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This contribution is a reading of Momus by L.B. Alberti which highlights the “freedom” with which the main character, Momo, interacts with Jove and the ambiguous status of the “truth” of his words. After having shown briefly that Momo is described as a parrhesiasta on a number of occasions in some of Lucian of Samosata’s dialogues that may have been known to Alberti, we stop to consider this relationship, in many ways paradoxical, between prince and “counselor”, analysing the conditions that make it necessary, its internal structure and its condition of possibility which reveal all the historical ambiguity of the notion of parrhesia. We hope thus to offer some points for consideration in regard to the problem of political advisors in the Renaissance and that of parrhesia as a form of political discourse around the government of the Prince.
In una ricostruzione della stratificazione storica e semantica del concetto di παρρησία nelle sue implicazioni politiche, specie con riguardo alla dialettica interna, all’aporetica tensione tra veridizione e provocazione che sempre lo attraversa, il Momus sive de Principe di Leon Battista Alberti (1404-1472) può rappresentare un tassello significativo qualora se ne consideri un aspetto che, nella crescente letteratura critica sull’opera albertiana, è sinora rimasto in ombra: quello, cioè, della precaria morfologia del rapporto tra Momo, nei panni del consigliere, e Giove, sovrano dell’universo. Gli studi più recenti si sono infatti concentrati sull’individuazione da un lato delle fonti del Momus[1] e, dall’altro, del quadro di riferimento storico e geografico al quale Alberti allude in esso, riconoscendo, seppur con la dovuta prudenza, in Giove alcuni tratti di Niccolò V alle prese con l’ambizioso progetto urbanistico concepito dopo il Giubileo del 1450, e in Momo una delle molteplici autoproiezioni dello stesso Alberti nelle vesti del consulente inascoltato. In effetti, secondo la testimonianza di Mattia Palmieri (l’autore del De temporibus suis, familiare del cardinale Prospero Colonna e segretario apostolico dal 1457), nel ’52 l’umanista fiorentino avrebbe offerto al pontefice una consulenza architettonica per il restauro di San Pietro e gli avrebbe presentato almeno una porzione del De re aedificatoria, opera composta negli stessi anni del Momus, al quale è legata da una fitta trama di relazioni più o meno nascoste[2]. Oltre ad offrire nuovi suggestivi spunti di ricerca, tali studi hanno consentito di formulare ipotesi innovative sulla datazione del testo, situabile probabilmente alla metà degli anni Cinquanta, benché si tratti di un aspetto tuttora irrisolto, come per molti versi irrisolto, sfuggente ed enigmatico rimane a tratti lo stesso libello albertiano, difficilmente classificabile all’interno dei generi letterari consueti: in esso un autobiografismo sapientemente dissimulato sotto un velo di impenetrabile reticenza si fonde con una satira spietata dei costumi della corte e con un’ironica quanto amara riflessione sui temi del potere e della «condizione umana»[3]. Lo stesso Momo è personaggio ambivalente, camaleontico e «versipelle»[4], viva immagine di quei «varia speculorum miracula»[5] evocati da Alberti in un passo del testo, e pertanto non catalogabile schematicamente come eroe “positivo” o “negativo”. Eppure, nonostante i numerosi elementi di incertezza volutamente introdotti a destabilizzare il lettore, Alberti invita sin dalle pagine del Proemio a reperire nell’opera «alcune cose riguardanti la formazione dell’ottimo principe» e non pochi elementi «relativi alla conoscenza dei costumi di coloro che al principe stanno d’intorno»[6], chiarendo altresì in numerosi passaggi la propria aspirazione ad offrire una riflessione universale, diretta ad «educ[are] ed avvi[are] i lettori alla fruizione d’una vita migliore»[7]. Proprio il tema della parrhesia e, di converso, della dissimulazione messe in atto nell’agone politico, specie nell’ambito del rapporto tra principe e consigliere, sembra offrire una prospettiva privilegiata per cogliere un tale invito.
Sin dalla Theogonia di Esiodo (v. 213-214), Momo è il «figlio della Notte», la personificazione del sarcasmo, della derisione, dell’ironia mordente. Variamente citato o messo in scena da Esopo (Fabulae, 124), Platone (Respublica, 487a), Callimaco (Hymni, II.113; Epigrammata, Fr. 393 Pfeiffer), Filostrato (Epistulae, 37) e Cicerone (De natura deorum, III.44, col nome di Querella), egli è soprattutto il protagonista di due dialoghi di Luciano di Samosata, Iuppiter tragoedus e Deorum concilium, di particolare interesse per la nostra indagine dato che in essi Momo è chiamato a interpretare il ruolo del parresiasta[8]. Il primo vede Zeus, preoccupato dal duello verbale tra l’epicureo Damide (che nega l’esistenza dei numi) e lo stoico Timocle (di parere contrario), convocare un concilio degli dèi per decidere come intervenire in modo da evitare la vittoria del seguace d’Epicuro. Tra gli altri, Momo interviene ed esclama: «Se mi fosse dato di parlare liberamente (μετὰ παρρησίας), avrei da dire, o Zeus, molte cose». Questi lo esorta a parlare «senza nessun timore: è evidente che parlerai francamente (παρρησιασόμενος) per il nostro utile». Momo allora rimprovera duramente gli dèi e attribuisce la colpa di quanto accade al loro disinteresse per gli uomini, provocando la risposta piccata di Zeus il quale, apostrofatolo come un aspro censore, lo avverte che «incolpare, […] biasimare, criticare è facile […] ed è alla portata di chiunque lo voglia, ma consigliare (ξυμβουλεῦσαι) come possa migliorarsi la situazione esistente è proprio di un consigliere veramente saggio, il che sono certo che tutti voi farete, anche se costui tace»[9]. Non troppo diversa è ai nostri fini la vicenda narrata in Deorum concilium: stavolta l’oggetto di discussione è offerto dalla confusione prodottasi nell’Olimpo per l’arrivo di una folla di uomini divinizzati e di divinità orientali; ad ogni banchetto è un frastuono di lingue, l’ambrosia scarseggia e il nettare costa ormai una mina la tazza. Momo, che intende proporre una riforma per restituire l’Olimpo agli dèi greci, prende la parola chiedendo di poter
«parlare francamente (μετὰ παρρησίας): in altro modo, infatti, neppure potrei e tutti sanno che la mia lingua è libera (ἀλλὰ πάντες με ἴσασιν ὡς ἐλεύθερός εἰμι τὴν γλῶτταν) e che niente mai tacerei di ciò che non va bene. Io smaschero chiunque e dico apertamente quel che penso senza temere alcuno né celare per ritegno la mia opinione. La conseguenza è che ai più io sembro importuno, incline per natura alla calunnia e mi chiamano pubblico accusatore. Ma, dal momento che è lecito, è stato diffuso il bando e tu, Zeus, mi concedi di parlare liberamente (μετ’ ἐξουσίας εἰπεῖν), io parlerò senza farmi scrupolo di nulla»[10].
Nelle battute successive ricorrono con frequenza espressioni appartenenti all’area semantica della παρρησία: Zeus stesso ne offre un’efficace definizione sostenendo che «chi parla schietto deve dire qualsiasi cosa senza esitare (χρὴ δὲ παρρησιαστὴν ὄντα μηδὲν ὀκνεῖν λέγειν)»[11] e, in conclusione del suo intervento, Momo afferma: «Pur avendo molte cose ancora da dire, interromperò il mio discorso: il fatto è che avverto che molti sopportano male le mie parole e fischiano, quelli soprattutto che la mia franchezza (παρρησία τῶν λόγων) ha toccato»[12].
In realtà, la presenza di Luciano in Alberti – come, del resto, in molti altri umanisti – è ben nota ed è anzi oggetto di crescente attenzione da parte della critica[13], la quale non ha mancato di rilevare in particolar modo le sorprendenti convergenze tra questi due testi e il Momus, sebbene occorra a tal riguardo usare particolare cautela in ragione dei dubbi che tuttora persistono circa la loro conoscenza da parte dell’umanista fiorentino. Non sono note infatti traduzioni quattrocentesche di questi dialoghi, diversamente da numerosi altri volti in latino da Poggio Bracciolini, Guarino Veronese, Lapo di Castiglionchio il Giovane ed altri amici o conoscenti di Alberti, tra i quali si può ricordare almeno il Piscator, in cui lo stesso Luciano entra in scena col nome di Παρρησιάδες per difendersi dalle accuse mossegli dai filosofi, offesi dall’irriverenza con cui li ha dileggiati. D’altra parte sulla conoscenza della lingua greca da parte di Alberti si continua a discutere[14], seppur si osserva che Luciano era ritenuto un autore relativamente semplice, al punto da essere utilizzato da Manuele Crisolora (il primo a diffonderne i manoscritti in Occidente) nella sua attività di insegnamento, come si può desumere dal codice Vaticano Urbinate Greco 121: un manoscritto che contiene sei dialoghi lucianei corredati dall’annotazione esegetica interlineare e marginale di un allievo e che conserva, benché incompleto e privo di glossa, l’unico testimone conosciuto in ambito fiorentino dello Iuppiter tragoedus[15]. Del Deorum concilium non si riscontra invece alcuna traccia nella Firenze del XV secolo.
Pur nell’incertezza di tali questioni filologiche e critico-testuali, si può comunque ritenere, con una qualche approssimazione, che a questa tradizione si riallacci Alberti nel dar vita al personaggio di Momo, un dio «dal carattere stravagante, stupefacentemente superbo, […] per natura rissoso, ostile, aspro, molesto», tutto volto a «provocare ed irritare, con le parole e con gli atti, anche i suoi familiari» e avvezzo a «fare ogni prova onde nessuno si congedi da lui se non con volto attristato» e «animo tutto pieno di sdegno»[16]. Un dio dunque che, dell’antecedente lucianeo, eredita la libertà («libertas»), anche sfrenata, di parola e la cui figura pertanto a buon titolo si inscrive nell’orizzonte concettuale, se non terminologico, della parrhesia[17].
Nella vicenda narrata da Alberti, Momo condivide con Giove un ruolo da protagonista. Il padre degli dèi è raffigurato come superficiale e volubile, immagine non tanto del tiranno sanguinario e crudele, quanto piuttosto, come è stato scritto, della «mediocre vanità del potere»[18]: un principe insomma né malvagio né virtuoso, ma orgoglioso e dedito ai piaceri. La stessa legittimità del suo potere appare del tutto accidentale, se è vero – come si legge nell’ultima pagina del libello – che appartiene alla Fortuna distribuire nel mondo «onori e ricchezze» e che, secondo le parole di Momo, nessun dio sarebbe tanto moderato o pusillanime da rifiutare l’occasione di conquistare per sé l’imperio, qualora gli fosse presentato in sorte[19]. Alberti mette un scena un Giove che, ingelosito dalla primitiva felicità degli uomini, li colpisce con preoccupazioni e timori, malattie e morte, dolore e sventure; desideroso di poter esercitare, «lietamente libero da ogni preoccupazione, grata ed accettissima a tutti gli abitatori del cielo, la sua tirannide», distribuisce uffici, incarichi e posti di comando; e affermando a più riprese di voler condurre una vita «libera», «immune da cure» e dedita alla «fruizione di un assoluto piacere», delega il suo potere supremo, cioè «la cura di volvere i cieli e il sommo potere sui fuochi», a un dio abilissimo e solerte quant’altri mai nel disbrigo delle sue funzioni, «sempre al lavoro, mai in ozio», mai disposto a trascurare i propri compiti, né a deflettere, per preghiere o compensi, dalle antiche tradizioni o dalle istituzioni della legge: il dio Fato[20]. Più tardi, sdegnato per l’ingratitudine degli uomini e infastidito dai loro continui lamenti, concepisce l’iperbolico progetto di costruire «un mondo diverso»[21], ben sapendo di «non poter conseguire l’obiettivo con le sole forze del suo ingegno» e riconoscendo di aver bisogno di esperti consiglieri[22]. Il desiderio di tenere tutta «per sé la gloria dell’impresa»[23] gli fa però respingere le persone alle quali, per la loro gravità e dignità, anziché comandare dovrebbe obbedire: «presso di sé – così stavano le cose – avrebbe dovuto avere persone da cui sentisse di essere particolarmente rispettato e temuto, non di cui dovesse aver paura. Si aggiungeva il fatto che egli teneva lontani quelli che gl’insegnavano a comportarsi bene, mentre desiderava circondarsi di coloro che non ricusavano di fare quello che egli avesse ordinato»[24].
Proprio a questa descrizione, d’altronde, corrisponde in massima parte la personalità degli dèi che compongono la sua corte, trattandosi per lo più di adulatori sciocchi e incapaci. Tutti accorrono per ringraziarlo dopo l’iniziale distribuzione di prebende e uffici, affermando in coro che Giove, «ottimo principe», ha provveduto «con pia giustizia all’ordine dei celesti»; solo Momo, con fare sprezzante, si chiede «quale pazzia (quid hoc dementiae)» abbia colpito il re degli dèi, le cui decisioni gli paiono guidate dalla «voglia del momento (praesenti libidini)» ed estranee a qualsiasi matura valutazione («maturius consilia»)[25]. Servilmente appiattiti sulle opinioni del loro signore, gli altri dèi fanno di Momo l’oggetto dell’odio universale quando Giove è infuriato con lui, salvo poi gareggiare per salutarlo e ingraziarselo quando invece egli lo accoglie con favore[26]. E ancora, ben pochi tra loro sfuggono all’ipocrisia con cui è ammirato senza riserve il progetto di edificare un nuovo mondo:
«interpretando, come accade, la cosa a proprio vantaggio e a propria utilità, ciascuno guardava a se stesso. […] Sapientemente però si servivano di quelle arti, delle quali capivano esserci bisogno col principe: nascondevano, dissimulando, quali fossero, nel compiere quell’impresa, i loro desideri e i loro disegni, e quello che più intensamente volevano era proprio quanto, suggerendone l’idea con sfumate allusioni verbali, ostentavano di non gradire affatto, affinché il loro parere, essendone richiesti, sembrasse più atto a procurare il vantaggio del principe e dello stato che non il loro guadagno e il loro interesse»[27].
Ritenendo, in un primo momento, di dover consultare i filosofi («che, come è voce comune, tutto conoscono»[28]), lo stesso Giove si chiede quale tra i suoi cortigiani (familiares) egli possa inviare sulla Terra per avvicinarli. Di fronte alla loro incapacità, tuttavia, finisce col risolversi a partire personalmente: infatti,
«dovette […] dolersi del fatto che tutti i suoi erano a tal punto rozzi ed inesperti da non possedere nessuna lodevole capacità, niente conoscevano che potesse competere con l’uomo, salvo quello che avevano imparato con la lunga pratica della servitù: sfoggiare una ricca eleganza quando dovessero presentarsi a corte, stare vicini al principe, ricevere, festeggiandoli secondo il protocollo, coloro che si rivolgevano a lui, chiacchiericchiare, adulare, intrattenere, talché ormai desiderava di allontanarli tutti e levarseli di torno»[29].
Alberti pare insomma costruire un quadro in cui l’inettitudine di Giove e dei suoi «cortigiani», tanto più se posta di fronte alla grandiosità di un programma qual è quello di riedificare il mondo dalle fondamenta, rende necessaria la presenza di un consigliere che con la sua parola sappia orientare l’azione del sovrano in mezzo a tante voci interessate. Questo è il ruolo che Momo è destinato a impersonare, non senza però che nel corso della narrazione ciò finisca per rivolgersi a suo danno, giacché, come si vedrà, all’efficacia della sua opera si oppongono ostacoli gravi e insormontabili.
È possibile tirare le fila del mutevole e, in conclusione, infruttuoso rapporto tra Giove e Momo prendendo le mosse dal brano nel quale, verso la fine del racconto, quest’ultimo, raggiunto nel mezzo dell’Oceano da Gelasto (ridicolo filosofo aristotelico) e Caronte (risalito con lui sulla Terra per poterla vedere almeno una volta, prima della sua distruzione e riedificazione), riepiloga la propria vicenda e narra di essere stato proscritto dal cielo per non aver peccato altrimenti se non «bene agendo e rettamente consigliando», ossia per aver criticato l’accanimento di Giove sugli uomini e la sua distribuzione delle funzioni di comando, che tanto potere aveva attribuito al Fato[30]. Scacciato una prima volta ma presto riammesso tra gli dèi – certo non per intima convinzione di questi nella giustizia del perdono bensì per mera convenienza, dato che sulla Terra Momo si adoperava per distogliere gli uomini dal culto divino – egli aveva deciso di adottare una diversa strategia:
«io, che fino a quel giorno avevo serbato l’abitudine di uniformare le mie opinioni alla verità, i miei desideri al dovere, le mie parole e il mio volto ai principi di giustizia che sentivo nel profondo del petto, io, dunque, dopo che fui ritornato, imparai a mettere le mie opinioni al servizio dell’immotivato sospetto, il mio impegno al servizio del piacere, il volto le parole i sentimenti a fabbricare inganni»[31].
«Simulando e dissimulando»[32] Momo aveva con ciò indossato la maschera dell’adulatore[33] pronto a compiacere in ogni occasione il proprio signore; una trasformazione che – al di là delle vanterie sulla propria abilità dissimulatoria[34] – gli era tuttavia costata non poca fatica («a tal punto ardeva di dolore e di rabbia che a stento riusci[va] a trattenere le lacrime»[35]) e lo aveva costretto a operare una non facile scissione interiore:
«Chi è infelice deve pur rinunciare, o Momo, alla sua superbia e riservare la gravità a momenti migliori. [….] È proprio del sapiente ubbidire ai tempi […]. Mi dirai: non posso non essere quello che sempre sono stato, libero e tutto d’un pezzo (liber et constans[36]). E siilo: conserva dentro di te quel te stesso che vorrai, purché nel volto, nella fronte, nelle parole ti simuli e ti dissimuli quale l’utile ti richiede»[37].
Ciononostante, tramutatosi in buffone di corte ed apprezzato per la sua amenità, Momo riuscì per qualche tempo a conquistare i favori di Giove e dei suoi cortigiani apprestandosi, attraverso un uso accorto della parola, a divenire il governatore del principe: «O me, ancora una volta, felicissimo, che con le mie arti mi sono sistemato questa vicenda in modo tale che mi sento il vero re degli abitatori del cielo!»[38]. Ciò che lo vinse fu il desiderio di riacquistare la «libertà», come spiega a Gelasto e Caronte:
«Decisivo per la mia rovina fu questo, che, dopo aver ricevuto tanti onori, ritenni che mi fosse utile recedere dalle male arti e, volte le spalle alle servili lusinghe delle adulazioni e delle blandizie, restituirmi alla libertà d’un tempo. […] Tralascio tutto il resto: a tal punto mi preoccupai degli dèi che, quando Giove pensava di creare un mondo nuovo, io, molto vegliando, ho raccolto per lui tutti i principi trasmessici dagli antichi intorno ai compiti degli dèi e dei re, dei quali, Gelasto mio, io ero solito discorrere con te, e, messili per iscritto, glieli avevo consegnati. Quale considerazione, però, egli ne abbia fatto, ben ce lo insegna quello che è avvenuto dipoi: a quel che si può vedere, a Giove i miei consigli, fonte per lui di utilità e di onore, non piacquero; piacquegli bensì relegarmi in queste miserie. Che cosa vi sembra più da condannare, la trascuratezza con cui egli neglesse la cosa pubblica o l’ingiustizia con cui l’amministrò?»[39]
In effetti, Momo si era premurato di consegnare a Giove un opuscolo (sorta di speculum principis in miniatura) contenente ciò che, sulla base della propria «sapienza» e «fedeltà», egli aveva giudicato utile al «decoro» e alla «dignità» del suo impero. Giove non l’aveva tuttavia neppure guardato e, gettatolo in un angolo del suo palazzo, poco dopo non ricordava nemmeno di averlo ricevuto[40].
A Nettuno infine, sopraggiunto per placare la forza dei venti, Gelasto chiede di consigliare Giove perché nel governo della respublica si serva dello scritto di Momo; ma il dio dei mari risponde che nessuno può dettare a Giove la sua condotta, giacché un principe tanto presuntuoso tutto potrebbe fare fuor che accettare degli insegnamenti; né ci sarebbe modo di consigliarlo o di spronarlo, poiché «nell’un caso e nell’altro sempre si [atterrebbe] alla sua decisione, preferendo ostentare il suo ingegno piuttosto che valorizzare l’altrui»[41]. Caronte e Gelasto riprendono allora la loro navigazione:
«Gelasto – chiede il primo –, come definire un modo di fare come questo in un principe, specialmente in Giove, che tutti proclamano sapientissimo? Non parliamo di cose come servire il proprio piacere più di quanto non sia lecito, abusare della propria potenza per nuocere agli innocenti, comandare piuttosto che sembrare degno del comando e desiderare piuttosto di sembrare che non di essere degno di comandare. Tutto questo è sopportabile: grave è invece un’altra cosa, che un principe si comporti in modo tale da non prendere piacere di chi ben lo consiglia o da non lasciarsi influenzare dai buoni consigli».
E Gelasto:
«Che cosa pensi, Caronte […], che si possa fare con uno che, circondato da una corona di adulatori, di giorno in giorno disimpara ad essere uno che possa sbagliare e regola le sue voglie in base all’arbitrio, e l’assolvimento dei propri doveri in base alle sue voglie, tanto che io non ho sufficientemente chiaro se sia meglio essere un principe di tal fatta o un servo?»[42]
Come si evince da questa rapida ricostruzione degli eventi, il rapporto tra principe e consigliere subisce in questo racconto un doppio scacco. Da una parte l’azione degli adulatori fa sì che il principe finisca per inebriarsi nella presunzione dimenticando la propria natura e la propria fallibilità. Questa forma di ignoranza – che è anzitutto ignorantia sui e che in un testo come il Libro del Cortegiano sarà la ragione alla base dell’introduzione a corte di una figura il cui compito primario sarà quello di dire sempre «la verità» al principe «d’ogni cosa che ad esso convenga sapere, senza timor o periculo di despiacergli»[43] – è in Alberti uno degli ostacoli maggiori all’azione del consigliere. D’altra parte, e questo ci sembra essere l’impedimento essenziale, il consigliere incarna nel Momus una figura assolutamente paradossale: colto attraverso il prisma dell’esuberante inventività albertiana, dispiegata peraltro in un’opera dallo statuto letterario singolare (non un trattato, né un dialogo filosofico, ma un lusus[44]), egli rivela nella sua condotta tutta l’ambiguità, e al tempo stesso la ricchezza, della nozione di parrhesia. La franchezza di Momo è spinta sino ai suoi esiti più estremi, quelli della «sfrenata insolenza della lingua», di un contegno «sfrontato», di un animo «smodatamente senza freni» e di una «lingua […] proterva e intemperante», di una bocca «garrula» e «pervicace», di una «loquacità pronta […] a dir male di tutto»[45]. Messi da parte gli artifici retorici che, sin da Platone, tante volte hanno addolcito la parola del consigliere[46], il dio del biasimo esprime la propria natura in modo totalmente «libero» e diretto, senza alcun riguardo per i risultati destabilizzanti e talora affatto sconvenienti della sua παρρησία. Se il Momo simulatore e dissimulatore attua una scissione, una spaccatura tra il dentro («intus in animo») e il fuori («vultu, fronte verbisque») con cui, obbligandosi ad esser sempre presente a se stesso, può relegare i suoi veri pensieri nell’opacità[47], l’aspetto, l’atteggiamento e l’eloquio del Momo parresiasta concorrono invece ad ostentare con visibilità piena e irresiduale la veracità di un’indole lasciata a briglie sciolte. Il rapporto tra principe e consigliere, in queste condizioni, non può che incrinarsi per effetto della persistente conflittualità che lo attraversa, conducendolo ad ogni istante sull’orlo della rottura. Ne deriva l’inesorabile accrescimento del rischio implicito nella posizione del consigliere, rischio che Momo – lungi dal potersene sottrarre, come altri consiglieri più cauti di lui potrebbero fare, abbandonando a se stesso il principe sordo agli avvertimenti[48] – deve giocoforza accettare fino in fondo, fino a mostrare nel proprio stesso corpo, evirato, incatenato ad una roccia ed immerso, con l’eccezione della testa, nel mezzo dell’Oceano, il marchio indelebile dell’eterno castigo.
Tutto ciò, ci pare, mostra a sufficienza come in questa vicenda le condizioni che dovrebbero rendere possibile ed efficace il rapporto tra principe e consigliere non siano soddisfatte, oppure non bastino ad assicurarne il buon funzionamento. In primo luogo, una condizione non soddisfatta, l’ascolto dei consigli da parte del principe: persino Apollo, inviato sulla terra presso i filosofi, mette in guardia Giove dal suo costume di «consentire piuttosto con l’opinione che con la verità» e di indulgere alla «forza di persuasione» delle sue favorevoli inclinazioni[49]. Soltanto alla fine, dopo che gli esiti catastrofici delle sue decisioni e l’umiliazione subita dall’intero Olimpo avranno ampiamente dimostrato la fatuità del suo modo di procedere, egli riconoscerà le cause del suo fallimento nell’aver allontanato da sé chi ben lo consigliava e nell’aver ottemperato alle voglie degli sconsiderati[50]. Quando ormai il grandioso progetto di rifare il mondo si sarà penosamente sgonfiato e ridotto al mesto riordino della propria stanza, tra i libri impolverati il padre degli dèi ritroverà l’opuscolo di Momo e lo leggerà avidamente traendone sensazioni ambivalenti, «a tal punto vi erano mescolati il gradevole insieme e lo sgradevole»: gradevole era che in esse egli trovava consigli ottimi, «sgradevole era invece che tanto a lungo per la sua negligenza avesse potuto privarsi di tanti precetti e così utili a procurare gloria e consenso»[51].
In secondo luogo, a rendere possibile il rapporto tra principe e consigliere dovrebbe essere la franchezza, ossia la «libertà» con cui egli dovrebbe rivolgersi al suo signore per consigliarlo non con inganni e adulazioni, ma con «fede» e «amore»[52]. L’eccessiva franchezza ostentata dal dio del biasimo finisce però per rovesciarsi, lo si è visto, in un’autentica condizione d’impossibilità del rapporto, lasciando intravvedere l’acuta criticità che, agli occhi dello stesso Alberti, sta al fondo di un tale atteggiamento. Momo finisce infatti per attirare su di sé le ire dapprima del consesso divino riunito in un ridicolo concilio (da lui definito con disprezzo una tana d’avvinazzati)[53], poi dello stesso Giove, che lo apostrofa come un simulatore «versuto […] ed astuto», uno «scelleratissimo sovvertitore del mondo», e che ratifica senza esitazioni la sua condanna, di fatto già eseguita da Giunone e dagli altri dèi[54].
Resta infine il sapere del consigliere, la sola condizione che nel Momus pare soddisfatta – e soddisfatta, per così dire, nella giusta misura. Si tratta del sapere incarnato principalmente dalle scritture consegnate a Giove, nelle quali dopo molte veglie Momo aveva saputo raccogliere «dagli insegnamenti dei filosofi, precetti ottimi e del tutto necessari a formare e a mantenere mirabilmente un re»[55]. Tutto il libello sembra del resto inscriversi in un ampio, per quanto dissimulato e frammentato, quadro di riferimenti più o meno espliciti al sapere politico, a partire dal Proemio in cui, forse con un’allusione a Giovanni di Salisbury, il principe è definito come «spirito e mente [che] regola l’universo corpo della repubblica»[56], per proseguire con la descrizione del « mestiere » del re, ove si distinguono due vie d’accesso al principato, l’una fondata su cospirazioni, saccheggi e persecuzioni, l’altra tracciata dal possesso delle buone arti, dal culto dei buoni costumi, dall’esercizio della virtù, e una volta stabilito che «saper esercitare il potere non è arte da tutti» si conclude, con manifesta ispirazione alle trattazioni de infelicitate principum, su una definizione del «potere» come una «pubblica ed intollerabile servitù»[57]. Si potrebbe continuare col brano in cui Caronte e Gelasto, navigando verso gli inferi, si imbattono nella nave-respublica[58] – una metafora sviluppata ampiamente e ovviamente ricca di richiami tradizionali –, con la disputa tra l’araldo Peniplusio e il re Megalofo sull’ufficio del sovrano, «pubblico servo» vincolato al rispetto delle leggi al pari del suo più umile ufficiale – un episodio ispirato al Cataplus seu Tyrannus di Luciano, ma dal quale non sono assenti riferimenti ad una tra le più dibattute questioni dell’intero Medioevo giuridico[59] –, per arrivare infine alle pagine conclusive del testo, nelle quali finalmente il contenuto dell’opuscolo di Momo è rivelato[60]. Ciò che Alberti pare voler dire in questa vicenda, tuttavia, è che in ultima istanza un tale sapere, per quanto importante, non basta da solo a salvare il mondo dalle conseguenze, grottesche e disastrose, di un crepuscolo degli dèi narrato col sorriso amaro del disincanto.
Vorremmo in conclusione allargare per un momento lo sguardo sulla prosa morale albertiana al fine di penetrare con maggior profondità le riflessioni consegnate al Momus sul ruolo assunto dalla παρρησία nel rapporto tra principe e consigliere. Ci pare significativo a questo riguardo rievocare un passaggio dei Profugiorum ab aerumna libri III, il dialogo, composto verso la metà degli anni Quaranta e ambientato a Firenze, nel quale Agnolo Pandolfini ammaestra due giovani amici, Nicola de’ Medici e lo stesso Battista Alberti, sul modo di evitare e di guarire l’aerumna trovando la pace dell’animo[61]. All’inizio del libro II, Agnolo, avvicinato da due messi della Signoria che gli chiedono di recarsi al Palazzo per il “consiglio dei richiesti”, rifiuta di accogliere l’invito, offrendo ai due amici la seguente motivazione:
«Questi mi chieggono e instanno ch’io salisca su in Palagio a consigliare cogli altri padri della patria e curare el ben publico. Sia della mia volontà e de’ miei studi cognitore e testificatore Dio immortale e gli altri abitatori e moderatori del cielo, come cosa niuna tanto mi sta ad animo né tanto mi siede in mente quanto di conservare e amplificare l’autorità, dignità e maiestà della patria mia insieme colla utilità e pregio di ciascuno privato buon cittadino. Ma che perversità sarà la nostra se noi chiamati a consigliare ci converrà dire non quello che forse a noi parerà utile, onesto e necessario a’ tempi, alle condizioni del vivere e della fortuna nostra, ma converracci dire quel che stimeremo grato a chi ne richiese? […] Iersera mi tenneno sino a molta notte, e ora mi rivogliono; né fie tempo d’essere al bisogno di qui a più ore. E s’io vi giovassi, non aspetterei esservi richiesto. Adunque adopereremo questo tempo in altro, e forse a chi che sia gioveremo; dove dicendo lassù quel ch’io sento, non gioverei a me, e dicendo quel ch’io non sento, non piacerei ad altri»[62].
Nella bocca di una delle personalità di maggior prestigio e statura morale della Firenze premedicea, Gonfaloniere di Giustizia nel 1414, nel ’20 e nel ’31, ambasciatore fiorentino presso Ladislao di Napoli, Martino V e l’imperatore Sigismondo, nonché protagonista della produzione morale del tempo (dalla Vita civile di Matteo Palmieri al Governo della Famiglia, rifacimento del terzo libro del De familia albertiano), una tale presa d’atto del conflitto lacerante ormai prodottosi tra coscienza e potere, tra esercizio della verità e esercizio del potere, appare durissima, e ciò tanto più se si considera che proprio l’onestà e la libertà manifestati dal Pandolfini nel consigliare la patria erano noti al punto di meritare un lungo elogio nella biografia dedicatagli da Vespasiano da Bisticci[63]. Occorre tuttavia grande prudenza nel valutare testi come questo, o come il Momus, alla stregua di malinconiche espressioni circa l’impossibilità di praticare il consiglio con onestà ed efficacia, in un quadro politico dominato da un potere tirannico. Va infatti ricordato che Alberti, nella sua attività d’architetto, fu variamente in contatto con numerosi signori italiani (come Leonello d’Este, Sigismondo Malatesta, Ludovico Gonzaga, Federico di Montefeltro), ai quali offrì la propria consulenza con successo e riconoscimento. Di più, ad alcuni tra essi si avvicinò attraverso l’organizzazione di eventi culturali (Piero de’ Medici nel caso del Certame Coronario del ’41) o la dedica delle proprie opere (allo stesso Piero la redazione volgare dell’Uxoria, a Leonello d’Este il Theogenius, a suo fratello Meliaduse i Ludi rerum mathematicarum, a Lorenzo de’ Medici i Trivia senatoria), e nella sua carriera di abbreviatore apostolico si trovò vicino a papi quali Eugenio IV, Niccolò V, e più tardi Callisto III, Pio II e Paolo II. È pur sempre a partire da questo intreccio di relazioni, ancora oggi oggetto di approfondimenti, che Alberti condanna l’azione del governo fiorentino e irride l’inanità del pontefice, senza cioè che ciò si traduca in una rassegnata presa di distanza dall’azione politica e nel ripiegamento in uno spazio di riflessione solitario e isolato[64]. Nonostante la forza corrosiva dispiegata nel Momus (tratto comune ad altre opere dell’Alberti «umorista», quali gli Apologi e le Intercoenales)[65], la prosa morale in lingua volgare, in una sorta di dialettica continua e mai risolta, si preoccupa di ricostruire ogni volta dalle macerie, tracciando un percorso di formazione di sé che trova la sua formulazione compiuta nella successione dei cosiddetti “trattati morali” (ossia i dialoghi Theogenius, Profugiorum ab aerumna libri III e De iciarchia). Se la questione messa a nudo è il nodo del rapporto tra principe e consigliere costituito dallo scontro tra la capacità di ascolto dell’uno e la misura della franchezza dell’altro, ciò che Alberti prospetta non è affatto un ritiro dalla dimensione del vivere politico, ma un laborioso percorso che, attraverso la pratica degli “esercizi spirituali” (gli «essercizi»), possa condurre l’uomo ad ottenere il dominio di sé[66]. È nella paziente costruzione di un’arte del vivere, o come la chiama Alberti di una «ragion del vivere», che maturano i presupposti in grado di far fronte a una tale questione. «Onde con questa mia ragione del vivere me truovo fermissimo contro ogni ingiuria. Truovomi da non temere tiranno alcuno per crudelissimo che sia. Ammunirollo pieno di libertà», dichiara nel Theogenius (circa 1440) Genipatro al giovane e arrogante Tichipedo; e nel De iciarchia (1465) un Alberti ormai anziano, riconosciuta la natura del «vero principe» e del «vero principato» non nella rincorsa ai piaceri e alle sinecure, ma nell’«essere per virtù, costumi, prudenza e molta cognizione d’arti e cose buone superiore agli altri», individua nella «cura dell’animo» la via per poter «comandare a sé stessi» e divenire «att[i] a comandare e contenere molti»[67]. Ben diverso dal velleitario Giove del Momus, l’iciarco (neologismo formato dalla fusione di οἶκος e ἀρχός ad indicare il «supremo omo e primario principe della famiglia sua»)[68] è l’ideale della ragione profilato da Alberti nell’illustrare il modello di un governante giusto e moderato, di un uomo «savio e virtuoso» che sa accogliere i buoni consigli quand’anche essi appaiano poco attraenti di fronte alle «fizioni e simulazioni de’ fraudolenti», poiché non ignora che «el consiglio dell’omo grave e buono, simile al sole, cessata la nebbia, splende per tutto»[69]. Non è un caso se nella costruzione di una tale figura un largo spazio è dedicato da Alberti ai precetti riguardanti l’uso della parola, dove questa – definita, seguendo Cicerone, «vinculo della società fra gli uomini» – pare acquisire una preziosità tale da prefigurare la suggestiva immagine nietzschiana dell’orafo della parola: «Vorrebbesi poter pesare ogni sillaba colla bilancia e minutoli di chi assaggia l’oro, e forse non basterebbe al riguardo qual bisogna che abbi el savio a profferire la parola»[70]. Abbandonati il procedere antifrastico della scrittura del Momus e gli eccessi del suo protagonista, Alberti esprime ora con limpida chiarezza quanto nell’uso della parola spetta a ciascuno, compreso chi è impegnato nel difficile compito del consigliere, risolvendo forse in tal modo l’aporetica tensione condensata nella nozione di parrhesia:
«Affermano e’ dotti che niuna voce si sente più suave che la nuda e semplice verità. Ma spesso la arroganza e temerità di chi la porge, la rende insuave e male accetta. Saranno pertanto e’ nostri ragionamenti con modestia e buon riguardo almeno tali che non mostrino essere nell’animo qualche vizio, e saranno fra gravi omini. Come la gemma rende splendore perché ella in sé è pura e limpida, così la buona mente rende parole simili a sé composte bene e costumate. Ed è come si dice: tale quale è l’omo in sé, tal cose pensa, dice e fa»[71].
[1] Cfr. M.L. Bracciali Magnini, Fonti vecchie e nuove del Momus, in Leon Battista Alberti umanista e scrittore. Filologia, esegesi, tradizione, a cura di R. Cardini e M. Regoliosi, 2 voll., Polistampa, Firenze 2007, vol. 1, p. 377-402.
[2] Cfr. su questi aspetti i contributi di M. Tafuri, “Cives esse non licere”. La Roma di Nicolò V e Leon Battista Alberti: elementi per una revisione storiografica, in Id., Ricerca del Rinascimento. Principi, città e architetti, Einaudi, Torino 1992, p. 33-88; A.G. Cassani, Libertas, frugalitas, eadificandi libido: paradigmi indiziari per Leon Battista Alberti a Roma, in Le due Rome del Quattrocento: Melozzo, Antoniazzo e la cultura artistica del ’400 romano, a cura di S. Rossi e S. Valeri, Lithos, Roma 1997, p. 296-321; S. Simoncini, Roma come Gerusalemme nel Giubileo del 1450. La “Renovatio” di Nicolò V e il “Momus” di Leon Battista Alberti, ivi, p. 322-345; S. Borsi, Momus o del Principe. Leon Battista Alberti, i papi, il giubileo, Polistampa, Firenze 1999; M. Miglio, Niccolò V, Leon Battista Alberti, Roma, in Leon Battista Alberti e il Quattrocento: studi in onore di Cecil Grayson e Ernst Gombrich, a cura di L. Chiavoni, G. Ferlisi e M.V. Grassi, Olschki, Firenze 2001, p. 47-64; A. Modigliani, Ad urbana tandem edificia veniamus. La Vita Nicolai Quinti di Giannozzo Manetti: una rilettura, in Leon Battista Alberti: architetture e committenti, a cura di A. Calzona et al., Olschki, Firenze 2009, p. 513-559.
[3] L.B. Alberti, Momo, a cura di F. Furlan e P. D’Alessandro, trad. di M. Martelli, Mondadori, Milano 2007, p. 546 («O deterrimam hominum condicionem!») e 595 («Rerum humanarum sor[s] et conditi[o]»).
[4] Ibi, p. 441 e 481 («versipellis»).
[5] Ibi, p. 576.
[6] Ibi, p. 9-10 (vers. lat. a p. 405: «Ut his quatuor libris, ni me laboris mei amor decipit, cum nonnulla comperias quae ad optimum principem formandum spectent, tum etiam non paucissima sese offerant quae ad dinoscendos mores pertinent eorum qui principem sectantur»).
[7] Ibi, p. 6 (vers. lat. a p. 403: «Itaque sic deputo: nam si dabitur quispiam olim qui cum legentes ad frugem vitae melioris instruat atque instituat dictorum gravitate rerumque dignitate varia et eleganti idemque una risu illectet, iocis delectet, voluptate detineat […] hunc profecto inter plebeios minime censendum esse»); v. anche p. 403-404, 410, 531, 596. Nelle intenzioni di Alberti, Giove incarna la figura del principe intesa in senso universale: «At Iuppiter, uti est vetus quidem et usitatus mos atque natura nonnullorum, ferme omnium principum, dum sese graves atque constantes haberi magis quam esse velint, illic illi quidem non quae ad virtutis cultum pertineant, sed quae ad vitii labem faciant usurpant…» (p. 535, corsivo mio). Momo d’altra parte, il cui nome dopo la definitiva condanna è mutato in Humus, rappresenta l’uomo, se si segue l’etimologia di Isidoro da Siviglia, Etymologiae, II.I.4: «homo est dictus ab humo. Gen., 2.7: Formavit Deus hominem de humo terrae» (cfr. M. Martelli, Postfazione, ivi, p. 702). Si potrebbero aggiungere, nella stessa prospettiva e con riguardo alla simulazione, la critica da lui rivolta alla creatura umana, la cui mens è nascosta dentro il petto e nei precordi anziché essere collocata sulla fronte, nella parte più scoperta del volto (Momo, cit., p. 412 – che riprende la favola 124 di Esopo, in Favole, trad. di E. Ceva Valla, Rizzoli, Milano 1998, e l’Hermotimus di Luciano, in Dialoghi, a cura di V. Longo, vol. I, UTET, Torino 1976, pp. 726-727), e poi il mito della creazione narrato da Caronte, in cui si racconta che gli uomini falsi e menzogneri presero ad indossare una maschera di fango con cui confondersi tra gli altri, la quale, dopo la loro morte, immancabilmente si scioglie al loro arrivo sulle sponde dell’Acheronte, tramutandosi in una melma che il traghettatore raccoglie alla bisogna per stoppare la propria barca (ivi, pp. 606-607).
[8] Precisiamo che il termine παρρησία e i suoi derivati ricorrono, con una qualche frequenza, nell’intera opera lucianea. Si veda sul punto l’articolo di V. Visa-Ondarçuhu, La notion de parrhèsia (παρρησία) chez Lucien, “Pallas”, 72, 2006, pp. 261-278
[9] Luciano, Dialoghi, a cura di V. Longo, vol. II, UTET, Torino 1986, pp. 768-771.
[10] Luciano, Dialoghi, a cura di V. Longo, vol. III, UTET, Torino 1993, pp. 672-673.
[11] Ibi, pp. 674-675.
[12] Ibi, pp. 682-683.
[13] V. oggi L. Geri, A colloquio con Luciano di Samosata. Leon Battista Alberti, Giovanni Pontano ed Erasmo da Rotterdam, Bulzoni, Roma 2011 (con bibliografia ampia e aggiornata). Agli autori studiati da Geri si può aggiungere Thomas More, che com’è noto fu traduttore di Luciano (cfr. The Complete Works of St. Thomas More, vol. 3, part 1, Translations of Lucian, eb. by C.R. Thompson, Yale University Press, New Haven and London 1974); sul problema del rapporto tra verità, coscienza e potere in More, con particolare riguardo all’episodio della sua condanna nel 1535, v. M. Nicoletti, Silenzio e coscienza: il giuramento di More, in Il vincolo del giuramento e il tribunale della coscienza, a cura di N. Pirillo, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 79-128.
[14] Cfr. L. Bertolini, Grecus sapor. Tramiti di presenze greche in Leon Battista Alberti, Bulzoni, Roma 1998.
[15] Cfr. E. Berti, Alla scuola di Manuele Crisolora. Lettura e commento di Luciano, “Rinascimento”, n.s., 27, 1987, p. 3-73.
[16] Cfr. L.B. Alberti, Momo, cit., p. 14 (vers. lat. a p. 409-410: «Hunc enim ferunt ingenio esse praeditum praepostero et mirum in modum contumaci naturaque esse obversatorem infestum, acrem, molestum et didicisse quosque etiam familiares lacessere atque irritare dictisque factisque et consuesse omne studium consumere ut ab se discedat nemo fronte non tristi et animo non penitus pleno indignatione»).
[17] Per riferimenti cfr. infra; ricordiamo comunque sin d’ora che libertas è traduzione latina di παρρησία (si veda al riguardo G. Scarpat, Parrhesia: storia del termine e delle sue traduzioni in latino, Paideia, Brescia 1964).
[18] Cfr. C. Vasoli, Potere e follia nel Momus, in Leon Battista Alberti: Actes du Congrès international de Paris, Sorbonne – Institut de France – Institut culturel italien – Collège de France, 10-15 avril 1995, éd. par F. Furlan, 2 voll., Vrin & Nino Aragno Editore, Torino e Parigi 2000, vol. I, p. 444.
[19] Cfr. L.B. Alberti, Momo, cit., pp. 336 e 29 (vers. lat. alle pp. 637 e 420).
[20] Ibi, pp. 21-22 (vers. lat. a p. 415).
[21] Ibi, p. 175. È interessante notare come il progetto di edificare un nuovo mondo vada quasi a coincidere con l’elaborazione di una nuova ratio vivendi, rimarcando così ancora una volta la valenza morale del testo albertiano: «Novam vivendi rationem adinveniemus! Alius erit nobis adeo coaedificandus mundus», p. 522.
[22] Ibi, pp. 203 e 192 (vers. lat. alle pp. 543 e 536).
[23] Ibi, p. 203 (vers. lat. a p. 543).
[24] Ibi, p. 194 (vers. lat. a p. 537: «… habendos quidem apud se eos praesertim a quibus observari se metuique sentiat, non quos vereri oporteat. Accedere et illud, quod eos recusaret qui se recte facere edocerent, et eos sibi dari cuperet qui quaeque ipse ediceret facere non recusarent»).
[25] Ibi, p. 26 (vers. lat. a p. 419). Momo inviterà Giove a procedere alla costruzione di un nuovo mondo solo dopo matura riflessione a p. 524-526. Alberti scrive del resto nell’Architettura [De re aedificatoria], 2 voll., a cura di G. Orlandi e P. Portoghesi, Ed. Il Polifilo, Milano 1966, vol. II, IX.11, p. 867: «Quicquid attentandum institueris, id nonnisi de peritissimorum consilio vel potius edicto aggrediaris moneo: sic enim et commodis aedificationis et tibi ab obtrectatorum insimulationibus bellissime consulueris».
[26] Cf. L.B. Alberti, Momo, cit., p. 496.
[27] Ibi, pp. 186-187 (vers. lat. a p. 532: «Namque, uti fit, ad suos usus et commoditates eam rem interpretantes, quisque sibi prospiciebat. […] Sed qua esse opus arte apud principem intelligebant, ea tum docte utebantur: suas quidem in agendis rebus cupiditates atque affectus dissimulando obtegebant et quae imprimis affectabant, ea levibus quibusdam verborum indiciis sibi haudquaquam satis placere ostentabant, quo eorum consilium, cum rogarentur, utilitati principis ac rei publicae magis quam privatis emolumentis et studiis accommodatum videretur»).
[28] Ibi, p. 193 (vers. lat. a p. 536).
[29] Ibi, p. 195 (vers. lat. a p. 538: «Ac doluit quidem suos omnes tam esse omnino rudes atque imperitos ut nihil bonarum artium tenerent, nihil homine dignum nossent praeter id quod longo servitutis usu didicissent, id erat ad regiam lauto apparatu esse, ad principem assistere, appellentes arte quadam plaudendo excipere, confabellari, assentari, detinere, ut iam eos omnes cuperet ab se mittere atque amovere»).
[30] Ibi, p. 318 (vers. lat. a p. 625).
[31] Ibi, pp. 318-319 (vers. lat. a p. 625: «… qui in eam diem consueveram opinionem ad veritatem, studia ad officium, verba frontemque ad pectoris intimas rectasque rationes referre, idem post reditum didici suspicioni opinionem, libidini studia, dolis confingendis frontem, verba pectusque accommodare»).
[32] Ibi, p. 59 (vers. lat. a p. 441, «simulando ac dissimulando»; v. anche p. 467, «simulando atque dissimulando», e p. 580, «fingendo ac dissimulando»). Va detto che il tema della simulazione/dissimulazione occupa un posto importante nel pensiero di Alberti e si rivela di difficile valutazione, tale pratica essendo spesso approvata dall’umanista con riguardo alla sua funzione di strumento d’autodifesa. È questa una concezione che pare prendere spunto da Seneca, Epistola V.2 («Satis ipsum nomen philosophiae, etiam si modeste tractetur, invidiosum est. […] Intus omnia dissimilia sint, frons vero populo nostro conveniat», epistola ripresa anche da Petrarca, Familiares, II.9.8, a G. Colonna, 21 dicembre 1336). Si consideri ad esempio il passo dell’autobiografia in cui Alberti dice di sé che «simulabat, quo alterius ingenium, mores peritiamque scrutaretur» (cfr. R. Fubini-A. Menci Gallorini, L’autobiografia di L.B. Alberti: Studio e edizione, “Rinascimento”, s.II, 12, 1972, p. 72), o al lungo elogio di Ulisse nel libro II dei Profugiorum ab aerumna libri III. Sul tema cfr. O. Catanorchi, Tra politica e passione. Simulazione e dissimulazione in Leon Battista Alberti, “Rinascimento”, s. II, 15, 2005, pp. 137-177.
[33] Cfr. L.B. Alberti, Momo, cit., p. 471 (« … suscepta assentatoris persona …»).
[34] Cfr. ivi, pp. 441 e 469.
[35] Ibi, p. 141 (vers. lat. a p. 498).
[36] Come sottolinea L. Geri, A colloquio con Luciano di Samosata, cit., p. 86 l’aggettivo liber, oltre a riferirsi al campo semantico della παρρησία, rimanda alla definizione di sé che Momo dà nel Deorum Concilium, cit. supra : «Tutti sanno che sono libero nel mio modo di esprimermi (πάντες με ἴσασιν ὡς ἐλεύθερός εἰμι τὴν γλῶτταν)».
[37] L.B. Alberti, Momo, cit., pp. 43-44 (trad. modificata; vers. lat. alle pp. 430-431: «Ponendi nimirum […] sunt miseris, o Mome, fastus servandaque rebus felicioribus gravitas. […] Nam est quidem sapientis parere tempori. […] Dices: nequeo esse non Momus, nequeo non esse qui semper fuerim liber et constans. Esto sane: ipsum te intus in animo habeto quem voles, dum vultu, fronte verbisque eum te simules atque dissimules quem usus poscat»). Cfr. anche pp. 466-467: «Olim, quod tristem personam gererem illam et severam tetrico incessu, truculento et terribili aspectu, vestitu aspero, barba et capillo subhorrido atque inculto, quod superstitiosa quadam severitate multo supercilio nimiaque frontis contractione gestiebam quodve me aut contumaci quadam taciturnitate aut odiosa obiurgandi mordendique acrimonia publicum terrorem omnibus offerebam, merito nullis eram non invisus atque infensus. Nunc vero aliam nostris temporibus accommodatiorem personam imbuendam sentio. Et quaenam ea erit persona, Mome? Nempe ut comem, lenem affabilemque me exhibeam. Item oportet discam praesto esse omnibus, benigne obsequi, per hilaritatem excipere, grate detinere, laetos mittere. Ne tu haec, Mome, ab tua natura penitus aliena poteris? Potero quidem, dum velim. Et erit ut velis? Quidni? Spe illectus, necessitate actus propositisque paremiis ipsum me potero fingere atque accommodare his quae usui futura sint. Sequere, Mome! Namque de te quicquid abs te voles, impetrabis et quae tute tibi non negabis, ea tu quidem omnia perquam pulcherrime poteris. Quid tum igitur? Ne vero nos insitum et penitus innatum lacessendi morem obliviscemur? Minime, verum id quidem moderabimur taciturnitate pristinumque erga inimicos studium nova quadam captandi laedendique via et ratione servabimus».
[38] Ibi, p. 190 (vers. lat. a p. 534). Sull’uso della parola a scopo persuasivo v. pp. 441 e 512, dove rispettivamente Momo ed Ercole affermano che il dio del biasimo avrebbe appreso tale arte dagli uomini. Sul punto cfr. anche L. Geri, A colloquio con Luciano di Samosata, cit., pp. 89-90.
[39] L.B. Alberti, Momo, cit., pp. 319-320 (trad. modificata; vers. lat. alle pp. 625-626: «Illud ad rerum nostrarum exitium fecit, quod tantis honoribus honestatus mea interesse arbitratus sum ut cederem iam malis artibus et ad pristinam animi libertatem ipsum me restituerem spretis servilibus assentationum blanditiarumque delinimentis. […] Sino ceteras res: tanta me habuit deorum cura ut Iovi, cum de novandis rebus cogitaret, multis vigiliis veteres omnes illas de deorum regumque officio rationem collegerim quas eram solitus commentari tecum, mi Gelaste, tabellisque conscriptas dederam. Sed ille quanti eas fecerit hi casus edocent. Non id quantum videre licet honestum utileque consilium placuit Iovi, at placuit me in has miserias relegare. Vos hic quid magis vituperabitis? An desidiam in negligenda re publica an iniustitiam in administranda?»).
[40] Ibi, pp. 539 e 555.
[41] Ibi, pp. 323-324 (vers. lat. alle pp. 628-629).
[42] Ibi, pp. 324-325 (trad. modificata; vers. lat. a p. 629: «“O” – inquit [Charon] – “Gelaste, esse quid hoc dicam in principe, praesertim Iove, quem sapientissimum praedicant? Mitto illa, voluptati plus satis inservire, potentatu ad insontium calamitatem abuti, imperare quam imperio dignum videri malle et imperio dignum videri cupere quam esse: haec toleranda sint. Illud profecto grave est, principem ita institutum esse ut neque bene consulentibus delectetur neque bonis consiliis moveatur”. Tum Gelastus: “Et quid putas” – inquit – “o Charon, cum illo agi, qui assentatorum circumventus corona in dies dediscat se eum esse qui possit errare et ex licentia libidinis modum et ex libidine officii rationem metiatur, ut nondum satis apud me constitutum sit praestetne principem esse istiusmodi an servum?”»).
[43] B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, Garzanti, Milano 2000, IV.5, p. 368.
[44] Cfr. sul punto F. Furlan, Introduzione, in Leon Battista Alberti tra scienze e lettere, a cura di A. Beniscelli e F. Furlan, Accademia ligure di scienze e lettere, Genova 2005, p. 16-19.
[45] Cfr. L.B. Alberti, Momo, cit., p. 14 («… ob eius immodestam linguae procacitatem», p. 410), p. 19 (la dèa Frode avvicina Momo «ut procacem ad obloquendum illiceret», p. 413), p. 20 (trad. modificata, «… inquiens [Fraus] Momum quidem esse mente alioquin non pessima, sed animo fortassis immoderate libero eaque re videri lingua esse dicaciori et intemperantiori quam sit», p. 414), p. 36 («Postremo ardescente rixa pugnis, unguibus dentibusve obstinatum garrientis Momi os obtundere lacerareque prosecuti sunt [philosophi]», p. 425), p. 38 (gli dèi decidono di rimpatriare Momo esiliato sulla Terra: «plus enim detrimenti ex illius exilio divorum ordini redundaturum quam si garrulum blateronem, cui nulli amplius credituri sint, domi continuerint», p. 427), p. 46 («… obesse rebus agendis nimium properam et proclivem ad detrectandum loquacitatem», p. 433).
[46] Cfr. Platone, Lettera VII, 332d, nonché l’immagine del medico utilizzata a partire da 330c (su cui v. M. Foucault, Il governo di sé e degli altri, trad. it., Feltrinelli, Milano 2009, lezione del 16 febbraio 1983, prima ora). In forma ancora più esplicita, l’immagine del medico che, dovendo somministrare una medicina dal sapore amaro, asperge l’orlo del vaso con qualche dolce liquore si trova in B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, cit., IV.10.
[47] Cfr. L.B. Alberti, Momo, cit., p. 468, nonché il brano alle pp. 430-431 cit. supra, nota 36.
[48] Si vedano ad esempio R. Lullo, Liber de consilio, in Raimundi Lulli Opera Latina, t. X, a cura di L. Sala-Molins, Brepols, Turnhout 1982, p. 120-235: 124-125; M. Ficino, lettera a Cherubino Quarquagli del 15 febbraio 1477, in Opera, 2 tomi, Guillaume Pelé, Parigi 1641, t. I, p. 721; F. Guicciardini, Ricordi, a cura di G. Masi, Mursia, Milano 1994, C. 101, p. 105; B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, cit., II.22 e IV.47 (con l’esempio di Platone presso Dionigi di Siracusa). Sul punto mi sia consentito rimandare a D. Fedele, Dire la vérité au prince: Le livre du Courtisan de Baldassarre Castiglione, in Philosophie politique médiévale et naissance de la Modernité: Orient/Occident, dir. par D. Ottaviani et M. Abbes, Garnier, Parigi (in corso di pubblicazione).
[49] L.B. Alberti, Momo, cit., p. 243 (vers. lat. a p. 572: «Cave iis rebus diiudicandis, o Iuppiter, opinioni quam veritati assentiaris. […] Nihil enim tantas habet vires ad suadendum quam gratia, nihil quod veritatem obnubilet aeque atque auctoritas»).
[50] Cfr. ivi, pp. 634-635.
[51] Ibi, pp. 333-334 (vers. lat. a p. 635: «… tanta erant in his grata una atque ingrata. Gratum erat quod in eis inveniret ab philosophorum disciplinis sumptas optimas et perquam necessarias admonitiones ad regem mirifice comparandum atque habendum. Ingratum erat quod tantis praeceptis tamque ad gloriam et gratiam accommodatis per suam negligentiam diutius potuerit carere»).
[52] Cfr. ivi, p. 538.
[53] Cfr. ivi, p. 559.
[54] Cfr. ivi, pp. 255-256 (vers. lat. alle pp. 580-581: «versut[us] et callid[us], […] curarum et seditionum seminarium […], consceleratissimu[s] rerum perturbato[r] Momu[s]»).
[55] Ibi, p. 333 (vers. lat. a p. 635, v. supra, nota 50).
[56] Ibi, p. 9 (vers. lat. a p. 405: «… cum de principe, qui veluti mens et animus universum rei publicae corpus moderatur, scribere adoriremur»). Cfr. in questo senso R. Fubini, Leon Battista Alberti, Niccolò V e il tema della “infelicità del principe”, in La vita e il mondo di Leon Battista Alberti, 2 voll., Olschki, Firenze 2008, vol. II, p. 459. Si può ricordare a tal riguardo che in uno dei quattro manoscritti superstiti del Momus, l’Ottobonianus Latinus 1424 della Biblioteca Apostolica Vaticana (fine XV sec.), l’opera albertiana, senza indicazione d’autore, reca l’intitolazione Polycrates (cancellata e corretta da altra mano con De principe). La prima parte del codice include il Momus con altre opere albertiane, mentre la seconda, in origine distinta, è occupata dal Polycraticus di Giovanni di Salisbury. Per una descrizione più esaustiva, cfr. L. Bertolini, in Leon Battista Alberti, a cura di J. Rykwert e A. Engel, Olivetti, Ivrea & Electa, Milano 1994, pp. 414-415 (scheda n° 1).
[57] Cfr. L.B. Alberti, Momo, cit., pp. 120-122 (vers. lat. alle pp. 484-486); sul tema cfr. l’articolo di R. Fubini cit. alla nota precedente.
[58] Cfr. L.B. Alberti, Momo, cit., pp. 614-615.
[59] Con queste parole, tra l’altro, Peniplusio si rivolge all’avversario, al quale contendeva il posto sulla barca di Caronte, p. 631: «Publicus fuit servus is, ego item publicus. Hoc negato aut quid sit regnum dicito, Megalophe. Num id non est publicum quoddam negotium, in quo etiam invito id agere oporteat quod leges imperant? Fuimus ergo pares. Nam legibus ambo astricti eramus, quibus si obtemperavimus, tu atque ego fecimus ex officio: adeo ergo fuimus et servi ambo et pares». Cfr. sul tema almeno E. Cortese, La norma giuridica: spunti teorici nel diritto comune classico, 2 voll., Giuffrè, Milano 1962-1964.
[60] Cfr. L.B. Alberti, Momo, cit., p. 635-636.
[61] L’aerumna potrebbe essere definita come un malessere penoso; in Cicerone, Tusculanae disputationes, IV.18 si legge «aerumna aegritudo laboriosa [est]».
[62] L.B. Alberti, Profugiorum ab aerumna libri III, in Id., Opere volgari, a cura di C. Grayson, 3 voll., Laterza, Bari 1960-1973, vol. II, p. 137-138.
[63] Cf. V. da Bisticci, Vita d’Agnolo di Filippo Pandolfini fiorentino, in Id., Le vite, a cura di A. Greco, 2 voll., Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, Firenze 1970, vol. II, pp. 261-284; v. in particolare pp. 262, 276: «Fu molto intero et severo, et grave et maturo ne’ sua consigli. Fu alieno da ogni simulatione e fintione, perché diceva le cose come le intendeva, apertamente, et quelle che pigliava a difendere, erano tutte cose piene di giustizia et onestà, altrimenti noll’arebbe prese, ma, prese che l’aveva, per nulla se ne sarebbe mai rimosso, ma istava fermo et constante. In tutti i sua consigli sempre consigliava l’universal bene della sua repubblica. Di questa sua inviolabile fede e innata bontà ne fece infinite experientie, et nella città et fuori della città. […] Fu grande cosa di lui, che potendo tanto nella città, et avendo tanto istato quant’egli aveva, ch’egli si sapessi governare in modo che persona non si potessi dolere da lui; et una delle cose che lo fece sempre istare in questa riputazione fu che ne’ sua consigli consigliava sempre liberamente, sanza alcuno rispetto, il bene universale della sua città». Cf. sull’argomento L. Boschetto, Tra politica e letteratura. Appunti sui Profugiorum libri e la cultura di Firenze negli anni ’40, “Albertiana”, 3, 2000, pp. 119-140.
[64] In questo senso invece hanno scritto M. Petrini, L’uomo di Leon Battista Alberti, “Belfagor”, VI, 1951, p. 674 e P. Marolda, Crisi e conflitto in Leon Battista Alberti, Bonacci, Roma 1988, pp. 89-110.
[65] Sull’umorismo albertiano cfr. R. Cardini, Alberti o della nascita dell’umorismo moderno, “Schede umanistiche”, n.s., 1, 1993, pp. 31-85.
[66] Mi permetto di rinviare qui a D. Fedele, La théorie des «exercices». Un itinéraire albertien du De familia au De iciarchia, in Les Livres de la famille d’Alberti. Sources, sens et influence, a cura di M. Paoli et al., Garnier, Parigi 2013, pp. 373-403.
[67] L.B. Alberti, Theogenius, in Id., Opere volgari, cit., vol. II, p. 76; Id., De iciarchia, ivi, pp. 195-197.
[68] Id., De iciarchia, cit., p. 273.
[69] Ibi, pp. 271 e 249. V. anche pp. 280-281: «A quelli che saranno ventosi e cupidi d’essere appellati splendidi e godono essere acerchiati da molti assentatori, e’ dotti e periti nella ragion del vivere mostreranno col raccontare gl’incommodi sequiti agli altri simili malconsigliati, che la vera gloria e degna fama non s’acquista con prodigalità e vane ostentazioni, ma con moderare sé stessi e curare più d’essere iusto, buono, temperato, officioso, che di essere portato in voce de’ fabulatori. Con quelli che troppo atribuiscono alle voglie sue e troppo stimano el proprio iudizio suo e sentenza, useremo la licenza concessa a chi te ama: favellaremo aperto, libero, in modo che s’avederanno quanto ci piacerebbe che seguissero instituti e via più atta a intendere el vero delle cose da’ suoi principi in acquistar prudenza e sapienza».
[70] Ibi, pp. 232-233.
[71] Ibi, p. 233.