudirà,
e tu scioglierai i tuoi voti.
Incontriamo qui in 26a una frase che è quasi uguale a quella di Gb 27,10a (con lo stesso verbo ‘ng all’hitpael) e anche la versione greca è in parte simile a quella: ει͙τα παρρησιασθῃση{ ε⸉ναντι κυριͅου (“allora starai con parrhesia davanti al Signore”), con qualche variante testuale[76], e per via di questa sicurezza in 26b si prosegue sulla stessa linea: “guardando il cielo con gioia”. Va notato però che questo brano in greco pone qualche problema: il v. 24, ad esempio, nelle Esapla di Origene è posto sotto asterisco ed è ricuperato da Teodozione, ed inoltre non è del tutto equivalente all’ebraico. Tuttavia, anche per la somiglianza con il testo precedente, si può affermare qui con evidenza ancora maggiore che il conforto o la delizia che il giusto può trovare in Dio (o che l’empio, viceversa, non è in grado di possedere) si trasforma in un libero accesso a lui, che è qualcosa di più di un semplice parlare con schiettezza[77]. Anzi, il greco tende a sottolineare che la franchezza con cui il giusto si pone di fronte a Dio deriva da una purificazione che Dio realizza in lui: il v. 25 infatti diverge dall’ebraico con un testo che trasforma l’idea di ricchezza in quella di una protezione e di una purificazione: “allora l’Onnipotente sarà per te un aiuto contro i nemici e ti renderà puro (καθαροͅν) come argento provato (con il fuoco)” (cfr. per quest’ultima espressione, detta dell’oro, Ap 3,18). La parrhesia teofanica si trasforma dunque in un dono divino che a sua volta si esprime in un atteggiamento umano che non riguarda soltanto la locuzione. Sviluppando ulteriormente sul piano teologico questo concetto, si è allora in grado di percepire l’interpretazione che viene data dal greco al testo seguente, che ritorna ancora sull’idea di purità, in forma dubitativa.
Pr 20,9 ebraico
Chi può dire: “Ho la coscienza pulita,
sono puro dal mio peccato?”.
Pr 20,9 greco (LXX)
Chi può gloriarsi di avere il cuore innocente?
E chi pretenderà di essere puro dai peccati?
Il v. 9b è in greco: η⸆ τιͅs παρρησιᾳσεται καθαρο\s ει͙ναι απο\ ἁμαρτιών, dove il verbo παρρησιᾳζομαι riprende e incorpora il “dire” di 9a ebraico[78] (e quindi in 9a greco si introduce il “gloriarsi”: καυχῃσεται). Il collegamento con la parola resta senza dubbio essenziale (cfr. Pr 13,5, già citato sopra) ed è ciò che caratterizza la figura del giusto[79]. Poiché in Gb 22,25 si accentua l’idea di purità, si può spiegare così il fatto che il verbo παρρησιᾳζομαι resti legato all’ebraico “esere puro” (ṭhr), anziché rendere subito il verbo “dire” (’mr) in 9a.
Se la parrhesia ha assunto una fisionomia religiosa, divenendo soprattutto prerogativa del giusto, è logico che la si possa e anzi la si debba ritrovare in tutti quegli ambiti in cui questa persona compare con un suo ruolo preciso, e tra questi spicca in particolare l’esito escatologico, dove si tratta di stabilire quale sarà la sua sorte. Putroppo su questo punto non è possibile stabilire un confronto con il testo ebraico, poiché i testi sono soltanto in greco, a cominciare da quello più significativo.
Sap 5,1
Allora il giusto starà con grande fiducia
di fronte a coloro che lo hanno perseguitato
e a quelli che hanno disprezzato le sue sofferenze.
La frase iniziale (τοͅτε στῃσετατι ἐν παρρησιͅα{ πολλή{ ὁ διͅκαιοs) conosce nelle sue varianti testuali solo delle trasposizioni di termini[80], non significative, e il τοͅτε si riferisce al momento del giudizio, quando i giusti e gli empi conosceranno la loro sorte definitiva, la quale ristabilirà un ordine sconvolto dalle apparenze di questo mondo (capp. 2-5). Il giusto diviene allora colui che “è stato annoverato tra i figli di Dio” (v. 5) e vive per sempre, perché ha ricevuto una corona regale ed è sotto la protezione dell’Altissimo (vv. 15-16). La parrhesia del giusto si manifesta dunque di fronte ai persecutori, e in fondo non si fa che riprendere e riattuare quel suo aspetto che già abbiamo incontrato più sopra, parlando della sua accezione socio-politica.
Nel suo commento al passo, Scarpat fa notare un collegamento tra il v. 1 e Sal 118(119),6, per un parallelo antitetico: “τοͅτε οὐ μἦ ἀπαισχυνθώ che è negativamente quanto è espresso con ἐν παρρησιͅα{ πολλή{”[81]. L’assenza di vergogna è effettivamente un tratto, più volte ricorrente, che caratterizza il giusto perseguitato. Sap 5,1 resta comunque il testo biblico da cui si può partire per seguire l’itinerario con cui viene descritto il comportamento del giusto sia nella persecuzione sia nella manifestazione della sua sorte finale. Si collocano qui allora tutti quei testi ricavati da 1 Enoc (o Enoc etiopico) citati da Schlier[82], come pure si riallaccia alla parrhesia di cui stiamo parlando il quoniam exultabunt cum fiducia et quoniam confidebunt non confusi et gaudebunt non reverentes di 4 Esd 7,28. Ci inoltriamo però qui in quella letteratura apocrifa (o pseudepigrafa) che esula da questa nostra ricerca linguistica. Tuttavia, almeno un testo va ricordato, per la sua rilevanza. Si tratta di un passo di 4 Maccabei, dove il terzo dei sette fratelli martirizzati, dopo aver detto di non voler rinunciare alla sua parentela, viene ucciso dai persecutori che non tollerano la sua apertura di spirito.
4 Mac 10,5
Ed essi, mal sopportando la sua franchezza (οἱ δε\ πικρώs ἐνεͅγκαντεs τἦν παρρησιͅαν τού ανδροͅs), con macchine atte a spezzare le membra, disarticolavano le sue mani e i suoi piedi e dalle spalle slogandolo lo smembravano.
La traduzione è di Scarpat[83], che commenta dicendo che la parrhesia “è la ‘libertà di parola’, il coraggio di dire anche a costo della propria vita; così la parrhesia diventa un topos negli atti dei martiri”[84], e cita al riguardo 1 Mac 4,18; 3 Mac 4,1; 7,2 (già visti sopra). Si deve dunque ancora una volta constatare che proprio nel momento in cui la parrhesia diventa un tratto caratteristico del martire, torna ad evidenziare la sua connotazione verbale[85]: ciò che è caratteristico della accezione greca del termine si è trasfigurato però attraverso una serie di interpretazioni multiformi che vi sono state allegate dall’ambiente giudaico.
Per completezza dobbiamo infine aggiungere che nelle concordanze della LXX[86] sotto la voce παρρησιᾳζομαι sono elencati ancora due testi.
Ct 8,10 – Il codice Sinaitico aggiunge questa sorta di titolo[87]: ἡ νυͅμφη παρρησιᾳζεται. Qui la ragazza celebra se stessa come muro e i suoi seni come torri, e si presenta agli occhi dell’amato come colei che procura pace. Schlier[88] cita il passo in relazione a Pr 1,20 (παρρησιͅαν α⸉γει, corrispondente al ”fa udire la sua voce” dell’ebraico) e di fatto la protagonista del Cantico può essere assimilata alla sapienza di quel passo. Se l’aggiunta intende sintetizzare un commento esplicativo, offre uno spunto non solo calzante ma anche denso di implicazioni interessanti per lo sviluppo esegetico del testo.
Sal 30(31),14 – Nel dare sfogo al suo lamento, il salmista accenna anche a coloro che si coalizzano contro di lui: l’ebraico behiwwāsedām[89] (“nel loro radunarsi”) viene tradotto fedelmente dalla LXX con ἐπισυναχθήναι[90] e da Simmaco con il più attenuato ἐπισκεͅπτεσθαι (“esaminare”). Aquila renderebbe qui con παρρησιᾳζομαι e in questo caso Schlier[91] accosta il verbo a quello di Sir 6,11, che egli traduce con “si comporterà da arrogante”: come abbiamo puntualizzato sopra, anche se in quel testo si può vedere nel verbo anzitutto un’accezione verbale, la tendenza è però verso l’azione e quindi anche in Sal 30(31),14 Aquila ha interpretato correttamente il comportamento dei calunniatori, decisi a intervenire con violenza (14c: “tramano per togliermi la vita”).
Nel riassumere i dati principali emersi da questa rassegna dei passi biblici attinenti alla parrhesia non si possono tenere nascoste alcune riflessioni che sorgono dall’analisi e che vorremmo esprimere brevemente in forma dubitativa.
1) Anzitutto, se la parrhesia greca riguarda soprattutto la sfera pubblica e politica, senza trascurare ovviamente quella privata, e se si esprime nella parola e assume un valore morale[92], quella giudaica non perde certamente queste caratteristiche, ma le assimila e le indirizza verso una prospettiva diversa, nella quale prevale la dimensione religiosa. Quest’ultima si esprime ancora, naturalmente, sul piano sociale e politico, ma vi si aggiunge anche una dimensione verticale, con la quale si viene a creare un rapporto a doppio senso: quello tra il Dio che si manifesta e il gruppo o l’individuo che recepisce la manifestazione, e quello dell’atteggiamento (più che della parola) di colui che è reso giusto e perciò può rivolgersi a Dio. Una simile trasposizione in verticale è ciò che permette di ritrovare la parrhesia anche nella fase escatologica individuale (ma per conseguenza anche in quella collettiva), dove diviene una caratteristica peculiare del giusto e, nel caso, anche del martire.
2) In questa sua nuova dimensione, la parrhesia risulta inquadrata in una religione fondata sulla “legge”. Se e quando questa religione della Torah richiede di essere praticata o applicata in ambiente pluralista, coinvolge il problema della convivenza e della tolleranza o, se si vuole, di quell’assetto istituzionale che nell’ambiente ellenistico è definito dal πολιͅτευμα. In tale contesto, se da un lato la parrhesia è legittima rivendicazione di libertà, dall’altro può trasformarsi in licenza di persecuzione contro chi non osserva la legge (si veda il caso emblematico di 3 Mac 7,2 e 4,1). Tuttavia, ciò solleva lo spinoso ma inevitabile problema che consiste nel saper intravedere o nel poter decidere se possa ancora sussistere, al di dentro o dopo questa interpretazione giudaica, una parhesia per così dire “laica”. O per lo meno, bisogna chiedersi in che misura questa ermeneutica singolare della parrhesia si possa conciliare con la parrhesia “civile” del mondo greco.
3) Di fronte alle difficoltà testuali che abbiamo riscontrato, e che derivano dal fatto che il sostantivo parrhesia e il verbo corrispondente non sembrano quasi mai traduzione di un testo ebraico, ma interpretazioni che mutano il testo soggiacente (tanto da indurci a sospettare persino che il testo ebraico utilizzato dal traduttore fosse diverso), si sarebbe indotti a pensare che anche quella parrehsia che si ritrova in quei testi che possediamo soltanto in greco, sia una categoria interpretativa adottata da un giudaismo in diaspora. Si sarebbe fatto ricorso, cioè, a questo lavoro ermeneutico per potersi definire e qualificare in un contesto culturale in cui si rischiava di vedere trascurata o addirittura cancellata la propria identità. Ma se ciò corrisponde al vero, si è raggiunto realmente lo scopo? O non potrebbe sorgere il dubbio che, trasformando in tal modo un concetto greco diffuso nell’ambiente, e con cui si accentuava la libertà di espressione, si sia rischiato di ottenere un effetto opposto, venendo a creare le premesse (se non altro remote) di una sorta di fondamentaìalismo avallato proprio in nome della stessa parrhesia?
4) La storia successiva del termine, e ovviamente dei concetti che vi si sono aggregati, sia nel giudaismo sia nel Nuovo Testamento, dovrebbe rivelare soprattutto in quale senso è sopravvissuta ed è stata ulteriormente intesa una parrhesia così configurata, in questa sua dimensione socio-religiosa, e quindi anche politica. Il pericolo maggiore sembrerebbe costituito da una deriva esclusivamente politica, della quale l’elemento religioso resterebbe soltanto il supporto giustificativo. Ma, d’altra parte, anche una sopravvivenza soltanto religiosa, quella cioè che si rende evidente soprattutto nel Nuovo Testamento, difficilmente riuscirà a rimanere estranea alle incidenze politiche della storia concreta in cui sarà chiamata ad operare.
Tra i numerosi documenti provenienti dai tristi anni della Shoa vi è anche una Lettera di un ebreo morto nel ghetto di Varsavia nel 1943. Se ne può suggerire qui una lettura, assumendola come testimonianza di quanto quella parrhesia che abbiamo cercato di delineare nelle pagine precedenti si sia radicata nella storia ebraica e possa riemergere anche in epoca moderna, nelle sue caratteristiche più essenziali. Ne riproponiamo qui di seguito il testo[93], suddividendolo in paragrafi a cui aggiungiamo alcuni titoletti per facilitare il reperimento delle componenti.
[Situazione escatologica e reazione dell’uomo giusto]
Qualche cosa di molto sorprendente accade oggi nel mondo: è questo il tempo in cui l’Onnipotente distoglie il suo volto da coloro che lo supplicano. Dio ha nascosto al mondo la sua faccia. Per questo gli uomini sono abbandonati alle loro più selvagge passioni. In un tempo in cui queste passioni dominano il mondo, è naturale che le prime vittime siano proprio coloro che hanno conservato vivo il senso del divino e del puro. Questo può non essere consolante: ma il destino del nostro popolo è stabilito non da leggi terrene, ma da leggi ultraterrene. Colui che impegna la sua fede in questi avvenimenti deve vedere in essi una parte della grandiosa realizzazione dei piani divini, al cui confronto le tragedie umane non hanno alcun significato. Questo non vuol dire tuttavia che un ebreo devoto debba accettare semplicemente il giudizio, qualsiasi esso sia, dicendo: “Dio ha ragione, il suo giudizio è giusto”. Dire che noi meritiamo i colpi che riceviamo significa disprezzare noi stessi e non tenere in gran conto il nome di Dio.
Stando così le cose, io naturalmente non aspetto un miracolo e non chiedo al mio Dio di aver pietà di me. Egli mi tratti pure con la stessa indifferenza che ha mostrato a milioni di altri membri del suo popolo: io non sono un’eccezione alla regola, e non pretendo ch’egli mi conceda un’attenzione particolare: io non cercherò di salvarmi, non tenterò di fuggire di qui. Preparerò il lavoro bagnando i miei abiti di benzina. Le bottiglie di benzina mi sono care come il vino lo è a chi si ubriaca. Appena avrò versato l’ultima bottiglia sui miei abiti, metterò questa lettera nella bottiglia vuota e la nasconderò fra le pietre. Se qualcuno più tardi la troverà, potrà forse capire i sentimenti di un ebreo, di uno di questi milioni di ebrei che sono morti: un ebreo abbandonato dal Dio a cui credeva tanto intensamente.
[Parrhesia verso Dio, fedeltà alla legge e dignità della parrhesia umana]
Io credo al Dio d’Israele, anche se egli ha fatto di tutto per spezzare la mia fede in lui. I miei rapporti con lui non sono più quelli di un servo di fronte al padrone, ma quelli di un discepolo di fronte al maestro. Io credo alle sue leggi, anche se contesto la giustificazione dei suoi atti. Io mi piego davanti alla sua grandezza, ma non bacerò il bastone che m’infligge il castigo. Io l’amo, ma più ancora amo la sua legge. Ed anche se mi fossi ingannato nei suoi confronti, continuerei ad adorare la sua legge. Dio significa religione, ma la sua legge significa saggezza di vita. Tu dici che noi abbiamo peccato. Certamente noi abbiamo peccato. E ammetto anche che noi veniamo puniti per questo. Tuttavia vorrei che tu mi dicessi se c’è un peccato sulla terra che meriti un tale castigo. Ti dico tutto questo, mio Dio, perché credo in te, perché credo in te più che mai, perché so ora che tu sei il mio Dio e non il Dio di coloro i cui atti sono l’orribile frutto della loro empietà militante.
[Parrhesia teofanica]
Io non posso lodarti per gli atti che tu tolleri ma ti benedico e ti lodo per la tua maestà che ispira timore. La tua maestà deve essere veramente immensa, perché tutto ciò che accade in questo tempo non ti impressioni. La morte ora non può più aspettare. Devo smettere di scrivere … (sopra i fucili hanno smesso di sparare). Il sole tramonta ed io ti ringrazio, Dio, perché non lo vedrò più sorgere …
[Confessione di fede del giusto nel giudizio escatologico]
Muoio sereno, ma non soddisfatto: da uomo abbattuto, ma non disperato, credente, ma non supplicante; amando Dio, anche quando mi ha respinto. Ho adempiuto il suo comando, anche quando, per premiare la mia osservanza, egli mi colpiva. Io l’ho amato, lo amavo e lo amo ancora, anche se mi ha abbassato fino a terra, mi ha torturato fino alla morte, mi ha ridotto alla vergogna, alla derisione.
Ti amerò sempre, anche se non vuoi. E queste sono le mie ultime parole, mio Dio di collera: tu non riuscirai a far sì ch’io ti rinneghi. Tu hai tentato di tutto per farmi cadere nel dubbio. Ma io muoio come ho vissuto, in una fede incrollabile in te.
[Dossologia escatologica]
Lodato sia da tutta l’eternità il Dio dei morti, il Dio della vendetta, il Dio della verità e della fede, che presto mostrerà nuovamente il suo volto al mondo e ne farà tremare le fondamenta con la sua voce onnipotente. Ascolta Israele: l’Eterno è il nostro Dio, l’Eterno è l’Unico e il Solo.
[1] Tale è il titolo della traduzione italiana del volume (Il Mulino, Bologna 1961); originale ingl.: The Semantics of Biblical Language, Oxford University Press, London 1961.
[2] A cura di G. Kittel e altri, Kohlhammer, Stuttgart 1933-1978; ora anche in traduzione italiana: Grande Lessico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1965-1992.
[3] Basti rinviare qui a un qualsiasi manuale introduttorio; si veda ad esempio il classico E. Tov, Textual Criticism of the Hebrew Bible, Fortress, Minneapolis 32011, pp. 127-146 e 283-326, e anche, dello stesso autore, The Text-critical Use of the Septuagint in Biblical Research, Jerusalem Biblical Studies 3, Simor, Jerusalem 1981.
[4] Ad esempio, l’adozione del termine profh/thß da parte dei traduttori greci che hanno operato in Egitto è dovuta al fatto che essa designava in quell’ambiente un funzionario religioso, indicato in lingua egiziana con ḥm nṯr, ossia “servo del dio”; si veda un accenno in proposito in J.A. Soggin, Introduzione all’Antico Testamento. Dalle origini alla chiusura del Canone alessandrino, Biblioteca di cultura religiosa 14, Paideia, Brescia 41987, p. 267.
[5] Ne utilizziamo la versione italiana: parrhsi/a, parrhsia/zomai, Vol. IX, 1974, coll. 877-932.
[6] La Sacra Bibbia a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Fondazione di Religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena – Libreria Editrice Vaticana 2008. Trane i casi in cui sarà diversamente indicato, le traduzioni dei testi biblici sono tratte da questa versione.
[7] Per il teso ebraico cfr. P.C. Beentjes, The Book of Ben Sira in Hebrew. A Text Edition of All Extant Manuscripts and a Synopsis of All Parallel Hebrew Ben Sira Texts, Supplements to Vetus Testamentum 68, E.J. Brill, Leiden – New York – Köln 1997, p. 28 (dove è numerato come 6,10).
[8] Proverbios y Eclesiástico, Los libros sagrados VIII,1, Ediciones Cristiandad, Madrid 1968, p. 163. Questa traduzione è confermata da Alonso Schökel per il verbo ndh anche nel suo Dizionario di ebraico biblico. Edizione italiana a cura di Marco Zappella, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 2013, p. 529 (“fuggire, allontanarsi”, anche qui = 6,10). Alquanto più drastico è il “sich trennen, fernhalten” in L. Köhler – W. Baumgartner, Hebräisches und aramäisches Lexikon zum Alten Testament, E.J. Brill, Leiden 1983, p. 635.
[9] Die Weisheit des Jesus Sirach erklärt, Verlag von Georg Reimer, Berlin 1906, p. 55.
[10] Proverbios y Eclesiástico, p. 163. Si noti che nei vv. 8-12 Alonso Schökel traduce con il plurale il soggetto (“amigos”) e i verbi corrispondenti, che in ebraico (come nel greco) sono al singolare.
[11] Smend rende con “er tyrannisiert deine Dienerschaft”. Anche Antonino Minissale (La versione greca del Siracide. Confronto con il testo ebraico alla luce dell’attività midrascica e del metodo targumico, Analecta biblica 133, Editrice Pontificio Istituto Biblico, Roma 1995, p. 169) pensa che in 11b il wbr‘tk invece di wb‘bwdtk sia da collocare tra quei testi dove l’ebraico si è corrotto a causa del contesto, in questo caso per il fatto che in 12a l’ebraico ha r‘h (la “disgracia” della traduzione di Alonso Schökel) e in 11a bṭwbtk (cui corrisponde nel greco ejn toivß ajgaqoivß sou, reso con “nella tua fortuna” nella versione CEI).
[12] Più precisamente, parrhsiazome/neß è una variante di po/rnhß nel manoscritto minuscolo 311 ma è un’aggiunta nelle recensioni origeniana e lucianea (nelle Esapla è posto sotto asterisco), oltre che in Teodozione: cfr. l’apparato citico in J. Ziegler, Ezechiel, Septuaginta. Vetus Testamentum Graecum Auctoritate Societatis Litterarum Gottingensis editum XVI,1, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 32006, ad l.
[13] Il siriaco e il latino sostanzialmente non risolvono il dilemma: il primo rende esattamente l’ebraico del manoscritto A mentre il secondo, dipendendo dal greco, sottolinea l’aspetto dell’agire: amicus, si permanserit fixus erit tibi quasi coaequalis et in domesticis tuis fiducialiter aget.
[14] Così nel codice B e in Malachias Monachus: cfr. J. Ziegler, Sapientia Iesu Filii Sirach, Septuaginta… XII,2, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 21980, ad l.
[15] E typographeo Clarendoniano, Oxonii 1879-1901 (2 voll.).
[16] Die Weisheit, p. 232. Si osservi però che nel Thesaurus di Payne Smith (I, col. 278) si cita il corrispondente greco del siriaco come parrhsi/an kai\ ejxousi/an, ma è una lectio conflata non esatta; ad ogni modo, l’espressione viene commentata in questi termini: “Quum mos fuit mulierum velo sese operire, facies non velata inverecundiae esset signum”.
[17] Non coglie nel segno la resa di 25b con “and be not indugent to an erring wife” (P.W. Skehan – A.A. Di Lella, The Wisdom of Ben Sira, The Anchor Bible 39, Doubleday, New York 1987, p. 342).
[18] Cfr. “liberté de langage”: così R.P.C. Spicq in La Sainte Bible, Tome VI: Proverbes – Ecclésiaste – Cantique des Cantiques – Sagesse – Ecclésiaste, Letouzay et Ané, Paris 1946, p. 697.
[19] “The focus of v. 25 is on an evil wife’s outspokenness… Here the use of the word parrēsia would suggest a wife who speaks to her husband with an arrogant boldness. She speaks in a way that challenges his authority” (W.C. Trenchard, Ben Sira’s View of Women: A Literary Analysis, Brown Judaic Studies 38, Scholars Press, Chico, California 1982, p. 83; a p. 58 si traduce appunto 25b: “Nor outspokenness to an evil wife”).
[20] Questa traduzione di 10b è quella della CEI, che quindi preferisce il greco, facendolo seguire all’ebraico di 10a.
[21] D.-M. d’Hamouville – É. Dumouchet, Les Proverbes, La Bible d’Alexandrie 17, du Cerf, Paris 2000, p. 219.
[22] M. Karrer – W. Kraus, Septuaginta Deutsch. Erläuterungen und Kommentare zum griechischen Alten Testament, II: Psalmen bis Daniel, Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart 2011, p. 1967.
[23] Il verbo eijrhnopoie/w è hapax nella LXX (ma si veda Aquila, Simmaco e Teodozione in Is 27,5); nel Nuovo Testamento in Col 1,20 indica la pacificazione attraverso il sangue della croce, ossia la riconciliazione di tutte le cose in Dio per mezzo di Cristo. Si veda anche il sostantivo corrispondente nella beatitudine di Mt 5,9.
[24] Cfr. L. Alonso Schökel – J. Vílchez Líndez, Proverbios, Nueva Biblia Española – Sapienciales I, Ediciones Cristiandad, Madrid 1984, p. 262.
[25] Leggendo yabîš anziché yab’îš (che significa “si rende odioso”, o anche “appesta”, “ammorba”).
[26] d’Hamouville – Dumouchet, Les Proverbes, p. 235.
[27] La moderna traduzione inglese della LXX ha “will have no confidence”, che potrebbe essere inteso come “non godrà di alcuna fiducia” (cfr. A. Pietersma – B.G. Wright [edd.], A New English Translation of the Septuagint and the Other Greek Translations Traditionally Included under That Title, Oxford University Press, Oxford 2007, p. 633).
[28] Edizione critica: R. Hanhart, Esther, Septuaginta… VIII,3, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 21983 (si veda anche l’apparato critico ad l. per le varianti a cui accenniamo).
[29] Contrariamente a quanto si afferma in C. Cavalier, Esther, La Bible d’Alexandrie 12, du Cerf, Paris 2012, p. 219; del resto, qui la traduttrice, pur rendendo alla maniera consueta (“après avoir fait afficher la copie de cette lettre en tout lieu avec liberté, de laisser les Juifs user de leurs propres articles de loi”, p. 218), nel suo commento viene a riconosce implicitamente che “en toute liberté” riguarda forse il fatto che i Persiani non devono più sentirsi vincolati dal primo editto di Aman nei confronti dei Giudei (e quindi costoro sono in qualche modo liberati).
[30] “Affichez une copie de la présente lettre en tout lieu, laissez les Juifs suivre ouvertement les lois qui leur sont propres et portez-leur assistance contre qui les attaquerait” (La Bible de Jérusalem, du Cerf, Paris 21998, p. 712). Si veda anche J. Vílchez, Rut y Ester, Nueva Biblia Española – Narraciones II, Editorial Verbo Divino, Estella (Navarra) 1998, p. 351 (“expondréis copias de esta carta públicamente para que los judíos puedan libremente hacer uso de sus lejes”).
[31] Il testo ebraico corrispondente, che non riporta il testo della lettera, dice semplicemente in 8,13: “Una copia dell’editto, che doveva essere promulgato come legge in ogni provincia, fu resa nota a tutti i popoli”.
[32] Così espressamente Karrer-Kraus, Septuaginta Deutsch, II, p. 1285 (“Der hier verwendete Begriff ta\ no/mima hat eher die Bedeutung ‘Brauch’”). Tuttavia nel testo lucianeo in luogo di crhvsqai toivß eJautwvn nomi/moiß si ha crhvsqai toivß eJautwvn no/moiß, come in 8,11 LXX (crhvsqai toivß no/moiß aujtwvn). Anche Flavio Giuseppe (Antichità giudaiche XI,281), nel parafrasare il nostro testo, usa no/moi, ma il suo modo di esprimersi (tou\ß jIoudai/ouß… toivß ijdi/oiß no/moiß crwme/nouß zhvn met’eijrh/nhß, “[permettere] che i Giudei vivano in pace osservando le proprie leggi”) indica chiaramente che il “vivere in pace” è collegato all’osservanza delle leggi, favorendo così l’interpretazione che stiamo preferendo. Ad ogni modo, la sfumatura tra no/mima (LXX) e no/moi (testo lucianeo) dovrebbe essere indicata anche nella traduzione (in Cavalier, Esther, pp. 218-9 si rende invece in ambedue i casi con “leurs propres articles de loi”).
[33] Traduzione di A. Passoni Dell’Acqua in P. Sacchi (a cura di), Apocrifi dell’Antico Testamento, IV, Biblica – Testi e studi 8, Paideia, Brescia 2000, p. 663.
[34] Si potrebbe anche precisare ulterioremente che essa si esplica “in pubblico” (“openly” in Pietersma-Wright, A New English Translation, p. 529).
[35] La libertà è concessa espressamente dal re, come sottolinea la variante della recensione lucianea, che premette pa/shß basilikhvß a parrhsi/aß, anche se l’aggiunta potrebbe essere un’anticipazione o un’armonizzazione con pa/shß basilikhvß ejxousi/aß kai\ ejpiske/yewß che segue (cfr. R. Hanhart, Maccabaeorum liber III, Septuaginta… IX,3, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 21980, ad l.).
[36] Traduzione di A. Passoni Dell’Acqua in Sacchi (a cura di), Apocrifi, p. 647.
[37] Cfr. H. Bauer – P. Leander, Historische Grammatik der hebräischen Sprache des Alten Testamentes, Olms Paperbacks Band 19, Georg Olms Verlagsbuchhandlung, Hildesheim 1965, p. 505 (“aufrechte Haltung”).
[38] P. Joüon – T. Muraoka, A Grammar of Biblical Hebrew, II, Subsidia biblica 14/II, Editrice Pontificio Istituto Biblico, Roma 1991, p. 456 (= § 126d).
[39] Cfr. J.W. Wevers – U. Quast, Leviticus, Septuaginta… II,2, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1986, ad l.
[40] Così in L. Mortara (a cura di), La Bibbia dei LXX: 1. Il Pentateuco. Testo greco con traduzione italiana a fronte, Edizioni Dehoniane Roma, Roma 1998, p. 525.
[41] P. Harlé – D. Pralon, Le Lévitique, La Bible d’Alexandrie 3, du Cerf, Paris 1988, p. 207 (“en toute liberté”); si accenna anche qui alla corrispondenza con l’hapax ebraico (vedi nota pp. 206-207), come pure in Karrer-Kraus, Septuaginta Deutsch, I: Genesis bis Makkabäer, p. 423 (commentando la traduzione “mit Freimut”).
[42] Pietersma-Wright, A New Translation, p. 105 (“with boldness”). Accentuando questa connotazione, ma sottraendo al termine ogni evocazione di “spavalderia”, si può anche accettare anche la traduzione “con baldanza” di Paolo Lucca in La Bibbia dei Settanta. Opera diretta da Paolo Sacchi in collaborazione con Luca Mazzinghi, Vol. I: Pentatteuco. A cura di Paolo Lucca, Antico e Nuovo Testamento 14, Morcelliana, Brescia 2012, p. 597 (cfr. anche nota 535).
[43] parrhsi/a, col. 891.
[44] Va conservato l’ebraico tāronnāh, con cui si esprime un grido di giubilo che può essere anche una proclamazione (cfr. Alonso Schökel, Dizionario, p. 791), e che in Pr 8,3 si manifesta presso le porte, sia delle case che della città (cfr. anche 1,21); la lettura tirneh (“suona”, “tintinna”), che si propone forse perché sembra più adatta a quest’altro testo (cfr. l’apparato della Biblia Hebraica Stuttgartensia a 1,20), in realtà affievolisce il gesto della sapienza.
[45] d’Hamouville-Dumouchet, Proverbes, p. 164.
[46] Con “elle s’exprime avec assurance” (d’Hamouville-Dumouchet, Proverbes, p. 162) si pone in risalto questo aspetto, che però non è ancora sufficiente.
[47] Cfr. “she leads frankly” in Pietersma-Wright, A New English Translation, p. 624.
[48] J. Cook, The Septuagint of Proverbs – Jewish and/or Hellenistic Proverbs? Concerning the Hellenistic Colouring of LXX Proverbs, Supplements to Vetus Testamentum 69, E.J. Brill, Leiden – New York – Köln 1997, pp. 84-85.
[49] La forma hôpîa‘ può essere intesa anche come imperativo, senza doverla mutare in hôpî‘āh (contrariamente a quanto è indicato nell’apparato della Biblia Hebraica Stuttgartensia); quest’ultima si trova in Sal 80,2b, ma in parallelo a ha’azînāh di 80,2a.
[50] Cfr. S. Mandelkern, Concordantiae hebraicae atque chaldaicae, Schoken, Hierosolimis – Tel Aviv 1967, p. 484.
[51] parrhsi/a, coll. 898.
[52] Ivi, col. 899.
[53] Cfr. J.W. Wevers – U. Quast, Deuteronomium, Septuaginta… III,2, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 22006, ad l.
[54] Per questo genere di commento si veda C. Dogniez – M. Harl, Le Deutéronome, La Bible d’Alexandrie 5, du Cerf, Paris 1992, pp. 343-345. Alcuni vedono piuttosto nell’uso di ejpifai/nein una critica velata al culto del sovrano, diffuso tra i Tolomei e i Seleucidi (cfr. Karrer-Kraus, Septuaginta Deutsch, I, p. 598).
[55] Cfr. J.W. Wevers, Notes on the Greek Text of Deuteronomy, Society of Biblical Literature – Septuagint and Cognate Studies Series 39, Scholars Press, Atlanta, Georgia 1995, p. 539 (“Why LXX should have used kate/speusen ‘he hurried, hastened’ is not immediately clear”).
[56] Rifacendosi a Wevers, Notes, così spiega la corrispondenza Cristina Termini, che traduce kate/speusen con “si è spinto” e commenta: “Se inteso in senso metaforico, questo verbo non è troppo distante da quello scelto dal traduttore greco, che comporta un’idea di fretta, come il balenare di una luce” (La Bibbia dei Settanta…., I: Pentateuco, p. 1007 e nota 1463 p. 1006).
[57] Resta vero che, in questa ipotesi, “si affrettò” (kate/speusen) non equivale esattamente a “sorse” (zāraḥ), ma si tratta di una soluzione migliore di altre, come ritenere ad esempio che kate/speusen sia traduzione di mhr che segue hôpîa‘ nel testo ebraico (il masoretico mēhar [“dal monte”] dovrebbe essere letto allora mahēr (appunto “si affrettò]), ma di fatto il traduttore greco lo ha reso con ejx o¶rouß, dunque conformemente alla lettura del masoretico (per questa ipotesi, alquanto strana, cfr. Karrer-Kraus, Septuaginta Deutsch, I, p. 598).
[58] Cfr. Wevers, Notes, p. 539 e nota 1.
[59] E. Hatch – A. Redpath, A Concordance to the Septuagint and the Other Versions of the Old Testament (Including the Apocriphal Books), Akademische Druck- u. Verlagsanstalt, Graz 1954, p. 1073.
[60] Cfr. il commento sintetico a “hat offen gesprochen” in Karrer-Kraus, Septuaginta Deutsch, II, p. 1767; si veda anche “spoke openly” in Pietersma-Wright, A New English Translation, p. 594. La Vulgata, che nel caso dei Salmi rispecchia un testo greco, con Deus ultionum libere egit sottollinea l’aspetto dell’azione insito in questo genere di apparizione, a differenza della versione Iuxta Hebraeos che rende fedelmente (Deus ultionum, ostendere).
[61] In Mandelkern (Concordantiae, p. 945) Ab 2,3 è dato come forma verbale, ma con interrogativo.
[62] Cfr. M. Dahhod, Psalms I 1-50, The Anchor Bible16, Doubleday, Garden City, New York 1965, pp. 166.169. In Köhler-Baumgartner (Hebräisches und aramäisches Lexikon, p. 405) yāpēaḥ “testimone” viene considerato hapax in Sal 27,12.
[63] Per questo passo specifico si propone eum qui eam (salutem) desiderat in F. Zorell, Lexicon Hebraicum et Aramaicum Veteris Testamenti, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1968, pp. 643-644.
[64] Cfr. “j’assurerai le salut à ceux qui y aspirent” (Bible de Jérusalem, p. 879)
[65] In G. Ravasi (Il libro dei Salmi. Volume 1° (1-50). Commento e attualizzazione, Lettura pastorale della Bibbia, EDB, Bologna 1981, p. 241) si dà l’elegante traduzione: “metterò in salvo chi ha su di sé il soffio del disprezzo” (cfr. anche n. 2 p. 242).
[66] Cfr. H.-J. Kraus, Psalmen. 1. Teilband, Biblischer Kommentar – Altes Testament XV/1, Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn 31966, pp. 93 e 96-97: “den man bedrängt” (e nell’apparato di critica testuale, meglio ancora: “gegen den man schnaubt”).
[67] In Köhler-Baumgartner (Hebräisches un aramäisches Lexikon, pp. 866-7) si postula una seconda radice pwḥ, sotto la quale si collocano tutti i testi di Pr citati, e anche Sal 27,12 e Ab 3,2, ma quando si viene a trattare delle “umstrittene Stellen”, tra cui Sal 10,5, per Sal 12,6 si elencano le varie ipotesi ma non ci si pronuncia a favore di nessuna. Tutto sommato, questa seconda radice si rivela in buona parte arbitraria.
[68] parrhsi/a, col. 899
[69] Questa è la lettura del greco, non qh/somai ejn kuri/wø, come si legge in Schlier (ivi, col. 899).
[70] Lo stesso vale per il suggerimento dell’apparato critico della Biblia Hebraica Stuttgartensia in Sal 12,6, dove si propone di leggere ’ôpîa‘ lô in luogo di yāpîaḥ lô, cioè di adattare l’espressione alla prima persona, ricorrendo in pratica a Sal 94,1.
[71] Si noti che nella resa tedesca “offen will ich sprechen vor ihm” il sintagma viene adattato e per di più non viene spiegato nel relativo commento (cfr. Karrer-Kraus, Septuaginta Deutsch, II, p. 1526). La medesima obiezione vale per “I will speak freely aganist it” (oppure, in nota: “him”) di Pietersma-Wright (A New English Translation, p. 552).
[72] Si noti la variante ejmfane/ß di Simmaco, in luogo di parrhsia/somai ejn aujtwvø.
[73] Il verbo ‘ng all’hitpael, usato qui, significa “trovare conforto/delizia”: cfr. Is 58,14 e Sal 36(37),14, dove comunque il greco lo traduce diversamente rispetto a questo passo di Giobbe.
[74] Una variante omette tina\ e un’altra lo sostituisce con ti, ma il senso non muta. Cfr. J. Ziegler, Job, Setptuaginta… XI,4, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttignen 1982, ad l.
[75] Cfr. Karrer-Kraus, Septuaginta Deutsch, II, p. 2103.
[76] Una di queste usa il verbo ejnparrhsia/zomai ma è incisiva soprattutto quella che si riscontra nel commento a Giobbe di Giuliano di Eclana, e che accentua lo stato in cui ci si viene a trovare: ejn parrhsi/aø e¶shø (cfr. Zielger, Job, ad l.).
[77] Debole appare la traduzione “Then you will speak frankly before the Lord” in Pietersma-Wright, A New English Translation, p. 684.
[78] La resa con “pretendere” resta infatti nell’ambito di un verbum dicendi; cfr. d’Hamouville-Dumouchet, Les Proverbes, p. 279 (“Ou bien prétendre d’être pur de péchés?”).
[79] Cfr. Schlier, parrhsi/a, col. 896.
[80] J. Ziegler, Sapientia Salomonis, Septuaginta… XII,1, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 21980, ad l.
[81] G. Scarpat, Libro della Sapienza, I, Biblica – Testi e studi 1, Paideia, Brescia 1989, p. 318; si veda anche il paragrafo “La parrhesia del giusto”, pp. 298-307.
[82] parrhsi/a, coll. 905-907.
[83] G. Scarpat, Quarto libro dei Maccabei, Biblica – Testi e studi 9, Paideia, Brescia 2006, p. 293.
[84] Ivi, p. 296. Com’è noto, Scarpat ha dedicato allo studio della parrhesia due monografie: Parrhesia. Storia del termine e delle sue traduzioni in latino, Paideia, Brescia 1964; Parrhesia greca, parrhesia cristiana, Studi biblici 130, Paideia, Brescia 2001.
[85] Con “audaci parole” si traduce 4 Mac 10,5 in C. Klaus Reggiani, 4 Maccabei, Commento Storico ed Esegetico all’Antico e al Nuovo Testamento – Supplementi 1, Marietti, Torino 1992, p. 112.
[86] Hatch-Redpath, A Concordance, p. 1072.
[87] Si tratta di una delle distinctiones auctorum aggiunte come corollarium al testo greco nell’edizione di A. Ralhfs, Septuaginta, II, Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart 1979 (= 1935), pp. 270-271; in realtà, il codice presenta la forma verbale parrhsia/zete.
[88] parrhsi/a, coll. 891-892; tuttavia erroneamente alla col. 892 si cita anche il codice Alessandrino, che non sembra aggiungere la frase.
[89] La forma è corretta, ed è da intendersi come infinito costrutto nifal da ysd II, munito di suffisso (cfr. per il nifal Sal 2,2). Non è perciò necessario leggere behissôdām, come proposto dalla Biblia Hebraica Stuttgartensia.
[90] Il codie B (Vaticano) e un altro minuscolo hanno però semplicemente sunacqhvnai (cfr. Sal 101(102),23); cfr. A. Rahlfs, Psalmi cun Odis, Septuaginta… X, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 31979, ad l.
[91] parrhsi/a, col. 892 e nota 12.
[92] Così in sintesi Schlier, ivi, coll. 879-891.
[93] Lo si può trovare riprodotto in L. Sestieri, La spiritualità ebraica, La spiritualità non cristiana – Storia e testi 4, Edizioni Studium., Roma 1987, pp. 293-295