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This paper encapsulates the Evangelical theologian Dietrich Bonhoeffer’s reasons for working with the anti-Nazi resistance in Germany and, when arrested and tortured, hiding his own position. This dissimulation is understood as an example of renouncing parrhesia, for which Bonhoeffer offers a justification, particularly in the essay What is meant by telling the truth? (1943). The thesis of this essay is situated within the context of Bonhoeffer’s ethical thought, focussed particularly on the concept of responsibility, and is compared with a clearly opposing theory, that of Kant. The paper concludes by demonstrating the tensions created within Bonhoeffer’s theological thought by the renouncing of parrhesia and the way in which this distances his attitude from that of a martyr.
Nell’aprile del 1943 il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer fu rinchiuso nella prigione militare di Tegel, nei sobborghi di Berlino, con l’accusa di aver commesso, come membro della Abwehr, ovvero del Servizio segreto militare, diversi atti illegali.[1] Nella Abwehr Bonhoeffer era stato introdotto tre anni prima dal cognato Hans von Dohnanyi, il quale apparteneva alla sezione centrale del servizio diretta da Hans Oster, una delle figure di maggiore rilievo della resistenza a Hitler assieme a quella dell’ammiraglio Canaris. L’entrata nella Abwehr aveva permesso a Bonhoeffer, da una parte, di evitare la chiamata alle armi grazie all’esonero militare, dall’altra di aggirare il divieto di parlare in pubblico e l’obbligo di comunicare i propri spostamenti alla polizia, divieto e obbligo in cui egli era incorso nel 1940 durante l’attività di visitatore che egli compiva nei seminari della Chiesa confessante. La giustificazione ufficiale apportata per l’ingresso di Bonhoeffer nella Abwehr erano i numerosi contatti internazionali sviluppati durante gli anni Trenta all’interno del movimento ecumenico e la possibilità di sfruttarli per riportare notizie dall’estero. In realtà, il suo compito era, sì, di sfruttare i suoi contatti internazionali, ma per dare all’estero segnali della presenza di una resistenza tedesca, e così tentare di smentire l’idea diffusi in molti ambienti di una perfetta identità tra la Germania e il nazismo, cercando appoggi per essa. Bonhoeffer, dunque, era a tutti gli effetti nella posizione di chi faceva il doppio gioco.
Quanto l’adesione di Bonhoeffer alla resistenza, almeno nella sua fase iniziale, sia stata voluta coscientemente e altrettanto coscientemente realizzata è questione non del tutto chiara: i motivi immediati che hanno spinto Bonhoeffer ad entrare nella Abwehr, come abbiamo detto, sembrano essere stati i vantaggi di poter continuare a svolgere in relativa libertà la sua attività pastorale nella Chiesa confessante; se questi motivi fossero stati quelli preponderanti, allora più che di un’esplicita adesione alla resistenza si dovrebbe parlare di quest’ultima come conseguenza di una scelta dettata principalmente dal desiderio di continuare a svolgere il proprio compito di teologo e di pastore per la Chiesa confessante: d’altra parte, la posizione di Bonhoeffer in seno a quest’ultima era divenuta scomoda. Molte decisioni di quest’ultima – fra le quali quella di lasciare libertà nella questione del giuramento di fedeltà al regime nazista, di rimanere silente di fronte alla persecuzione degli ebrei e, almeno per una sua parte, di intraprendere la strada della legalizzazione di fronte al regime – avevano deluso profondamente Bonhoeffer e lo avevano indotto ad un atteggiamento critico. A questa delusione nei confronti della Chiesa confessante è da far risalire la decisione di Bonhoeffer, nel 1939, di trovare rifugio negli Stati Uniti, decisione drammaticamente revocata nel giro di pochi giorni. In questa inerzia della Chiesa confessante, così come di gran parte del popolo tedesco, Bonhoeffer avvertì chiaramente, come egli scrive nel saggio Dieci anni dopo, del 1943,[2] il celarsi di una molteplicità di opzioni etiche (tra le quali il fanatismo dei principi, il mero legalismo, il rifugio nella virtù privata) che non coglievano la gravità del pervertimento morale prodotto dal nazismo e rappresentavano, in ultimo, una forma di capitolazione di fronte ad esso.
In questo saggio, com’è noto, Bonhoeffer mette in luce la rilevanza etica della categoria del «successo», scrivendo che «alla fine, il successo fa la storia. E al di sopra degli uomini che fanno al storia, colui che conduce il corso sa sempre trarre il bene dal male. Ignorare semplicemente il valore etico del successo è un cortocircuito degno di un cavaliere dell’ideale che pensa in modo astorico, cioè non responsabile».[3] Queste considerazioni suonano certamente come una giustificazione retrospettiva della scelta compiuta, ma è certo che l’adesione di Bonhoeffer ai circoli della resistenza tedesca non deve essere stata priva di conflitti interiori, considerato il suo sincero impegno per il pacifismo negli anni Trenta, l’apprezzamento per i metodi non violenti della lotta politica di Gandhi, presso il quale, com’è noto, Bonhoeffer aveva progettato di soggiornare per un periodo in India, e considerata soprattutto la tesi che egli sosteneva ancora pochi anni prima in Sequela (1936). Qui egli scriveva, commentando il Discorso sulla montagna, che «il male cessa se noi lo sopportiamo senza difenderci» e che «il patire volontario è più forte del male, è la sua morte», aggiungendo infine, a mo’ di ammonizione, che «quanto più terribile è il male, tanto più disponibile a soffrire deve essere il discepolo».[4] Di fronte a queste pagine qualche interprete ha visto in ultimo un «mistero» nella scelta di Bonhoeffer a favore della resistenza armata;[5] è probabile, però, che semplicemente Bonhoeffer abbia cambiato idea, ritenendo che in una situazione di totale sconvolgimento morale come quella in cui si trovava la Germania sotto il nazismo un atteggiamento del genere non fosse responsabile. «Responsabilità» risulta, infatti, la nozione-chiave dell’etica di Bonhoeffer mediante la quale egli rigetta, per usare una terminologia weberiana da lui peraltro esplicitatamente richiamata, un’etica dell’intenzione volta soltanto ai principi e paga della propria coerenza, ma ignara delle conseguente pratiche e per questo alla fin fine disumana. Se così fosse, si potrebbe pensare che per Bonhoeffer il Discorso della montagna offrirebbe indicazioni valide soltanto in una condizione di «normalità» etica, ma non in una condizione di assoluta eccezionalità come quella che viveva la sua epoca storica. Si tratterebbe, tuttavia, di una conclusione certamente problematica dal punto di vista teologico.
Comunque stiano le cose a questo proposito, se si dovesse giudicare l’attività cospiratoria di Bonhoeffer sulla base dei successi ottenuti, il bilancio sarebbe sicuramente modesto, se non addirittura fallimentare; nel corso dei suoi diversi viaggi all’estero negli anni 1941-1942 (in Svizzera, in Svezia, in Italia) egli dovette infatti constatare la diffidenza che si nutriva nei confronti della resistenza tedesca a Hitler, considerata per un verso debole e per l’altro desiderosa non tanto di far cadere il regime nazista ma di fermare la guerra a condizioni non troppo gravose per la Germania. L’unico successo concreto di questa attività fu la compartecipazione di Bonhoeffer a far riparare in Svizzera un gruppo di ebrei nel corso di uno dei suoi viaggi in quel paese.
Fu proprio questa accusa, assieme a quella di aver voluto evitare il servizio militare e di essersi sottratto ai controlli della polizia, a determinare l’arresto di Bonhoeffer nel 1943, arresto che rientrava, peraltro, all’interno di un disegno più vasto da parte di Himmler di limitare l’autonomia della Abwehr a favore dell’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich. Superato il primo impatto con la vita carceraria, Bonhoeffer, grazie anche all’influsso della famiglia, riuscì a creare in carcere condizioni non proibitive per il lavoro intellettuale al quale egli continuò a dedicarsi, dovendo però rispondere nel frattempo agli interrogatori del procuratore del tribunale militare Manfred Roeder. Nel corso di questi interrogatori preparatori ad un processo che non si tenne mai (tale infatti non può dirsi quello sommario che lo condannò a morte nel 1945), Bonhoeffer, coerentemente con la scelta della cospirazione, mascherò la situazione effettiva, seguendo una duplice strategia: per un verso dichiarandosi incompetente a rispondere ai quesiti posti e demandando la risposta ai suoi superiori, per l’altro evocando la propria lealtà verso lo Stato.
Questa strategia difensiva equivaleva a tutti gli effetti ad una rinuncia alla parrhesia, e questo nei molti sensi che tale termine possiede e che sono ben indicati da M. Foucault in uno dei suoi contributi sul tema:[6] Bonhoeffer, infatti, rinunciò 1) a parlare chiaro, cioè ad esprimere chiaramente la sua personale posizione; 2) a dire la verità e così ad affrontare il pericolo che essa avrebbe comportato; 3) a rivolgere una critica al proprio interlocutore verso il quale era in una condizione di inferiorità. Bonhoeffer sentì tuttavia il bisogno di giustificare teoricamente questa scelta che lo metteva in una condizione certamente non agevole. È in questo contesto che egli redasse il frammento di un saggio dal titolo Che cosa significa dire la verità, che è qui oggetto in particolare della nostra attenzione.[7]
La tesi fondamentale che guida lo scritto è l’idea che il dire la verità non è un dovere incondizionato, ma dipende dai rapporti umani in cui tale atto viene a collocarsi. Secondo l’esempio di Bonhoeffer, mentre un bambino ha il dovere di rivelare tutto ai genitori, non vale la cosa contraria. Se si sollevasse l’obiezione, scontata per un teologo, che questo dovere non dipende dalla circostanze, bensì si fonda sulla volontà di Dio, allora, per Bonhoeffer, si deve tener conto che Dio non è un «principio generale», ma appunto «il Dio che in Gesù Cristo è entrato nel mondo». Per questo motivo «la veridicità delle nostre parole, dovuta a Dio, deve assumere forma concreta nel mondo», poiché «una veridicità non concreta non è affatto veritiera davanti a Dio».[8] Con questa osservazione Bonhoeffer inserisce l’atto del dire la verità entro il campo di tensione tra un’etica della responsabilità e un’etica dei principi o dell’intenzione. Per la prima dire la verità è qualcosa che va appreso nel rapporto con la realtà e implica il problema di esprimere il reale con le parole giuste di volta in volta; per la seconda dire la verità è un dovere formale, a cui non venire mai meno. Ma, appunto, la parola conforme in modo astratto alla verità può in certe circostanze andare contro la realtà e divenire menzognera. Si tratta della verità del cinico che per mezzo di essa distrugge i rapporti personali, una verità che, in fondo, osserva Bonhoeffer, è «satanica», poiché «sotto l’apparenza della verità, nega tutto ciò che è reale».[9]
Ma che cosa significa più precisamente la contrapposizione fra una verità astratta e una concreta che Bonhoeffer qui istituisce? La concezione di verità che egli presuppone sembra quella classica, ovvero quella che intende la verità come la corrispondenza tra i nostri pensieri e le nostre parole e la realtà. Secondo questa concezione, se una parola è vera, non è mai astratta, ma di principio concreta, cioè corrispondente al reale. La contrapposizione astratto/concreto non sembra dunque risolutiva e la questione deve essere considerata a partire da un’altra prospettiva. La prospettiva che Bonhoeffer suggerisce è quella che distingue diversi ambiti del reale, a ciascuno dei quali compete una certa verità. Nell’esempio che Bonhoeffer fa, il bambino che alla domanda del maestro in classe riguardante il fatto se il padre sia o meno un ubriacone risponde di no, nonostante che il padre lo sia, sta dicendo una bugia e tuttavia, afferma Bonhoeffer, «questa bugia contiene (…) più verità – ossia è più adeguata alla realtà – che se il bambino avesse ammesso la debolezza di suo padre davanti alla classe».[10] Ciò che Bonhoeffer sostiene è dunque che, in questo caso, la maggiore adeguatezza alla realtà non dipenderebbe dalla corrispondenza ad un fatto, ma dal rispetto del segreto familiare e dalla necessità di salvaguardarlo da un’indebita intrusione. Il bambino corrisponderebbe meglio alla realtà della propria famiglia, sarebbe quindi veritiero, dicendo una bugia.
Questa posizione è confermata dal significato che Bonhoeffer dà alla bugia o alla menzogna. Quest’ultima non è soltanto la consapevole contraddizione tra ciò che si dice e ciò che si ritiene vero, come risulta dal fatto che menzognera può essere la verità pronunciata una tantum da un noto imbroglione proprio con il proposito di ingannare, così come menzognero può essere il silenzio intenzionale su un certo fatto che si intende coprire. La menzogna dipende piuttosto, secondo Bonhoeffer, dalla persona che la pronuncia, ovvero dall’intenzione di negare e distruggere consapevolmente e volontariamente la realtà. Ora, poiché il reale, appunto, non è «un tutto unitario», ma presenta «diversi ordini», la parola veritiera deve tenere conto di questa diversità ma al tempo stesso deve anche ambire a superare la divisione che, nella condizione di peccato, si genera fra questi ordini. La verità del cinico che mette allo scoperto un aspetto del reale senza rispetto per gli altri, ignora la «totalità della realtà, e proprio così distrugge completamente il reale e la sua parola diventa non-vera, anche se essa ha l’apparenza superficiale dell’esattezza».[11] Così, da una parte i diversi ordini del reale devono essere riconosciuti per quello che sono, dall’altra la loro autonomia non giustifica una separazione o astrazione dalla totalità del reale. L’atto del dire la verità è dunque preso in questa dialettica tra particolarismo e universalismo, ignorando la quale esso diviene irresponsabile.
Fra i diversi punti da mettere in rilievo di questo saggio ve ne è uno che ha a che fare in modo particolare con la situazione concreta in cui Bonhoeffer si trovava scrivendolo e che è rilevante per il nostro tema. Si tratta del punto in cui egli, rifiutando di limitare il significato della menzogna alla contraddizione tra il pensare e il dire con cui si opera un consapevole inganno dell’altro, fa l’esempio dell’inganno dell’avversario in guerra. Un tale comportamento non è da giudicare affatto come un inganno, perché in questo caso, afferma Bonhoeffer, «la menzogna riceve (…) una consacrazione e giustificazione morale che contraddice il suo concetto in ogni modo».[12] Al contrario, pensare che lo sia porterebbe a posizioni assurde, come quella, osserva Bonhoeffer, sostenuta da Kant, il quale riteneva che qualcuno debba dire la verità anche ad un criminale che cercasse un amico rifugiato presso di lui per ucciderlo.[13]
Conviene approfondire questo rimando a Kant, considerato che la tesi di Kant è diametralmente opposta a quella di Bonhoeffer e può forse chiarire, per contrasto, quest’ultima. La tesi per la quale il dovere di dire la verità è incondizionato è sostenuta da Kant in vari luoghi della sua opera, ma lo scritto a cui Bonhoeffer si riferisce è probabilmente quello del 1797 dal titolo Sopra un preteso diritto di mentire per amore dell’umanità.[14] In esso Kant polemizza contro la tesi espressa da Benjamin Constant, il quale in uno scritto dell’anno precedente, riferendosi proprio a Kant, aveva affermato che il dovere di dire la verità, «se fosse inteso incondizionatamente e senza distinzione, renderebbe impossibile qualsiasi società». Constant motivava questo asserto stabilendo la necessità della relazione tra un dovere e il corrispettivo diritto e sostenendo che «là dove non vi è alcun diritto, non si dà nessun dovere. Dire la verità è un dovere verso chi ha un diritto alla verità. Ma nessun uomo ha un diritto a una verità che danneggia altri». Kant rifiuta recisamente questa correlazione tra il dovere di dire la verità e un diritto alla verità, sostenendo che la veridicità delle asserzioni è «un dovere formale dell’uomo verso tutti»,[15] ovvero un «dovere incondizionato, che vale per tutti i rapporti»[16] e che qualora si venga meno ad esso il danno esiste sempre, non verso quello o quell’altro uomo, bensì verso «l’umanità in generale». La menzogna, infatti, «avvelena la fonte stessa del diritto». A ciò Kant aggiunge il fatto che l’amico, nell’esempio sopra riportato, subisce, sì, un danno, ma di questo non deve essere considerato responsabile colui che svela la verità all’omicida; una responsabilità esisterebbe se egli fosse libero di scegliere, ovvero di dire o non dire la verità, ma qui egli «non è libero di scegliere, perché la veridicità (…) è un dovere incondizionato»;[17] il danno all’amico, come dice Kant, viene dunque dal caso, cioè dalla circostanza da lui non voluta e nemmeno evitabile che esista qualcuno che sta cercando l’amico per ucciderlo. Questa aggiunta conduce senz’altro Kant ad una conseguenza assurda, cioè a disconoscere che è proprio il dire la verità in questa circostanza che determinerebbe l’omicidio dell’amico.[18] Da un tale atto non è quindi possibile distogliere la responsabilità, sempre che lo si consideri come un atto libero. Qualora invece non lo si considerasse tale, come Kant sembra affermare, lo si priverebbe della sua qualità morale.[19]
Ma mettiamo da parte questo aspetto e veniamo invece a quello più significativo per quanto riguarda la posizione di Bonhoeffer. La discussione tra Constant e Kant mette in luce che, per il primo, l’atto del dire la verità non è dovere incondizionato, ma dipende dalle circostanze in cui esso si svolge e dai soggetti che ne sono coinvolti. Se si accerta che questi soggetti, per motivi diversi, non hanno diritto a conoscere la verità, è lecito non dire la verità. Questo non significa che non dire la verità equivalga in tutti i casi a dire una menzogna; il tacere o il dire una verità diversa da quella richiesta possono rappresentare strategie alternative a quella della semplice menzogna. In ogni caso, in questa prospettiva l’atto del dire la verità appare come una questione di discernimento o, come dice Bonhoeffer, una questione di apprendimento. Con un termine più appropriato si dovrebbe dire che è una questione di saggezza o di prudenza. Per Kant, invece, tutti e indifferentemente sono destinatari della verità poiché la verità non è «un possesso per il quale si possa all’uno concedere un diritto e all’altro negarlo»[20] e quindi rappresenta un dovere incondizionato cui l’uomo non può derogare in nessun caso.
La posizione di Bonhoeffer è evidentemente affine a quella di Constant, semmai si tratta di stabilire fino a che punto ne riprenda la motivazione di fondo. Bonhoeffer, come abbiamo visto, non parla di un diritto alla verità che spetta ad alcuni e non ad altri, ma di diversi ordini del reale che non vengono rispettati da colui che dice o vuole sapere la verità sempre e comunque, così come della astrazione violenta di un singolo ordine dalla totalità del reale. Chi opera l’intrusione indebita in un ordine della realtà o chi ne vuole assolutizzare uno a dispetto di altri va quindi contro la realtà e, in questo senso, è lecito dire che costui non ha un diritto a conoscere la verità. Meglio ancora, nella prospettiva di Bonhoeffer, si può dire che la sua pretesa di verità entra in conflitto con una superiore mediante la quale viene relativizzata e in ultimo abolita. Come abbiamo detto prima, la teoria tradizionale della verità come corrispondenza dell’intelletto e della parola alla realtà sembra ritenuta valida da Bonhoeffer, ma il suo significato cambia a seconda che con «realtà» si intenda la mera fattualità empirica oppure la pienezza della realtà, cioè non soltanto la totalità del reale, ma la realtà nel suo senso essenziale e perciò normativo.
Le riflessioni presenti nell’Etica, soprattutto nel saggio La storia e il bene, confermano questa duplicità di significato del concetto di realtà, che con tutta probabilità Bonhoeffer deriva dalla tradizione di pensiero aristotelico-tomista attualizzata nel libro Die Wirklichkeit und das Gute (1935) del suo contemporaneo Josef Pieper.[21] Proprio in questo testo, volto a riabilitare una forma di realismo e intellettualismo etici, Pieper giustificava la tesi che «la realtà è il fondamento del bene»[22] con il rimando alla dottrina dei trascendentali di S. Tommaso e quindi alla corrispondenza tra la realtà del mondo e la forma essenziale pensata e voluta da Dio nella creazione. Bonhoeffer ha ripreso questa idea in molti punti della sua riflessione etica, in particolare per illustrare il significato della responsabilità etica. Quest’ultima si fonda sull’atteggiamento dell’«adeguatezza alle cose (Sachgemäßigkeit)»,[23] il quale esclude tanto quello che Nietzsche chiamava «l’atteggiamento servile di fronte ai fatti», quanto una contestazione della realtà in nome di un ideale astratto. L’adeguatezza alle cose è quindi la relazione con le cose che non ne corrompe la natura, bensì riconosce la legge essenziale che le governa. Essa può allora significare andare contro ciò che di fatto esiste, se ciò che esiste contraddice il reale nella sua autenticità. Se riconsideriamo il saggio sul dire la verità alla luce di questa concezione, allora diviene più chiara l’idea espressa da Bonhoeffer che la verità dei fatti, in taluni casi, non è la verità «vera», ma la verità falsa, cioè è quella «verità satanica» che, come si diceva prima, sotto l’apparenza della verità, nega ciò che è effettivamente reale. In tali casi, il non dire la verità si configura come un atto di «saggezza» o di «prudenza» che è veramente conforme alla realtà, e che quindi, se così si può dire, è «più» vero rispetto alla semplice verità come corrispondenza ai fatti.
IV.
In questo modo Bonhoeffer ha voluto dare una giustificazione della sua rinuncia alla parrhesia che, pur espressa in modo non sempre chiaro, appare convincente, soprattutto se è fatta valere contro un rigorismo etico come quello kantiano che finisce nell’assurdità. Rimane invece da capire se questa giustificazione teorica abbia appianato del tutto i conflitti interiori che hanno scosso Bonhoeffer nella sua scelta di rinunciare alla parrhesia. Così non sembra, se almeno stiamo a quello che egli scrive nel saggio Dieci anni dopo, dove, dopo aver constatato che «(…) abbiamo imparato l’arte della simulazione e del discorso ambiguo, l’esperienza ci ha resi diffidenti nei confronti degli uomini e spesso siamo rimasti in debito con loro della verità e di una parola libera (…)», si domandava se, intrapresa questa strada costellata di ambiguità e doppiezze, era possibile «essere ancora utili».[24] In queste osservazioni pare emergere la consapevolezza che la necessità di ricorrere in certe occasioni alla menzogna, seppur di tipo difensivo, non rende comunque la menzogna qualcosa di buono, ma tutt’al più qualcosa di giustificabile in una condizione di conflitto normativo,[25] e che il ricorso sistematico e prolungato alla menzogna, pur con finalità ritenute buone, inquina comunque i rapporti fra gli uomini, ovvero come lo stesso Bonhoeffer affermava qualche anno prima in Sequela, «distrugge la comunione» fra essi.[26]
Quello che è certo è che con la sua rinuncia alla parrhesia Bonhoeffer ha intrapreso una strada diversa da quella del martirio cristiano. A dispetto della leggerezza con cui il termine «martire» viene usato a proposito di Bonhoeffer soprattutto in ambito cattolico, egli non è morto come un martire, ma, per usare un’espressione di E. Peterson, come un «perseguitato politico».[27] La parrhesia è infatti uno dei connotati essenziali del martirio, come si evince soprattutto dalla letteratura cristiana antica dove essa è considerata un carisma.[28] Sotto questo punto di vista il riconoscimento, peraltro soltanto recente, di questa qualifica a Bonhoeffer da parte delle chiese evangeliche sembra più un tributo, per molti versi doveroso, alla sua figura, che un’oggettiva definizione del suo status.
[1] Per una ricostruzione delle vicende biografiche di Bonhoeffer in questo periodo cfr., fra gli altri, I. Mancini, Bonhoeffer, Morcelliana, Brescia 19952, pp. 129 ss.; E. Bethge, Dietrich Bonhoeffer. Teologo cristiano contemporaneo. Una biografia, Queriniana, Brescia 20043; più in breve dello stesso autore Leggere Bonhoeffer, Queriniana, Brescia 2006, pp. 85 ss.; A. Gallas, Ánthropos teléios. L’itinerario di Bonhoeffer nel conflitto tra cristianesimo e modernità, Queriniana, Brescia 1995, pp. 381 ss. e da ultimo E. Metaxas, Bonhoeffer. La vita del teologia che sfidò Hitler, Fazi, Roma 2012, pp. 442 ss.
[2] Contenuto in D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Queriniana, Brescia 2002, pp. 21-40.
[3] Ibi, p. 27.
[4] Cfr. D. Bonhoeffer, Sequela, Queriniana, Brescia 2001, p. 132.
[5] Cfr., per esempio, A. Conci, Dietrich Bonhoeffer, La responsabilità della pace, EDB, Bologna 1995, p. 280.
[6] Cfr. M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma 1998, pp. 3 ss.
[7] Contenuto in D. Bonhoeffer, Scritti scelti (1933-1945), Queriniana, Brescia 2009, pp. 746-754.
[8] Ibi, p. 747.
[9] Ibi, p. 749.
[10] Ibi, p. 751.
[11] Ibi, p. 753.
[12] Ibi, p. 752.
[13] Questo giudizio di Bonhoeffer trova conferma da parte G. E. M. Anscombe, la quale nel suo famoso saggio La filosofia morale moderna (tr. it. in «Iride», XXI [2008], pp. 47-67), osserva, proprio in riferimento alla concezione kantiana della menzogna, che la sua regola «delle massime universalizzabili è inutile se non stipuliamo cosa debba contare come descrizione rilevante di un’azione in vista della costruzione di una massima che la riguarda» (p. 48).
[14] Contenuto in I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, UTET, Torino 1956, pp. 359-365.
[15] Ibi, p. 360.
[16] Ibi, p. 363.
[17] Ibidem.
[18] Rileva l’assurdità anche A. Tagliapietra, La sincerità, Cortina, Milano 2012, p. 46. Tagliapietra mette sulla stessa barca Agostino e Kant come esponenti di una posizione assolutistica sulla questione. Tuttavia, la posizione di Agostino è diversa da quella di Kant; nell’esempio concreto sopra menzionato Agostino ritiene che si debba ammettere di sapere di fronte al criminale dove sia l’amico, ma anche di rifiutarsi di dire dove sia, sperando che questo convinca il criminale a cercare l’amico da qualche altra parte, ma al tempo stesso essendo naturalmente pronti a subire le conseguenze di questa ammissione e del contemporaneo diniego a fornire l’informazione desiderata (cfr. De mendacio, 13, 24).
[19] A riprova dell’assurdità di questa conclusione sta il fatto che Kant nella Metafisica dei costumi fa l’esempio inverso, cioè suppone che un servo obbedisca all’ingiunzione del padrone di dire che non è in casa, con la conseguenza che il padrone riesce a fuggire per commettere un grande crimine che gli sarebbe stato impedito se il servo avesse detto la verità alla polizia che nel frattempo aveva bussato alla porta. In questo caso, come Kant afferma esplicitamente, la colpa del crimine ricade «senza dubbio» anche sul servo (cfr. I. Kant, Metafisica dei costumi, Laterza Roma-Bari 1989, p. 281). Quindi, nel caso che qualcuno dica la verità ad un criminale che cerca un amico per ucciderlo costui non sarebbe corresponsabile dell’omicidio, viceversa lo sarebbe del crimine commesso da qualcuno che egli ha tenuto nascosto con la sua menzogna. Dunque, il dire una menzogna sarebbe un atto che implica una responsabilità, ma non il dire la verità!
[20] I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, cit., p. 363.
[21] In Italia, sulla scia dell’edizione critica tedesca delle opere di Bonhoeffer, è stato per primo A. Gallas a mettere in evidenza la ripresa fatta da Bonhoeffer di alcuni temi presenti in Die Wirklichkeit und das Gute (cfr. A. Gallas, Ánthropos teléios. L’itinerario di Bonhoeffer nel conflitto tra cristianesimo e modernità, cit. pp. 439 ss. e anche il saggio Benedizione e croce. Elementi sapienziali negli scritti dell’ultimo Bonhoeffer, in A. Conci-S.Zucal (edd.), Dietrich Bonhoeffer. Dalla debolezza di Dio alla responsabilità dell’uomo, Morcelliana, Brescia 1997, pp. 151-169). Un’ampia analisi di questa ripresa è ora disponIvile in A. Trupiano, La via della sapienza in Josef Pieper e Dietrich Bonhoeffer. Interpretazione della realtà e discernimento del bene, Cittadella, Assisi 2010, pp. 233 ss.
[22] Cfr. J. Pieper, La realtà e il bene, a cura di A. Aguti, Morcelliana, Brescia 2011, p. 37.
[23] Cfr. D. Bonhoeffer, Etica, Queriniana, Brescia 1995, p. 235.
[24] Cfr. D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, cit., pp. 39-40.
[25] Utili osservazioni a questo riguardo, con riferimento indiretto anche a Bonhoeffer, in F. D’Agostini, Menzogna, Bollati Boringhieri, Torino 2012, pp. 69 ss.
[26] D. Bonhoeffer, Sequela, cit., p. 129. Bonhoeffer lo afferma proprio nel contesto di una riflessione sulla veracità.
[27] E. Peterson, Existenz, Heiligkeit, Theologie. Notizen (1947), in Ausgewählte Schriften. Bd. 9/1. Theologie und Theologen. Texte, Echter Verlag, Würzburg 2009, p. 594.
[28] Cfr. a questo proposito la voce parrhesia (a cura di H. Schlier), in Kittel, tr. it. vol. IX, coll. 877-931.