06
JUN
2015

Parrhesia-II. In-depth: «Non in proverbiis sed palam». La parrhesia di Cristo nel commento al Vangelo di Giovanni di Tommaso d’Aquino (Andrea Colli)

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Abstract

There is no one consistent translation of the term parrhesia in the Vulgata. This would seem to create an insurmountable obstacle to the reception of the concept, not so much in the Paleochristian world – still close to Hellenistic influences – but rather in the studia and the universitates studiorum of the 13th Century. Our study of Thomas Aquinas’ biblical commentary shows, however, that the Greek interpretation and use of the term remains crucial, not only in the exegetic field, but also in the construction of some important concepts in medieval philosophical thought. Christ’s three ways of preaching, distinguished by Thomas (in occulto, in proverbiis e palam), thus become a novel point of view from which to reassess his idea of truth and the different ways in which it may be reached.

«NON IN PROVERBIIS SED PALAM». La parrhesia di Cristo nel commento al Vangelo di Giovanni di Tommaso d’Aquino (Andrea Colli) [1]

Il termine parrhesia, apparso per la prima volta nelle tragedie di Euripide e usato in modo piuttosto ricorrente in gran parte della letteratura greca, indica etimologicamente l’atto del «dire-tutto» (pan rēma). Tuttavia, come documenta a più riprese Michel Foucault[2], le sfumature di significato di questo vocabolo sono molteplici: dire-tutto[3] va inteso spesso come dire-la-verità, anzitutto su se stessi, implicando così non solo un orizzonte pubblico, ma anche una dimensione individuale, come sembra suggerire, per esempio, la figura di Socrate[4]. Perciò adoperarsi per offrire una Wirkungsgeschichte, quantomeno parziale, del portato concettuale di questo vocabolo è impresa assai delicata e non priva di rischi ed è lo stesso Foucault, in più occasioni, a porre l’accento sulla perfettibilità cui è inevitabilmente soggetta un’analisi di questo genere. Con tale monito occorre ancor di più fare i conti nel momento in cui si decide di sorprendere le tracce del termine parrhesia o di espressioni verbali affini (parrhesiazomai, parrhesiastes, etc.) in un contesto storico-linguistico differente rispetto a quello greco originario.

L’obiettivo della presente ricerca, infatti, è mostrare la presenza del concetto greco di parrhesia nell’esegesi neotestamentaria di Tommaso d’Aquino, al fine di mostrarne alcune significative implicazioni filosofiche. In questo modo, dunque, non si andrà soltanto a verificare la ricezione del termine in una realtà culturale latino-cristiana, ma in un contesto storico – quello del XIII secolo – profondamente distante da quella grecità, con cui, al contrario, gli autori paleocristiani avevano la possibilità di confrontarsi più facilmente[5].

Dal momento che il termine parrhesia non viene tradotto in modo univoco nella lingua latina, tanto nelle opere pagane quanto in quelle cristiane, è opportuno svelare in via preliminare anche quale sarà il metodo che si intende applicare per raggiungere l’obiettivo stabilito, così da evitare che la ricerca vada a costituirsi soltanto sulla scorta di vaghe suggestioni teoriche tra il portato concettuale del vocabolo greco e qualche riferimento affine contenuto nei testi di Tommaso d’Aquino. L’opera tommasiana che si prenderà specificamente in esame è il Commento al Vangelo di Giovanni. Ciò consentirà di prendere le mosse dalle occorrenze del termine parrhesia nella versione greca delle Scritture, verificarne la traslitterazione nella Vulgata e, quindi, constatare se e come Tommaso abbia, in qualche modo, colto il significato originale del termine. Solo dopo aver compiuto questa preliminare analisi filologica, sarà possibile considerare più ampiamente il pensiero del teologo domenicano, così da scorgere le possibili conseguenze teoriche generate dalla ricezione indiretta del vocabolo e della sfera semantica cui si riferisce.

Forme ed usi della parrhesia nel Vangelo di Giovanni

Nel Nuovo Testamento il termine parrhesia e le sue derivazioni verbali (parrhesiazomai) compaiono complessivamente quaranta volte: una volta nel Vangelo di Marco (8, 32), nove volte in quello di Giovanni (7, 4; 7, 13; 7, 26; 10, 24; 11, 14; 11, 54; 16, 25; 16, 29; 18, 20), dodici volte negli Atti degli Apostoli (2, 29; 4, 13; 4, 29; 4, 31; 9, 27; 9, 28; 13, 46; 14, 3; 18, 26; 19, 8; 26, 26; 28, 31) quattordici volte nelle Lettere di Paolo (2 Cor. 3, 12; 7, 4; Eph. 3, 12; 6, 19; 6, 20; Phil. 1, 20; Col. 2, 15; Thes. 2, 2; 1 Tim. 3, 13; Philem. 8, Hebr. 3, 6; 4, 16; 10, 19; 10, 35) e quattro volte nella prima Lettera di Giovanni (2, 28; 3, 21; 4, 17; 5, 14)[6].

Alcune dirette implicazioni tra l’uso proposto nelle Scritture, soprattutto nei testi paolini, e la tradizione ellenistica sono state messe in evidenza, oltre che da Foucault in una delle ultime lezioni del corso al Collège de France del 1984[7], anche da Giuseppe Scarpat in un saggio del 1964, che prende in esame in modo piuttosto puntiglioso la ricezione della concezione paolina di parrhesia nelle opere dei Padri greci[8]. Pressoché inesistenti, invece, sono gli studi sull’interpretazione del concetto di parrhesia in ambiente cristiano-latino, dal momento che la traduzione dei testi sacri in lingua latina sembra rappresentare un limite invalicabile perché il contenuto concettuale del termine possa avere effettiva influenza in un mondo non-greco. Con il trascorrere dei secoli e, dunque, con il progressivo allontanamento dalla realtà greco-ellenistica che aveva suggerito agli autori o ai traduttori dei testi sacri di servirsi, in alcuni frangenti, di un termine così denso di significato, sembra quasi ovvio arrivare a concludere che il problema del dire-tutto vada gradualmente a perdere tutta la sua originaria ricchezza.

Tuttavia, considerando separatamente le singole traduzioni di parrhesia nella Vulgata, è possibile sì riscontrare un’ambiguità nelle soluzioni proposte, ma non una completa perdita del senso veicolato dal termine greco. L’esegesi offerta da Tommaso d’Aquino nei suoi commenti alle Scritture, in modo particolare il Vangelo di Giovanni, costituisce ulteriore conferma di questa intuizione iniziale.

Ma procediamo con ordine. In primo luogo si concentrerà l’attenzione su un campione circoscritto di esempi, ovvero le occorrenze del termine parrhesia nella pericope giovannea; quindi si andrà ad analizzare, caso per caso, la resa che ne viene offerta nella traduzione latina. Solo al termine di questo studio filologico potremo avvicinarci alle soluzioni interpretative proposte da Tommaso d’Aquino.

Le prime occorrenze del termine sono contenute nel settimo capitolo dell’opera e descrivono – pur secondo angolature differenti – la dimensione pubblica della predicazione di Cristo:

ἔργα ἃ ποιεῖς· οὐδεὶς γάρ τι ἐν κρυπτῷ ποιεῖ καὶ ζητεῖ αὐτὸς ἐν παρρησίᾳ εἶναι. εἰ ταῦτα ποιεῖς, φανέρωσον σεαυτὸν τῷ κόσμῳ[9]. nemo quippe in occulto quid facit et quaerit ipse in palam esse si haec facis manifesta te ipsum mundo.

 

οὐδεὶς μέντοι παρρησίᾳ ἐλάλει περὶ αὐτοῦ διὰ τὸν φόβον τῶν Ἰουδαίων[10] Nemo tamen palam loquebatur de illo propter metum Iudaeorum

 

Ἔλεγον οὖν τινες ἐκ τῶν Ἱεροσολυμιτῶν, Οὐχ οὗτός ἐστιν ὃν ζητοῦσιν ἀποκτεῖναι; καὶ ἴδε παρρησίᾳ λαλεῖ καὶ οὐδὲν αὐτῷ λέγουσιν. μήποτε ἀληθῶς ἔγνωσαν[11] dicebant ergo quidam ex Hierosolymis nonne hic est quem quaerunt interficere et ecce palam loquitur et nihil ei dicunt numquid vere cognoverunt principes quia hic est Christus

Nel primo passo si allude all’invito, rivolto a Gesù, ad andare a Gerusalemme per manifestare pubblicamente il suo insegnamento e il sostantivo parrhesia è tradotto con l’avverbio latino palam, scelta che viene operata anche nel secondo e nel terzo caso dove si allude prima al timore di parlare pubblicamente di quanto Cristo stava predicando, poi al fatto che egli continua ad annunciare il Vangelo, pur essendo consapevole dei rischi che questo potrebbe comportargli.

Nel decimo capitolo, invece, il contesto di utilizzo del termine cambia. Il redattore greco se ne serve per riportare un interrogativo che i Giudei rivolgono, in più occasioni, a Gesù: «Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente».

οἱ Ἰουδαῖοι καὶ ἔλεγον αὐτῷ, Ἕως πότε τὴν ψυχὴν ἡμῶν αἴρεις; εἰ σὺ εἶ ὁ Χριστός, εἰπὲ ἡμῖν παρρησίᾳ[12]. circumdederunt ergo eum Iudaei et dicebant ei quousque animam nostram tollis si tu es Christus dic nobis palam

Come nei tre casi precedenti, il traduttore latino sceglie di rendere parrhesia con palam, cercando, forse, di salvaguardare una certa uniformità nella resa letterale. Ciò tuttavia viene fatto a discapito di un’effettiva distinzione dei significati che il termine assume nei due differenti contesti. Si tornerà in seguito con maggior insistenza su questa ambiguità, per ora basti sottolineare come il dire-apertamente invocato dai Giudei non può essere considerato alla stessa stregua di un semplice dire-pubblicamente, dal momento che il Cristo, come documentato negli esempi precedenti, non sembra avere alcuna remora a predicare in pubblico tantomeno a fare affermazioni sulla sua persona, come quella che i suoi accusatori gli chiedono di ripetere. Perciò è plausibile – come noterà Tommaso d’Aquino – che, in questo caso specifico, la nozione di parrhesia alluda a implicazioni interpretative che eccedono la semplice affermazione pubblica di una verità scomoda al potere costituito.

Nel capitolo undicesimo il sostantivo parrhesia è impiegato in due contesti distinti e non è un caso che il traduttore scelga opportunamente di renderlo in latino secondo due modalità differenti.

τότε οὖν εἶπεν αὐτοῖς ὁ Ἰησοῦς παρρησίᾳ, Λάζαρος ἀπέθανεν[13] tunc ergo dixit eis Iesus manifeste Lazarus mortuus est
Ὁ οὖν Ἰησοῦς οὐκέτι παρρησίᾳ περιεπάτει ἐν τοῖς Ἰουδαίοις, ἀλλὰ ἀπῆλθεν ἐκεῖθεν εἰς τὴν χώραν ἐγγὺς[14] Iesus ergo iam non in palam ambulabat apud Iudaeos sed abiit in regionem iuxta desertum

Nel primo caso viene riportato il dialogo tra Gesù e i suoi discepoli in occasione della morte di Lazzaro. In modo difficilmente comprensibile l’evangelista puntualizza che Gesù annuncia la morte del suo amico e conoscente con parrhesia, cioè «apertamente». La Vulgata in questo caso non opta per palam, ma si serve dell’avverbio manifeste, scelta che effettivamente sembra mostrare l’imbarazzo del traduttore nel dover rendere il termine parrhesia che, in questo caso, ha poco da spartire sia con la dimensione pubblica della predicazione di Cristo che con la sua epifania. Nel secondo caso l’uso è, invece, in perfetta continuità con quello proposto in alcuni dei passi precedenti: per descrivere la funzione pubblica della predicazione di Cristo, infatti, il sostantivo greco viene tradotto con l’avverbio palam.

Il capitolo sedicesimo del Vangelo di Giovanni è particolarmente decisivo per acquisire una chiave di lettura più completa a proposito della funzione svolta dalla nozione di parrhesia, e non è un caso che proprio su due passi di questo capitolo si soffermi più approfonditamente anche Tommaso d’Aquino, spendendosi non solo per risolvere interrogativi di natura esegetica, ma anche per porre l’accento su problemi di natura filosofica. Si tratta di due versetti contenuti nel cosiddetto «testamento di Cristo», pronunciato in presenza degli apostoli durante l’Ultima cena.

Ταῦτα ἐν παροιμίαις λελάληκα ὑμῖν· ἔρχεται ὥρα ὅτε οὐκέτι ἐν παροιμίαις λαλήσω ὑμῖν ἀλλὰ παρρησίᾳ περὶ τοῦ πατρὸς ἀπαγγελῶ ὑμῖν[15]. haec in proverbiis locutus sum vobis venit hora cum iam non in proverbiis loquar vobis sed palam de Patre adnuntiabo vobis
Λέγουσιν οἱ μαθηταὶ αὐτοῦ, Ἴδε νῦν ἐν παρρησίᾳ λαλεῖς, καὶ παροιμίαν οὐδεμίαν λέγεις[16]. dicunt ei discipuli eius ecce nunc palam loqueris et proverbium nullum dicis

In entrambi i casi parrhesia è tradotto con palam, tuttavia è piuttosto evidente come il cuore del problema non sia in questo caso il parlare-pubblico di Cristo, ma una nuova modalità che il Messia ha di parlare di sé e del Padre. Per questa ragione il parlare-apertamente è messo in contrasto con il precedente parlare in proverbiis, modalità che allude comunque al dire-apertamente in pubblico, ma in parabole. L’elemento caratterizzante, dunque, di questo particolare uso della parrhesia non risiede tanto nella manifestazione pubblica della predicazione di Cristo, bensì nella natura stessa dell’atto parresiastico. A questo proposito l’ultima citazione del termine parrhesia contenuta nel vangelo di Giovanni offre un’ulteriore conferma della bontà di questa distinzione.

ἀπεκρίθη αὐτῷ Ἰησοῦς, Ἐγὼ παρρησίᾳ λελάληκα τῷ κόσμῳ· ἐγὼ πάντοτε ἐδίδαξα ἐν συναγωγῇ καὶ ἐν τῷ ἱερῷ, ὅπου πάντες οἱ Ἰουδαῖοι συνέρχονται, καὶ ἐν κρυπτῷ ἐλάλησα οὐδέν[17] respondit ei Iesus ego palam locutus sum mundo ego semper docui in synagoga et in templo quo omnes Iudaei conveniunt et in occulto locutus sum nihil

Si sono infatti individuate due prospettive entro cui leggere il multiforme vocabolo greco: da un lato, certamente, si ha un richiamo al dire-tutto pubblicamente, dall’altro, invece, a dire-la-verità-di-sé, significato che non corrisponde immediatamente all’etimologia del sostantivo, ma cui si riferiscono in modo ricorrente moltissimi autori greci di età ellenistica. Per questo è plausibile che, anche in quest’ultima occorrenza del termine, né Cristo né i suoi accusatori stiano facendo riferimento semplicemente alla dimensione pubblica della dottrina cristiana: sebbene, infatti, la forma dell’interrogatorio possa lasciar intendere che i Giudei avessero bisogno di altri argomenti per condannare l’accusato, è probabile che il parlare-apertamente, cui Gesù allude, si ricolleghi, ancora una volta, al dire-la-verità-di-sé, come sembra suggerire anche la continua dialettica con il «restare nascosto» (in occulto).

A partire da queste nove occorrenze del termine parrhesia e dalle sue relative rese in lingua latina occorre ora considerare l’esegesi che ne propone Tommaso d’Aquino, così da poter tematizzare con maggior attenzione tutte quelle problematiche che già emergono a una prima lettura dei passi evangelici in questione, verificando le soluzioni interpretative tommasiane e le implicazioni teoriche che ne conseguono.

Caratteri della parrhesia evangelica secondo Tommaso d’Aquino

Il Commento al Vangelo di Giovanni viene redatto da Tommaso d’Aquino durante il secondo soggiorno a Parigi, pertanto tra il 1270 e il 1272. Il testo è quasi certamente una reportatio delle lezioni tommasiane che Adenulfo d’Anagni, prevosto di Saint-Omer, commissionò a Reginaldo da Piperno, segretario personale del teologo domenicano, che avrebbe poi corretto, se non addirittura riscritto personalmente alcune parti dell’opera prima della sua diffusione[18]. Si tratta di un vero e proprio commento esegetico, dove attraverso un’accurata divisio textus si può arrivare a isolare passaggi molto brevi del testo. Per questa ragione la Super Evangelium S. Ioannis lectura di Tommaso può costituire un’interessante prospettiva entro cui osservare l’eventuale ricezione del termine parrhesia e dei suoi molteplici significati, dal momento che la scomposizione del testo costringe il pensatore domenicano a fare i conti anche con le singole espressioni utilizzate dal traduttore latino dell’opera.

Ripercorriamo, quindi, alcuni tra i passi evangelici sopraelencati, soffermandoci sulla lettura che ne offre l’Aquinate. A tale scopo l’analisi terrà conto di tre differenti coppie concettuali che emergono nella lettura esegetica tommasiana e che pongono l’avverbio palam – traduzione latina di parrhesia – in relazione, rispettivamente, con le espressioni in occulto, in proverbiis e per aenigmata.

Palam e in occulto

Le occorrenze di parrhesia nel settimo capitolo del Vangelo di Giovanni possono essere interpretate accentuando quella che Foucault definisce «nozione politica» del termine[19], dal momento che il tema fondamentale sembra essere il contrasto tra il parlar-franco di Cristo e il potere costituito. Tuttavia, almeno in due casi, emerge dal testo evangelico un aspetto significativo per comprendere la lettura tommasiana di parrhesia. Infatti ciò a cui alludono i «fratelli» di Gesù, invitandolo a non restare nascosto, ma a predicare «apertamente» (palam) a Gerusalemme[20] è, secondo Tommaso, un atto parresiastico inautentico, quasi dicant: tu quaeris gloriam de his quae facis, et tamen propter timorem abscondis te[21]. Essi si riferiscono certamente alla necessità di dire-tutto pubblicamente, in piena conformità con uno dei significati primi dell’espressione greca, ma lo fanno perché ciò permetterebbe loro di godere, almeno in parte, della gloria umana cui era oggetto il Cristo in quella fase della sua vita: volebant captare gloriam de honore humano, qui Christo exhiberetur a turbis[22]. In questo modo, dunque, la contrapposizione tra palam e in occulto[23] è utilizzata impropriamente, come mostra Tommaso stesso commentando un’altra occorrenza del termine parrhesia nello stesso capitolo del Vangelo:

«Dictum est autem supra, quod Christus ut ostenderet infirmitatem humanae naturae, latenter ascendit ad diem festum; sed ut ostenderet suae divinitatis personam, publice docet in templo, et a persequentibus teneri non potest»[24].

Cristo non si sottrae alla sua missione, rimanendo in occulto, bensì nasconde la sua umanità a vantaggio della parrhesia della sua divinità e dunque della verità di sé: dire-tutto significa dire-il-vero-di-sé, ovvero, in questo caso specifico, manifestare la propria essenza divina. Al contrario l’atto parresiastico, cui alludono i discepoli, sottende un occultamento della vera natura di Cristo e della sua predicazione e costringerebbe il parresiasta a prendere le distanze da ciò che dice e, in questo caso particolare, da se stesso in quanto verità incarnata. Essi innescano, di fatto, un’operazione diametralmente opposta a quella relazione tra «il parlante e ciò che viene detto»[25], che il termine greco sta a significare. Un’effettiva comprensione della parrhesia cristiana deve tener conto della duplice natura del Messia che, per poter dire la verità su se stesso, deve necessariamente asservire la sua umanità alla manifestazione della sua divinità. Perciò la scelta, piuttosto ricorrente nel corso della narrazione evangelica, di ritirarsi in un luogo deserto o di non esporsi «apertamente» per un lungo periodo non mostra la figura di Cristo intenzionata a sottrarsi alla missione conferitagli dal Padre, bensì consapevole che solo nascondendo la sua gloria umana può manifestare, a tempo debito, la sua natura divina. In tal senso, dunque, palam e in occulto non vanno concepiti come due dimensioni antitetiche, bensì come «attori» di una virtuosa relazione tra umano e divino che permette la vera parrhesia di Cristo.

La bontà di questa lettura interpretativa di Tommaso è sostenuta anche dai commenti alle successive occorrenze del termine, che tra l’altro permettono di arricchire di altri elementi la nozione tommasiana di parrhesia evangelica.

Nel decimo capitolo, durante un interrogatorio, i Giudei chiedono a Gesù di manifestarsi «apertamente». è difficile pensare che l’uso di palam sia da riferire alla dimensione pubblica dell’annuncio evangelico, dal momento che, come si è avuto modo di notare anche in precedenza, Cristo aveva avuto numerose occasioni per manifestarsi alla folla. Egli stesso affermerà in un altro interrogatorio, poco prima della morte: «Io ho parlato al mondo apertamente (…) e non ho mai detto nulla di nascosto» (palam locutus sum in occulto locutus sum nihil)[26]. Come precisa Tommaso d’Aquino, la predicazione pubblica di Cristo era stata indiscutibilmente evidente agli occhi di tutti.

«Si ergo discipulis nondum palam locutus fuerat, quomodo palam locutus est mundo? Responsio. Dicendum, quod discipulis nondum loquebatur palam, quia excellentes sententias proponebat; mundo autem locutus est palam, quia publice praedicabat»[27].

è dunque evidente che la richiesta dei Giudei fa riferimento, ancora una volta, a una dimensione più radicale e autentica dell’atto parresiastico: essi alludono a un parlar-franco che renda esplicita la natura di Gesù, dal momento che ciò consentirebbe l’acquisizione immediata di un capo d’accusa con cui condannarlo. Si tratta, dunque, di una posizione che incarna perfettamente quella reazione violenta quasi sempre conseguente al dire-tutto di un parresiasta[28]. Tommaso nota, però, un ulteriore carattere specifico intrinsecamente legato al dire-il-vero-di-sé da parte di Cristo, su cui si tornerà considerando la terza coppia concettuale presa in esame in questo studio:

«Adulatorie loquuntur, volentes per hoc ostendere se desiderare scire veritatem de ipso. Quasi dicat: anima nostra est in suspenso desiderii, quamdiu moestos nos derelinquis? Prov. XIII, 12: spes quae differtur affligit animam. Et ideo, secundo, subiungunt interrogationem, dicentes si tu es Christus, dic nobis palam. Ubi primo attende illorum perversitatem. Nam quia indignantur contra Christum, quod se diceret filium Dei, supra V, 18, non interrogant eum an sit filius Dei, sed dicunt si tu es Christus, dic nobis palam: ut per hoc possent habere materiam accusandi eum ad Pilatum, sicut seditiosum et appetentem regnum, quod erat contra Caesarem, et odiosum Romanis[29]».

Affinché l’atto parresiastico di Cristo si verifichi effettivamente è necessario tener conto del legame intersoggettivo in cui si costituisce. Infatti la parrhesia non si genera unicamente nella relazione tra «il parlante e ciò che egli ha da dire»[30], ma anche nel legame che si istituisce tra parresiasta e il suo uditorio. I Giudei, infatti, sono frequentemente presenti al parlare-franco di Gesù, ciononostante la loro disposizione «adulatoria» vanifica, di fatto, tutta la portata del dire-il-vero-di-sé messianico. La loro reazione dunque non documenta soltanto il rifiuto del potere costituito di accettare l’opinione espressa dal parresiasta, ma denuncia anche un difetto di comprensione vero e proprio. La prova tangibile di come questo legame intersoggettivo sia decisivo per un’adeguata ricezione dell’atto parresiastico di Cristo, sia esso accettato o rifiutato, può essere rinvenuta nel fatto che anche i discepoli di Gesù fraintendono fino all’ultimo il discorso veritativo messianico, come osserva attentamente Tommaso, commentando un dialogo tra Gesù e i suoi discepoli che ha per oggetto proprio le diverse modalità di veridizione e che permette di introdurre la seconda coppia concettuale che emerge nell’esegesi tommasiana della parrhesia evangelica.

Palam e in proverbiis

Nel corso dell’Ultima Cena è proprio il significato dell’avverbio palam a essere oggetto di discussione: Gesù, infatti, lo contrappone al suo modo di esprimersi in similitudini o in parabole (in proverbiis), promettendo ai discepoli che in futuro avrebbero potuto sentir parlare della sua provenienza dal Padre, e quindi della sua natura divina, «apertamente». Nel suo commento Tommaso d’Aquino indugia sulla modalità di conoscenza obscura e metaphorica conseguente al «parlare in parabole», individuando così diversi significati cui Gesù sembra alludere, quando tematizza la contrapposizione tra palam-in proverbiis. Nell’economia dell’analisi che si sta conducendo è bene soffermarsi, in modo particolare, sulla seconda e sulla terza interpretazione offerta da Tommaso:

«Secundus sensus est ut hoc quod dicit haec in proverbiis locutus sum vobis, referatur ad totum quod in hoc Evangelio legitur de doctrina Christi; quod vero dicitur venit hora cum iam non in proverbiis loquar vobis, referatur ad tempus gloriae. Quia enim nunc videmus per speculum et in aenigmate, idcirco haec quae dicuntur nobis de Deo, in proverbiis proponuntur. Sed quia in patria videbimus facie ad faciem, ut dicitur I Cor. XIII, 12, ideo tunc non in proverbiis, sed palam de patre annuntiabitur nobis»[31].

Nella prima interpretazione il rapporto palam-in proverbiis è associato alla coppia concettuale di provenienza paolina in aenigmate-per faciem. Secondo questa lettura, la narrazione evangelica non è una manifestazione parresiastica vera e propria, dal momento che è proprio il parlare parabolico e per similitudine il tratto distintivo di tutta la predicazione di Gesù. I momenti, perlopiù incompresi dal suo uditorio, in cui il Cristo dice la verità di sé, costituiscono, perciò, un’anticipazione di quel palam di cui si potrà godere ad tempus gloriae.

La seconda interpretazione tommasiana, che qui si intende considerare, si richiama, invece, al Commento al Vangelo di Giovanni di Agostino d’Ippona[32], dove la comprensione dell’annuncio palam non viene differita alla fine dei tempi, ma ai quaranta giorni successivi la resurrezione:

«Alius sensus est, secundum Augustinum, ut per hoc quod dicit haec in proverbiis locutus sum, promittat dominus se facturum eos spirituales. Differentia enim haec est inter spiritualem et animalem virum: quia animalis homo verba spiritualia accipit ut proverbia, non quod proverbialiter sint dicta, sed quia mens eius supra corporalia elevari non valens, sunt ei obscura; I Cor. II, 14: animalis homo non percipit ea quae sunt spiritus Dei. Spiritualis autem homo accipit spiritualia ut spiritualia»[33].

Pur essendo significativamente differenti, le due letture esegetiche presentano alcuni caratteri comuni che arricchiscono ulteriormente la nostra descrizione della concezione tommasiana di parrhesia. In entrambe, infatti, l’atto parresiastico non viene descritto semplicemente come una delle differenti modalità di veridizione[34], ma come il vertice di un processo di svelamento di verità che per compiersi effettivamente richiede, da un lato l’abilità pedagogica del parresiasta nel servirsi – in una prima fase della sua predicazione – di un linguaggio parabolico, dall’altro una disposizione al riconoscimento da parte dell’uditore che, solo diventato «uomo spirituale», può effettivamente fruire del parlare-franco di Cristo. In altri termini, nella lettura tommasiana di questi passi evangelici, palam e in proverbiis rappresentano certamente due modalità di veridizione distinte, ma non contrapposte, dal momento che solo una familiarità acquisita col linguaggio metaforico consentirà una disposizione d’animo adeguata a comprendere il parlar-franco di Cristo. Mentre in un’accezione classica della nozione di parrhesia il parlante esprime una verità che l’uditore ha ben chiara e rispetto alla quale reagisce perlopiù violentemente, in quanto toccato nel vivo delle sue convinzioni, in questo caso specifico, non è possibile applicare integralmente questo schema di lettura, dal momento che sembra venir meno proprio la tacita intesa tra il parresiasta e il suo ascoltatore.

L’analogia tra le due relazioni in proverbiis-palam e in aenigmate-per faciem, cui Tommaso fa riferimento nel suo commento, offre ulteriori e significative conferme a proposito dell’essenziale dimensione conoscitiva implicata nell’atto parresiastico, soprattutto perché il pensatore domenicano sceglie volontariamente di rendere interscambiabili gli elementi di queste due coppie concettuali, accostando così a più riprese la locuzione in aenigmate (o per aenigmata), più specifica per la descrizione di una modalità conoscitiva strettamente visiva, e l’avverbio palam, chiamato in causa, finora, per documentare un modo argomentativo verbale. Nella sovrapposizione di questi due differenti «mondi concettuali» Tommaso è certamente favorito dalla polisemia cui è soggetto il vocabolo palam, che non presenta i caratteri così determinati e definiti del sostantivo greco parrhesia; in ogni caso, ciò non esclude a priori l’ipotesi che proprio da questo mescolamento di termini possano essere ricavate alcune ulteriori riflessioni.

Palam e in aenigmate

Nel sedicesimo capitolo del Vangelo di Giovanni il traduttore latino usa interscambiabilmente in proverbiis e per aenigmata, indicando, in questo modo, una relazione esplicita tra quest’ultima locuzione e l’avverbio palam che, come documentato abbondantemente, costituisce la prima scelta per un’adeguata traslitterazione latina dell’espressione greca ἐν παρρησίᾳ. Tuttavia, questa nuova coppia concettuale non rappresenta soltanto una riproposizione di quanto descritto da palam-in proverbiis, ma – almeno nell’interpretazione che ne offre Tommaso d’Aquino – certifica l’esistenza due modi o forme differenti di conoscenza della verità, prospettiva che certamente incide anche sulla lettura della nozione di parrhesia.

La distinzione tra una conoscenza per aenigmata e una palam è analizzata in modo esplicito da Tommaso in quattordici casi: oltre al già citato commento al Vangelo di Giovanni, essa è chiamata in causa due volte nel Commentum super Sententiarum libros, quattro volte nella Summa theologiae, quattro volte nelle Quaestiones disputatae de veritate e tre volte in altri scritti di esegesi biblica[35]. Non è chiaramente possibile soffermarsi analiticamente su ognuno di questi esempi, poiché ciò ci porterebbe a perdere di vista l’obiettivo di questa ricerca; in ogni caso qualche osservazione generale sulle implicazioni gnoseologiche che Tommaso attribuisce a questa coppia concettuale consentirà di aggiungere un ultimo e significativo carattere alla lettura tommasiana della parrhesia evangelica.

Nell’articolo undicesimo della decima quaestio disputata De veritate, Tommaso d’Aquino si interroga sulla possibilità che la mente umana possa conoscere Dio per essentiam in statu viae[36], problema su cui torna anche nella dodicesima quaestio del primo libro della Summa theologiae[37]. In entrambi i casi la risposta si fonda su un presupposto gnoseologico che può essere utile anche alla lettura interpretativa dell’atto parresiastico evangelico: il maestro domenicano, infatti, puntualizza come ogni azione possa essere considerata in due modi: considerandone l’origine in operante o a principio extrinseco[38]. Pertanto la nostra mente non può vedere palam Dio secondo il primo modo, ma solo per l’intervento di un principio estrinseco che ne guidi l’azione. In altri termini, la conoscenza dell’essenza divina non è possibile naturalmente, ma solo per l’infusione di un lumen gloriae da parte di Dio stesso. In tal senso, dunque, vanno lette anche quelle argomentazioni che si riferiscono alla visio Dei palam e non per aenigmata, cui hanno fatto esperienza Mosè e Paolo:

«Et videtur quod sic quia Num. XII, 8, dicit dominus de Moyse: ore ad os loquor ei et palam et non per aenigmata videt Deum. Sed hoc est videre Deum per essentiam, videre scilicet absque aenigmate; ergo cum Moyses adhuc viator esset, videtur quod aliquis in statu viae possit Deum per essentiam videre (…) Ad primum igitur dicendum quod, secundum Augustinum XII Super Genesim ad litteram et Ad Paulinam de videndo Deum, ex verbis illis Moyses ostenditur Deum per essentiam vidisse in quodam raptu, sicut et de Paulo dicitur II Cor. XII, ut in hoc iudaeorum Legifer et Doctor gentium aequarentur»[39].

Questa considerazione, che richiama – come Tommaso stesso indica – una tradizione interpretativa piuttosto consolidata su questo tema, permette di tornare all’azione parresiastica di Cristo, descritta nel Vangelo di Giovanni, avendo a disposizione un altro elemento interpretativo rilevante. Dopo aver puntualizzato come il parlar-franco di Cristo non si riferisca unicamente alla dimensione pubblica della sua predicazione e come l’esprimersi in proverbiis ne costituisca parte integrante, è ora possibile stabilire con maggior chiarezza quale sia il valore conoscitivo dell’atto parresiastico e che ruolo giochi, a questo proposito, la già citata decisiva relazione tra chi parla e chi ascolta.

Rivelando la sua natura e provenienza dal Padre, il Cristo non si sottrae al dovere di dire tutto pubblicamente, tantomeno dall’esprimere la verità di sé e, in questo modo, si attiene a due caratteri fondamentali dell’atto parresiastico classico, ovvero la dimensione strettamente politica dell’azione e quella etico-morale. Tuttavia ciò non esaurisce tutto il significato della parrhesia messianica che, per sua natura, si esprime in tutta la sua pregnanza solo all’interno di un’adeguata sintonia conoscitiva tra chi parla e chi ascolta. In altri termini, si può affermare che il Cristo non esaurisca il suo compito di parresiasta nel dire-tutto, dal momento che la reazione a quanto annuncia non è irrilevante per la completezza dell’atto parresiastico stesso. Da un lato, dunque, è necessario che il parlar-franco sia preparato da un esprimersi in proverbiis o per aenigmata che, in forza di quanto detto finora, può essere ragionevolmente considerato come parte integrante dell’atto parresiastico stesso; se così non fosse, infatti, tra il parresiasta e il suo uditorio persisterebbe un’incomunicabilità insanabile, che di fatto priverebbe di significato la parrhesia stessa. Dall’altro lato è essenziale che la stessa verità espressa dal parresiasta arrivi a determinare il riconoscimento di chi ascolta, rendendolo «uomo spirituale» e quindi adeguato a cogliere il vero manifestato dal Cristo. Parafrasando quanto descritto a proposito dei caratteri gnoseologici della coppia concettuale palam-per aenigmata, si può affermare che nell’atto parresiastico agisca, in modo duplice, il medesimo «principio estrinseco»: non solo infatti chi parla è «altro» rispetto all’uditore, ma anche il riconoscimento da parte di quest’ultimo non avviene naturalmente, ma per mezzo di un lumen infusum originato dalla stessa verità manifestata dal parresiasta.

Per concludere

Sebbene il sostantivo parrhesia non sia recepito in modo diretto da Tommaso d’Aquino, si può sostenere che, almeno per quanto riguarda l’esegesi del Vangelo di Giovanni, il portato concettuale del termine greco sopravviva nelle relazioni che l’avverbio palam instaura con le locuzioni in occulto, in proverbiis e per aenigmata. Considerate, infatti, le osservazioni proposte da Tommaso nel suo commento, risulta evidente una profonda attenzione a non uniformare i significati di queste espressioni e a rintracciarne piuttosto le peculiarità specifiche proprio a vantaggio di una più piena comprensione della parrhesia di Cristo. Allo stesso tempo, però, va detto che nell’effettuare questa operazione, si assiste anche a una ridefinizione dei contorni semantici del vocabolo. La virtuosa relazione tra palam e in occulto, mostra infatti come l’atto parresiastico messianico debba tener conto delle duplice natura di Cristo che non soltanto dice la verità, ma è la verità. In tal senso dunque la sua abilità di parresiasta consiste nel velare e nascondere tutto ciò che potrebbe compromettere l’affermarsi del vero-di-sé, dunque della sua natura divina.

Mentre nella sua etimologia classica il sostantivo parrhesia andava a indicare un modalità di veridizione distinta rispetto alla profezia o alla tecnica retorica, in questo caso, il binomio palam-in proverbiis documenta un allargamento dei confini dell’atto parresiastico. Come si è ricordato ripetutamente, il dire-tutto di Cristo richiede una preparazione pedagogica dell’uditorio, senza la quale non solo risulterebbe incompleto, ma di fatto non potrebbe nemmeno sussistere, dal momento che la dimensione conoscitiva rappresenta uno dei caratteri fondamentali della relazione che si instaura tra chi parla e chi ascolta. In questa prospettiva l’ultima coppia concettuale palam-per aenigmata costituisce la conferma del quadro gnoseologico entro cui va pensato l’atto parresiastico messianico, secondo la lettura che ne offre Tommaso d’Aquino: esiste un’ultima impossibilità strutturale perché l’uditore possa fruire naturalmente della parrhesia di Cristo, pertanto il riconoscimento sarà possibile solo in virtù di una capacità di accoglimento, disposta, di fatto, dal parresiasta stesso.

[1] Il presente studio è stato realizzato nell’ambito del progetto di ricerca «Testi medievali e mappe ontologiche digitali. Il concetto di nobilitas come speculum per una web-analysis delle teorie dell’intelletto del XIII secolo (NOBILITAS)» presentato sul Bando post-doc 2011 (Provincia Autonoma di Trento).

[2] Si vedano tra gli altri M. Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), Feltrinelli, Milano 2009; M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli Editore, Roma 1996; M. Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984), Feltrinelli, Milano 2011.

[3] In corsivo sono riportati i neologismi coniati da Foucault per tradurre in lingua moderna il termine greco parrhesia, presi a prestito in questo studio.

[4] M. Foucault, Il governo di sé e degli altri (1982-1983), Feltrinelli, Milano 2009, p. 100-117.

[5] Questo genere di ricerca è, da un certo punto di vista, pionieristico, dal momento che non esistono studi specifici sulla ricezione del termine parrhesia in un autore del XIII secolo. Lo stesso Foucault, molto attento ad analizzarne la presenza in altre epoche storiche, descrive molto sbrigativamente la figura del parresiasta nel Medioevo, considerando quest’epoca storica come un tutto uniforme e indistinto e facendo riferimento a uno studio, quale Les fanatiques de l’Apocalypse di Cohn, che offre una visione decisamente parziale del problema.

[6] I passi della Scrittura saranno citati, nel testo, secondo la versione greca e la Vulgata latina, in nota, secondo la traduzione italiana proposta dalla CEI nel 2008.

[7] M. Foucault, Il coraggio della verità., cit., p. 178.

[8] G. Scarpat, Parrhesia. Storia del termine e della sue traduzioni in latino, Paideia, Brescia 1964, p. 76-81.

[9] Ioan. 7, 4: «Nessuno infatti, se vuole essere riconosciuto pubblicamente, agisce di nascosto. Se fai queste cose, manifesta te stesso al mondo!»

[10] Ioan. 7, 13: «Nessuno però parlava di lui in pubblico, per paura dei Giudei.»

[11] Ioan. 7, 26: «Ecco, egli parla liberamente, eppure non gli dicono nulla. I capi hanno forse riconosciuto davvero che egli è il Cristo?»

[12] Ioan. 10, 24: «Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: “Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente”».

[13] Ioan. 11, 14: «Allora Gesù disse loro apertamente: “Lazzaro è morto (…)”»

[14] Ioan. 11, 54: «Gesù dunque non andava più in pubblico tra i Giudei, ma da lì si ritirò nella regione vicina al deserto, in una città chiamata Èfraim, dove rimase con i discepoli.»

[15] Ioan. 16, 25: «Queste cose ve le ho dette in modo velato, ma viene l’ora in cui non vi parlerò più in modo velato e apertamente vi parlerò del Padre.»

[16] Ioan. 16, 29: «Gli dicono i suoi discepoli: “Ecco, ora parli apertamente e non più in modo velato. (…)”»

[17] Ioan. 18, 20: «Gesù gli rispose: “Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto. (…)”»

[18] R. Ferri, Gesù e la verità. Agostino e Tommaso interpreti del Vangelo di Giovanni, Città Nuova, Roma 2007, p. 115.

[19] M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 20.

[20] Ioan. 7, 4.

[21] Thomas Aquinas, Super Evangelium S. Ioannis Lectura, VII, l. 1, 1016, Marietti, Roma 1952, p. 192, tr. it. di T. Centi, vol. 2, Città Nuova, Roma 1992, p. 23: «(…) come per dire: Tu cerchi la gloria per le cose che fai, e tuttavia per paura ti nascondi.»

[22] Ibidem: «(…) volevano ricavare un po’ di gloria dall’onore umano che a Cristo veniva tributato dalla gente.»

[23] In questo caso non è utilizzato in occulto, ma l’espressione absconditis te rende il medesimo stato di cose.

[24] Thomas Aquinas, Super Evangelium S. Ioannis Lectura, VII, l. 3, 1052, cit., p. 200, tr. it. cit., vol. 2, p. 42-43: «Abbiamo già detto sopra che Cristo, per mostrare l’infermità della sua natura umana volle accedere nascostamente alla festa; e per mostrare la Divinità della sua persona volle insegnare pubblicamente nel tempio impedendo ai suoi persecutori di arrestarlo.»

[25] M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, cit., p. 4.

[26] Ioan. 18, 20: v. nota 16.

[27] Thomas Aquinas, Super Evangelium S. Ioannis Lectura, XVIII, l. 3, 2314, cit., p. 433, tr. it. cit., vol. 3, , p. 306: «Ancora egli non aveva parlato apertamente ai discepoli, perché aveva loro da proporre sentenze sublimi; ma aveva parlato apertamente al mondo, perché aveva predicato in pubblico.»

[28] M. Foucault, Il coraggio della verità. cit., p. 36-37.

[29] Thomas Aquinas, Super Evangelium S. Ioannis Lectura, X, l. 5, 1439, cit., p. 268, tr. it. cit., vol. 2, p. 221: «Parlano così in tono adulatorio, volendo mostrare con tale domanda che essi desideravano conoscere la verità sul conto suo: L’animo nostro nel suo desiderio è sospeso; fino a quando ci lasci così nell’angoscia? “La speranza differita affligge l’animo”, dicono i Proverbi (13, 12). Ed ecco che in secondo luogo aggiungono la loro interrogazione: “Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente”. E in essa si deve notare anzitutto la loro malvagità. Infatti, pur essendo indignati contro Cristo, perché egli si dichiarava Figlio di Dio, non gli chiedono se sia il Figlio di Dio; ma domandano: “Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente”; perché così potevano aver materia per accusarlo di fronte a Pilato, come sedizioso e aspirante al regno; il che era contro Cesare e odioso ai romani.»

[30] v. nota 24.

[31] Thomas Aquinas, Super Evangelium S. Ioannis Lectura, XVI, l. 7, 2150, cit., p. 405, tr. it. cit., vol. 3, p. 236: «Il secondo significato della frase: “Queste cose ve le ho dette in proverbi”, è nel senso che essa va riferita a tutto il contenuto di questo Vangelo circa l’insegnamento di Cristo; mentre la frase che segue (“verrà l’ora in cui non vi parlerò più in proverbi”) va riferita al tempo della gloria. Infatti adesso noi vediamo attraverso uno specchio e in enigma, cosicché le verità a noi comunicate da Dio sono proposte come sotto forma di proverbi. E poiché nella patria lo vedremo faccia a faccia, come è detto in 1 Cor 13, 12, allora non più in proverbi, bensì apertamente si parlerà a noi del Padre.»

[32] Augustinus, In Iohannis Evangelium Tractatus, CII, 4 (CCL 36, 596).

[33] Thomas Aquinas, Super Evangelium S. Ioannis Lectura, XVI, l. 7, 2150, cit., p. 405-406, tr. it. cit., vol. 3, p. 237: «La seconda spiegazione, dovuta a sant’Agostino, è questa: con la frase suddetta (“Queste cose ve le ho dette in proverbi…”) il Signore intese promettere ai discepoli di renderli uomini spirituali. Questa infatti è la differenza tra l’uomo spirituale e quello animale, che l’uomo animale prende le parole spirituali come se si trattasse di proverbi. Non perché siano locuzioni proverbiali, o paraboliche, ma perché non sapendo egli elevarsi al di sopra delle cose materiali, quelle gli rimangono oscure. Vedi 1 Cor 2, 14: “L’uomo animale non capisce le cose dello Spirito di Dio”. Invece l’uomo spirituale prende le cose spirituali come realtà spirituali.»

[34] M. Foucault, Il coraggio della verità, cit., p. 37-38.

[35] Thomas Aquinas, Scriptum super libros Sententiarum magistri Petri Lombardi episcopi Parisiensis, 4 d. 49 q. 2 a. 7 arg. 4. ed. P. Mandonnet, M. Moos, Parisiis, P. Lethielleux, 1929-1947, p. 1209-1210 ; Summa Theologiae I, q. 12 a. 11 arg. 2, ed. leon., p. 134; II-II, q. 174 a. 4 co., p. 397; III, q. 7 a. 8 arg. 1., p. 115; III, q. 7 a. 8 ad 1, p. 115; De veritate, q. 10 a. 11 arg. 1, ed. leon., p. 333; q. 12 a. 7 co., p. 391; q. 12 a. 14 co., p. 413-414; q. 13 a. 2 co, p. 420-421; Super Iob., cap. 4., ed. leon., p. 29-30; Super Psalmos 50, n. 4. ; Super II Cor., cap. 12 l. 1, ed. leon., p. 378.

[36] Thomas Aquinas, De veritate, q. 10 a. 11, ed. leon., p. 333-338.

[37] Thomas Aquinas, Summa Theologiae I, q. 12, a. 11, ed. leon., p. 134-136.

[38] Thomas Aquinas, De veritate, q. 10 a. 11, ed. leon., p. 335-336.

[39] Thomas Aquinas, De veritate, q. 10 a. 11, ed. leon., p. 333, 336 ; tr. it. F. Fiorentino, Bompiani, Milano 2005, p. 839, 845: «E sembra di sì, poiché nel cap. 12 dei Numeri dice il Signore di Mosè : «Parlo chiaramente con lui bocca a bocca e non vede Dio per enigmi; dunque dato che Mosè era ancora in vita, sembra che uno, nello stato della vita presente, possa vedere Dio per essenza. (…) Alla prima, dunque, bisogna rispondere che, secondo [quanto dice] Agostino nel libro XII del Commento letterale alla Genesi e nella lettera a Paolo, sulla visione di Dio, in base a quelle parole si dimostra che Mosè abbia visto Dio in un certo rapimento, com’è detto anche di Paolo nel cap. 12 della Seconda lettera ai Corinzi, affinché in ciò fossero uguali il Legislatore degli ebrei e il Dottore delle genti.»