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The God of Israel’s vicarious angel: origin and necessity of a substitutive political function
This paper analyzes the origins of the concept of the Angel of the Nation within the Judaic tradition. The main features and functions of the intermediary figure of the divine messenger mal’āk YHWH are examined. We focus particularly on the problematic nature of the relationship between the mal’āk and YHWH, and on the exegetical tradition’s interpretations – not always convincing – of that relationship. We then go on to propose an historico-religious solution, examining the process in which the Semitic pantheon is replaced by YHWH, the only God of Israel; monotheism, however, did not succeed in deleting the function of the intermediary, instead gradually transferring it to the mal’āk, who acts like an intermediary and partakes of its sender’s power, while always recalling a divine world inhabited by a plurality of gods.
La concezione antica e moderna dell’“angelo delle nazioni” appartiene senza dubbio a una tradizione culturale e religiosa che affonda le proprie radici nel mondo giudaico antico e quindi anche negli scritti biblici che ne costituiscono il punto di richiamo in qualche modo fondante e normativo. Ma solo se si prende in considerazione più da vicino quel periodo, per così dire di transizione, che va dalla conclusione cronologica degli scritti biblici veterotestamentari (per quanto databile e comunque distinta dalla posteriore fissazione canonica di quegli stessi scritti) fino alla formazione di quella letteratura rabbinica che costituirà a sua volta il patrimonio letterario ed ermeneutico del giudaismo (dalla Mishna al Talmud, ivi comprese le varie tradizioni midrashiche), l’idea di un “angelo delle nazioni” diventa sempre più evidente, ma nello stesso tempo lascia intravedere fin dalle sue origini che Israele viene a trovarsi al riguardo in una posizione piuttosto anomala. Gli esempi tratti normalmente dalla documentazione più antica sono sufficienti ad illustrarne le prime attestazioni.
Da un lato infatti anche Israele, come tutti gli altri popoli, è posto sotto la guida di un “angelo” o di uno “spirito”. Se l’angelo che accompagna Levi e a cui quest’ultimo chiede di rivelare il suo nome dice di essere «l’angelo che intercede per la nazione d’Israele» (Test Levi 5,6)[1], altrove si ricorre all’immagine dei pastori per dire che costoro devono eseguire l’ordine del signore del gregge, il quale però intende uccidere un certo numero di pecore: i pastori tuttavia sono poi chiamati in giudizio perché hanno deciso di uccidere più pecore di quanto sia stato loro comandato (1 En 89,59; 90,22.25)[2]. Già di qui si vede come la figura dell’intermediario non sia sempre destinata a funzioni positive. E questo è ancora più evidente quando Israele, d’altro lato, è posto direttamente sotto il governo di Dio, perché gli spiriti che guidano le altre nazioni hanno il compito di traviarle (Giub 15,30-32)[3]. La netta distinzione tra Israele e gli altri popoli è comunque affermata in sintesi nel testo di Ben Sira, quando si cerca di rispondere all’obiezione di chi ritiene che Dio non sia presente nel mondo e non si curi delle sue creature (17,15-23)[4]: Dio controlla e giudica tutti, anche perché ogni popolo ha una sua collocazione precisa, ma Israele occupa una posizione particolare. Non possediamo il testo ebraico di questa parte del libro di Ben Sira, bensì solo il testo greco, che afferma (v. 17): «Quando (Dio) divise le nazioni della terra, a ciascuna nazione diede un “governante” (ἡγούμενον), mentre porzione del Signore è Israele», e il cosiddetto “greco lungo” (greco II) aggiunge anche a proposito di Israele: «che essendo suo primogenito egli nutre con la sua educazione, e a cui dispensa la luce del suo amore, senza abbandonarlo». La terminologia adottata per questo intermediario è neutrale (il latino traduce l’ἡγούμενον greco con rectorem), ma Israele ne è privo completamente.
Al di là della destinazione positiva o negativa del reggitore delle nazioni, in questi testi si stabilisce un collegamento tra il governo celeste e quello terreno, riprendendo un’idea che si ritrova già in Is 24,21 s., sebbene in contesto di punizione: il Signore interverrà contro l’esercito del cielo e contro i re della terra. La corrispondenza è universale, e quindi fa risaltare ancora di più la posizione eccezionale di Israele in questo suo rapporto con la divinità, inteso alla luce di un’immagine politica. Questa anomalia deriva in ultima analisi da una concezione storico-religiosa più vasta, all’interno della quale si è operata una interpretazione singolare che nella letteratura biblica si percepisce ancora a livello testuale. Come si vedrà più avanti, nell’ambito di un’immagine del pantheon semitico si è operata una specie di riduzione che non è del tutto riuscita e i cui effetti sono ancora evidenti da un lato nel testo biblico trasmesso dall’”ortodossia” giudaica, e dall’altro, nel nostro caso, nell’elaborazione di una figura di intermediario che assume caratteristiche del tutto singolari. Dal lato testuale, vogliamo esemplificare quanto stiamo dicendo con un passo emblematico: Dt 32,8-9.
Vediamo anzitutto come si presenta il testo ebraico masoretico di questi due vv. del “cantico di Mosé” (Dt 32,1-43):
8 Quando l’Altissimo distribuiva ai popoli la loro eredità,
quando divideva i figli dell’uomo,
stabilì i confini dei popoli secondo il numero dei figli di Israele,
9 poiché porzione di YHWH è il suo popolo,
Giacobbe parte della sua eredità.
Si dice dunque che l’Altissimo (>elyo∆n) ha diviso i popoli della terra in corrispondenza esatta del numero dei figli d’Israele, e che Giacobbe (= Israele) è affidato al dio YHWH. Si tratta però di una suddivisione dei popoli piuttosto strana, per l’equivalenza che stabilisce tra il numero degli Israeliti e i popoli del mondo, e d’altra parte crea una certa difficoltà il passaggio immediato tra questa corrispondenza e l’affermazione seguente, abbastanza ovvia nella tradizione biblica, ossia che Israele è il popolo di (= affidato a) YHWH. Ma la situazione testuale della seconda parte del v. 8 ci permette un’altra interpretazione del testo.
La lezione «figli di Israele» (bene∆ Yisåraµ<eµl) è anche quella del Pentateuco samaritano, di quasi tutti i targumim, della Volgata e della versione siriaca detta Peshitta. Ma la maggior parte dei manoscritti della versione greca della LXX legge invece in 8b κατὰ ἀριθμὸν ἀγγέλων θεοῦ e a questa lettura si avvicina quella conservata nel papiro Fuad (frammentario), del I o II sec. a. C. e da ritenersi quindi il testimone più antico di una versione greca di questo testo (non necessariamente quella della LXX): αριθ]μον υιω[ν. Questa lettura fa supporre naturalmente che il traduttore avesse di fronte un testo diverso da quello masoretico. E infatti esso ci è noto ora dai documenti di Qumran. Fino a qualche tempo fa si conosceva solo un frammento (4QDtq)[5], che però lasciava qualche dubbio sul tenore esatto della lezione: in luogo di bene∆ Yisåraµ<eµl esso contiene bny <l[…; ora invece siamo venuti a conoscenza di un altro frammento (4QDtj) che legge chiaramente bny <lwhym[6]. Se dunque il testo masoretico con «figli di Israele» si pone su un piano umano, la LXX si sposta su un livello intermedio e Qumran ci permette di salire più in alto, alla sfera divina: nonostante i problemi esegetici legati alla sua lettura, di per sé l’espressione dei due frammenti (e senza dubbio quella del secondo) può essere intesa come «figli di Dio/dio» e anche «figli degli dei»[7]. Dal punto di vista della trasmissione testuale risulta inoltre che LXX e Qumran sono tra loro abbastanza affini, mentre il testo masoretico rappresenta una variante di maggior peso. Non possiamo qui soffermarci sulla vasta problematica che si è sviluppata attorno a questa situazione documentaria, ma dalla discussione che ne è sorta[8] possiamo sintetizzare almeno tre punti che maggiormente interessano il nostro argomento.
1) Si suppone di solito che nel testo attuale (leggi: masoretico) le due divinità >elyo∆n (v. 8) e YHWH (v. 9) siano identiche. Certo, questo è vero se si tiene presente che altrove l’equazione è chiara (2 Sam 22,14 = Sal 18,14) e che è resa ancora più evidente se si pone come intermediario il dio <eµl (cfr. Sal 78,35): <eµl >elyo∆n è il «creatore del cielo della terra» (Gn 14,19), un epiteto che qui sembra rievocato e adattato a YHWH in 32,6[9]. Tuttavia nel nostro caso l’equivalenza tra >elyo∆n e YHWH non risolve il passaggio brusco dal v. 8 al v. 9, o per lo meno non lascia intravedere una sequenza logica tra le affermazioni contenute nei due vv., che anzi risultano ancora più distanti tra loro.
2) Si è voluto ricostruire l’evoluzione testuale del v. 8 in modo tale che il testo masoretico non rappresenti più una grande novità, perché con «figli di Israele» non farebbe altro che specificare una lettura dei «figli degli dei» che già li intendeva come esseri umani. Per chiarire però questa lettura bisogna ricorrere a Gn 6,2, dove la stessa espressione «figli degli dei» è stata tradotta da alcuni targumim con «figli dei grandi/potenti» (così il Targum Onkelos e lo Pseudo-Jonathan) o con «figli dei giudici» (Targum Neofiti)[10]. Questa interpretazione si sarebbe affermata quando non era più possibile intendere costoro come “angeli”, poiché si voleva nello stesso tempo togliere a tutto il brano di Gn 6,1-4 ogni connotazione mitologica (angeli che si uniscono a donne). Mentre altrove, nel Pentateuco, anche il termine <æloµhi∆m è stato inteso dalla tradizione ebraica successiva come “giudici” (Es 21,6; 22,7), in Dt 32,8 ciò era impossibile e, per eliminare anche qui ogni riferimento mitologico, si è scelto dunque «figli di Israele». La scelta è stata facilitata dal fatto che in Dt 10,22 si parla dei 70 «padri» che scesero in Egitto, e anche tenendo presente che in Gn 10 (la cosiddetta “tavola dei popoli”) i figli di Noè con i loro discendenti sono appunto 70[11]. Effettivamente, queste connessioni sono rese esplicite nel Targum Pseudo-Jonathan di Dt 32,8, che parla dell’Altissimo che dà un’eredità ai popoli discendenti dai figli di Noè, tirandoli a sorte in base ai 70 angeli, prìncipi dei popoli, e stabilendo i loro confini in riferimento alle 70 anime degli Israeliti che scesero in Egitto. Ma proprio questa testimonianza rivela una fase successiva nella storia dell’interpretazione di Dt 32,8-9, posteriore a quella rappresentata dal testo della LXX e di Qumran. E inoltre l’introduzione dei «figli di Israele» non resta chiarita a sufficienza, e appare piuttosto occasionale.
3) Al problema della datazione del testo si associa talvolta quello della possibilità di ricollegarlo alla mitologia ugaritica. Va precisato comunque che il riferimento a Ugarit di per sé sarebbe possibile anche qualora si collocasse Dt 32 in epoca persiana[12], più recente, anziché nel periodo pre-esilico[13]. Ad Ugarit si ritrovano certamente i «figli degli dei» (bn <lm) e un pantheon governato da una specie di dio supremo (El), ma probabilmente non si può ricorrere a quell’ambiente per collegare i 70 popoli della tradizione biblica con i 70 figli della dea Athirat (Ashera) che partecipano al banchetto del dio Baal quando questi inaugura il suo palazzo[14]. Ad Ugarit non si parla della distribuzione dei popoli della terra a questi 70 dei.
In conclusione, l’introduzione della lezione «figli di Israele» in Dt 32,8 da un lato sembra ridurre al predominio e all’esclusività del dio di Israele un’affermazione che apparentemente non sembrava compatibile con queste sue prerogative, ma dall’altro non riesce a risolvere altre due questioni: la presenza di un testo più antico che parlava di esseri angelici e/o di «figli degli dei», e non di «figli di Israele», e il fatto che questi altri dei sono ancora presenti nel resto del cantico, dove sono chiamati «dei stranieri» (v. 16) e «nuovi» (v. 17) e si tenta di ridurli all’impotenza (vv. 21.37 s.). Se si prova invece a leggere il testo andando al di là di queste preoccupazioni teologiche e se si tiene in seria considerazione la tradizione testuale rappresentata dalla LXX e da Qumran, le affermazioni di Dt 32,8-9 suonano più coerenti. In un pantheon governato da un dio che presiede a un’assemblea di dei (l’Altissimo) si affida un popolo a ciascun dio del gruppo e quindi anche ad Israele viene assegnato il suo dio (YHWH). Se i tre livelli (dio Altissimo – dei – popoli) vengono ridotti a due, YHWH deve assumere anche le funzioni del dio Altissimo, ma si altera il suo rapporto con il proprio popolo; detto diversamente: il suo legame con Israele non è più inteso alla stregua della distribuzione universale, ma risulta qualitativamente diverso. Gli dei agiscono su incarico superiore, mentre YHWH agisce in proprio.
Questo conflitto che si viene a generare sul piano storico-religioso trova dunque inevitabilmente un suo riflesso sul piano testuale e viceversa la trasmissione del testo lascia intravedere una tensione non risolta, oppure affrontata con altre soluzioni. È qui tuttavia che si trova l’origine della funzione del mediatore, nell’ambito di quella che, nei termini in cui ne stiamo parlando, si può chiamare la religione yahvista, che a suo modo confluisce nel testo biblico.
Le figure mediatrici sono molteplici negli scritti biblici che testimoniano questa religione[15], ma la più significativa dal punto di vista della correlazione che lega il mediatore alla persona del mandante è quella del mal<aµk. Possiamo quindi assumerla come filo conduttore di questa nostra trattazione, tenendo presenti ovviamente anche altre espressioni affini, e vederne le caratteristiche principali anzitutto sul piano umano e poi soprattutto su quello divino. Come si vedrà, in questo secondo caso il “messaggero divino” (mal<ak YHHW) resta ancora strettamente legato alla divinità da cui riceve il suo incarico, tanto che è impossibile talvolta scindere tra loro le due figure. La sua funzione, propriamente, non è quindi ancora quella dell’ἄγγελοϛ, che è una figura distinta e separata dal suo mandante (e del resto nella LXX con questo termine non si traduce solo l’ebraico mal<aµk), e a sua volta ἄγγελοϛ racchiude una gamma di significati più ampia di quella che si esprime nel latino angelus (venuto a designare un essere intermedio di natura spirituale), distinto nelle sue funzioni dal nuntius (messaggero in senso generico e in vari settori). La figura del mal<ak YHWH resta quindi del tutto isolata e per questa sua inscindibile unione con la sfera divina rappresenta un’eccezione nella fenomenologia delle funzioni mediatrici, non solo nell’antico Israele ma anche in tutto l’ambiente orientale antico, tanto che ci si può chiedere se si possa ancora parlare propriamente di un “messaggero”[16].
Procedendo in senso ascendente, riassumiamo anzitutto ciò che contribuisce a definire l’attività del mal<aµk quando esplica il suo compito in campo profano, rilevando soprattutto quanto è utile tenere presente per capirne la natura quando egli agisce su mandato divino[17].
È evidente che i vari incarichi che i testi attribuiscono al mal<aµk talvolta non sono necessariamente legati all’uso specifico di questo termine, ma è interessante comunque rilevare quali sono di fatto gli ambiti in cui esso è impiegato, poiché si tratta di funzioni in cui il legame con ciò che sta all’origine dell’incarico (per lo più una persona) risulta più stretto. Infatti gli incarichi possono essere diversi, ma in genere la funzione non si limita alla semplice comunicazione verbale, perché il messaggero interagisce con efficacia esecutiva. Egli riceve pieni poteri e quasi si identifica con il mandatario. Lo si nota talvolta non tanto al momento del conferimento dell’incarico, ma nella risposta che egli riceve da colui o coloro presso cui è mandato. Quando Iefte invia dei mal<aµki∆m al re degli Ammoniti per chiedergli come mai gli muova guerra, costui risponde che in precedenza erano stati gli Israeliti a sottrargli una parte del suo territorio, ordinando di restituirlo pacificamente: l’imperativo dovrebbe essere rivolto a Iefte, ma di fatto il re degli Ammoniti comunica l’ingiunzione agli inviati come se parlasse direttamente al loro mandante («restituiscilo spontaneamente»: Gdc 11,12 s.). Il messaggero pertanto, in qualche caso, può essere inviato non per parlare a un interlocutore a distanza, ma solo per informare il mandante, che così può prepararsi a un’azione: è questo il caso, piuttosto singolare, in cui il mal<aµk è una “spia” (tali sono infatti i messaggeri inviati da Giosuè a Gerico, nascosti da Raab nella sua casa: Gs 6,17.25, in riferimento a 2,1 ss.) oppure un “ispettore” (ancora nel libro di Giosuè, per scoprire dove si trovi il bottino di guerra, indebitamente sottratto da Acan e nascosto nella sua tenda: 7,22).
Questo legame tra mandante e messaggero si trasmette in seguito alla figura dello s˚aµlu∆ah\/s˚aµli∆ah\, un “inviato” le cui funzioni, in ambiente giudaico e almeno in un primo tempo, non erano considerate equivalenti a quelle dell’ἀπόστολοϛ[18]. E a questo proposito non si può fare a meno di ricordare ancora una volta il celebre detto rabbinico: s˚elu∆h\o∆ s˚el <aµdaµm kemo∆to∆ («l’inviato di un uomo è come il suo mandante», Ber 5,5), a cui fa eco l’altro sul piano politico: «l’inviato del re è come il re stesso» (bBQ 113b). Va precisato comunque, anche in riferimento a questa seconda affermazione, che il legame tra i due è di natura giuridica, non religiosa; coinvolge l’aspetto religioso se l’incarico viene dato specificamente in questo campo[19].
Il problema che si pone quando si vuole passare da queste funzioni, che si esplicano nella prassi ordinaria dei rapporti umani (ivi compreso naturalmente anche il settore religioso), a quelle che vengono attribuite al mal<ak YHWH, è di vedere se la stretta simbiosi che tiene uniti il mandante e l’inviato si trasferisca anche al piano divino, dove si dovrebbe registrare semplicemente un’applicazione sui generis di una concezione valida anzitutto in campo profano, oppure se viceversa il modello primario resti quello divino, che spiegherebbe pertanto la caratteristica peculiare che è insita ancora nel suo funzionamento a livello umano. È ovvio che l’argomento rischia di divenire circolare, da un punto di vista puramente euristico e di genesi del linguaggio, ma qui dobbiamo ragionare su delle “applicazioni”, non sulle “implicazioni” antropologiche o socio-linguistiche di questa analogia di comportamento. Ora, comunque si voglia risolvere l’alternativa con una ricerca storico-filogica adeguata, resta vero che nei testi biblici che stiamo esaminando si nota chiaramente che, nonostante l’asserita assimilazione tra mandante e messaggero, i due non si identificano mai[20], e ciò è confermato dal fatto che di solito l’inviato inizia il suo discorso con la cosiddetta “formula del messaggero”, nella quale è racchiuso espressamente il nome del mandante («così dice NN»). Sul piano divino, invece, quando è chiamato in causa il mal<ak YHWH, la distinzione diventa talvolta molto problematica, per non dire inesistente. Le attestazioni di questa figura vanno quindi esaminate più ampiamente, per confermare questo asserto.
Possiamo suddividere la rassegna delle attestazioni in quattro gruppi di testi, distinti tra loro solo per una certa affinità di contenuto o di funzione: la classificazione ha quindi solo uno scopo pratico e operativo e non intende rispondere a determinate esigenze teoriche (per esempio la suddivisione in generi letterari o secondo le strutture di formulazione). Vorremmo solo far rilevare come in ciascun gruppo, suddiviso a sua volta in diverse articolazioni, vi siano testi dove è impossibile fare di Y. e del m. Y. due figure distinte. È opportuno osservare, inoltre, che lo stato costrutto ebraico non permette in genere di distinguere se l’espressione vada intesa con l’articolo determinato (il m. .Y.) o con quello indeterminato (un m .Y.), per cui in qualche testo non è possibile sapere se eventualmente si parli di più figure che vengono ad esercitare una medesima funzione o se la funzione sia svolta solo da un figura esclusiva. In altre parole, finché al m. Y. non si unisce un nome proprio che lo identifica e lo distingue da altri, il personaggio che esercita la funzione potrebbe anche essere diverso nei vari racconti in cui se ne parla, ma di fatto egli è presente solo in quanto mal<aµk (anonimo) e quindi proprio perché si identifica con la sua funzione.
1) Messaggero con funzione positiva (e alternanza tra Y. e m. Y.)
– Gn 16,7-14: Agar e Ismaele. Il m. Y. appare ad Agar annunciandole la nascita di Ismaele, ma alla fine Agar chiama il Signore (Y.) che le aveva parlato «Dio della visione» (v. 13) e dà poi una spiegazione etimologica al luogo dell’apparizione, che viene ripresa dalla narrazione al v. successivo (14: «Pozzo di Lacai-Roi»). Analogamente, in 21,17-20 Dio (<æloµhi∆m) ascolta la voce del fanciullo Ismaele ma è un m. <æloµhi∆m che appare ad Agar e alla fine è ancora Dio che la soccorre (v. 19).
– Gdc 13: nascita di Sansone. Appare qui un personaggio che assume nomi diversi: m. Y. (vv. 3.13.15.16bis.17.18.20.21bis), m. <æloµhi∆m (vv. 6 e 9; al v. 6 l’espressione usata è strana: «un uomo di <æloµhi∆m […] che ha l’aspetto di un m. <æloµhi∆m», mentre ci si aspetterebbe: «un uomo di <æloµhi∆m […] che ha l’aspetto di <æloµhi∆m»), «uomo di <æloµhi∆m» (vv. 6.8) e semplicemente «uomo» (vv. 10.11bis). Ma verso la fine della narrazione il futuro padre di Sansone, Manoach, dice alla moglie: «Noi moriremo certamente, perché abbiamo visto Dio (<æloµhi∆m)» (v. 22). Correttamente, però, nonostante la presenza dell’inviato, il sacrificio offerto dai genitori è rivolto direttamente al Signore (Y., v. 19), mentre il m. Y. sale con la fiamma dell’altare (v. 20). La moglie di Manoach riconosce alla fine dell’episodio che se il Signore (Y.) avesse voluto farli morire, non avrebbe accettato l’olocausto (v. 23). Pur ammettendo che si parli di denominazioni che risalgono a tradizioni (anche letterarie) diverse, il rapporto tra il m. e il suo mandante si ripresenta uguale in ciascuna di esse.
– Gdc 6,12-24: vocazione di Gedeone. Chi appare a Gedeone e gli parla è il m. Y. (vv. 11.12.20[22].21) e anche Gedeone alla fine lo riconosce come tale (v. 22bis). Ma nella parte centrale del racconto il dialogo si svolge direttamente tra Y. e Gedeone: così al v. 14 (dove però un manoscritto ebraico aggiunge m. e la LXX legge ὁ ἄγγελοϛ κυρίου) e al v. 16 (ma anche qui mentre nel testo masoretico è Y. che parla in prima persona, l’originale della LXX fa intervenire l’ἄγγελοϛ κυρίου che dice a Gedeone: κύριοϛ ἔσται μετὰ σοῦ). Nonostante la coerenza che il traduttore greco ha voluto vedere nel testo dei vv. 14 e 16, al v. 17 Gedeone si rivolge al personaggio come se fosse Y. stesso («Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, dammi un segno che proprio tu mi parli»), e la LXX in questo caso concorda con il masoretico, anche se il codice Vaticano ha un testo leggermente diverso da quello del codice Alessandrino.
Con questa espressione viene designato il personaggio che interpreta le visioni al profeta Zaccaria nell’omonimo libro (1,9.13.14; 2,2; 4,4; 5,5.10; 6,4), dove però compare anche il m. Y., in alternanza con il semplice Y. (3,1-2)[23], che rimprovera Satana davanti al sommo sacerdote Giosuè.
In Gb 33,23-25 Eliu invoca la presenza, presso Dio, di un m. che viene qualificato come «protettore» (meµli∆s\), con il compito di far conoscere all’uomo il suo dovere (ma la LXX forse non ha riconosciuto questa funzione attribuita a un personaggio preciso, e ha reso con «mille ἄγγελοι portatori di morte»). Si può accostare a questo m. il personaggio chiamato da Dio stesso «il mio m.», definito meglio come m. habberi∆t, il «m. dell’alleanza», che viene a fare giustizia in un contesto escatologico (Ml 3,1). Questa funzione giudiziaria ci può ricordare un fatto singolare, cioè che anche Satana (che accusa Giobbe, o meglio che intende metterlo alla prova) si presenta alla corte divina presieduta da Y., ma è anche lui appunto uno dei «figli degli dei», anche se non viene chiamato m. (Gb 1,6; 2,5).
Dobbiamo riunire sotto questa etichetta piuttosto generica una serie di testi diversi:
– Gn 24,7.40: Y. invia il suo m. davanti a Isacco, quando questi si reca in un paese lontano a cercare moglie.
– Gn 18-19: gli ospiti che si presentano ad Abramo e si recano poi a Sodoma sono di numero e designazione variabile: si tratta di tre uomini (18,2) a cui Abramo si rivolge con l’appellativo <adoµnaµy (18,3.27.30.31.32: secondo l’abituale vocalizzazione masoretica si dovrebbe rendere semplicemente «Signore»[24]); se di loro si parla al plurale (18,5-9.16.22) essi diventano improvvisamente Y. (18,10.13.14.17.19.20.22.26.33). Inoltre, «(quegli) uomini» (18,16.22) si trasformano in «due mal<aµki∆m» in 19,1, quando giungono a Sodoma (cfr. anche 19,15), ma ritornano «uomini» in 19,5.8.10.12.16. Essi dicono di essere stati mandati da Y. a distruggere gli abitanti di Sodoma, ma poi si trasformano in uno solo che parla a Lot (19,17: il plurale è nelle versioni antiche: LXX, siriaco e Volgata; le versioni moderne che rendono con «uno di loro» come soggetto del verbo «disse» non sono del tutto precise!); l’ambiguità del numero persiste in 19,18, dove il testo ebraico prosegue: «E Lot disse loro: “No, Signore (<adoµnaµy)”», mentre poi Lot continua il suo discorso rivolgendosi al suo interlocutore al singolare (vv. 19-20), ricevendo da quest’ultimo una risposta espressa anch’essa al singolare (vv. 21-22)[25].
– Gn 31,11.13: il m. <æloµhi∆m appare a Giacobbe e gli dice: «Io sono il dio di Betel (haµ<eµl be∆t-<eµl)».
– Gdc 2,1-5: il m. Y. parla agli Israeliti rievocando l’esodo come se fosse opera sua.
– 1 Re 13,9.17.18: un comando è dato da Y. (vv. 9.17) e dal suo m. (v. 18).
– 1 Re 19,5.7: rispettivamente il m. e il m.Y. tocca Elia e lo invita a mangiare e bere, ma dopo quaranta giorni è la «parola di Y.» che gli viene rivolta (mentre in 2 Re 1,3.15 è invece il m. Y. a rivolgergli la parola).
– In Zc 12,8b si deve registrare ancora una volta un’alternanza tra <æloµhi∆m e m. Y. (così il testo, anche se si vuole ritenere quest’ultimo interpolato).
Il testo più significativo, che può riassumere quanto vogliamo esemplificare con questo gruppo di testimonianze, si trova nella benedizione che il patriarca Giacobbe riserva a Manasse ed Efraim, figli di Giuseppe (Gn 48,8-21). Nel benedirli[26] (vv. 15-16) egli invoca sia il Dio (haµ<æloµhi∆m) di Abramo e di Isacco sia il m. che lo ha liberato da ogni male, ma ambedue sono considerati come soggetto di un verbo al singolare: «benedica (yebaµreµk)». Se i due soggetti sono intesi come strettamente sinonimi, possono certo sorgere problemi metafisici, ma nel contesto di quanto stiamo dicendo l’accostamento è del tutto legittimo e coerente[27]. E anzi, il m. è addirittura inteso come goµ<eµl («liberatore»).
Nell’ambito delle competenze attribuite al m. Y. si deve rilevare che talvolta si ricorre a questa figura quando nel corso di un’azione drammatica si verifica un intervento dall’alto rivolto a deviare o correggere un’azione precedente, iniziata anch’essa su comando divino. Sono due i casi principali dove questo si verifica, ma si può accennare anche a un terzo che vi è simile.
In Gn 22,1-19 è anzitutto <æloµhi∆m che mette alla prova Abramo, ordinandogli di uccidere il proprio figlio (vv. 1-2), ma è il m. Y. che interviene su Abramo per impedire l’esecuzione di questo comando (v. 11, con evidente richiamo al v. 2) e gli rivolge la parola «una seconda volta» come se parlasse Y. stesso («Giuro per me stesso, oracolo di Y. […] io ti benedirò», vv. 15-17). Inoltre, secondo la vocalizzazione masoretica del testo al v. 14, mentre da una parte il nome dato al luogo dove si svolge l’episodio richiama il v. 8 (Y. yir<eh = «Y. vede/provvede», 14a), dall’altra si afferma che il luogo prende il nome dal fatto che Y. yeµraµ<eh (= «Y. è apparso», non il suo m.!): la vocalizzazione del verbo raµ<aµh («vedere») prima al qal (in 14a, e in coerenza con il v. 8) e poi al nifal (in 14b) crea certo difficoltà, poiché ci si attenderebbe una formulazione etimologica identica nelle due frasi di un testo che intende spiegare l’origine del nome del luogo, ma nonostante questo strano comportamento dei masoreti resta il fatto che l’etimologia viene ricercata ricorrendo al nome Y., e non a quello del suo m., cioè di colui che è effettivamente apparso, rettificando un comando precedente e condizionando l’azione successiva.
Nella vecchia esegesi, fondata su una rigida suddivisione di “fonti” letterarie, poteva creare problema la denominazione m. Y. in un testo ritenuto “elohista” (dal nome di Dio al v. 1 e da altre caratteristiche di stile e di contenuto), dove si richiederebbe l’intervento di un m. <æloµhi∆m, e si riteneva che il ricorso al m. Y. dipendesse solo dal fatto che quest’ultima è espressione più frequente e quasi abituale. A parte però che gli argomenti statistici sono sempre molto relativi[28], e indipendentemente dai problemi di critica letteraria (oggi del resto ormai superati), la coesistenza di <æloµhi∆m e di m. Y. in uno stesso testo non costituisce difficoltà, trattandosi piuttosto non di una semplice formula letteraria, ma di una funzione tipica che riguarda il processo comunicativo della divinità.
Nell’episodio narrato in Nm 22-24, che vede protagonisti Balak, re di Moab, e il profeta Balaam (con la sua asina), la divinità che interviene o di cui si fa menzione (tralasciando riferimenti non direttamente legati all’episodio) è <æloµhi∆m in 22,9.12.20.22; 23,4[29], e Y. in 22,13.28.31; 23,5.12.16.17; 24,1.11.13[30]. Tuttavia, soprattutto accanto a quest’ultimo, compare anche il m. Y., e precisamente in 22,22.23.24.25.26.27.31.32.34.35[31]. In questo caso sembra di poter affermare chiaramente che mentre Y. si riserva gli interventi per così dire di più alto livello, l’incombenza incresciosa di contrastare il cammino dell’asina è affidata al suo m. È Y. infatti che apre la bocca all’asina perché possa parlare al suo padrone Balaam (22,28), ed è ancora lui ad aprire gli occhi a quest’ultimo perché possa vedere il m. Y. che sta sulla strada con la spada sguainata (22,31). Ed è anche vero che Y. agisce dall’alto, mentre il dialogo con i protagonisti umani è un compito riservato al suo m. (22,32-35). Infine, si può ancora osservare che il terzo dei quattro oracoli di Balaam viene pronunciato quando «fu su di lui lo spirito di Dio (ru∆ah\ <æloµhi∆m)» (24,2), cioè un’entità diversa dal m.
Quando Giacobbe ritorna dalla Mesopotamia verso la terra d’Israele incontra anzitutto dei mal<aµki∆m (di <æloµhi∆m) in un luogo che il testo connette implicitamente con una qualche battaglia, poiché Giacobbe, al vedere quei personaggi, chiama la località «accampamento di Dio», o Macanaim[32] (Gn 32,2-3). Ma più avanti, al guado dello Iabbok, egli lotta con un «uomo» (v. 25), un fatto che è ricordato anche in Os 12,4 s., dove però l’«uomo» diviene sia <æloµhi∆m (4b) sia un m. (5a): la connessione tra i due testi è rafforzata anche dal fatto che il verbo su cui si basa la presunta etimologia di Israele in Gen 32,29 (såaµraµh, «lottare») ricompare per due volte in Os 12,4b.5a.
Lungo l’itinerario dell’esodo compare dapprima uno «sterminatore» che agisce in stretta sintonia con Y. Quest’ultimo, parlando a Mosè, afferma di voler colpire i primogeniti degli Egiziani (Es 11,4; 12,12 s.) e l’azione viene poi confermata sul piano narrativo (12,29). Ma quando egli giunge a parlare in dettaglio del momento dell’esecuzione (12,13), pur continuando il discorso in prima persona («vedrò il sangue e passerò oltre […] quando colpirò»), nel sottolineare che gli Israeliti saranno risparmiati introduce come strumento esecutivo la figura di uno «sterminatore» («non vi sarà per voi flagello di mas˚h\i∆t»). Quest’ultimo termine va inteso in senso personale («sterminatore») e non astratto («sterminio»), come conferma chiaramente Mosè poco dopo nel riferire agli anziani di Israele quanto Y. gli ha comunicato («non permetterà al mas˚h\i∆t di entrare nelle vostre case per colpirvi», 12,23). Lo «sterminatore» è la longa manus di Y., per non (osare) dire Y. stesso, ed è interessante che in Sal 78,49 si rievochino genericamente le «piaghe» dell’esodo (e quindi anche questa, sebbene se ne parli solo poco dopo, al v. 51) attribuendole ai mal<aµki∆m, definiti «messaggeri di sventure»[33].
Ma accanto a questo personaggio devastatore compare anche, lungo il cammino dell’esodo, il famoso «angelo protettore», la cui azione è senza dubbio salvifica nei confronti degli Israeliti, ma indirettamente malefica per i loro nemici. Questo m. infatti cammina di solito davanti al gruppo dei fuggitivi (Es 23,20.23; 32,34; 33,2), ma passa dietro a loro quando è il momento di difenderli dagli inseguitori egiziani, assieme alla nube che «era tenebrosa per gli uni, mentre per gli altri illuminava la notte» (14,19 s.). E anche qui, una rievocazione sintetica e positiva attribuisce al m. tutta l’operazione dell’esodo (Nm 20,16), ma in fase polemica si tende a sottolineare che non è stato un m., bensì Y. stesso (o meglio: «il suo volto») a salvare gli Israeliti (Is 63,9[34]).
Quando Davide decide di fare il censimento della popolazione, dovendosene poi pentire (2 Sam 24), per punire questo gesto Y. manda la peste e il suo m., che assume anche qui l’epiteto di mas˚h\i∆t, sebbene dal lato sintattico sia posto in funzione predicativa («il m. che distruggeva il popolo», v. 16 nell’insieme dei vv. 15-17). Nel testo parallelo di 1 Cr 21, il mas˚h\i∆t torna ad essere un chiaro epiteto, in funzione aggettivale (lammal<aµk hammas˚h\i∆t, v. 15 e cfr. 14-16). Anche qui, comunque, il m. ha un ruolo negativo, e questo ricorso all’intermediario per esprimere una realtà poco piacevole è confermato dal comportamento più generale di 1 Cr rispetto a 2 Sam: mentre in quest’ultimo testo è «l’ira di Y.» che si accende contro Israele e spinge (perciò) Davide a fare il censimento (24,1), in 1 Cr è invece Satana che sorge contro Israele, agendo su Davide alla stessa maniera (21,1).
In 2 Re 19,32-35 da una lato è Y. che attraverso il profeta Isaia parla in termini perentori contro il re di Assiria, Sennacherib (vv. 32-34), ma è poi il suo m. che entra di notte nell’accampamento assiro e «percuote» centottantacinquemila uomini (v. 35). Lo stesso si afferma nel testo parallelo di Is 37,33-36, mentre in 2 Cr 32,21 si dice più precisamente che «Y. mandò un m. che “sterminò” tutti i guerrieri valorosi”). Qualcuno ritiene che la formulazione di 2 Cr tenda espressamente a distanziare Y. dal suo inviato[35].
In Sal 34,7-8 vi è un accostamento significativo tra Y. che ascolta il grido del povero e lo salva da tutte le sue angosce (v. 7) e il m. Y. che invece si accampa attorno a quelli che lo (= Y.) temono e li libera (v. 8): l’azione salvifica spetta all’agente supremo, ma la sua concretizzazione, che si attua in termini militari, è demandata alla funzione subordinata. Proprio per questo, quando colui che si trova in angustia (ossia l’apparente autore del salmo) spera in una sua salvezza dai nemici che lo incalzano, invoca l’intervento non di Y., ma coerentemente del suo m. (Sal 35,4-6): la funzione negativa è solo propedeutica e strumentale, finalizzata a una liberazione. Ed è anche in questo senso più specifico che i mal<aµki∆m possono diventare «custodi» di ogni singolo uomo (Sal 91,11).
In tutti i testi sinora esaminati la presenza di un m. o più mal<aµki∆m suppone un’apparizione con finalità in qualche modo comunicative (verbali o gestuali), ma questo elemento della manifestazione divina assume talvolta un particolare rilievo, soprattutto quando si celebra la creazione o si evoca una lotta.
Nella serie di azioni cosmogoniche attribuite a Y. con attribuzioni participiali (Sal 104,2-4: i participi intendono conferire a quell’atto unico un valore permanente) si legge anche un’affermazione che si presta almeno a due interpretazioni diverse (v. 4): una prima traduzione, che sembrerebbe rispecchiare di più il tenore sintattico del testo ebraico, potrebbe essere la seguente: «Egli fa suoi mal<aµki∆m i venti e suoi servi il fuoco fiammeggiante»; secondo questa versione, i venti e il fuoco sarebbero immagini metaforiche e visibili dei messaggeri divini. Ma se si tiene conto del contesto, che parla di fondazioni cosmogoniche concrete (stendere il cielo, costruire la propria dimora, spaziare per il cielo su un carro costituito da nubi), probabilmente si accenna anche qui a qualche azione alla quale collaborano i «messaggeri»; poiché l’ultimo termine del v. è un participio come gli altri (loµheµt\ = «infiamma» o «mette in agitazione»), lo si può riferire ancora a Y., il quale dunque «con i suoi mal<aµki∆m e con i suoi servi crea e mette in agitazione i venti come fuoco». I «messaggeri», perciò, prendono parte attiva alla creazione di elementi possenti e violenti. È comprensibile allora perché, quasi in un’azione di ritorno, costoro siano invitati a lodare il creatore per il suo operato, ma in quanto formano nel loro insieme una schiera che partecipa della violenza di questa creazione (Sal 148,2[36]; 103,21): i mal<aµki∆m sono identici agli «eserciti celesti» (s\ebaµ<o∆t) e in tal senso sono anche «eroi potenti» (Sal 103,20).
Nella cosiddetta teofania del Sinai di Es 3 (che sarebbe meglio chiamare teofania dell’Oreb, cfr. v. 1) dovrebbe essere evidente che Dio venga designato con <æloµhi∆m (vv. 1.4b.11.13.15), dovendo egli comunicare il proprio nome quasi per garantire l’autenticità della missione di Mosè agli Israeliti, qualora costoro chiedessero a quell’uomo, che si presenta come guida, quale sia il nome del dio che lo invia loro (vv. 11.13)[37]. È singolare come colui che appare a Mosè sia il m. Y. (v. 2), ma chi parla a lui sia Y. (v. 4a), prima ancora di comunicargli il suo nome. Probabilmente, al di là dell’incongruenza del v. 4a[38], questa duplice configurazione della divinità che appare è dovuta a una caratteristica della teofania stessa, nella quale la divinità che appare di solito è Y.
In Gs 5,13-15 si dice che mentre Giosuè è presso Gerico vede un uomo che sta in piedi di fronte a lui con la spada sguainata; gli chiede allora se egli stia dalla sua parte o da quella dei nemici, evidentemente considerandolo un normale guerriero. Ma quello risponde rivelandosi capo di un esercito che è attivo in ambito divino: «No, io sono il capo dell’esercito di Y.» (v. 14). Riconosciuta la sua identità sovrumana, Giosuè si prostra a terra chiedendogli che cosa egli abbia da dirgli e la risposta che riceve è un comando: deve togliersi i calzari dai piedi, perché il luogo su cui si trova è santo (v. 15). Benché non si parli qui espressamente di un m. Y., l’evidente richiamo all’analogo comando dato a Mosè (cfr. Es 3,5) conferma che il personaggio in questione si pone su un piano divino, tanto più che a parlare a Mosè era stato Dio stesso (Es 3,4). L’operato del m. sul versante negativo, visto sinora, si precisa meglio con la sua esplicita gerarchizzazione militare (è il comandante supremo dell’esercito di Y.).
Il cantico di Debora di Gdc 5 contiene uno dei testi classici che sintetizzano e quasi definiscono la teofania di Y. (vv. 4-5; cfr. anche Dt 33,2-3; Sal 68,8-10; Ab 3,3-6), qui finalizzata al trionfo di Israele. Nonostante le difficoltà di cui è irto tutto il testo del cantico, sembra di poter dedurre da un lato che «il popolo di Y.» è chiamato a combattere (v. 13), ma dall’altro che anche gli astri sono convocati alla lotta (v. 20). Improvvisamente però entra in causa il m. Y. che invita a maledire gli abitanti di Meroz, perché non sono venuti in aiuto a Y. tra gli eroi (v. 23). La guerra condotta solo da alcune tribù dell’antico Israele (nel nord) viene assimilata a una guerra combattuta da Y. con il suo esercito celeste, e in questa specie di teofania cosmica chi è chiamato a maledire è ancora una volta il m. Y. Lo sdoppiamento teofanico è qui del tutto evidente, e ciò permette di cogliere meglio il significato e le eventuali origini di questa figura[39].
Di fronte a una testimonianza così vasta di questa relazione singolare che lega il m. alla divinità che lo invia, o che agisce attraverso di lui, non si può certo parlare di casi sporadici, sfuggiti a una tradizione che pure deve aver esercitato un certo controllo sui testi. Il fenomeno va considerato endemico agli scritti biblici ed è stato studiato pertanto nella sua globalità, ovviamente con tentativi di spiegazione diversi. Possiamo riassumerli in tre raggruppamenti principali, a loro volta diversamente configurati al loro interno.
1) La soluzione più facile, e anche più consona a una tendenza esegetica che mirava in passato a suddividere il testo nelle sue componenti letterarie (o “fonti”), è quella di ritenere che almeno in alcuni passi il m. Y. (o un suo equivalente) sia stato introdotto o interpolato in un testo che parlava originariamente di un intervento diretto della divinità. Si sarebbe salvata così maggiormente la trascendenza divina, soprattutto quando l’azione descritta ha finalità punitrici o distruttrici. Evidentemente si tratta di una soluzione di comodo, che potrebbe spiegare alcuni casi, ma difficilmente è in grado di chiarire costruzioni grammaticali e sintattiche veramente problematiche (come ad esempio quella di Gn 48,15-16; cfr. anche Es 12,13)[40].
2) Vi è poi una serie di spiegazioni che potremmo definire oggettivanti e che consistono nel ritenere che il m. sia una realtà autonoma diversamente denominata: ipostasi, logos, anima, potenza separata o altro. Ma è chiaro che tutti questi concetti appartengono più alla storia dell’esegesi che non alla storia del testo e della sua composizione, e ciascuno di essi trova la sua legittimazione all’interno del sistema che lo formula con un particolare intento funzionale (si pensi ad esempio al logos filoniano). Problemi analoghi del resto si sono posti anche in relazione alla sapienza biblica, intesa come ipostasi o persona, ma anche in questo caso la questione di fondo, in ambito biblico, resta di vedere quali siano i collegamenti a monte di questa realtà (e quindi ad esempio l’eventuale figura divina femminile da cui deriva), non le ripercussioni sulle speculazioni posteriori. Ad ogni modo, una forma più semplice di questo tipo di spiegazione è quella che propone di vedere nel m. la stessa figura di Y. che appare in forma umana (la cosiddetta teoria dell’identità)[41], e più in particolare si ricorrerebbe al m. quando questa divinità è o deve essere percepita da parte umana o dialogare con gli uomini.
3) Un terzo modo di concepire la natura del m. Y. è quello che vede in lui un rappresentante che agisce per incarico divino (teoria della rappresentanza)[42]. Effettivamente, questa ipotesi sembra mantenersi più aderente al tenore dei testi, anche perché non si impegna ulteriormente nel definire la natura intrinseca del personaggio, e anzi lo considera sempre inscindibilmente legato al suo mandante. Essa è formulata dal punto di vista del mandante, ma le si può accostare quella che tiene conto anzitutto del destinatario e che sottolinea come l’intervento del m. si traduca per l’uomo in una esperienza di incontro con una realtà superiore[43]. Anche in questo caso il m. serve solo a stabilire una correlazione, forse espressa in termini esistenziali un po’ sfuggenti.
Tra tutte queste proposte sono certamente da preferirsi quelle funzionali a quelle oggettivanti o a quelle letterarie[44]. Ma benché alcuni ammoniscano a non fondare una spiegazione su concetti generali, come “angelo” o “teofania”, di fatto non si riesce sempre ad evitare di cadere in un altro genere di astrattismo, che riduce a sua volta questa figura alla reazione soggettiva e spirituale di chi la incontra[45]. Bisogna quindi procedere in altra direzione.
Se si trasferisce tutta la problematica su un piano storico-religioso più ampio, che tenga conto della storia effettiva della divinità in questione (Y.) e dell’ambiente culturale da cui proviene, occorre inserire la figura del m. Y. in quel processo attraverso il quale Y. è divenuto gradualmente il dio esclusivo di Israele, mentre di fatto poteva essere considerato alla stregua di un dio di un qualunque pantheon semitico. Ciò non significa che si debba ricercare sul piano documentario un pantheon specifico di cui egli facesse parte, poiché di tali gruppi di dei riuniti in una struttura ben definita e gerarchizzata se ne conoscono relativamente pochi nel vasto ambiente delle civiltà del Vicino Oriente antico[46]. È sufficiente considerare attentamente le caratteristiche con cui si presenta Y. sulla scena della storia dell’Israele antico, per vedere come egli si inserisca molto bene tra i suoi colleghi, nonostante le polemiche e le lotte che nei testi biblici tendono a fargli acquisire la preminenza esclusiva nei riguardi del suo gruppo. L’argomento è ovviamente molto vasto, e dobbiamo accennarvi qui solo per quanto attiene al nostro tema più ristretto.
Possiamo quindi limitarci a rilevare come nella tipologia di queste divinità si possa classificare Y. come un dio teofanico, che in quei pantheon è subordinato di solito a una divinità superiore e si manifesta anzitutto con una cosmogonia violenta, che si attua spesso con una fenomenologia o per lo meno con un linguaggio di tipo bellico (lotta, vittoria, regolamentazione ecc.). In questo senso si può parlare anche di un dio che guida un esercito celeste, rappresentato dalle forze della natura; egli se ne serve quando, prendendosi cura di un gruppo umano, lo protegge e ne definisce i destini storici. Questi tratti sono già emersi a sufficienza nei testi che abbiamo passato in rassegna, ma se inseriamo ora la figura del m. Y. in questa tipologia divina e se teniamo presente il processo riduttivo a cui è andato soggetto il dio Y., si possono chiarire per lo meno tre elementi che emergono dai tratti di quella figura:
1) il collegamento frequente tra Y. e il m. Y. con un esercito di cui quest’ultimo fa parte, quando l’intervento si mantiene nel sottofondo sul piano cosmologico, ma con l’attenzione rivolta all’ambiente umano e al proprio popolo (cfr. Sal 148,2 nel contesto dell’intero salmo e soprattutto dei «figli di Israele» del v. 14);
2) la delega della funzione di capo dell’esercito celeste (Gs 5,13-15), alla quale si può collegare lo sdoppiamento di funzioni quando l’intervento dall’alto assume finalità distruttive (cfr. Es 12,13 e la figura dello «sterminatore»);
3) l’estensione di questa delega ad altre mansioni del m. e anche il suo sdoppiamento esplicito in alcuni casi: il più evidente è quello del Satana, che assume una funzione negativa pur appartenendo alla categoria dei «figli degli dei» (Gb 1,6; 2,1 e anche Zc 3,1 s.)[47].
Soprattutto, poiché si tratta di una funzione sostitutiva, si spiega perché tutti gli interventi del m. siano dotati di un’efficacia non diversa da quella della divinità in nome della quale egli parla o agisce[48].
D’altra parte il processo riduttivo subito dal dio Y. non va studiato all’insegna di un affinamento ideologico che condurrebbe sempre più verso un’ortodossia che si sta affermando. Il prevalere di Y. può aver comportato semplicemente un trasferimento di immagine: ad un pantheon governato da un dio Altissimo si è sostituita la concezione di un dio (Y.) che presiede un’assemblea di esseri a lui subordinati, che agiscono ai suoi ordini[49]. Il problema della demitizzazione va tenuto opportunamente fuori da questa evoluzione storico-religiosa, tanto più se bisogna prendere in seria considerazione il fatto che in epoca persiana ed ellenistica (e soprattutto in quest’ultima) si è assistito anche ad un processo inverso, cioè al ritorno del mito anche in campo teologico, e in ambiente giudaico[50].
Piuttosto, com’è evidente, la questione maggiormente legata a questa evoluzione concerne l’affermazione del monoteismo. Ma su questo punto bisogna focalizzare opportunamente la problematica[51], e ridurla nei suoi propri termini, che devono tener conto anzitutto della storia effettiva della religione dell’antico Israele[52]. Se non sembrano molto illuminanti ricerche che inseriscono il monoteismo in un processo evolutivo generalizzato, che accentua la portata storica della cosiddetta “età assiale” (verso il VI sec. a. C.), che lo avrebbe visto affermarsi in una vasta area del mondo antico (dall’Iran alla Grecia)[53], non sono neppure pertinenti quegli studi che, pur concentrandosi sull’origine e l’evoluzione dello yahvismo, ne parlano come se si trattasse di fatto di una religione monoteista (quasi) fin dalla nascita[54]. Dal punto di vista che qui ci interessa, bisogna risalire a un contesto religioso del Vicino Oriente antico nel quale viene accordato un particolare rilievo alle divinità attive nel mondo, soprattutto attraverso i fenomeni atmosferici violenti[55]. In varie fasi della storia e con notevoli differenziazioni locali, questo tipo di divinità sopravvive in quella funzione che è stata chiamata “baalismo” dal nome del dio che maggiormente la incarna[56], e che è stata assunta ed esercitata da divinità diverse nei singoli ambienti[57]. Ciò che permane costante, in tutta questa evoluzione assai complessa, nei confronti della quale le generalizzazioni degli studiosi rappresentano sempre una facile tentazione[58], è appunto la funzione del dominus (o del κύριοϛ), nella quale si concretizza il rapporto delle varie divinità, che la detengono, con un mondo storico che sono chiamate a governare[59]. La storia dello yahvismo rientra perfettamente nelle linee di questo processo storico.
Nell’ambito di un pantheon i rapporti gerarchici possono quindi variare, e perciò sono diverse le divinità che assumono il compito della presidenza, creando talvolta situazioni conflittuali, ma anche su questo punto ciò che perdura è il rapporto tra questa divinità e il gruppo degli dei ad essa subordinati[60]. Nel caso dell’antico Israele, la concezione di un pantheon subordinato a Y. non viene mai a cessare, ma si struttura diversamente[61]. Si può parlare di una specie di “monoteismo monarchico”[62], oppure anche di un “dio secondo”[63], che riassume in sé tutte le funzioni subordinate e delegate. Che si tratti di un dio o di una figura in qualche modo intermedia non cambia molto, se si tengono presenti i problemi reali della questione del monoteismo storico-religioso (ivi compreso quello israelitico), e non di quello filosofico (e nonostante certo le possibili confusioni terminologiche).
Resta dunque da vedere, come in appendice a quanto si è detto sinora, quale sia la figura emergente da un pantheon dove Y. è ritenuto il dio principale ed esclusivo, per cui la posizione subordinata viene assunta da un essere da lui (ormai qualitativamente) distinto. Ciò che tuttavia va debitamente sottolineato, in questa strutturazione più recente del mondo divino[64], è che tale figura non si stacca mai nettamente da quella superiore, di cui continua a rappresentare quasi un “doppio”, e pertanto si trasmettono ad essa tutte le caratteristiche che abbiamo visto inerenti al m. Y., soprattutto quelle con destinazione negativa. Poiché la preoccupazione maggiore, dal nostro punto di vista “ontologico”, è pur sempre quella di definire la divinità o meno degli esseri soprannaturali, possiamo dire che questa nuova figura diventa anche “vicaria” nel senso che esercita mansioni in nome di un superiore, ma non nel senso che lo sostituisce (tanto meno in sua assenza, che qui è impossibile): la sua azione (e prima ancora la sua parola) suppone sempre una stretta simbiosi intrinseca con il mandante.
Lo mostra bene la visione descritta in Dn 10. Qui Daniele vede un «uomo» vestito di lino, dall’aspetto sfolgorante (vv. 5 s.); dopo esser svenuto di fronte a lui, una «mano» lo tocca e lo fa alzare sulle ginocchia (v. 10) e poi qualcuno gli rivolge la parola (v. 11): chi sia costui va capito dal contesto, dal quale si deduce che si tratta dell’uomo che gli è apparso[65]. Riprendendo il suo discorso dopo che Daniele si è alzato in piedi, costui annuncia che gli si è opposto il «principe (såar) del regno di Persia», ma gli è venuto in soccorso «Michele, uno dei primi prìncipi (<ah\ad hasåsåaµri∆m haµriµs˚oµ<ni∆m)» (v. 13). Daniele ammutolisce ma «uno simile a un uomo (kidmu∆t beneµ <aµdaµm)[66]» gli tocca le labbra, per cui egli parla a colui che gli stava davanti, chiamandolo «mio signore» (<adoµni∆ è usato al v. 16, e così ancora per due volte al v. 17). Sembra che le sue parole siano rivolte non a questa «somiglianza di uomo», ma all’uomo che gli era apparso all’inizio. Nel seguito, ancora «quella che era come una figura di uomo (kemar<eµh <aµdaµm)» lo tocca e lo rinfranca e gli rivolge parole di incoraggiamento (vv. 18 s.). Dopo un breve intervento di Daniele che invita l’altro a parlare, chiamandolo ancora «mio signore» (v. 19)[67], l’interlocutore prende la parola e gli comunica che tornerà di nuovo a lottare contro il «principe di Persia», e anche contro il «principe di Iavan (= Grecia)», e gli verrà in aiuto Michele, definito ora «il vostro principe (såarkem)» (v. 21). Chi pronuncia queste ultime parole potrebbe essere anche la figura di uomo che ha incoraggiato Daniele, ma il contenuto, simile a quello dei vv. 12-14, ci deve far pensare che il soggetto sia lo stesso, e quindi ancora l’«uomo» apparso all’inizio.
Siamo quindi in presenza di almeno tre personaggi diversi: un uomo splendente che appare a Daniele, un altro assimilato a una figura umana (anche per via della mano) che comunica con lui solo per farlo rinvenire e rinfrancarlo dopo la sua prima reazione di fronte a una apparizione che è una teofania, e infine il principe Michele che combatte in aiuto del primo dei due e viene definito alla fine «principe» di Israele. L’uomo che appare, nonostante la sua esplicita definizione in termini umani («uomo» tout court), è in realtà Dio stesso, che si serve di un intermediario in sembianze umane per comunicare (verbalmente e con azione efficace), ma accanto a costoro si ha ora anche un «principe» che combatte, ed è figura nettamente distinta dalle prime due. Ciò significa, per quanto ci riguarda, che anche quando appare un personaggio ben distinto dalla divinità, ma che con compiti bellici prosegue la funzione del m., non scompare la correlazione che lega intrinsecamente la divinità al suo mediatore, tanto che in questo testo è persino difficile stabilire di quale dei due si parli, e lo si deduce solo dal contesto. E d’altra parte si vede come la figura del m. si sia a sua volta sdoppiata in una funzione mediatrice diretta e in un personaggio autonomo e combattivo.
È chiaro tuttavia che con Michele siamo giunto ormai all’”angelo della nazione”, che combatte per Israele. Ma proprio per questa connessione con le funzioni del m., che risalgono in ultima analisi a una fenomenologia teofanica di ordine cosmogonico, è comprensibile che la battaglia sostenuta da Michele sfoci in un esito escatologico che coinvolge anche l’aldilà. È questo il significato primario della vittoria di coloro che appartengono «al tuo popolo», e che si troveranno «scritti nel libro»: di essa si parla in termini di “risurrezione” (Dn 12,1-3), che avrà luogo al termine di una lotta “storica” esemplificata con le guerre tra Seleucidi e Lagidi, le quali raggiungono il loro culmine negativo con l’intervento del famigerato Antioco IV Epifane (Dn 11).
Estendendosi potenzialmente in una dimensione universale, l’”angelo delle nazioni” rientra così, da questa fase in poi, nella storia più vasta dell’angelologia giudaica e cristiana. Ma quanto sia ineliminabile, anche negli sviluppi successivi, il cordone ombelicale che tiene legati gli angeli alla loro matrice divina e li riconduce anzi a una loro origine embrionale in cui si identificano quasi con la madre, lo si può vedere ancora nel libro dell’Apocalisse, dove le loro schiere si organizzano in gruppi quaternari e settenari che giocano ruoli diversi nello scenario immaginifico in cui sono chiamati ad agire e combattere. Qui infatti le funzioni degli angeli sono ad un tempo positive e negative, sia a livello liturgico (angeli che adorano) sia a livello militare (angeli distruttori), e si esercitano su un piano relativamente autonomo. Ma non va dimenticato che agli angeli è affidato anche il giudizio escatologico, che essi annunciano ed eseguono in sintonia con «uno simile a figlio di uomo (ὅμοιον υἱὸν ἀνθρώπου)» che appare in cielo su una nube bianca (Ap 14,14 nel contesto di 14,6-20); l’esplicita allusione alla figura di colui che «è simile a un figlio di uomo» di Dn 7,13 (kebar <ænaµs˚), dove essa occupa la posizione di un “dio secondo”, rende ancora più evidente la sinergia. Addirittura, il rapporto sembra invertito, poiché uno degli angeli comanda a questa figura di gettare la sua falce e mietere, perché la messe è matura, e l’esecuzione è immediata: «E colui che era seduto sulla nube gettò la sua falce sulla terra e la terra fu mietuta» (v. 16). Proprio quando la figura dell’inviato sembra essersi resa autonoma e subordinata anche sul piano qualitativo (tali sono gli “angeli” tradizionali), si rivendica per essa un potere che nella sua storia era stato esercitato esclusivamente dalla divinità cui era geneticamente legata. Se non si tiene in debita considerazione la storia del pantheon da cui questa figura trae origine, l’affermazione di Ap 14,15 s. resta incomprensibile, e rischia di creare un falso problema ad ogni ortodossia teologica (e prima ancora metafisica).
Avendo solo accennato ai possibili sviluppi dell’angelologia successiva, nella quale è racchiusa ovviamente anche la problematica dell’”angelo delle nazioni”, non resta che riassumere il significato precipuo di quanto siamo andati dicendo, indicando nello stesso tempo quali possano essere i campi di applicazione più gravidi di conseguenze.
1) Il pluralismo, assai variegato, degli scritti biblici non riguarda solo la congerie dei testi confluiti a formare ciò che anche a livello terminologico non ha perso neppure per noi, seppure lontanamente, una connotazione grammaticale che conserva implicito il numero plurale (Bibbia, com’è noto, è un falso femminile). La situazione dei testi, diversi per genere, contenuto e ambientazione, si riflette inevitabilmente sul piano teologico, dove il pluralismo ideologico può essere ridotto a una qualche sintesi coerente solo con un’ermeneutica che resta estrinseca ai dati testuali[68], e talvolta trascura volutamente, per disinformazione più o meno cosciente, la ricchezza storico-religiosa in cui quei testi sono sorti e in cui si sono anche trasmessi. Per venire al nostro tema, la presunta ortodossia del Dio unico non ha potuto sopprimere una funzione che si è gradualmente trasferita su una figura mediatrice sui generis, che lascia ancora trasparire un mondo divino abitato da una pluralità di dei. Non solo questi ultimi sono ancora presenti e anche in qualche modo riconosciuti (vedi in particolare Mi 5,4, dove il rapporto dio-popolo è esteso su un piano universale, quasi enfatizzando il contenuto originario di Dt 32,8 s.), ma la struttura istituzionale cui appartengono questi dei rivela chiaramente che la figura mediatrice è all’origine una divinità del gruppo, cui competono particolari mansioni teofaniche nell’ambito di un pantheon gerarchizzato e composito. Se essa viene ad occupare un posto di preminenza, sconvolgendo i gradi gerarchici, deve quasi necessariamente delegare le sue caratteristiche a una sorta di sosia che non è diafano, ma è ancora ripieno in parte della sua sostanza.
2) L’ambivalenza, che potremmo definire verticale, di questa figura mediatrice sopravvive anche quando un essere divino, per poter comunicare con il mondo degli uomini, si sdoppia in una qualche sua emanazione, nonostante il fatto che un’altra figura mediatrice, chiaramente autonoma, svolga un’analoga funzione per incarico della medesima divinità. È singolare infatti come in Dn 10, che rappresenta comunque una fase recente dell’evoluzione storico-religiosa che abbiamo delineato sommariamente, si affermi con piena evidenza la figura di Michele, “principe” (alias “angelo”) che soccorre in battaglia quello che è ormai il dio esclusivo di Israele, ma nello stesso tempo quest’ultimo (anche se appare sotto sembianze umane, che già potrebbero facilitargli la comunicazione) ricorra ancora all’espediente di una mano e di un’altra parvenza umana per rinvigorire e rassicurare Daniele, con gesti e parole, preparandolo così a udire il messaggio che gli viene trasmesso da una figura superiore (divina), che in ultima analisi è lo stesso YHWH. Questo rapporto inscindibile dovrebbe indurre a riflettere e a chiedersi se nelle posteriori speculazioni cristologiche non sopravviva ancora la funzione del mal<aµk, che in quel contesto si vuol rendere compatibile con una rigida concezione monoteista. Ma qualunque speculazione di questo genere dovrebbe anzitutto spiegare come mai una cristologia sia potuta sorgere sulla base della concezione giudaica di un dio che, pur proclamato nella sua “unicità”, ammette accanto a sé qualche figura che ne evoca ancora le sue origini storico-religiose[69].
3) Abbiamo avuto occasione di costatare ripetutamente che nell’esercizio di questa singolare funzione mediatrice tende a prevalere un aspetto militare e bellico, rivolto a conservare nel suo equilibrio un ordine cosmico che non si limita mai alla sfera fisica, ma interessa prevalentemente il mondo umano e storico[70]. In questo senso tale funzione, nella quale e con la quale il mandatario viene ad identificarsi, divenendo un “funzionario” a tutti gli effetti, rende l’emissario partecipe del potere del mandante, e lo abilita ad esercitare un compito delegato su un piano che noi chiameremmo lato sensu politico. È chiaro allora che questa correlazione di poteri può comportare delle conseguenze assai rilevanti per quanto riguarda la questione dell’esercizio effettivo della potestas. Quest’ultima infatti, negli sviluppi ulteriori del pensiero giudaico, viene affidata a varie figure intermedie, che sotto diversa denominazione governano gli uomini e il cosmo, ma sono coordinate da un essere superiore che è responsabile in ultima analisi del potere delegato, ma non lo esercita di fatto. In altre parole, alla funzione mediatrice che abbiamo delineato risale anche la genesi storica del celebre “monoteismo come problema politico”, con tutte le sue ramificazioni[71].
4) La funzione di cui abbiamo parlato si concretizza e sviluppa su un modello che è valido anzitutto per l’antico Israele, nella forma in cui quest’ultimo è riuscito a interpretare e adattare una fenomenologia più vasta e antica. Ma per riflesso può estendersi anche alle altre “nazioni”. In ogni caso, tuttavia, al di là delle contingenze storiche che hanno causato o influenzato l’interpretazione israelitica, e anzi proprio per le modalità con cui quest’ultima si è realizzata, questa funzione conserva sempre un riferimento cosmico che la spinge ad universalizzarsi sul piano spaziale e temporale. Essa coinvolge perciò la storia nelle sue finalità escatologiche, per via delle sue origini più remote (si ricordino le sue connessioni cosmogoniche). Questo sottofondo cosmico e originario, che sta alla base dell’universalizzazione, non può venir eliminato, poiché fa parte della sua essenza. Pertanto ogni tentativo di retroapplicazione, che consisterebe nella riappropriazione a livello individuale e contingente di una funzione riservata di per sé al pantheon divino e non primariamente alle realtà politiche umane, diventa inevitabilmente pericoloso e illegittimo. Per esprimerci in termini più consoni e più ristretti al nostro tema: gli dei delle nazioni, divenuti angeli delle nazioni, non possono più ridiventare il “dio della (mia) nazione”, se quest’ultimo dovesse esser inteso come “Dio della nazione”, che lascerebbe allora agli angeli il governo degli altri popoli. Gli “angeli delle nazioni” diventano perciò necessari per tutti.
[1] Cfr. J. H. Charlesworth (a cura di), The Old Testament Pseudepigrapha, Vol. I, Darton, Longman & Todd, London 1983, p. 790.
[2] J. H. Charlesworth, ivi, pp. 68.70 s.
[3] J. H. Charlesworth, ivi, Vol. II, 1985, p. 87.
[4] Per un’analisi della pericope cfr. G. L. Prato, Il problema della teodicea in Ben Sira. Composizione dei contrari e richiamo alle origini, Biblical Institute Press, Rome 1975, pp. 283-287.
[5] Cfr. P. W. Skehan, A Fragment of the “Song of Moses” (Deut. 32) from Qumran, in «Bulletin of the American Schools of Oriental Research» 136(1954), pp. 12-15.
[6] Pubblicato in E. Ulrich-F. M. Cross (a cura di), Qumran Cave IV. Deuteronomy, Joshua, Judges, Kings, Discoveries in the the Judaean Desert XIV, Clarendon Press, Oxford 1995, p. 90 (e cfr. anche pl. XXIII).
[7] Un dato analogo si ritrova alla fine del cantico (v. 43), dove nel primo stico a un testo masoretico succinto («esultate genti il suo popolo» [sic! corretto in base a LXX: «esultate genti con il suo popolo»]) corrisponde un testo qumranico ampliato, che aggiunge come secondo stico: «e prostratevi a lui, o dei tutti (kl <lhym)»; quest’ultimo a sua volta coincide con LXX (pavnteı uiJoi; qeou~), che però presenta un testo ancora più lungo (raddoppiato, ripetendo in pratica i primi due stichi di Qumran) e in corrispondenza di pavnteı uiJoi; qeou~ ha pavnteı a[ggeloi qeou`.
[8] La storia della ricerca, nel contesto dell’intero cantico di Mosè, è esposta in P. Sanders, The Provenance of Deutronomy 32, Brill, Leiden–New York–Köln 1996, pp.1-96 (vedi anche pp. 154-159 per i dati testuali relativi ai vv. 8-9). Cfr. anche M. Lana, Deuteronomio e angelologia alla luce di una variante qumranica (4Q Dt 32,8), in «Henoch» 5(1983), pp. 179-205.
[9] Così anche P. Sanders, op. cit., pp. 373-374.
[10] Cfr. anche Ph. S. Alexander, The Targumim and Early Exegesis of “Sons of God” in Genesis 6, in «Journal of Jewish Studies» 23(1972), pp. 60-71.
[11] L’esegesi qui sintetizzata è quella di I. Himbaza: cfr. il suo Dt 32,8, une correction tardive des scribes. Essai d’interprétation et de datation, in «Biblica» 83(2002), pp. 527-548.
[12] Per una difesa di questa datazione, motivata con la situazione storico-culturale dell’ambiente persiano, cfr. R. Meyer, Die Bedeutung von Deuteronomium 32,8f.43(4Q) für die Auslegung des Moseliedes, in A. Kuschke (a cura di), Verbannung und Heimkehr. Beiträge zur Geschichte und Theologie Israels im 6. und 5. Jahrhundert v. Chr. Wilhelm Rudolph zum 70. Geburtstage dargebracht von Kollegen, Freunden und Schülern, J. C. B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1961, pp. 197-209.
[13] È questa la cronologia proposta anche da E. P. Sanders, op. cit., spec. 433-436 (con varie ipotesi più restrittive, e non escludendo neppure l’epoca di giudici e persino quella dei popoli del mare).
[14] Ad una certa cautela nell’utilizzazione del materiale ugaritico per ambientare Dt 32,8 invita anche O. Loretz, Die Vorgeschichte von Deuteronomium 32,8f.43, in «Ugarit-Forschungen» 9(1977), pp. 355-357. Per il testo ugaritico che accenna ai 70 figli di Athirat (= KTU 1.4 VI 46) cfr. A. Caquot–M. Sznycer–A. Herdner, Textes ougaritiques, Tome I, Les éditions du Cerf, Paris 1974, p. 214 e nota k.
[15] Sulle connessioni con l’ambiente religioso più vasto del Vicino Oriente antico cfr. S. A. Meier, The Messenger in the Ancient Semitic World, Scholars Press, Atlanta, GA 1988; J. T. Greene, The Role of the Messenger and Message in the Ancient Near East, Scholars Press, Atlanta, GA 1989.
[16] Cfr. S. A. Meier, Angel I ml<k, in K. van der Toorn–B. Becking-P. W. van der Horst (a cura di), Dictionary of Deities and Demons in the Bible, Brill, Leiden–New York–Köln 21999, pp. 45-50. Meier sottolinea con particolare evidenza questa divergenza fondamentale: «The only contexts in biblical and ancient Near Eastern literature where no distinction seems to be made between sender and messenger occur in the case of the “angel (literally “messenger”) of Yahweh” (mal<ak YHWH). It is precisely the lack of differentiation that occurs with this figure, and this figure alone among messengers, that raises the question as to wheher this is even a messenger of God at all. […] It must be underscored that the angel of YHWH in these perplexing biblical narratives does not behave like any other messenger known in the divine or human realm. Although the term ‘messenger’ is present, the narrative itself omits the indispensable features of messenger activity and presents instead the activities which one associates with Yahweh or the other gods of the Ancient Near East» (p. 49).
[17] Per il resto (e anche per quanto si dirà sulla funzione esercitata in ambito divino) si possono vedere le voci corrispondenti nei vari “dizionari”, ad esempio: di S. A. Meier (oltre alla voce citata nella nota precedente) anche Angel of Yahweh, ml<k YHWH, ivi, pp. 53-59; J. W. van Henten, Angel II a[ggeloı, ivi pp. 50-53; R. Ficker, mal<aµk messaggero, in E. Jenni–C. Westermann (a cura di), Dizionario teologico dell’Antico Testamento, Vol. I, Marietti, Torino 1978, coll. 776-782; D. N. Freedman–B. E. Willoughby–H. Ringgren–H.-J. Fabry, mal<aµk_, in G. J. Botterweck–H. Ringgren (a cura di), Theological Dictionary of the Old Testament, Vol. VIII laµk_aµd – moµr, Eerdmans, Grand Rapids, MI–Cambridge, U.K. 1997, pp. 308-325. Utile è anche J.-L. Cunchillos, Étude philologique de mal<aµk. Perspectives sur le mal<aµk de la divinité dans la Bible hébraïque, in J. A. Emerton (a cura di), Congress Volume. Vienna 1980, Brill, Leiden 1981, pp. 30-51.
[18] K. H. Rengstorf, ajpostevllw ktl., in G. Kittel–G. Friedrich (a cura di), Grande Lessico del Nuovo Testamento, Vol. I, Paideia, Brescia 1965, coll. 1118 s.
[19] K. H. Rengstorf, ivi, col. 1110. Non si può tuttavia condividere con Rengstorf l’opinione secondo cui la natura giuridica di questo legame si fonderebbe su un presunto “diritto semitico”: la consistenza di questo diritto resta infatti del tutto ipotetica, oltre che molto vaga: «Il fondamento giuridico di tutto il complesso di idee collegate con s˚aµli∆a∑h\ risale al diritto semitico del messaggero, quale è presupposto anche nell’A.T.» (ivi, col. 1112; corsivo dell’autore).
[20] «A messenger would subvert the communication process were he or she to fail to identify the one who sent the messenger on his or her mission» (S. A. Meier, Angel I, cit., p. 49).
[21] Nel seguito ricorreremo alle abbreviazioni m. Y. per mal<ak YHWH, come pure rispettivamente a m. (= mal<aµk) e Y. (= YHWH) quando necessario.
[22] Al v. 20 il testo masoretico ha m. <æloµhi∆m, ma il testo originale della LXX con oJ a[ggeloı kurivou fa supporre un ebraico m. Y.
[23] In 3,2 il testo masoretico ha Y., ma la versione siriaca lo intende come m. Y.
[24] Si noti del resto in 18,27.31 la variante Y.
[25] In 19,2 tuttavia Lot si rivolge ai due mal<aµki∆m (v. 1) con l’appellativo <adoµnay (si noti la vocalizzazione dell’ultima sillaba!), ossia «miei signori», rispettando il numero grammaticale e intendendo i due personaggi piuttosto come uomini. Per questo vi è chi propone di leggere al v. 1 direttamente haµ<anaµs˚i∆m (cfr. vv. 5.8.10.12.16).
[26] Il testo masoretico dice: «E benedisse Giuseppe», ma il contesto induce a leggere: «E li benedisse» (cfr. anche LXX).
[27] Al v. 16 il Pentateuco samaritano invece di hml<k (= hammal<aµk) ha hmlk (= hammelek, «il re») e così fa del termine un epiteto divino, risolvendo nello stesso tempo il problema grammaticale e quello teologico. Le grammatiche ebraiche tacciono di solito su questo rapporto tra il v. 15 e il v. 16 del testo masoretico. Solo in P. Joüon-T. Muraoka, A Grammar of Biblical Hebrew, Editrice Pontificio Istituto Biblico, Roma 1991, § ne (p. 582) si fa notare che in alcuni casi il sentimento religioso spiega perché la parola di Dio o un suo agente siano collocati prima del verbo (nella frase ebraica che di solito pone il soggetto dopo il verbo) e si cita al riguardo l’esempio di Gn 48,15 con la traduzione: «the angel who has redeemed me… bless the lads»; trascurando però completamente il legame con il v. 15, che di per sé contiene un altro soggetto della frase (e dove il nome divino, ripetuto due volte, deve necessariamente stare all’inizio, poiché è seguito rispettivamente da una frase relativa e da un frase participiale che lo qualificano), si viene a considerare questo primo soggetto come una specie di casus pendens, ma questa non sembra essere l’intenzione del testo (e tanto meno di Giacobbe). Si noti che questo paragrafo è una delle aggiunte di T. Muraoka all’edizione originale francese della grammatica, dove non si dice nulla su questo testo (P. Joüon, Grammaire de l’hébreu biblique, Institut Biblique Pontifical, Rome 1965 [= 1923], p. 475).
[28] Se è vero che m. Y. ricorre in totale 58 volte, non va dimenticato che anche m. (haµ)<æloµhi∆m (con o senza articolo nel secondo termine) è usato 11 volte, a cui se ne devono aggiungere altre 2 dove il primo termine è al plurale: l’argomento non è dunque decisivo. Per questi dati cfr. per esempio R. Ficker, mal<aµk, cit., col. 776.
[29] Si noti però che in 22,20 e 23,4 il Pentateuco samaritano parla invece di m. <æloµhi∆m e in 22,22 si tratta di «ira di <æloµhi∆m», ma una variante testimoniata dal Pentateuco samaritano e da una parte della LXX preferisce «ira di Y.».
[30] Anche tra questi vv. ve ne sono alcuni che non sono esenti da difficoltà testuali; ad esempio, in 23,5 il Pentateuco samaritano premette m. e in altri casi la LXX sembra leggere <æloµhi∆m.
[31] Tranne che nel v. 34, qui il testo originale della LXX (con oJ a[ggeloı tou` qeou~) sembra supporre sempre un ebraico m. <æloµhi∆m.
[32] Alla lettera «i due accampamenti». La città di Macanaim è menzionata più volte altrove, anche se ne resta incerta la localizzazione precisa, in area transgiordanica. Qui Giacobbe dà una spiegazione di questo apparente duale connettendo il nome con un’apparizione di mal<aµki∆m che sono dei guerrieri, poiché formano collettivamente un esercito accampato.
[33] Una variante (mal<aµki∆m raµ>i∆m), confermata dalle antiche versioni, parla addirittura di «messaggeri cattivi« (cfr. LXX a[ggeloi ponhroiv).
[34] In Is 63,9, prima di mal<aµk vi è un altro termine che nel testo masoretico indicherebbe «tribolazione» (s\aµr), ma in base al presbuvı della LXX lo si vuole leggere come «messaggero» (s\i∆r), e quindi sinonimo di m.
[35] «The Chronicler, by emphasizing particularly the sending (s˚lh\)\, may be discouraging any identification of the angel with Yahweh himself» (Freedman-Willoughby in mal<aµk_, cit., p. 318).
[36] In Sal 148,2b il ketiv del testo masoretico ha il suffisso al singolare e sembra riunire collettivamente «tutti i mal<aµµki∆m» di 2a in un’unica schiera; tuttavia il testo quasi uguale di Sal 103,21a ha il suffisso al plurale, che viene proposto anche come qere di 148,2b, seguendo del resto una variante ebraica molto attestata e le antiche versioni.
[37] Lo scopo della “rivelazione” del nome divino Y. assume anzitutto questa finalità ristretta, se si tiene presente che i vv. 14-15 sono una risposta alla precisa domanda di Mosè, che chiede una garanzia per la propria missione e come essa possa venire accettata dagli Israeliti (e anche nella loro formulazione questi vv. intendono collegare il nome divino con «io sarò con te» del v. 12).
[38] In 4a il Pentateuco samaritano sembra risolve la difficoltà con la lezione <æloµhi∆m, ma a sua volta la LXX ne crea un’altra perché in 4b legge kuvrioı, l’equivalente cioè di Y.
[39] Ai testi qui esaminati, secondo la suddivisione proposta, se ne dovrebbe aggiungere ancora qualche altro, di minore importanza per il nostro assunto. Per motivare il fatto che l’uomo non può essere giusto di fronte a Dio, uno degli “amici” di Giobbe afferma quasi paradossalmente che Dio «non ripone fiducia nemmeno nei suoi servi, e accusa i suoi mal<aµki∆m di errore (oppure: follia)» (Gb 4,18). Ma d’altra parte è la sapienza del mal<ak <æloµhi∆m che si riversa su quella del re, che quindi sotto questo aspetto è considerato un suo pari (2 Sam 14,17.20; 19,28): noi diremmo più semplicemente che il re ha una sapienza divina. Poiché infine il m. (o i suoi simili) è in qualche modo la personificazione di una manifestazione divina, non deve meravigliare che nella LXX anche «l’ira di Dio» si sia trasformata in a[ggeloi (Gb 40,11).
[40] È questa la critica mossa a un tal genere di spiegazione anche da G. von Rad, che pure è stato un fautore del metodo critico-letterario classico (cfr. la sua Teologia dell’Antico Testamento, Vol. 1: Teologia delle tradizioni storiche d’Israele, Paideia, Brescia 1972, pp. 327-329 e p. 328 n. 13). Stupisce pertanto ritrovare questa soluzione anche in autori più recenti, come S. A. Meier (in Angel of Yahweh, cit., p. 58). Meier ritiene che l’interpolazione sia innegabile là dove non si trova in tutte le testimonianze e cita al riguardo Es 4,24; in quest’ultimo testo, però, si tratta di un diverso comportamento dell’ebraico e delle versioni antiche, di cui abbiamo citato altri numerosi esempi più sopra, ma proprio qui è significativo il fatto che la versione greca di Aquila abbia oJ qeovı di fronte a a[ggeloı kurivou del testo originale della LXX e a[ggeloı di alcuni manoscritti: com’è noto, Aquila tende a riportare a una fedeltà ebraica un testo che sembra essersene troppo allontanato, e qui si riconduce appunto a un ebraico Y. quella che, nel linguaggio di Maier, dovrebbe essere una interpolazione (ma in realtà sarebbe una sostituzione), e quindi il procedimento andrebbe nella direzione opposta.
[41] «L’angelo di Jahvé è lo stesso Jahvé, che appare agli uomini in figura umana» (G. von Rad, op. cit., p. 328).
[42] Questa è l’ipotesi preferita da R. Ficker (op. cit., col. 781), anche se non la considera incompatibile con la teoria dell’interpolazione.
[43] Cfr. C. Westermann, Genesis. 2. Teilband: Genesis 12-36, Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn 1981, pp. 289-291 (= Exkurs: Der Bote Gottes).
[44] Così anche H.-J. Fabry (in mal<aµk_, cit., pp. 321 s.).
[45] Ne è esempio significativo la sintesi di C. Westermann, che se da un lato critica chi procede dall’«Oberbegriff ‘Engel’» (op. cit., p. 289), dall’altro conclude il suo intervento ricordando che Dio è presente non nel messaggero, ma nel messaggio: «Gegenwärtig ist Gott nicht in dem Boten, sondern in der Botschaft» (ibidem, p. 291); a quest’ultima frase (ricordata anche da H.-J. Fabry in mal<aµk_, cit., p. 322 n. 54) si può però facilmente controbattere che, almeno in alcuni testi esaminati sopra, se si elimina il messaggero non solo si perde il messaggio, ma si cancella anche la divinità che ne è all’origine.
[46] Per una panoramica, limitata però solo all’area occidentale del Vicino Oriente antico, si veda H. Niehr, Il contesto religioso dell’Israele antico. Introduzione alle religioni della Siria-Palestina, Paideia, Brescia 2002: l’opera è impostata appunto su una elencazione dei pantheon locali, con particolare attenzione a quello di Ugarit. Più vicino al nostro tema: D. J. Block, The Gods of the Nations. Studies in Ancient Near Eastern National Theology, Baker Academic, Grand Rapids, MI–Apollos, Leicester 22000.
[47] L’azione di contrasto esercitata dal “Satana” può indurre legittimamente a vederlo presente e attivo anche quando non compare con questo nome, come per esempio nel mal<aµk di Nm 22,22-35. Cfr., anche per questo richiamo, P. L. Day, An Adversary in Heaven. såaµt\aµn in the Hebrew Bible, Atlanta, GA 1988.
[48] Anche se il termine mal<aµk è ben distinto da mal<aµkaµh («opera», «lavoro»), è sempre possibile collegare le due parole tramite quella che sembra essere la loro radice comune (l<k = «inviare»); nella misura in cui può essere sostenibile una comune derivazione, se ne possono trarre anche conseguenze di ordine semantico ed è lecito ritenere che in mal<aµk sia sopravvissuto qualcosa dell’efficacia esecutiva racchiusa ora nel suo affine mal<aµkaµh. Per un tentativo di connessione si veda E. L. Greenstein, Trans-Semitic Idiomatic Equivalency and the Derivation of Hebrew ml’kh, in «Ugarit-Forschungen» 11(1979), pp. 329-336.
[49] I tratti più salienti di questo processo, nonostante i termini troppo schematici e categorici con cui viene descritto, si possono cogliere in L. K. Handy, Among the Host of Heavens. The Syro-Palestinian Pantheon as Bureaucracy, Eisenbrauns, Winona Lake, IN 1994; più sinteticamente in Id., Dissenting Deities or Obedient Angels: Divine Hierarchies in Ugarit and the Bible, in «Biblical Research» 35 (1990), pp. 18-35; Id., The Appearance of Pantheon in Judah, in D. V. Edelman (a cura di), The Triumph of Elohim. From Yahwisms to Judaisms, Kok Pharos, Kampen 1995, pp. 27-43. Su un piano limitato all’evoluzione letteraria: S. L. White, Angel of the Lord: Messenger or Euphemism?, in «Tyndale Bulletin» 50 (1999), pp. 299-305.
[50] Questo tema è stato studiato ad esempio nei salmi, che per loro natura sono indicativi del sentimento religioso dell’ambiente che li ha utilizzati e trasmessi, anche con interventi sul testo (soprattutto nella traduzione greca). In riferimento al loro sottofondo culturale più antico si veda O. Loretz, Der juridische Begriff nih…latum/nh\lt/nah\alaµh “Erbbesitz” als amurritisch-kanaanäischer Hintergrund von Ps 58, in «Ugarit-Forschungen» 34(2002), pp. 453-479 (soprattutto per il Sal 58,2 e la dottrina degli angeli). Per il rapporto con la LXX: J. Schaper, Die Renaissance der Mythologie im hellenistischen Judentum und der Septuaginta-Psalter, in E. Zenger (a cura di), Der Septuaginta-Psalter. Sprachliche und theologische Aspekte, Herder, Freiburg–Basel–Wien–Barcelona–Roma–New York 2001, pp. 171-183; A. Schenker, Götter und Engel im Septuaginta-Psalter. Text- und religionsgeschichtliche Ergebnisse aus drei textkritischen Untersuchungen, ibidem, pp. 185-195.
[51] Cfr. G. L. Prato, L’attuale ricerca sul monoteismo ebraico biblico, in G. Cereti (a cura di), Monoteismo cristiano e monoteismi, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2001, pp. 37-65.
[52] Per un aggiornamento al riguardo possono esser utili alcune rassegne sintetiche: W. Zwickel, Religionsgeschichte Israels. Einführung in den gegenwärtigen Forschungsstand in den deutschsprachigen Ländern, in B. Janowski–M. Köckert (a cura di), Religionsgeschichte Israels. Formale und materiale Aspekte, Kaiser–Gütersloher Verlagshaus, Gütersloh 1999, pp. 9-56; F. Hartenstein, Religionsgeschichte Israels – ein Überblick über die Forschung seit 1990, in «Verkündigung und Forschung» 48(2003), pp. 2-28.
[53] Nella storia della ricerca ritorna spesso questa prospettiva, ma per un tentativo abbastanza recente e quasi sistematico si veda R. K. Gnuse, No Other Gods. Emergent Monotheism in Israel, Sheffield Academic Press, Sheffield 1997.
[54] Questo travisamento di fondo anima talvolta anche monografie per altri versi assai documentate nella trattazione del materiale letterario e archeologico; un esempio si può trovare in J. C. de Moor, The Rise of Yahwism. The Roots of Israelite Monotheism, University Press–Uitgeverij Peeters, Leuven 21997 (e i rilievi critici che ne ho espresso in «Rivista Biblica» 48(2000), pp. 199-209).
[55] I paralleli possono risultare piuttosto affrettati, ma una panoramica del materiale è già di per sé eloquente, e in tal senso sono utili D. Schwemer, Die Wettergottgestalten Mesopotamiens und Nordsyriens im Zeitalter der Keilschriftkulturen. Materialien und Studien nach den schriftlichen Quellen, Harrassowitz, Wiesbaden 2001 (cfr. però al riguardo M. Dietrich, Der syrische Regengott und der mesopotamische Sturmgott. Bemerkungen zum Werk von Daniel Schwemer, Die Wettergottgestalten Mesopotamiens und Nordsyriens im Zeitalter der Keilschriftkulturen, in «Ugarit-Forschungen» 33[2001], pp. 657-677); A. R. W. Green, The Storm-God in the Ancient Near East, Eisenbrauns, Winona Lake, IN 2003.
[56] Si tratta del dio Baal di Ugarit, di cui però questo non è il nome proprio (che sarebbe hd o hdd = Haddu, dio della tempesta, corrispondente ad Addu/Adad/Hadad di altri ambienti semitici), ma un epiteto che quasi per metonimia ne precisa ed esalta la funzione (b>l infatti significa «signore», «padrone»).
[57] Cfr., fra i tanti, H. Niehr, Der höchste Gott. Alttestamentlicher JHWH-Glaube im Kontext syrisch-kanaanäischer Religion des 1. Jahrtausends v. Chr., de Gruyter, Berlin–New York 1990 (e la decisa reazione polemica di K. Engerkern, BA>ALS˚AMEM. Eine Auseinandersetzung mit der Monographie von H. Niehr, in «Zeitschrift für die alttestamentliche Wissenschaft» 108[1996], pp. 233-248.391-407); Id., The Rise of YHWH in Judahite and Israelite Religion, in D. V. Edelman, op. cit., pp. 45-72; J. Day, Ywhweh and the Gods and Goddesses of Canaan, Sheffield Academic Press, Sheffield 2000; M. S. Smith, The Early History of God. Yahweh and the Other Deities in Ancient Israel, Eerdmans, Grand Rapids/Cambridge–Dove Booksellers, Dearborn, MI 22002.
[58] L’estensione di questa fenomenologia al mondo greco, ad esempio, pecca talvolta di una qualche superficialità, soprattutto quando vuole fondarsi anche su paralleli filologici e lessicali, come in J. P. Brown, Ywhweh, Zeus, Jupiter: The High God and the Elements, in «Zeitschrift für die alttestamentliche Wissenschaft» 106(1994), pp. 175-197.
[59] Cfr. M. Rösel, Adonaj – warum Gott “Herr” genannt wird, Mohr Siebeck, Tübingen 2000.
[60] Si veda soprattutto M. Weippert, Synkretismus und Monotheismus. Religionsinterne Konfliktbewältigung im alten Israel, in J. Assmann–D. Harth (a cura di), Kultur und Konflikt, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1990, pp. 143-179 (riprodotto in M. Weippert, Jahwe und die anderen Götter. Studien zur Religionsgeschichte des antiken Israel in ihrem syrisch-palästinischen Kontext, J. C. B. Mohr [Paul Siebeck], Tübingen 1997, pp. 1-24); B. Lang, Neue Probleme in der Erforschung des biblischen Monotheismus, in K. A. Deurloo–J. Diebner (a cura di), YHWH – Kyrios – Antitheism or the Power of the Word. Festschrift für Rochus Zuurmond anlässlich seiner Emeritierung am 26. Januar 1996, Dielheimer Blätter zum Alten Testament (Selbstverlag), Amsterdam–Heidelberg 1996, pp. 29-42.
[61] E anche la terminologia può variare: cfr. H.-D. Neef, Gottes himmlischer Thronrat. Hintergrund und Bedeutung von so∆d JHWH im Alten Testament, Calwer, Stuttgart 1994.
[62] B. Lang, Der monarchische Monotheismus und die Konstellation zweier Götter im Frühjudentum. Ein neuer Versuch über Menschensohn, Sophia und Christologie, in W. Dietrich–M. A. Klopfenstein (a cura di), Ein Gott allein? JHWH-Verehrung und biblischer Monotheismus im Kontext der israelitischen und altorientalischen Religionsgeschichte, Universitätsverlag, Freiburg Schweiz–Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1994, pp. 559-564.
[63] M. Barker, The Great Angel. A Study of Israel’s Second God, SPCK, London 1992.
[64] Per un esempio concreto si veda il pantheon documentato dai testi di Qumran: cfr. J. J. Collins, Powers in Heaven: God, Gods, and Angels in the Dead Sea Scrolls, in J. J. Collins–R. A. Kugler (a cura di), Religion in the Dead Sea Scrolls, Eerdmans, Grand Rapids, MI 2000, pp. 9-28. I testi qumranici ci permettono talvolta di costatare concretamente questa trasformazione del pantheon: un testo sapienziale ivi ritrovato (anche se forse non è originario di quell’ambiente), chiamato musar lammebin e composto da vari frammenti (4Q 26 + 4Q 415-418.418a.418c.423), se posto a confronto con la Sapienza di Achikar, e in modo particolare con i Proverbi di Achikar, mostra chiaramente che mentre in quest’ultima opera agiscono molti dei in una compagine stratificata, nel testo qumranico (cfr. specialmente 4Q 416 e 417) si presenta ancora un mondo divino a due livelli, ma composto da un dio principale e da una schiera di esseri denominati «schiera celeste» (4Q 416 1,7, cfr. Is 34,4) o anche «figli del cielo» (4Q 1,12); cfr. H. Niehr, Die Weisheit des Achikar und der musar lammebin im Vergleich, in C. Hempel–A. Lange–H. Lichtenberger (a cura di), The Wisdom Texts from Qumran and the Development of Sapiential Thought, University Press–Uitgeverij Peeters, Leuven 2002, pp. 173-186, spec. 185.
[65] Il v. 11 inizia improvvisamente con un wayyoµ<mer privo di soggetto, ma è evidente che non può essere la «mano»s (yaµd) del v. 10.
[66] È interesante che nella versione greca di Teodozione si renda alla lettera il testo masoretico, ma nella LXX si parli di una «somiglianza di mano (ceirovı) di uomo», stabilendo quindi un livellamento con il v. 10.
[67] Se in Gn 18-19 prevaleva la vocalizzazione <adoµnaµy, lasciando trasparire che l’interlocutore, singolare o plurale che fosse, era collocato su un piano divino, in Dn 10,16.17bis.19 <adoµni∆ lo pone di per sé su un piano umano, forse in riferimento al fatto che colui che appare è designato solo come «uomo» (v. 5). Per conseguenza, l’appellativo del v. 19 potrebbe anche essere rivolto al personaggio mediatore, quello cioè che incoraggia Daniele, e quindi è solo il confronto con i vv. 12-14 che induce a concludere che l’altro sia l’uomo apparso all’inizio, ossia la figura divina. Ma da queste vocalizzazioni si intravede anche come i masoreti abbiano faticato non poco nel voler trovare un sistema coerente di vocalizzazione che salvaguardasse le prerogative divine, e come la vocalizzazione <adoµnaµy sia del tutto artificiosa, escogitata appunto per venire incontro (e solo fino a un certo punto) a tale esigenza.
[68] Anche le tradizioni testuali vanno comunque attentamente studiate al loro interno, perché possono rispecchiare a loro volta un’evoluzione (riduttrice) dell’ambiente da cui provengono, e quindi non sono anzitutto il risultato di meccanici interventi correttivi posteriori. Più volte, ad esempio, nella rassegna dei testi abbiamo incontrato una rettifica del nome del messaggero o della divinità nel Pentateuco samaritano, che sembra più vicina all’unificazione “monoteista” posteriore; in realtà, più che di un testo ricco di modifiche tardive, potrebbe trattarsi della testimonianza di una concezione esclusivista che risale a un periodo storico antecedente a quello che ci fanno conoscere i più tardivi manoscritti masoretici. Un tentativo di spiegazione che percorre decisamente questa strada si può leggere in St. Schorch, Die (sogenannten) anti-polytheistischen Korrekturen im samaritanischen Pentateuch, in «Theologische Fakultät Leipzig. Forschungstelle Judentum. Mitteilungen und Beiträge» 15-16(1999), pp. 4-21. Nella tradizione samaritana, d’altro lato, la figura angelica ha assunto un ruolo determinante e forse anche decisivo per gli sviluppi gnostici posteriori: cfr. J. E. Fossum, The Name of God and the Angel of the Lord. Samraritan and Jewish Concepts of Intermediation and the Origin of Gnosticism, J. C. B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1985 (e le mie osservazioni in «Gregorianum» 69[1988], pp. 547-549).
[69] Gli studi che intendono approfondire questa problematica giungono ovviamente a risultati diversi e criticabili, ma hanno per lo meno il merito di far prendere coscienza al teologo di quanto sia complesso il fondamento storico delle loro costruzioni sistematiche, e come la fenomenologia religiosa non rinunci facilmente alle sue acquisizioni più radicate (e più remote). Cfr., oltre a M. Barker, op. cit., anche L. W. Hurtado, One God, One Lord. Early Christian Devotion and Ancient Jewish Monotheism, T. & T. Clark, Edinburgh 21998; R. Bauckham, God Crucified. Monotheism and Christology in the New Testament, Paternoster, Carlisle 1998; C. C. Newman–J. R. Davila-G. S. Lewis (a cura di), The Jewish Roots of Christological Monotheism. Papers from the St. Andrews Conference on the Historical Origins of the Worship of Jesus, Brill, Leiden–Boston–Köln 1999 (e in particolare M. Mach, Concepts of Jewish Monotheism in the Hellenistic Period, pp. 21-42).
[70] Quella che è divenuta una funzione mediatrice apparteneva originariamente ai compiti principali di tutto quanto il pantheon, destinato a reggere le sorti dell’universo: cfr. B. Gladigow, Plenitudo deorum. Fülle der Götter und Ordnung der Welt, in A. Lange–H. Lichtenberger–K. F. D. Römheld (a cura di), Die Dämonen / Demons. Die Dämonologie der israelitisch-jüdischen und frühchristlichen Literatur im Kontext ihrer Umwelt, Mohr Siebeck, Tübingen 2003, pp. 3-22.
[71] Ricordando la famosa opera di E. Peterson (Der Monotheismus als politisches Problem. Ein Beitrag zur Geschichte der politischen Theologie im Imperium Romanum, Jacob Hegner, Leipzig 1935; tr. ital.: Il monoteismo come problema politico, Queriniana, Brescia 1983 [con “editoriale” di Giuseppe Ruggieri]), non si può fare a meno di ripercorrere a grandi linee l’ampio dibattito che ne è scaturito, e che continua tuttora: si veda P. Bettiolo–G. Filoramo (a cura di), Il dio mortale. Teologie politiche tra antico e contemporaneo, Morcelliana, Brescia 2002 (e in relazione alle ascendenze concettuali e storiche, soprattutto G. Caronello, «Perché un concetto così ambiguo?». La critica del monoteismo nel primo Peterson, pp. 349-396; M. Rizzi, «Nel frattempo…»: Osservazioni diverse su genesi e vicenda del Monotheismus als politisches Problem di Erik Peterson, pp. 397-423). Per le ripercussioni più ampie: O. O’Donovan, The Desire of the Nations. Rediscovering the Roots of Political Theology, Cambridge University Press, Cambridge 1996, e le reazioni al volume, soprattutto per l’uso e l’abuso dei fondamenti biblici, con le relative risposte di O’ Donovan, raccolte in C. Bartholomew–J. Caplin–R. Song–A. Wolters (a cura di), A Royal Priesthood? The Use of the Bible Ethically and Politically, Zondervan, Grand Rapids, MI 2003 (per la metodologia e le diverse prospettive di analisi, soprattutto R. W. L. Moberly, The Use of Scripture in The Desire of the Nations, pp. 46-64; J. G. McConville, Law and Monarchy in the Old Testament, pp. 69-88; Ch. Rowland, The Apocalypse and Political Theology, pp. 241-254).