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The mandate of the redeemer and the duties of the redeemed. The origins of a paradigm of legitimization of economic and political relations (II – V century)
In this paper I present a wide range of patristic texts, which – through theological discussion of the “divine economy” – investigate the concept of the fidelis christianus and its normative framework. The plan of God, carried out by the Son, involves two key figures: the individual figure of the Saviour and the collective figure of the redeemed. The theology of Salvation is framed by the logic of exchange and by certain obligations. The redeemed individual has to examine how their everyday life can meet the logic of Salvation, in order to implement it on earth. Patristic analysis not only outlines an economic ethics for the fideles: by defining its operational criteria and by discussing justice in economic action, it shapes the concepts and paradigms of political legitimisation which hold the community together.
Il mio contributo vuole richiamare l’attenzione su alcuni testi della prima patristica cristiana che si sono occupati di definire i dogmi e l’identità stessa del verus fidelis christianus tanto in Oriente quanto in Occidente attraverso una riflessione su ciò che la teologia dell’epoca veniva definendo come economia divina, come il disegno di Dio realizzato ministerialmente dal Figlio attraverso la sua Passione e Redenzione.
Credo occorra muovere da un primo indispensabile livello di analisi che riguarda il lessico con cui si costruisce la fisionomia di tale Redenzione, un apparato terminologico che va messo a fuoco per la sua lunga durata nella testualità cristiana occupata a descrivere e a riproporre la redenzione del Figlio di Dio come modello cristomimetico in un arco cronologico che si distende per almeno tredici secoli, dal II – III a tutto il XV[1].
L’economia divina, vale a dire il piano della salvezza attuato da Cristo sulla terra per volontà del Padre, si serve di due figure chiave: da un lato la figura singolare del Redentore, dall’altro la figura collettiva costituita dalla platea dei redenti.
Sul versante giuridico la redemptio cristiana può quindi descriversi come la facoltà della figura singolare, del Figlio di Dio – esecutore (doulos) e gestore (oikonomos) del suo piano – di poter riscattare una platea di redimibili. Nello stesso tempo l’atto redentivo presuppone una collettività di individui suscettibili di riscatto, una platea di soggetti che si trovi nella condizione, ma anche nella disposizione di essere salvabile. La redenzione è quindi un’operazione di valutazione e di stima: ogni individuo e l’intera platea dei salvabili è infatti composta da soggetti valutabili[2].
In termini economici la redemptio presuppone che il Salvatore sia dotato di una «ricchezza» adeguata, di una facoltà, di un potere soteriologico in grado di conseguire il risultato voluto per ciascuno dei salvabili, parimenti, significa che i riscattabili-valutabili siano, a diverso grado, in una condizione di inferiorità, di «povertà» sensibile rispetto al Redentore.
Questa premessa, che si ferma intenzionalmente ad una semantica elementare della Salvezza cristiana, vuole evidenziare come il lessico che la costituisce meriti di essere più attentamente analizzato non solo da chi intende considerare la teologia in una prospettiva storica, ma anche da chi si occupa di storia dei linguaggi politici, da chi studia, nel Medioevo e nell’Età Moderna, l’utilizzo della teologia politica e delle sue parole-chiave da parte dei poteri che vengono costruendo le loro dimensioni di sovranità e di maiestas nei diversi quadranti geo-politici dell’Europa occidentale[3]. Insomma, ricorrendo ad un’espressione sintetica, si potrà dire che nell’edificazione della regalità occidentale sacralizzata, così come nella costruzione della legittimità del potere in senso lato, non opera solamente la figura del Christus-fiscus magistralmente studiata da Kantorowicz. Nella sua più ampia latitudo abbiamo dinanzi a noi il Cristo Redentore e la sua economia.
Se Clemente di Alessandria e Agostino parleranno della Passione, della Redenzione, della carità di Cristo che sostiene e motiva la sua morte, come Sacrum Commercium, se la testualità cristiana parlerà di Cristo come del Mercator Coelestis, del più avveduto e affidabile banchiere (dókimos trapezites nella patrologia greca di II-III secolo e probatus nummularius in quella latina), non dipenderà solo dalla retorica omiletica indispensabile a conferire vigore al discorso cristiano proposto alle folle ed ai singoli. Più precisamente il ricorso a questi termini – chiave trova le sue ragioni nel fatto che la Redenzione di Cristo esprime, sin dalle origini della riflessione apostolica e patristica, una dimensione economico-relazionale senza la quale il significato salvifico della religione e della teologia dei cristiani non può essere compreso, non può, conseguentemente, divenire pedagogicamente verbalizzabile e veicolabile, non può farsi dottrina ed identità cristiana, autentica differenza e distinzione dal pagano, dall’eretico, dall’ebreo[4].
Si tratta di un dato che va tenuto presente se si vuole comprendere l’esegesi e l’ermeneutica patristica e se ci si voglia fare storici di quell’esegesi e di quell’ermeneutica che, lo si noterà una tantum, non rimangono chiuse nell’ambito della teologia speculativa, nelle dispute tra cristologie, ma entrano nei testi conciliari, giuridici, canonistici della Chiesa latina lungo un arco cronologico che scorre tra IV e XI secolo. L’ermeneutica patristica, l’esegesi dell’economia divina, in cui redemptio e passio Christi costituiscono l’asse fondamentale e qualificante, divengono, almeno a partire dal Decretum Gratiani, la base stabile, lessicale ed interpretativa, con cui costruire elementi idoneativi e testi normativi per gli amministratori, per gli uomini consacrati, professionalmente chiamati a gestire carismi, sacramenti e beni della Chiesa, diritti e beni delle chiese e dei monasteri per un millennio[5]. È un terreno assai fecondo dal quale verranno colti e reimpiegati molti dei lessemi – chiave, dei discorsi inerenti la legittimazione del potere e del governo, dell’autorità e dell’amministrazione dell’Occidente europeo[6].
Sarà utile scendere a contatto diretto con i testi che ci parlano delle modalità, della forma redentiva con cui Cristo realizza il disegno del Padre, per offrire una prima serie di elementi utili. È un percorso che parte da un testo di lingua e di cultura greca per ribadire che la lingua, i lessici, le tassonomie allestite dalla patristica latina, da ciò che costituirà la base del pensiero teologico, politico ed economico d’Occidente, non possono essere letti senza tener presente i testi, le parole, i travasi che da Alessandria a Cesarea, da Antiochia a Nicea, sono stati prodotti e si sono realizzati verso il mondo latino. Leggere Ambrogio, Agostino, Salviano di Marsiglia e Gregorio Magno, ma anche Pietro Cantore, Zenone e Raterio, e poi Pier Damiani o Bernardo di Clairvaux e, ancora, Tommaso o Bonaventura senza tener presente il dizionario della Didachè, del Pastore d’Erma, dei padri apostolici, di Clemente Alessandrino, dei Basili, di Crisostomo significa perdere una quota significativa dell’universo semantico che termini chiave come oikonomía, pathous oikonomiaí, chresis/ktesis, ma anche pistos/anóetos, pleonexía, philargyría, alogía assumono nella costruzione teologico-economica dell’occidente latino.
Leggere i testi patristici greci serve anche a ricordarci che, per un millennio, dal II – III al XIII secolo, la lingua che struttura la cultura dell’Occidente, anche quella che mette in forma tassonomie per l’analisi delle relazioni economiche e politiche, si è sviluppata potentemente senza ricorrere ad auctoritates, Aristotele in primis, ancora oggi reputate imprescindibili nella fondazione dei linguaggi e delle categorie proprie della politica e dell’economia.
Nel Dialogo con Trifone di Giustino – ad esempio – si afferma che «Cristo si è sottomesso a tutto […] per compiere l’oikonomia che aveva voluto suo padre», ma anche che Gesù Cristo è il messia, il Gesù di Dio, ricorrendo al sintagma «economia della passione» (pathous oikonomiaí): «Oggi [i demoni] sono esorcizzati e sottomessi dal nome Gesù Cristo, crocifisso sotto Ponzio Pilato [… ] Cosicché è manifesto a tutti che suo padre gli ha dato una potenza tale che essi sono sottoposti al suo nome e all’economia della sua passione»[7]. Siamo intorno al 160 d. C.
Un testo fondamentale che segue le considerazioni di Giustino è quello di Ireneo, che scrive, nella sua opera polemica contro gli gnostici: «Un solo Dio padre onnipotente, creatore del cielo e della terra […] un unico Gesù Cristo figlio di Dio incarnatosi per la nostra salvezza; uno Spirito Santo che per mezzo dei profeti predisse le economie, l’avvento, la nascita verginale, la passione e la resurrezione dei morti», e ancora: «che si escogiti un altro Dio diverso dal creatore di questo mondo […] o un altro Cristo o un altro Unigenito» non ha senso, Cristo infatti è un’unica persona col Padre: «si tratta semplicemente [di vedere in lui] il modo con cui […] viene esposta l’azione e l’economia di Dio (tēn te pragmateian kai oikonomian tou Theou […] ekdiēgeisthaí)»[8]. In Ireneo, dunque, Cristo assume una molteplicità di funzioni e di rappresentazioni che trovano il loro fuoco nella modalità con la quale è stata realizzata la Redenzione, nella modalità con la quale egli ha saputo condurre e realizzare il disegno divino. In Ireneo l’unicità, il valore stesso del Figlio dipendono da queste sue capacità realizzative. Azione ed economia («pragmateian kai oikonomian») sono infatti due lessemi distinti del discorso patristico che abbiamo dinanzi, ciascuno dei quali dotato di un peso semantico proprio e paritario. Azione ed economia non sono quindi aspetti qualitativi gerarchizzabili, esse costituiscono le dimensioni coessenziali ed imprescindibili della Redenzione.
Il termine oikonomia – che nella primissima testualità cristiana, da Paolo a Ignazio di Antiochia, conserva la sua valenza anche gestionale, il suo profondo significato ministeriale proprio dell’età classica, giungendo nei passi di Crisostomo a definire il buon amministratore cristiano come kalòs oikonómos – trova un punto di svolta quando viene impiegato all’interno di uno dei primi testi organici del cristianesimo latino mantenendosi, tuttavia, come termine greco.
Tertulliano, autore decisivo per la costruzione del dogma cristiano convalidato dai concili ecumenici del IV secolo, fondativi dell’ortodossia, afferma l’unicità ed il monoteismo dei veri cristiani attraverso una formula che rinvia direttamente a quella recepita nel Credo niceno: «Noi sempre e ora ancora di più […] crediamo in un solo Dio, tuttavia con questa dispensazione che chiamiamo oikonomia (sub hac tamen dispensationem quam ‘oikonomian’ dicimus) cioè che l’unico Dio ha anche un figlio […]» (Adversus Praxean, 2, 1).
Non si intende affermare alcuna pluralità di Dio (Adv. Prax., 3, 1)[9]. Tertulliano dunque ribadisce, in un contesto dogmatico-apologetico, il ruolo fondamentale che lega salvezza ed oikonomia, identità cristiana e redenzione attuata da Cristo come scambio, non solo come sacrificio. È un discorso che intende trasmettere ai suoi lettori – uditori il significato autentico e profondo, ‘economico’, dell’esistenza e della funzione di Cristo[10].
L’economia di Cristo sulla terra non è solo realizzazione del disegno divino ma diviene messa a disposizione di sé, elargizione di un Valore che si attua e si descrive come piano e disegno gestionale, distributivo: è l’oikonomia che significa dispensatio («sub hac tamen dispensationem quam ‘oikonomian’ dicimus»). In Tertulliano la Redenzione che passa dall’economia della passione di Cristo non è il semplice impiego gratuito di ricchezza, ceduta ad un terzo per il riscatto di una persona o di una collettività, è elargizione di valore, è una dispensatio diretta, destinata a tutti coloro che vogliono e possono essere riscattati/salvati, trovandosi in una indispensabile condizione di povertà «sensibile». La Redenzione operata e amministrata da Cristo entra dunque all’interno di un perimetro concettuale fondato sulla logica dello scambio, in un rapporto fatto di obbligazioni giuridiche ed economiche[11]. Questa redemptio, tuttavia, non coinvolge direttamente la libertas civica e politica ottenuta con l’atto del riscatto propria dell’istituto romanistico, essa incide più precisamente sul nucleo duro di quella minoritas riscattata, il nucleo inerente l’economico del riscattando e l’economico del salvato. Lo si vedrà con sempre maggior chiarezza nei testi di alcuni tra i più importanti Padri della Chiesa di III – V secolo[12].
Negli stessi anni in cui Tertulliano scrive le sue opere apologetiche e dogmatiche, sullo stesso lato del Mediterraneo Clemente, al secolo Tito Flavio Clemente, presbitero formatosi in Atene, scrive un testo di straordinario valore, anche comunicativo, una sorta di lungo discorso rivolto ai divites della sua nuova città, Alessandria. Sono i divites dell’élite governativa, fondiaria e mercantile che, pur attratti dal messaggio salvifico dei cristiani, hanno dinanzi a sé il problema del rapporto complesso che quella religione predica rispetto alla ricchezza ed all’uso dei patrimoni.
Qual è il ricco che potrà salvarsi? (Tis o soizomenos plousios) – questo il titolo dell’opera – muove da uno dei più famosi precetti evangelici, quello che chiede ad ogni cristiano di dar da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, di vestire gli ignudi […] (Mt 25,35, anche in riferimento a Gb 22,7). A questa precisa prescrizione che viene da Cristo Clemente risponde in questi termini: «Come potremo nutrire l’affamato, dissetare l’assetato, vestire l’ignudo e dare ricovero a chi è senza casa […] se ognuno di noi, se tutti noi cristiani fossimo nelle stesse condizioni di bisogno di coloro che si trovano privi di qualsiasi cosa?»[13]. L’apparente provocatorietà del contro-quesito costituisce l’asse centrale su cui Clemente sviluppa l’intero testo volto ad analizzare in profondità in che cosa consista la ricchezza, il possesso e l’uso dei beni per un cristiano. Ciò che egli intende sostenere sul piano teologico ed esegetico è infatti la piena possibilità per chiunque possieda dei beni di conquistare la salvezza e la vita eterna, dunque di poter convertirsi ed entrare utilmente a far parte della comunità cristiana[14]. È lungo questo percorso che Clemente svolge una serie di analisi sul valore e sull’uso della ricchezza in cui si mette in piena evidenza l’aspetto gestionale – economico secondo la stessa matrice lessicale greca pre-cristiana – come elemento dirimente[15].
Cristo Salvatore, infatti, non condanna la ricchezza in sé, anzi egli redime ed accoglie di buon grado coloro che tengono la moneta e le monete nelle loro mani: possidentes come Zaccheo e Levi, i servi avveduti della parabola dei talenti, i professionisti della riscossione fiscale quali lo stesso Matteo, autore del Vangelo che Clemente sta utilizzando nel suo testo.
Il ricco può conquistarsi una piena cittadinanza nella comunità cristiana e nella vita eterna se saprà utilizzare i beni che si trova a possedere comprendendo che la condanna di Cristo non riguarda né le persone né la ricchezza che esse possiedono ma le errate modalità con le quali vi si rapportano e la trattengono. La vera povertà e la vera ricchezza – sostiene Clemente – non consistono nell’essere privi di mezzi, ma nel saperli o non saperli utilizzare, nel sapersi rapportare ad essi. Chi infatti ritiene di aver accolto l’insegnamento evangelico limitandosi alla rinuncia e alla separazione dai suoi beni non ha colto il senso profondo della parola di Cristo e, come vedremo subito, nemmeno il senso del suo sacrificio redentivo. Quel ricco continuerà infatti a cadere vittima dello stesso riprovevole desiderio di acquisire e trattenere presso di sé beni e denaro per il resto della sua vita se non avrà saputo rinunciare non ai suoi patrimoni, ma al desiderio di possederli. Il vero povero, il povero in spirito definito beato nel Vangelo di Matteo (Mt 5,6), non è colui che per strada vive privo di mezzi e chiede l’elemosina, il povero involontario ridotto sul lastrico, è il ricco che comprende l’utilità della messa in circolazione dei propri patrimoni con avvedutezza, che sa corrispondere al precetto che richiede proprio a lui di dar da bere a chi a sete, di sfamare l’affamato e di offrire un ricovero a chi è senza un tetto[16]. Si realizza così un discorso in cui l’invito alla costante riflessione sull’uso, ovvero sull’adeguata destinazione e la messa a frutto dei propri patrimoni, diviene elemento essenziale dell’analisi di Clemente. È in questo modo che egli raggiunge il suo scopo: fugare il senso di disperazione o di inutilità che potrebbe colpire qualunque ricco cristiano che si fermi alla superficie del versetto evangelico in cui si dice che è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco raggiungere la salvezza (Mc 10, 25).
La lezione di Clemente è dunque, programmaticamente, una lezione di fiducia e di responsabilizzazione di ciascuno, di chiunque intenda salvarsi, essendo stato redento dal sacrificio di Cristo. Nessuno può, infatti, conquistare la vita eterna, e ancor prima partecipare pienamente della vita comunitaria cristiana, se non fa leva sulla propria individuale volontà. Ed in questo discorso la dimensione economica, vale a dire l’intera sfera che contiene in sé le logiche dello scambio, la circolazione dei beni, il soddisfacimento dei bisogni, gli standard di vita di ciascuno enucleati dal termine – chiave necessità, le utilità concepite come utilità relative e relazionali assumono un indubbio rilievo. Ciascuna di esse esige di essere messa continuamente sotto le lenti della verifica che diviene analisi cristiana del mondo. L’etica economica che ne discende, che si costruisce con questo discorso e con questa lingua che ci parla della salvezza possibile, è importante:
«Noi non dobbiamo», affermerà l’Alessandrino, «gettar via le ricchezze che costituiscono un vantaggio per i nostri vicini così come per noi stessi. Esse sono chiamate proprietà poiché sono cose possedute, e ricchezza perché sono le benvenute e perché sono state predisposte da Dio per il benessere dell’uomo. Esse sono a nostra disposizione come una sorta di materiale e come uno strumento da utilizzare correttamente da coloro che conoscono la potenza di tali strumenti. Un materiale, se tu lo usi con l’abilità e la conoscenza, diviene un’opera d’arte, ma se non conosci le regole dell’arte, l’oggetto avrà i difetti causati dalla tua ignoranza non avendo in sé stesso alcun vizio. Le ricchezze vanno intese nello stesso modo: sono uno strumento potenzialmente utile»[17].
Ed è qui che entra in gioco il valore, il significato profondo, modellizzante della Redenzione di Cristo.
Come si deve tradurre – domanda Clemente – l’insegnamento e la richiesta di Cristo quando disse «dai addio a tutto ciò che possiedi e vendi tutto ciò che hai?»
Questa richiesta del Salvatore si riferisce alle passioni dell’anima», altrimenti – prosegue l’Alessandrino – sarebbe come se Cristo, dicendo di lasciare tutto, avesse inconsciamente sostenuto ed equiparato la sua salvezza al prezzo di quattro oboli che, una volta lasciati, assicurerebbero di per sé la vita eterna[18].
Leggere in questo modo il Valore della Redenzione di Cristo, fermarsi alla scorza di queste parole, è una inadeguata comprensione monetizzata della Salvezza. Se si intendesse il «vendi tutto ciò che hai» in maniera letterale è – dice Clemente – come se Cristo «avesse dichiarato inconsapevolmente che il regno dei cieli è semplicemente equivalente a quei denari»[19]. La Salvezza dunque è una questione di valori messi in gioco e scambiati, ma, quanto alla sua comprensione, non può essere assorbita dai mezzi, dal valore numerale, nominale dei denari che la descrivono. Per essere apprezzata nel suo significato proprio la Redenzione richiede un autentico discernimento economico. «L’uomo»cristiano «deve […] abbandonare le cose possedute che possono danneggiarlo, non le cose che realmente possono contribuire al suo profitto, se egli sa come usarle correttamente» e questo profitto si qualifica – dichiara Clemente – cioè deriva direttamente «dall’economia, dalla capacità di amministrare [i beni] con saggezza, moderazione e pietà»[20].
L’apice di questo discorso economico – redentivo viene raggiunto quando il buon utilizzo della ricchezza si configura come il vero percorso che conduce l’uomo ad ottenere la benedizione del Signore.
«Chi dunque mantiene i propri beni, formati sia da patrimoni immobiliari che da oro ed argento, amministrandoli come doni di Dio, gestendoli nello stesso modo con il quale egli ha elargito la salvezza per gli uomini, ha la capacità di comprendere che li possiede per il vantaggio dei suoi fratelli piuttosto che per il suo esclusivo tornaconto».
Quel dives, continua il ragionamento di Clemente, «è così capace di vivere non come schiavo delle sue proprietà, ovvero non limitando la sua vita al loro orizzonte, per questo è in grado di gestire la perdita e la separazione dai suoi beni con un atteggiamento mentale positivo che è lo stesso atteggiamento» – lo si noti – è la stessa attitudine «con cui egli sa guardare all’accrescimento e all’abbondare delle sue ricchezze». «Questo», conclude Clemente, «è l’uomo che sarà benedetto dal Signore e sarà chiamato povero in spirito, un uomo preparato ad essere erede e compartecipe del regno dei cieli, non [invece] un ricco incapace di ottenere la [vera] vita»[21].
È così che il redimibile entra effettivamente nella condizione di redento. È così che egli è guadagnato ad una nuova condizione che lo riscatta da una minoritas e gli assegna uno status di oggettiva rilevanza comunitaria.
Il senso profondo – caritativo – dello stesso sacrificio di Cristo proposto come una largitio ed una dispensatio nei confronti dell’uomo, è il criterio orientatore della buona e saggia condotta economica del cristiano che deve agire come ha fatto Cristo avendo donato il bene più prezioso di cui disponeva: la sua vita, il suo sangue. Se tu ti conformerai a questo comportamento e darai a ciascuno ciò che ti chiede, condividendo i beni, conquisterai con questo atto la salvezza eterna, sarai «ricompensato dalla generosità di Dio che ti farà entrare nell’abitazione eterna»[22]. Questo circolo virtuoso della carità e della condivisione che si dipana sulla terra, tra ricco e colui che viene a beneficiare dei suoi beni, e in cielo, tra quello stesso ricco avveduto e Dio che lo ripaga per quella sua disponibilità con la generosità ed il dono della vita eterna, ha una evidente valenza economica. Esso infatti implica o, se si vuole, prevede l’adozione di un criterio di analisi fondato su una duplice logica: quella dello scambio e quella creditizia. Nel suo discorso Clemente esplicita così questo piano dell’economia cristiana, terrena e celeste:
«Che splendido commercio! Che affare divino! Tu compri l’incorruttibilità con il denaro. Tu cedi le cose che non durano appartenenti al mondo e ricevi in cambio di esse l’eterna dimora nei cieli. O ricco, se sei saggio, organizzati per questo mercato. Sappi distaccarti da tutti i beni terreni, se necessario, non risparmiarti, correndo pericoli e servendoti di ogni strumento utile, poiché così potrai comprare il regno dei cieli.»
Devi infatti, prosegue, «imitando Dio» – il disegnatore della redemptio attuata da Cristo -, conquistarti questo regno facendo come lui che «avendo preso così poco da te qui in terra» ti renderà in cambio un bene ben più prezioso, «ti farà, per sempre, abitante del regno dei cieli»[23].
È ben chiaro come questo ardito parallelismo – ardito agli occhi di noi moderni – allestito tra economia della salvezza ed economia terrena, tra quantum ceduto («avendo preso così poco da te») e quantum ottenuto («ti renderà in cambio un bene ben più prezioso»), non si possa comprendere nella sua sola valenza retorica o esortativa. La sua collocazione in un contesto argomentativo tutto incentrato sull’analisi e la definizione dei comportamenti economici che distinguono l’economia cristiana da quella di coloro che non sanno accogliere in profondità il messaggio salvifico, articolato in ben 41 capitoli costituenti l’opera che abbiamo dinanzi, vale ben di più, supera lo stesso orizzonte pedagogico-morale che costituisce l’obiettivo primario del testo. Siamo infatti di fronte ad un’autentica proposta di rilettura e reinterpretazione del fatto economico e delle sue logiche compiuta attraverso l’esegesi diretta della parola evangelica e segnatamente del sacrificio redentivo di Cristo, un’esegesi che pone in primo piano i valori guida dell’utilità relativa dei beni e del ruolo sociale di chi possiede[24]. In tal modo l’accumulazione opulenta e la magnificenza munifica del dives di età imperiale e tardo – imperiale, così come il modello accumulativo e sociale agito dai possidentes di più ridotte capacità materiali proprio della Tarda antichità romana, vengono messi radicalmente in discussione, con un obiettivo che non può, in ogni caso, essere riassunto o motivato dall’esecrazione, dalla condanna patristica e cristiana di quei soggetti. In effetti il discorso alessandrino di III secolo, così come quello più risalente, normativo, contenuto nella Didachè, assegnano un ruolo centrale alla ricchezza non solo sul piano delle relazioni economiche individuali, ma nella vita comunitaria cristiana e nella prospettiva escatologica che la sostiene.
«A chi chiede non richiedere; a tutti il Padre vuole che siano dati i suoi beni. Beato chi dona secondo il comandamento: egli non è punibile. Guai a chi riceve; se riceve avendone necessità è senza colpa; se riceve non avendone necessità dovrà renderne conto circa il perché ha ricevuto e a che farne. Posto in prigione sarà interrogato su ciò che ha fatto e non sarà liberato sino a quando non avrà restituito l’ultimo quadrante»[25].
In questo testo, sostanzialmente coevo alla redazione dei Vangeli canonici (42-50/100 d. C.) e primo documento di natura dichiaratamente normativa elaborato dalle comunità cristiane delle origini, emergono una gamma significativa di questioni economiche ed etico – economiche affrontate, una serie di valori cristiani dell’economico adeguatamente elaborati e proposti. In questa sede essi meritano di essere posti in luce avendo presente la proposta pedagogica e le premesse analitiche che la sostengono lette nel testo di Clemente Alessandrino.
Nel paragrafo citato si osservino, innanzitutto, i paradigmi impliciti posti nel valutare la necessità ed il bisogno presenti come autentiche categorie in quel «guai a chi riceve senza necessità» e nella definizione della colpa che macchia colui che abusa del bene ricevuto senza trovarsi nel bisogno.
Si misuri la forte impronta razionale che presiede a quel duplice dovere di calcolo di ciò che è dovuto contenuto, da un lato, nella formula «perché ha ricevuto e a che farne», vale a dire in riferimento alla ragione per la quale il cristiano ha ricevuto e a che scopo l’ha ottenuto, dall’altro, presente nell’obbligo di reintegrazione del surplus quantificato in valore monetato: «non sarà liberato sino a quando non avrà restituito l’ultimo quadrante», vale a dire sino all’ultima frazione di denaro che egli ha ingiustamente ricevuto, sottraendola non solo al possidente-donatore, ma – per la logica intrinseca che presiede alla «donazione secondo il comandamento» – alla comunità[26].
Si apprezzi, nella sua cogenza e nella sua misurabilità, quel dovere di fluidificazione della ricchezza richiesto ed auspicato con l’esortazione «Beato chi dona secondo il comandamento», rafforzato da tutte le misure che combattono gli atteggiamenti e gli approcci antitetici, tesaurizzanti o segnati da errate valutazioni circa l’uso delle risorse.
Si colga la precisa nozione di restituzione, verbalizzata esplicitamente come tale, che dimostra l’esistenza di un pre-valore orientativo il quale verrà successivamente a connotarsi, proprio nella riflessione etico-economica ma anche in quella più schiettamente politica e civile, con il sintagma bene comune, a sua volta implicante la necessità di stabilire un equilibrio tra dimensione soggettiva/privata e sfera comunitaria evidentemente demandato al vescovo, cioè a colui che da episkepis sovrintende e vigila (episkopein) sulla comunità.
Si colga, ancora, la durezza della sanzione stabilita ed azionabile per l’infrazione di un codice di comportamento di natura strettamente economica: da un lato essa è evidente nell’imprigionamento, che prevede l’obbligo di restituzione dell’intera somma ricevuta, calcolata e riscossa dalla comunità sino all’ultima frazione di denaro, condizione indispensabile per il riottenimento della libertà, per la sua redemptio sociale; dall’altro l’intensità della sanzione si misura nella riprovazione che la motiva, tesa a stigmatizzare quanto è stato osato contro la comunità, sfidando i suoi valori costitutivi. È un dato, quest’ultimo, che emerge in quel «dover rendere conto», dósei díken, che letteralmente sta per «ne dovrà pagare il fio».
Si rilevi infine e, significativamente, il legame indissolubile posto tra l’identità cristiana e la consapevolezza economica dei propri comportamenti richiesto ad ogni membro della comunità che scaturisce dall’intero passo di questo capitolo inaugurale della Didachè. Nel precipitato normativo di una già consolidata cultura economica e sociale cristiana si coglie un legame che vincola ed orienta tanto il fidelis che dona e riceve quanto i responsabili incaricati anche della vigilanza sulle modalità con cui i beni entrano e si muovono dentro la comunità: l’episkepis e il diakonos.
Messe in evidenza le basi economico-normative con cui la comunità cristiana si pensa e si definisce nel corso dei due secoli che precedono la stesura del testo di Clemente, torniamo conclusivamente sull’opera alessandrina per sottolineare la tipicità oltreché la contiguità tra istituto romanistico della redemptio e la rideclinazione che ne offrono i primi padri della Chiesa.
La redemptio di Cristo, proposta ai cristiani di Alessandria, di Cesarea, di Antiochia, di Roma, assume il suo pieno significato solo tenendo presente una sua radicale differenza rispetto alla redemptio romanistica, solo tenendo presente che la sua funzione non è statica, non si esaurisce nel momento della morte di Cristo, nell’istante pieno di pathos in cui il pegno del riscatto è consegnato, versato. Il sangue di Cristo, che – come dirà tra gli altri Agostino – segna e firma il chirographum sottoscritto con i redimibili, produce necessariamente, giuridicamente, i propri effetti nel futuro.
L’atto redentivo di Cristo si propaga e si moltiplica nel tempo e nello spazio, dispiega i suoi effetti su ognuno dei salvati dimostrando che il suo valore ed il suo significato riguarda l’economia, le economie terrestri e celesti che esso ha inteso modificare.
È ciò che viene particolarmente potenziato nel testo dell’Alessandrino nel quale si conferisce lo statuto di vero povero al ricco capace di ben amministrare i suoi beni. Un ricco – riscattato dal sacrificio di Cristo – cui è attribuita anche la capacità di praticare un’effettiva imitazione del Salvatore, una cristomimesi che si verifica se, e solo se, egli attua una saggia condotta economica: un agire economico che non prevede l’abbandono cieco di tutti i beni di cui dispone, ma l’attivazione di misurati comportamenti dispensativi, tesi ad una messa in circolazione della ricchezza[27].
Una delle dimostrazioni più lineari di come questa ermeneutica condotta sulla redemptio passi, si travasi dalla testualità greca dentro la patristica latina si ha nella lettura delle riflessioni prodotte da Agostino, riflessioni che potremo agevolmente riscontrare già nei testi dello stesso magister di Agostino, Ambrogio (si vedranno utilmente il De Tobia, il De Nabuthae, il De benedictionibus Patriarcharum, il De Officiis).
Come Clemente il vescovo di Ippona, nella sua instancabile attività omiletica stimata in almeno seimila sermoni predicati nei suoi trentacinque anni di episcopato (396 – 430)[28], insiste particolarmente su un discorso di speranza per il ricco, un discorso che costituisce un’occasione privilegiata per riflettere non solo sui suoi beni, sulla sua dimensione individuale di possessore e di possidente, ma sul valore e sul significato della ricchezza, delle modalità con cui essa deve circolare, in definitiva su che cosa essa rappresenti nella dimensione di socialità cristiana posta al centro dell’analisi agostiniana quando, da episcopus, amministra, governa e consiglia i fideles, i presbiteri, i diaconi ed anche i funzionari imperiali, cristiani e non, che a lui si rivolgono.
«Né è da pensarsi che i ricchi di questo mondo siano stati trascurati» afferma perentoriamente nel suo Discorso 36 dedicato ad analizzare il significato della ricchezza. Infatti «l’apostolo Paolo non è spaventato dal fatto-ricchezza, ma dalla malattia» che essa produce, consistente nel «non saper dominare le ricchezze» che si possiedono. «Gran ricco è dunque colui che non si crede grande perché ricco»[29].
Si tratta di una prospettiva chiave dell’analisi economica agostiniana che si ritrova ribadita in passi decisivi della Città di Dio: «L’avidità non è un vizio dell’oro ma dell’uomo che ama l’oro in modo distorto e abbandona la giustizia, incomparabilmente superiore all’oro»[30]. Ma sono molti altri i luoghi testuali agostiniani dedicati all’analisi delle ricchezze: si tratta di almeno ventuno altri passi nella stessa Città di Dio, i Discorsi 38, 50, 60, alcuni passaggi esegetici fondamentali contenuti nel sermo 3 dell’Enarratio dedicata al Salmo 36, l’esegesi del Salmo 93,7, il sermo I sul passo dei Salmi 48,2, le sue considerazioni nelle Enarrationes in Ps. 102,12, 143 e 146,17 e, ancora, l’epistola 153 inviata a Macedonio, un funzionario imperiale. Lo stesso trattato teologico-contoversistico De trinitate testimonia, per le note vicende legate alla sua redazione e pubblicazione, la continua attenzione del vescovo di Ippona su tali questioni[31] affrontate anche in decine di capitoli del primo libro del De doctrina christiana dedicati alla necessità di saper individuare la soglia tra l’uso strumentale di un bene, materiale o immateriale, ed il pieno godimento che da esso può essere ricavato. Si tratta di un’ampia riflessione che impone al cristiano redento di farsi «rerum integer aestimator» imparando ad analizzare le modalità con le quali Dio utilizza e ama (uti/frui) gli uomini ed i beni del mondo[32].
Agostino insiste dunque, tanto nel Discorso 36 quanto nel passo esemplificativo citato dal XII libro della Città di Dio, su quell’aspetto già caro alla riflessione di Clemente tesa ad esaltare l’aspetto gestionale, di capacità, di avvedutezza conoscitiva e valutativa che deve identificare e distinguere il ricco cristiano. Il dives divenuto fidelis, il dives riscattato dal Redentore, sostiene Agostino, nel suo essere ricco in questa nuova condizione «goda maggiormente perché è cristiano che non perché è ricco».
La grandezza e la ricchezza – valori e doti che appartengono alla sfera del dominativo – non vengono espulse dal novero delle qualità virtuose dell’uomo, ma devono trovare una sintesi nella nuova dimensione religiosa e mentale, nell’habitus che segna e distingue il redento, chi si è fatto cristiano per il tramite del sangue versato da Cristo[33].
Se dunque non emerge in alcun modo l’esecrazione in sé né del ricco né della ricchezza si dovrà notare che il vescovo di Ippona non si limita ad offrire e a definire per il cristiano possidente un idoneo atteggiamento morale, una consona disposizione interiore, qualcosa che può rimandare a quanto ebbero a teorizzare gli stoici nelle loro riflessioni su concupiscenza e ricchezza. Per il ricco redento, un apparente paradosso giuridico per l’età imperiale, Agostino costruisce un’etica che riguarda la gestione delle risorse fondata sulla nozione di utilità, valutata e calcolata. Parafrasando le parole di Cristo riportate in Mt 6, 19-20, egli sostiene che i tesori non devono essere «buttati via, ma devono essere trasferiti altrove»[34], essi vanno ricollocati e messi al sicuro attraverso un loro avveduto e prudente utilizzo destinandoli a Cristo. È un discorso che verrà ripreso e strutturato organicamente dalla testualità cristiana latina, qualche decennio dopo (435 – 439) all’interno di un’opera interamente dedicata a questo avveduto re-impiego della ricchezza. Si tratta del testo di Salviano di Marsiglia conosciuto come Ad Ecclesiam o De avaritia[35]. Quei beni, «più esattamente», dice Agostino, debbono essere fatti circolare da chi li possiede con un atteggiamento di distacco in grado di distinguere venalità ed utilità: «Perché poi i ricchi non dicessero di non saper cosa fare con le loro ricchezze ecco [l’Apostolo Paolo] ammonire Timoteo in modo da governarli e sorreggerli con il consiglio e non solamente frenarli col precetto […] siano ricchi nelle opere di bene, distribuiscano con facilità»[36].
È sulla scorta di questa precisa esortazione paolina che il vescovo di Ippona costruisce analisi puntuali dedicate all’uso dei beni, alla capacità di metterli in utilità e in circolazione cogliendo aspetti cruciali dell’agire economico che vanno ben oltre la proposta di un semplice re-indirizzamento di quelle risorse:
«Il Signore opera misericordie. Ma con chi? […] Devi usare verso tutti misericordia. Quale misericordia userai con il giusto? Quella richiesta solo dalle necessità corporali, nelle quali, se mancheranno concrete possibilità di soccorso da parte tua, non mancheranno certo da parte di Dio […] Doni al mendico che passa e che ti tende la mano, ma sei tu che cerchi il giusto per donargli e, grazie a lui, essere accolto negli eterni tabernacoli, poiché chi accoglie il giusto in qualità di giusto, riceverà la ricompensa del giusto. Il mendico cerca te e tu devi cercare il giusto. Difatti altro è colui di cui è stato detto: Da’ a chiunque ti chiede; altro quello di cui è stato detto: Si stanchi l’elemosina nella tua mano fino a che non trovi il giusto, al quale offrirla (dictum est: Desudet eleemosyna in manu tua donec invenias iustum, cui eam tradas) […] Ma che cosa potrai dargli? Non è forse di più quel che è dato a te? Se noi – si legge – abbiamo seminato per voi beni spirituali, è gran cosa se mietiamo i vostri beni carnali? […] Ed è anche questa la ragione per cui vi abbiamo esortato ad essere diligenti, prudenti e temperanti in questo settore, considerando come vostri tesori le vostre stesse opere. E se vi diciamo queste cose, fratelli, è forse perché abbiate a farle verso di noi? Io ritengo, in nome del Signore, che questo linguaggio […] sia veramente apostolico e realmente vantaggioso per voi, conforme alla parola del medesimo Apostolo: Non che io cerchi il dono, ma ricerco il frutto. Quale elemosina farai dunque al giusto? […] Non manca mai dunque a Dio il modo per donare ai suoi figli, ma tu devi pensare a quel che acquisti ed in che tempo e a che prezzo lo acquisti»[37].
L’invito al possidente, a colui che dispone di ricchezze, ad analizzare le modalità e le precise dinamiche di valorizzazione dei beni («tu devi pensare a quel che acquisti ed in che tempo e a che prezzo lo acquisti»), distinguendo tra le diverse modalità dispensative («altro è colui di cui è stato detto: Da’ a chiunque ti chiede; altro quello di cui è stato detto: Si stanchi l’elemosina nella tua mano fino a che non trovi il giusto, al quale offrirla»), viene sapientemente coniugato con quanto il ricco redento deve fare per la nuova comunità cui appartiene. Egli è, infatti, chiamato ad applicare le medesime logiche redentive, le medesime dinamiche che consentono di gestire il debito e le sue conseguenze ad ogni livello nel quale questa problematica possa essere rilevata e, conseguentemente, debba essere affrontata. È una riflessione che viene approfondita nell’ambito dell’esegesi condotta dalla penna di Agostino su un altro Salmo, il 143, noto, significativamente, anche come «sermo ad plebem»: «Che cosa significa questo prevalere della misericordia sul giudizio?». «Vedi se non sia giusto», il passo in cui si dice: «Nella misura con cui avrete misurato sarà rimisurato a voi. In questo senso ti dice: Nella stessa misura. Non si tratta di una misura soltanto della stessa specie ma dell’identica misura relativamente a questo: Perdona e io perdono. Presso di te c’è una misura secondo cui concedi il perdono [dunque e propriamente una misura per la remissione del debito]; presso di me» – continua Agostino – «troverai la misura secondo cui riceverlo. Presso di te c’è la misura secondo cui elargire quel che hai; presso di me troverai la misura secondo cui ricevere quel che non hai»[38].
Siamo dinanzi ad una continua insistenza del vescovo di Ippona che chiede a ciascun ricco, salvato e redento, di riflettere su che cosa significhi l’essere stato redento, su che cosa comporti, anche in termini salvifici, soteriologici, l’applicazione quotidiana e terrena di quella logica inverata ed incarnata da Cristo: «Nella misura con cui avrete misurato sarà rimisurato a voi». È una richiesta che impone, come si vede da questo passo, un continuo aggiustamento di logiche, una riflessione costante sul rapporto tra il quantum dell’elargizione e le modalità con le quali quel quantum deve e può essere corrisposto, secondo un approccio che tiene presente anche il profilo positivamente accrescitivo di quelle modalità gestionali: «Presso di te c’è la misura secondo cui elargire quel che hai; presso di me troverai la misura secondo cui ricevere quel che non hai».
Che la misura non sia solo una questione etica, di giustizia, ma, più precisamente, un metro misericordioso, un parametro sostanziale che ragguaglia e quantifica una serie di variabili economico-relazionali, vale a dire l’effetto, l’opportunità, la convenienza, in definitiva l’utilità conseguita tra quanto si riceve e quanto si dona, o si condona, risulta essere il nucleo forte di questa Enarratio aperta da un quesito penetrante, davvero decisivo: «Che cosa significa questo prevalere della misericordia sul giudizio?»[39].
L’esegesi che ne è discesa, l’impostazione logico-analitica, pedagogicamente strutturata, che le ha dato vigore, la definizione del lessico impiegato per svilupparla qualificato dallo stesso Agostino come «veramente»appartenente al «linguaggio apostolico» (Enarratio in Ps. 102,12), trovano ulteriore sviluppo nelle considerazioni sul significato dell’agrafon attribuito a Cristo Sudet eleemosyna in manu tua, già attestato in Didachè, I, 6[40].
«Fratelli, abbiamo già in precedenza[41] avuto occasione di parlarvi su questo argomento […] quando ne parliamo lo facciamo non perché vogliamo da voi sovvenzioni materiali; proprio per questo motivo, anzi, possiamo parlare più francamente. Tuttavia, anche nell’ipotesi che vi chiedessimo qualcosa, cercheremmo il vostro fruttato, cioè non i vostri beni materiali ma la [pratica della] vostra giustizia […] Se non volete essere infruttuosi ma in proporzione della pioggia dare proventi, e così evitare la condanna per la vostra sterilità, imponetevi voi stessi un tributo, siate voi stessi gli incaricati della riscossione. Dio infatti minaccia il fuoco alla terra infeconda e coperta di spine, mentre prepara i granai per la terra feconda. Pur senza parlare Cristo esige da voi [le debite prestazioni]; e sebbene taccia, la sua voce è molto forte, dal momento che nel Vangelo non tace […] Fatevi degli amici con le ricchezze inique affinché vi ricevano nei tabernacoli eterni […] Nessuno infatti può [per diritto] venire a riscuotere qualcosa da voi, a meno che in qualche caso non ci sia bisogno che quelli che sono al vostro servizio nel Vangelo siano costretti a chiedervi qualcosa […] Siate dunque voi stessi gli incaricati della riscossione, di modo che quelli che sono al vostro servizio nel Vangelo non dico non siano costretti a chiedervi l’elemosina […] ma nemmeno vi rimproverino col loro silenzio. A questo proposito sta scritto: Beato chi capisce il misero e il povero. Dicendo: Chi capisce il misero e il povero, designa colui che non aspetta d’essere richiesto. Sii intelligente nei suoi confronti! C’è il povero che viene in cerca di te e c’è il povero che tu stesso devi cercare. Miei fratelli, sono nominati tutt’e due. Di uno è stato letto or ora: Da’ a chiunque ti chiede; dell’altro dice la Scrittura in un altro passo: Trasudi l’elemosina in mano tua finché non trovi un giusto a cui darla. Ecco dunque! C’è uno che viene in cerca di te e un altro che tu stesso devi cercare. Non devi lasciare a mani vuote colui che ti chiede [l’elemosina]; infatti dice: Da’ a chiunque ti chiede. Ma c’è anche quell’altro del quale devi tu stesso metterti in cerca. [Dice]: Trasudi l’elemosina in mano tua finché non trovi un giusto cui darla. Non riuscirete a praticare questo precetto se non metterete da parte qualcosa di quello che possedete (quanto a ciascuno riesce secondo le disponibilità delle proprie finanze domestiche), quasi che lo dobbiate consegnare a una specie di fisco (Nunquam hoc facietis, nisi aliquid de rebus vestris sepositum habueritis, quod cuique placet pro necessitate rei familiaris suae, tamquam debitum quasi fisco reddendum). Cristo infatti, come ha una sua società organizzata, così ha un suo fisco. E sapete cosa sia il fisco? […] Il fisco è un recipiente pubblico (Si non habet rempublicam suam Christus, non habet fiscum suum. Fiscus enim scitis quid sit? […] fiscus saccus est publicus). Una specie di fisco possedeva il Signore quand’era sulla terra e di lui si dice che aveva la borsa, la quale era affidata a Giuda (Ipsum habebat Dominus hic in terra, quando loculos habebat; et ipsi loculi Iudae erant commissi). Il Signore tollerava Giuda, traditore e ladro […] Sta però di fatto che quanti gli facevano delle elargizioni le versavano nella borsa del Signore […] (Iudam traditorem patiebatur Dominus et furem, et in ipso ostendens ubique patientiam suam: tamen illi qui conferebant, in loculos Domini conferebant)»[42].
Agostino, dunque, in questa opera di attenta vicinanza ai divites cristiani va oltre. Egli, ampiamente ripreso da Gregorio Magno[43], costruisce per loro un’ortoprassi ancora più concreta, capace non solo di rassicurarli, di dar loro speranza come aveva fatto Clemente in Alessandria[44], ma di offrire strumenti e parametri di gestione della ricchezza fondati e consacrati, dunque legittimati e validati, dalla stessa parola evangelica.
È infatti Zaccheo, il ricco appaltatore convertito da Cristo ospitato nella sua casa, ad essere proposto come modello dell’avveduto dives cristiano: «Io dò ai poveri la metà dei miei beni e, se ho frodato qualcuno, gli restituisco il quadruplo di quanto gli ho rubato»[45]. In questo versetto di Luca, citato da Agostino (Lc 19,8), è racchiuso non solo il messaggio già alessandrino volto a dimostrare l’accoglienza di Cristo da parte del ricco e l’accoglienza del ricco da parte di Cristo[46], ma la concreta operabilità e calcolabilità del nuovo modello di gestione dei propri beni che consegue a questa duplice accoglienza, a questa decisiva conversio salvifica. Zaccheo non abbandona tutti i suoi beni, sceglie, con il placet di Cristo, di metterne in circolazione il 50%, impegnandosi invece a restituire con un interesse elevatissimo, il 400%, i beni che egli ha ingiustamente sottratto. Zaccheo quindi usa della sua competenza, della sua capacità di calcolo e di razionalizzazione economica, per ri-valutare e ri-considerare le proprie risorse in funzione di una nuova etica dell’utilità che deriva dalla sua conversio al messaggio evangelico. Zaccheo costituisce un modello di dives cristiano perché, davanti a Cristo Redentore, si converte e, davanti al Salvatore, propone una specifica valutazione, una contabilizzazione ed una rifunzionalizzazione della sua ricchezza. Egli costruisce inoltre il proprio ragionamento razionale fondandolo non su un rapporto bilaterale ricco – ricchezza, un rapporto esclusivamente basato sul legame tra l’individuo ed i suoi beni, ma su un rapporto triangolare nel quale compare un Terzo: la comunità di coloro che possono fruire utilmente dei beni del ricco, da lui in parte riallocati.
Agostino assume questo Zaccheo come modello da riproporre nella Cartagine e nella Ippona del suo tempo mettendo a punto non solo un piano discorsivo che consente di inserire pienamente i possidentes e i cristiani facoltosi nel novero dei veri cristiani, ma gli permette di insistere su un piano di analisi in cui ricchezza e povertà, ricchezze e Ricchezza, valori e Valore, trovano nuovi spazi di significazione, nuovi gradi di relazione e di relativizzazione tutti ruotanti attorno ad un duplice concetto economico, quello dell’utilità fruttificante, contrapposta alla sterilità punita da Dio stesso, e quello della calcolabilità dell’azione gestionale riguardante i beni materiali e la loro quantificazione monetata. È esattamente il discorso compiuto da Zaccheo di fronte a Cristo Redentore, autore e maestro della sua conversione[47].
La capacità pedagogica di Agostino, che coniuga sapientemente il valore della Redenzione di Cristo con il valore delle prassi, anche gestionali e monetarie, che devono essere attuate dal redento, si presenta, come risulta evidente dal percorso testuale condotto sin qui, quale frutto maturo di una lunga consuetudine apostolica e patristica impegnata a riflettere sul significato «economico»della Salvezza e della Redenzione. Per questo può risultare utile ricordare, all’interno di questa analisi condotta sui testi agostiniani, un passaggio didascalico assai antecedente che illumina, insieme alla Didachè, il percorso che ha consentito ad Agostino di proporre alla sua comunità cristiana il modello cristomimetico di Zaccheo.
A metà del secondo secolo, nella prima similitudine del Pastore d’Erma, è infatti possibile rintracciare una serie di passi dedicati a definire un modello economico cristiano, un approccio ed una prassi di tipo gestionale esemplati da un servo fedele e affidabile, redento dal suo padrone[48]. Ad un primo livello di lettura la parabola, che narra di un servitore che si vede affidare la recinzione della vigna del padrone durante un periodo di assenza di quest’ultimo, mette in luce la capacità del doulos il quale non si limita a piantare la palizzata così come richiesto dal dominus, ma va oltre. Egli, rendendosi conto che vangare la vigna e pulirla dalle erbe che la infestano avrebbe migliorato la produttività dell’appezzamento («vangata sarà più curata, e, non soffocata dalle erbe, darà più frutto»), si applica a queste attività sicché «la vigna divenne bella e rigogliosa». Al ritorno il padrone – che aveva promesso di redimerlo se avesse eseguito il suo mandato – si rallegra dei lavori compiuti dal servo e decide non solo di concedergli la libertas, procedendo tecnicamente ad un atto di redemptio, ma di premiarlo nominandolo coerede dei suoi beni insieme a suo figlio, avendo ottenuto da questi e dai suoi consiglieri la piena disponibilità e il pieno appoggio alla sua decisione. Il servo riscattato diviene coerede dei beni della casa del padrone in quanto «ha pensato ad una cosa buona»- oltre il mero mandato del dominus – «non l’ha scartata, ma l’ha condotta a termine«. Questo servo capace, esemplarmente diligente e sollecito, divenuto non solo liberto, ma futuro dominus, dimostra di saper mantenere la capacità di analisi e di gestione di ciò di cui dispone allorquando, in occasione di una festa data dal signore, riceve molte vivande. Di queste «tolto il necessario per sé, diede poi il resto a tutti i suoi conservi»[49]. Il valore di questa narrazione pedagogica, che ricorre all’istituto della redemptio insieme a quello della dotazione dei beni per lascito testamentario, non si ferma a questo primo livello. Esso assume la sua piena rilevanza, anche teologica, se si legge l’esegesi fornita nella stessa opera: «ti spiegherò la parabola del campo e di tutte le cose relative perché tu le faccia conoscere a tutti. Ascolta dunque ed afferrale. Il campo è questo mondo; il padrone (despotes) del campo chi creò tutte le cose, le perfezionò e le consolidò; il figlio è lo Spirito Santo; il servo (doulos) è il figlio di Dio (o nios tou teou estin)»[50]. In tal modo Cristo non viene solo riconfermato nella sua eminente funzione economica e gestionale all’interno del disegno divino della salvezza, ma è egli stesso soggetto destinatario di una redemptio conferita in base alla verifica di conformità e di adeguatezza di ben determinati comportamenti e capacità economico-gestionali che lo rendono un doulos stimabile e apprezzato, dunque affidabile e credibile sia agli occhi del Padre – dominus (despotes) dell’oikia nella quale è presente la vigna – sia al cospetto dello Spirito Santo, il figlio della parabola con il quale condividerà l’eredità di tutti i beni. È dunque l’intera Trinità ad essere qui decodificata nel suo complesso, unitario e tripartito, ricorrendo ad un paradigma di perfezione gestionale ed, insieme, di salvezza redentiva, una Salvezza che ricorre alla stessa redemptio romanistica metabolizzandola profondamente[51].
La lettura di questa similitudine rende evidente la ricchezza di un materiale linguistico e la finezza analitico-esegetica che ne scaturisce, elementi sui quali Agostino può innestare la sua proposta pedagogica fondata sul rapporto tra Zaccheo ed il maestro Redentore, tra Cristo, esempio supremo di capacità gestionale, utilmente fruttificante e un redento facoltoso.
È questo Cristo che Agostino pone ad oggetto preciso della riflessione rivolta ai ricchi che vogliono davvero diventare cristiani. A questi interlocutori egli spiega che quel Cristo è il Salvatore «diventato mortale per noi» cioè «diventato» per questo obiettivo redentivo «povero pur essendo ricco». L’Apostolo «non dice», prosegue Agostino analizzando il passo paolino contenuto nella seconda lettera ai Corinzi (2 Cor 8,9), «è diventato povero pur essendo stato un tempo ricco, ma: è diventato povero pur essendo ricco. Assunse la povertà, ma non perse la ricchezza: dentro ricco, povero fuori. Dio invisibile nella ricchezza, uomo visibile nella povertà». Così la nettezza del testo latino: «Et non ait: Pauper factus est, cum dives fuisset, sed: Pauper factus est, cum dives esset. Paupertatem assumpsit et divitias non amisit. Intus dives, foris pauper. Latens Deus in divitiis, apparens homo in paupertate»[52].
Sono questa povertà e questa ricchezza ad essere spese, entrambe, nell’atto di redemptio che inizia a produrre i suoi effetti sui redimibili, su coloro che potranno dimostrare di essere salvabili e salvati solo se avranno tradotto in ortoprassi individuale e comunitaria quanto il Salvatore ha messo in atto con l’economia della sua passione, con la sua largitio e dispensatio.
In questo stesso testo già così denso, si può cogliere un’ulteriore valenza di grande interesse. L’omelia agostiniana viene infatti direttamente utilizzata non solo per definire un piano di analisi e di pedagogia dell’economia terrena, ma si sposta a descrivere, ad esplicitare, servendosi del discorso e delle logiche dello scambio, il significato profondo della redenzione di Cristo, ciò che la teologia dell’epoca veniva definendo come «economia della salvezza». È proprio il prosieguo di questi passi del Discorso 36 a dimostrare la perfetta duplice fungibilità del discorso economico cristiano, una fungibilità che non segue vie parallele, ma, sul piano retorico e su quello logico, agisce come reciproco rafforzamento utile per validare entrambi i piani discorsivi svolti con questo materiale: il piano dell’economia celeste e quello dell’economia terrena[53].
Agostino, infatti, riferendosi alla povertà di Cristo appena analizzata conclude in questo modo:
«Per questa sua povertà noi siamo divenuti ricchi, in quanto mediante il suo sangue emanato dal suo corpo […] Fu squarciato il sacco dei nostri peccati [i debiti di cui siamo portatori dopo il peccato originale]. Ad opera del suo sangue gettammo via i cenci della nostra iniquità per rivestirci della stola dell’immortalità»[54].
La povertà di Cristo, che è povertà volontaria, diviene qui valore salvifico attraverso l’adozione di una logica dichiaratamente giuridico-economica in cui il sangue di Cristo costituisce letteralmente il pegno del riscatto, lo strumento che media e consegue la redenzione del debito contratto dagli uomini. Uomini che assumono così, cedendo i cenci della loro infima condizione di iniquità, la stola della ricchezza, la stola che certifica la salvezza e l’immortalità, ma anche l’ingresso in una nuova dimensione di ricchezza. Si legga il testo di questo passaggio nella sua versione latina:
«Hac eius sumus paupertate ditati, quia in sanguine eius qui manavit de carne eius, quod Verbum caro factum est ut habitaret in nobis, conscissus est saccus peccatorum nostrorum. Per sanguinem illum abiecimus pannos iniquitatis, ut indueremur stola immortalitatis»[55].
Il Redentore diffondendo, ovvero distribuendo il suo sangue mortale, apparente povertà in realtà vera e divina ricchezza, ha riscattato i fideles, ha arricchito coloro che credono in lui: «Hac eius sumus paupertate ditati«. Sono essi, in ragione di questa dimensione fiduciaria, ma anche in ragione della consapevolezza individuale, della loro capacità autovalutativa, a poter divenire partecipi del piano divino, di quello che i teologi di III – IV secolo chiamano «divina economia». Si legga, in questa direzione, un passo centrale di Cirillo, vescovo di Alessandria, scritto nel 429, un anno prima della morte di Agostino. «Se osserviamo il modo della morte» di Cristo possiamo affermare che «egli da solo era equivalente a tutti, morendo per tutti, affinché redimesse con il proprio sangue quanto c’è sotto il cielo e guadagnasse a Dio e Padre quelli che giacciono sulla terra […] quindi uno solo […] ha posto la propria anima per tutti e ha permesso che a scopo dell’economia […] la carne fosse consegnata alla morte […] per mezzo del suo sangue abbiamo ricevuto la remissione dei peccati»[56]. Una posizione che viene consolidata da un’importante precisazione contenuta nella seconda lettera di Cirillo indirizzata a Succenso, vescovo della città di Diocesarea, scritta nel pieno di una delle dispute cristologiche più accese (433 – 438) a seguito degli esiti del Concilio di Efeso del 431. In quella lettera Cirillo giunge a sostenere come unico discorso teologico razionalmente fondato quello che afferma la piena divinità del sacrificio di Cristo, ovvero dell’economia che egli ha realizzato per i redimibili, negando ogni fondamento di razionalità a coloro che riducono il valore della morte di Cristo ad un fatto umano.
«Chi esclude l’economia e nega l’incarnazione giustamente può essere accusato di privare il Figlio della perfetta umanità»ma quanto alla «passione del Salvatore [… ] necessariamente bisogna salvare ambedue gli aspetti per l’unico vero Figlio: egli non ha patito secondo la divinità, ma affermiamo che ha patito secondo l’umanità: ha patito la sua carne. Ma di nuovo quelli credono che, in tal modo, noi introduciamo quella che essi chiamano theopatia. Non intendono l’economia, ma tentano maliziosamente di trasferire esclusivamente in un uomo la passione [… ] il loro scopo è che il Verbo di Dio non sia riconosciuto come il Salvatore, il quale ha dato per noi il suo sangue, ma piuttosto intendono affermare che abbia compiuto la passione Gesù, un semplice uomo, considerato per se stesso. Ma una tale maniera di pensare fa crollare ogni principio razionale dell’economia per mezzo della carne e senza dubbio fa diventare il nostro divino mistero una anthropolatria»[57].
Cirillo realizza così una saldatura decisiva anche per l’intelligenza dei testi agostiniani che si sono sin qui considerati e che verranno letti dalle successive generazioni di vescovi cristiani. Essa è infatti stabilita tra la possibilità di sostenere la razionalità e la ragionevolezza del sacrificio redentivo di Cristo, siglato dal termine teologico economia, e la definizione di ciò che assume in sé, esprime e contiene, il massimo valore possibile: l’atto divino, distributivo, della redenzione. Si tratta di un atto di natura dispensativa che, per essere compreso, richiede un’adeguata «maniera di pensare» fondata sul «principio razionale dell’economia». Agli occhi di Cirillo, infatti, è questo l’unico approccio discorsivo, argomentativo e cognitivo che consente la piena penetrazione della logica economico-soteriologica della Passione realizzata da Cristo[58].
Con l’interpretazione del valore e della funzione del sangue di Cristo offerta da Agostino e con la penetrante analisi sulla razionalità dell’economia della Salvezza costruita da Cirillo ci troviamo, nuovamente, di fronte ai poli della redemptio economica e giuridica cristiana: Cristo figura/soggetto singolare – equivalente a tutti – e i redimibili, figura collettiva, valutata e pesata, platea oggetto del riscatto autenticato e garantito dal sangue versato dal Redentore, elemento cruciale sia in Agostino sia in Cirillo[59].
Registrata questa convergenza tra il testo del vescovo di Ippona e quelli del vescovo di Alessandria va rilevato che nei Discorsi agostiniani, così come nello straordinario capitolo primo del primo libro della Città di Dio (I, 10) dedicato a distinguere il buon uso dei beni da quello inutile, il discepolo di Ambrogio mette al centro un elemento fondamentale della sua visione dell’uomo redimibile, della condizione necessaria a renderlo oggetto e soggetto di Salvezza. Si tratta della volontà, dell’intentio che ogni cristiano deve attivare ed esercitare con piena consapevolezza[60].
La valutazione circa l’utilità dei beni, circa la loro fungibilità, il discernimento del loro valore, sino a giungere alla competenza di Zaccheo, alla probità del fidelis che versa parte delle sue utilità al fisco comunitario, sono tutte capacità, abilità, non mere «disposizioni interiori» e attitudini caratteriali[61]. Si tratta di capacità che possono essere coltivate e richieste a ciascun cristiano, a ciascun uomo solo se ad ognuno viene riconosciuto un proprio statuto volitivo e potestativo. Il vescovo di Ippona insiste su questa dimensione umana del cristiano redento proprio nei discorsi dedicati all’analisi della ricchezza e all’elaborazione di una dottrina cristiana dell’economico[62]. Per il Dottore della Grazia, infatti, questa dimensione è propria non di tutti gli uomini, ma di coloro che, avendo aderito alla fede cristiana, avendo accolto la Salvezza elargita e dispensata dal Redentore, acquistano una nuova capacità di azione, una dimensione volitiva, capace di essere tecnicamente misericordiosa[63], disposizione che egli individua nel suo massimo grado di espressione esattamente nel ricco cristiano.
Cosi il Discorso 36: l’Apostolo
«aveva detto: Non sperare nelle ricchezze, che sono incerte. […] Perché [i ricchi] non pensassero di aver perso ogni speranza continuò: Sperino piuttosto nel Dio vivo, che a noi somministra in abbondanza tutte le cose perché ne godiamo. O, più esattamente, le cose temporali perché ce ne serviamo, le cose eterne perché ne godiamo. E della loro ricchezza cosa dovranno fare? Dice: Siano ricchi nelle opere di bene, distribuiscano con facilità. A questo deve giovarti la ricchezza: a non aver difficoltà nel distribuire [i tuoi beni]. Il povero vuole ma non può, il ricco vuole e può»[64].
La duplice qualificazione della soggettività del ricco dotato, a differenza del povero, di potenza e non solo di volontà, di facoltà e di volizione ne fa il soggetto eminente dell’interlocuzione agostiniana e ne fa uno dei migliori candidati, riscattati da Cristo, per attuare le buone pratiche economiche cristiane. Agostino declina questa capacità volitiva del ricco redento affermando che solo colui che dimostrerà di saper ben amministrare l’iniquo mammona, vale a dire l’intera gamma dei beni terreni, muovendosi con scioltezza e agilità (facile) nel tribuere, communicare e thesaurizare[65], sarà ritenuto idoneo, capace di accedere a quelli celesti, ai beni duraturi e dal valore inestimabile che si trovano nel regno eterno:
«Ed è proprio conforme a verità che [questa ricchezza] Dio la dica sua, non solo per averla creata con munificentissima bontà ma anche perché la distribuisce con misura sommamente provvidente (providentissima moderatione dispensat). Se pertanto il Signore nel Vangelo chiama cose di questo genere iniquo mammona, vuol farci intendere che c’è un altro mammona, cioè altre ricchezze che solo i buoni e i giusti possono possedere, per cui quelle che vengono chiamate iniquo mammona sono ricchezze cui l’iniquità ha imposto appunto il nome di ricchezze (Dominus in Evangelio mammona iniquitatis appellat, significat esse alterum mammona id est, alias divitias, quas nisi iusti et boni possidere non possunt, ut ideo mammona iniquitatis vocetur, quia iniquitas eas vocat divitias). La giustizia per contro conosce l’esistenza di altre ricchezze, che adornano l’uomo interiore, come dice l’apostolo Pietro: Colui che è ricco agli occhi di Dio. Queste meritano il nome di ricchezze giuste poiché vengono concesse come retribuzione a meriti buoni e giusti; meritano il nome di ricchezze autentiche ed affidabili, poiché chi le possiede non si trova nell’indigenza. Quanto alle altre, cioè alle ricchezze ingiuste, esse son così non perché siano rei d’ingiustizia l’oro e l’argento ma perché è ingiusto qualificarle come ricchezze, in quanto non liberano [di per sé] dall’indigenza (Illae iustae dicuntur divitiae, quia bonis meritis iustisque tribuuntur. Illae verae dicuntur divitiae, quia quisquis eas habuerit non egebit. Istae vero iniustae divitiae, non quia iniustum est aurum et argentum, sed quia iniustum est eas putare divitias, quae non auferunt egestatem)»[66].
In Agostino, quindi, così come lungo tutta la testualità esaminata a partire dal testo costituzionale della Didachè, l’analisi focalizzata sui criteri gestionali che debbono essere assunti dal cristiano – esemplati sulla logica della salvezza, sulla Redenzione realizzata da Cristo in termini di azione e di economia già messa in chiaro da Ireneo – non si limita a delineare un’etica economica cristiana. Questa riflessione, continuamente approfondita e dilatata, serve a scolpire i lessemi e a forgiare i paradigmi di legittimazione di natura politica che tengono insieme la comunità, strutturandone l’intelaiatura. È ciò che si realizza, anche in quest’ultimo discorso, quando il vescovo di Ippona discute della giustizia dei beni e dell’agire secondo giustizia parlando delle «ricchezze, che adornano l’uomo interiore» e «meritano il nome di ricchezze giuste poiché vengono concesse come retribuzione» ad opere, «a meriti buoni e giusti» conseguiti dagli uomini per altri uomini. Qui, in effetti, la qualificazione etica dei beni, che «meritano il nome di ricchezze autentiche ed affidabili», deriva dalla possibilità tutta politica di poterli inserire in una sfera di giustizia che li libera dallo stigma dell’iniquità, dalla sfera del cattivo mammona[67].
[1] Per questa lunga durata si v. in generale G. Todeschini, Il prezzo della salvezza. Lessici medievali del pensiero economico, Nuova Italia Scientifica, Roma 1994; Id., I mercanti e il tempio. La società cristiana e il circolo virtuoso della ricchezza fra Medioevo ed età moderna, Il Mulino, Bologna 2002; per una serie di specifiche testualità mi permetto un rinvio a P. Evangelisti, ‘Christus est proximus noster’. Costruzione dell’identità e definizione delle infidelitates in Arnau de Vilanova e Ramon Llull, in «Studia Lulliana», XLV (2005-2006), pp. 39-70; Id., I francescani e la costruzione di uno Stato. Linguaggi politici, valori identitari, progetti di governo in area catalano-aragonese, Edizioni Biblioteca Francescana, Padova 2006, in part., pp. 29 – 92 e pp. 268 – 287; Id., Metafore e icone costitutive del discorso politico francescano tra Napoli e Valencia (XIII-XV s.), in «Studi storici» 47 (2006), pp. 1059-1106, comprendente un’appendice sinottica e sistematica di testi bassomedievali; Id., Metafore cristologiche per l’etica politica. Fonti e percorsi di ricerca nei testi di Giovanni da Capestrano, in Giovanni da Capestrano e la riforma della Chiesa, Edizioni Biblioteca Francescana, Milano 2008, pp. 141-168; Id., Il valore di Cristo. L’autocomprensione della comunità politica in Francesc Eiximenis, in «Enrahonar Quaderns de Filosofia» (Departament de Filosofia – Universitat Autònoma de Barcelona) 42 (2009), pp. 65 – 90.
[2] Si rammenti che l’esegesi biblica discute della redemptio non solo analizzando molteplici passi neotestamentari ma, secondo parametri valutativi altrettanto importanti, discutendo un passo decisivo dell’Antico Testamento: Isaia 38,14. Si riporta di seguito quanto sosteneva a metà del XII s. un’autorità della scuola dei Vittorini, Andrea di S. Vittore, discepolo di Ugo, particolarmente sensibile alla dimensione dispositiva e legislativa del testo sacro: «Domine vindica me: protege me. Hebraicarum dictionum que hoc ponuntur apertioris intelligentie causa secundum vulgatam acceptionem in lingua Francorum significatio ponenda: ‘Domine calumniare me, garantiza mÈ. Res nostras furto ablatas, vel quomodocumque perditas, cum ab aliis eas possideri invenimus, nobis eas vindicamus et ita ut loquitur calumniamur. Si vero illi quibus nos res nostras calumniamur ab aliis illas emerint, vel quodlibet modo acceperint debent illi pro illas stare et que vendiderunt, vel aliquo modo contulerunt garantizare. Domine iam servuum tuum quem moribus et mors iam sibi pene rapuit tibi vindicat et calumniare et quasi tuum protege et tuere»; Cambridge, Permbroke college ms. 45, f. 62b, cit. in B. Smalley, Lo studio della Bibbia nel Medioevo, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 2008 (ed. orig. Basil Blackwell & Mott, London 1952), p. 234 n. 50.
[3] Si richiama qui l’attenzione sulla duplice funzionalità e rilevanza politica dei concetti di sovranità (superioritas) e di maiestas (majoritas) utilmente messi a fuoco da J. Chiffoleau in Id., Sur le crime de majesté médiéval, in Genèse de l’ètat moderne en Méditerranée. Approches historique et anthropologique des pratiques et des représentations (Actes des tables rondes de Paris, 24-26 septembre 1987 et 18-19 mars 1988), École française de Rome, Rome 1993, pp. 183 -213, in part. pp. 183 – 184. Si vedano inoltre gli studi fondamentali di E. Kantorowicz, Mistery of states: an absolutist concept and its late medieval origins in «Harvard Theological Review» 48 (1955), pp. 65 – 91; P. E. Schramm, Herrschaftszeichen und Staatsymbolyk. Beiträge zu ihrer Geschichte vom dritten bis sechzehnten Jahrhundert, Hiersemann Verlag, Stuttgart 1954 – 1956 (III voll.); M. Sbriccoli, Crimen laesae maiestatis. Il problema del reato politico alle soglie della scienza penalistica moderna, Giuffré, Milano 1974, seguiti da K. Pennington, The Prince and the Law, 1200 – 1600. Sovereignty and Rights in the Western Legal Tradition, University of California Press, Berkeley – Los Angeles – Oxford 1993. Per un inquadramento nella storiografia più recente si vedrà utilmente, J-Ph. Genet, Pouvoir symbolique, légitimation et genèse de l’État moderne, in La légitimité implicite. Actes des conférences organisées à Rome en 2011 par SAS en collaboration avec l’École française de Rome, dir. J-Ph. Genet, École française de Rome – Publications de la Sorbonne, Paris-Rome 2015, I, pp. 9 – 47, in part. par. Le recours au religieux et ses limites, pp. 20 – 44. Per la costruzione della sovranità e della maiestas medievali tramite l’istituzione fiduciaria della moneta v. P. Evangelisti, La balanza de la soberanía. Moneda, poder y ciudadanía en Europa (ss. XIV – XVIII), Ausa, Barcelona 2015, in part. pp. 57 – 118; Id., La costruzione di un paradigma per la legittimità istituzionale: i discorsi medievali sulla natura della moneta in La légitimité implicite, I, cit., pp. 169 – 198.
[4] Un esempio pienamente maturo del discorso identitario cristiano si legge in alcuni passi dei primi due capitoli della Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea (vescovo di Cesarea in Palestina 313 ca. – 340): «Il mio discorso comincerà, come ho detto, dall’economia e dalla teologia che riguardano Cristo, che sono più sublimi e importanti che se riguardanti l’uomo. Infatti chi si accinge a tramandare per iscritto il racconto della storia della chiesa deve cominciare dall’inizio dell’economia che riguarda Cristo, poiché siamo stati ritenuti degni di trarre anche il nome da lui, economia che è più divina di quanto non sembri ai più (1, 7) […]. [Cristo] è considerato [uomo] poiché a causa della nostra salvezza ha rivestito un uomo soggetto come noi alle passioni […] Con ciò dimostreremo anche l’antichità e insieme la divina dignità della primitiva condizione dei cristiani a quelli che la ritengono nuova e straniera, apparsa ieri e non prima (2, 1); Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, I, testo e trad. in Il Cristo. Testi teologici e spirituali in lingua greca dal IV al VII secolo, Fondazione Lorenzo Valla – A. Mondadori editore, Fondazione Valla 19982, II, (corsivi nostri)
[5] Si vedranno almeno Anselmo da Lucca, Collectio canonum, ed. F. Thaner, Scientia, Aalen 1965 (1a ed. Innsbruck 1915), V, 29; Deusdedit, Summa canonum, 11, 156 in Die Kanonessammlung des Kardinals Deusdedit, Hrsg. V. W. v. Glanvell, F. Schöningh, Paderborn 1905; Decretum Gratiani, pars II, C. XII, q. I, c. 17; C. XII, q. 2, c. 30 e C. XII, q. 2, c. 19 in Corpus iuris canonici, Hrsg. E. Friedberg, B. Tauchnitz, Leipzig 1879 (rist. anast. Graz 1959); Bernardo di Clairvaux, De consideratione ad Eugenium papam, III I.2, in Id., Opere di san Bernardo, a cura di F. Gastaldelli, Scriptorium Claravallense-Fondazione di studi cistercensi, Milano 1984, I, pp. 760-939; Pier Damiani, Epistola 98, in Die Briefe des Petrus Damiani, Hrsg. K. Reindel, Monumenta Germaniae Historica, München 1983 – 89, I-III. Per un antecedente importante, anello decisivo tra la patristica che veniamo analizzando e la giuridificazione di XI – XII secolo: Salviano di Marsiglia, Ad ecclesiam, in Id., Oeuvres, éd. G. Lagarrigue, Les Éditions du Cerf, Paris 1971, I, pp. 135-345, in part.: I, 12.59; II, 1.4; II, 2.8; II, 10.44; II, 12. 54-55; III, 16.71; III, 17. 74-75, pp. 180-182, 188, 190-192, 218, 224-226, 292, 294. Il riferimento al millennio lungo il quale questi lessemi e questi discorsi sprigionano la loro azione si riferisce alla vigenza del diritto canonico codificato a partire da Graziano sino alla riforma voluta dalla Sede apostolica agli inizi del XX sec. culminata con la promulgazione del Codex del 1917 (http://www.internetsv.info/Text/CIC1917.pdf), nuovamente innovato con la riforma entrata in vigore nel 1983 (cfr. Cost. Apost. Sacrae Disciplinae Leges, 25 gennaio 1983; testo del Codex vigente: http://www.vatican.va/archive/cdc/index_it.htm, succ. modd. 2009 e 2015).
[6] Oltre ai passi puntuali citati nella nota precedente si potranno eseguire numerosi riscontri utilizzando uno strumento chiave per l’analisi della testualità normativa decretistica: le Wortkonkordanz zum Decretum Gratiani, a c. di T. Reuter e G. Silagi, Monumenta Germaniae Historica, München 1990, I -V, seguendo per ciascun riscontro l’evoluzione e la stratificazione di auctoritates patristiche e conciliari che fondano le singole statuizioni normative grazianee così come quelle delle palee apposte nei decenni successivi del XIII secolo. Operazione analoga potrà essere condotta sulle principali Summae teologiche prodotte nel corso dei secoli XIII – XV e nei Commenti alle Sentenze prodotte in particolare dagli intellettuali degli Ordini mendicanti nel medesimo periodo. La dimensione normativa allestita per i gestori consacrati dei poteri e dei carismi si nutre inoltre della più antica testualità monastica ove la Redenzione, quale modello cristomimetico e caritativo da seguire, svolge un ruolo fondamentale. Per quest’ultima serie di fonti si possono consultare V. Toneatto, Marchands et banquiers du Seigneur. Lexiques chrétiens de la richesse et de l’administration monastiques de la fin du IVe siècle au début du IXe siècle, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2012, con una ricca bibliografia di fonti e studi, ibi, pp. 391 – 423 ed un ottimo indice dei passi scritturistici, ibi, pp. 429 – 431; P. Evangelisti, Il pensiero economico nel Medioevo. Ricchezza, povertà, mercato e moneta, Carocci, Roma 2016, pp. 55 – 71, ma già G. Todeschini, Il prezzo della salvezza, cit., in part. pp. 119 – 161 e per le fonti, ibi, p. 229 – 237.
[7] Giustino, Dialogo con Trifone giudeo, in Justin, Dialogue avec Tryphon, ed. G. Archambault, Picard, Paris 1909, I, risp. 67, 6, p. 323 e 30, p. 132.
[8] Ireneo di Lione, Adversus Haereses, ed. A. Rousseau, Les Éditions du Cerf, Paris 1979, t. II; I, 10, 3, testo greco I, 4, 1, corsivi nostri.
[9] Tertulliano, Adversus Praxean, ed. G. Scarpat, Loescher, Torino 1959. Si tratta, come noto, di un testo decisivo anche per la definizione del dogma trinitario canonico, ancorché questo trattato, scritto intorno al 213, sia collocato nella fase montanista dell’apologeta cristiano. V. R. Cantalamessa, La cristologia di Tertulliano, Edizioni universitarie, Fribourg 1962.
[10] Sui testi di Giustino, Tertulliano e Ireneo citati nel testo ha richiamato l’attenzione, in una diversa prospettiva storiografica, G. Agamben, Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Bollati Boringhieri, Torino 2009, rist. 2014, pp. 31-58. Un’opera di impianto filosofico che, anche nello stabilire i nessi di continuità tra Tardo Antico ed Età Moderna, non si confronta con i contributi storiografici e le fonti studiate da filoni importanti della medievistica italiana dell’ultimo cinquantennio, né con riflessioni maturate in ambito modernista, ad es. P. Prodi, Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente, Il Mulino, Bologna 2009, ma anche P.A. Schiera, Specchi della politica. Disciplina, melancolia, socialità nell’Occidente moderno, Il Mulino, Bologna 1999, in part. pp. 153-184.
[11] In un’altra opera, decisiva nella costruzione teologico-apologetica del Tertulliano ortodosso, Adversus Marcionem, Cristo redentore e non il Padre è «ille qui descendit, ille, qui interrogat, ille, qui postulat, ille, qui iurat».È Cristo, «arbitro patris et ministro»che «ut tantum homini conferat quantum deo detrahit»; Tertullianus, Adversus Marcionem II, in Il Cristo. Testi teologici e spirituali dal I al IV secolo, intr. A. Orbe, comm. A. Orbe – M. Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla – A. Mondadori editore, Fondazione Valla 20005, I, p. 212. È questa umanità, realizzata nella sua passione, che lo rende Redentore credibile e degno di fede: «Sic nec passiones Christi eius fidem merebuntur. Nihil enim passus est qui non vere est passus […] Totum Christiani nominis et pondus et fructus, mors Christi, negatur […] utique veram, summum eam fundamentum evangelii constituens et salutis nostrae et praedicationi suae. ‘Tradidi’, enim inquit, ‘vobis in primis, quod Christus mortus sit pro peccatis nostris […] et quod resurrexit tertia die’ [1 Cor, 15, 3-4]»; Tertullianus, Adversus Marcionem III, ibidem.
[12] V. infra, par. 3.
[13] Clemente di Alessandria, Tis o soizomenos plousios = Quis dives salvetur?, ed. G.P. Goold, Harvard University Press, Cambridge (Ma) 1982, testo greco e trad. inglese, pp. 270-367, qui cap. 13, pp. 294-297.
[14] Sul finire del primo secolo (95 – 98 d. C.) Clemente, vescovo di Roma, nella sua lunga lettera ai Corinti, aveva delineato, sulla scorta di Paolo (1 Cor 12, 12 – 27 e Rom 12, 4 – 5), la comunità cristiana come un corpo mistico di militanti ed atleti che si riconoscevano in Cristo. All’interno di quel corpo mistico organizzato «il povero»doveva benedire «Dio per avergli dato chi supplisce alla sua indigenza»ovvero «il ricco»tenuto a soccorrere il povero della comunità proprio per conservarla unita: in quanto «le più piccole parti del nostro corpo sono necessarie ed utili a tutto il corpo; ma tutte convivono ed hanno una sola subordinazione per salvare tutto il corpo. Si conservi dunque tutto il nostro corpo in Cristo Gesù […]». Prima di Clemente ai Corinti, XXXVII – XXXVIII; per la definizione dei fideles come atleti secondo l’esempio apostolico v. ibi V; per la militanza attiva e produttiva che li deve distinguere v. ibi, XXXVII, XXX e XXXIV (in I Padri apostolici, ed. e trad. A. Quacquarelli, Città nuova editrice, Roma 1976, pp. 74-75, p. 69, pp. 71-72; testo greco in Clément de Rome, Épître aux Corinthiens, ed. A. Jaubert, Les Éditions du Cerf, Paris 1971). La lettera venne subito tradotta in latino e, secondo Dionigi, vescovo di Corinto, era letta nella liturgia domenicale; l’epistola è conosciuta dallo stesso Clemente Alessandrino.
[15] Si veda, ad esempio, Senofonte, Oeconomica, 8, 11 – 21 in Id., Économique, ed. P. Chantraine, Les Belles Lettres, Paris 1949, ma anche l’Oeconomica dello pseudo – Aristotele in Aristotelis quae feruntur Oeconomica, ed. F. Susemihl, B. G. Teubner, Leipzig 1877. Tra i più importanti commentatori medievali si ricordano qui Guglielmo di Moerbeke, Economica; Durando di Alvernia, traduttore e commentatore del testo, Oeconomica, (XIII s.); Bartholomaeus de Brugis, Scriptum super librum Yconomicorum; Alberto di Sassonia, Expositio in duos libros Oeconomicorum, (XIV s.); Guillelmus Becchius, Commentarium in libros Oeconomicorum Aristotelis, (XV s.); Gilbertus Cognatus, Oikonomikós, (XVI s.). Decisiva per la sua circolazione in età rinascimentale la traduzione di Leonardo Bruni; per i mss.: Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Pl. 79.1, ff. 121v-127v; Mantova, Biblioteca Teresiana (Biblioteca Comunale), 110 (A.IV.16), ff. 65r-87v.
[16] Clemente di Alessandria, Tis o soizomenos plousios = Quis dives salvetur?, cit., cap. 17, pp. 302-305; v. anche cap. 11, ibi, pp. 290-293.
[17] Ibi, cap. 14, pp. 298 -299.
[18] Ibi, cap. 15, pp. 298-301.
[19] Ibi, cap. 21, pp. 312 – 315.
[20] Ibi, cap. 15, pp. 298-301.
[21] Ibi, cap. 16, pp. 300-303, corsivi nostri.
[22] Ibi, cap. 31, pp. 334-337.
[23] Ibi, cap. 32, pp. 336-339.
[24] Si dà di seguito l’esempio della struttura lessicale e argomentativa, pienamente convergente col capitolo 32 di Clemente, presente in uno dei testi didascalici redatti in greco che ebbe larghissima diffusione in tutto il bacino mediterraneo a partire dalla metà del II sec.: il Pastore d’Erma: «Fate le opere di Dio, ricordandovi dei suoi comandamenti e delle promesse che ha fatto. Credetegli, le adempirà se sono osservati i suoi precetti. Invece dei campi riscattate le anime oppresse come uno può, visitate vedove ed orfani […] consumate le vostre ricchezze e tutte le sostanze che avete ricevuto da Dio in questi campi e case. Per questo il Signore vi arricchì, per prestare a lui tali servizi. È molto meglio acquistare questi campi, sostanze e case che ritroverai nella tua città quando vi tornerai. Questo investimento è bello e santo, non ha né tristezza né paura, ma allegria. Non fate dunque l’investimento dei pagani che è dannoso ai servi di Dio, fate l’investimento che vi è proprio, in cui potete rallegrarvi […] Espleta il tuo lavoro e sarai salvo»; Pastore d’Erma, trad. in I Padri apostolici, cit., ed. condotta sulla base di M. Whittaker, Die apostolischen Väter, I: Hirt des Hermas, Akademie-Verlag, Berlin 1956-57 e R. Joly, Hermas Le Pasteur, Les Éditions du Cerf, Paris 1958 -68, I similitudine, L, 7 – 11, p. 292 (corsivi nostri).
[25] Didachè, I, 5; si cita qui dall’edizione in I Padri Apostolici, cit., pp. 29-30; v. anche Constitutions apostoliques, éd. M. Metzger, Les Éditions du Cerf, Paris 1985-1987.
[26] Nel sistema monetario dell’epoca il quadrante (kodrántes) era la più piccola ed infima unità nella scala della divisa utilizzata: per fare un denaro infatti occorrevano 64 quadranti e per un aureo ne servivano 1600.
[27] Si segnala qui, alla luce di quanto emerso dall’intero par. 2, la costruzione di un modello cristiano di gestione dell’economia e del sottostante fondamento valoriale assai diverso dal modello dell’evergetismo classico, praticato anche con finalità di solidarietà e coesione civili tanto nell’area orientale dell’Impero che sarà bizantina quanto in quella latina. Per l’inquadramento di tali forme dell’agire economico e sociale si vedranno utilmente E. Patlagean, Povertà ed emarginazione a Bisanzio, Laterza, Bari 1985; V. Toneatto, Marchands et banquiers du Seigneur, cit. Per la vasta area latina che comprende anche l’Africa romana di Agostino si v. P. Brown, Through the Eye of a Needle. Wealth, the Fall of Rome, and the Making of Christianity in the West, 350-550 AD, Princeton University Press, Princeton 2012.
[28] A. Mandouze, Saint Augustin. L’aventure de la raison et de la grâce, Études augustiniennes, Paris 1968, pp. 595 – 615; P. Brown, Through the Eye of a Needle, cit., p. 355.
[29] Disc. 36, 2 in Agostino, Sermo 36 in Patrologiae Cursus Completus. Series Latina, ed. J.P. Migne, Paris 1844-55 (=PL), vol. 38, e http://www.augustinus.it/latino/discorsi/index2.htm.
[30] Agostino, Città di Dio, trad. e cura di C. Carena, Einaudi, Torino 1992, XII, 8, p. 507, v. anche ibi XIX, 14 e I, 1, pp. 923-925, pp. 53-54; testo latino in Agostino, De civitate Dei contra paganos libri XXII, in PL 41, e http://www.augustinus.it/latino/cdd/index2.htm.
[31] Agostino, De trinitate, ed. a c. di G. Catapano e B. Cillerai, Bompiani, Milano 2012/2013, XIII, iii, 6 – iv, 7; XII, ix, 14; XII, xiii, 21, pp. 722-728, p. 680, p. 692.
[32] Agostino, De doctrina christiana, in S. Agostino, L’istruzione cristiana, a c. di M. Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla – A. Mondadori 20002, I, iii, e xxv – xl, pp. 20-22 e pp. 48-72. Una riflessione che sarà oggetto di amplissime dissertazioni all’interno di pressoché ogni Commento alle Sentenze redatto dagli aspiranti magistri in teologia lungo tutti i secoli del Bassomedioevo. Notevoli, in particolare, i contributi offerti dagli intellettuali degli Ordini mendicanti sin dal primo Duecento. Questa sequenza testuale meriterebbe di essere affrontata organicamente ricostruendone storia ed evoluzione teorica, seguendo le ricadute nelle stesse sezioni dei Commenti dedicate agli aspetti economici (ad es. le diverse distinctiones collocate nelle quaestiones XIV-XVI del libro IV).
[33] La storiografia che si è confrontata con il tema decisivo del rapporto tra pensiero cristiano e disciplinamento della ricchezza in età tardo-antica e medievale, in una prospettiva capace di identificare portati ben più ampi della costruzione di un’etica economica cristiana, ha negli studi di Giacomo Todeschini e, più recentemente, di Valentina Toneatto due riferimenti imprescindibili, si v. almeno G. Todeschini, Il prezzo della salvezza, cit.; Id. I mercanti e il tempio, cit.; Id. Come Giuda. La gente comune e i giochi dell’economia all’inizio dell’epoca moderna, Il Mulino, Bologna 2011; V. Toneatto, Marchands et banquiers du Seigneur, cit.; indispensabili anche gli studi di Salamito a partire dal 1995, si v. almeno J. – M. Salamito, Christianisme antique et économie: raison et modalités d’un rencontre historique, in «Antiquité Tardive», 14 (2006), pp. 27 – 37. Muovono da prospettive alquanto diverse gli studi di G. Agamben, Il regno e la gloria, cit. e P. Brown, Through the Eye of a Needle, cit. Quest’ultimo lavoro propone interessanti stadiazioni storico – sociali dell’approccio cristiano nei confronti delle dimensioni crematistiche in area latina. Il volume, tuttavia, si fonda su un’analisi dei testi assunti come prodotti esclusivi dell’autore che li ha redatti e non prende in considerazione l’apporto determinante dei testi cristiani di area greca e orientale. Mi permetto, infine, un rinvio a P. Evangelisti, Il pensiero economico nel Medioevo, cit., pp. 11-91.
[34] Disc. 36, 5 in Agostino, Sermo 36, cit.
[35] Si veda in particolare Salviano di Marsiglia, Ad Ecclesiam, cit., II, 2; II, 10; III, 13; III, 16 – 17; IV, 4 – 7, rispettivamente pp. 186, 192, 248, 250-252, 312-314.
[36] Agostino, Sermo 36,6 in Sermo 36, cit.
[37] Agostino, Enarratio in Ps. 102,12 in PL 37 e http://www.augustinus.it/latino/esposizioni_salmi/index2.htm
[38] Agostino, Enarratio in Ps. 143, 8 in PL 37 e http://www.augustinus.it/latino/esposizioni_salmi/index2.htm. Si ricorda che il paragrafo precedente, il 7, dedicato come il successivo al secondo versetto del Salmo, viene ampiamente commentato da Agostino riflettendo su due questioni cruciali: la remissione e l’amministrazione dei beni (De offensis condonandis et de propriis rebus elargiendis). Il versetto in questione recita: «Et non intres in iudicium cum servo tuo, quia non iustificabitur in conspectu tuo omnis vivens» ovvero «Non chiamare in giudizio il tuo servo: nessun vivente davanti a te è giusto».
[39] Corsivi nostri. La riflessione omiletica, dunque pedagogica, così sviluppata da Agostino trova un fondamentale punto di saldatura e di coerenza teorica nel De doctrina christiana dove un numero significativo di capitoli (I, III – XL) è dedicato a spiegare la radice stessa dell’essere cristiano e il senso complessivo dell’insegnamento scritturistico, secondo un puntuale ragionamento intorno al rapporto tra la fruizione pienamente soddisfacente di un bene (frui) e il suo mero utilizzo strumentale (uti). L’idoneità e l’adeguatezza dell’uomo cristiano, la sua santità e la sua giustizia nel vivere, sono, infatti, così definite: «Ille autem iuste et sancte vivit qui rerum integer aestimator est; ipse est autem qui ordinatam habet dilectionem, ne aut diligat quod non est diligendum, aut non diligat quod diligendum est, aut amplius diligat quod vel minus vel amplius diligendum est, aut aeque diligat quod vel minus vel amplius diligendum est, aut minus vel amplius quod aeque diligendum est»; Agostino, De doctrina christiana, cit., I, XXVII, p. 68. La puntualità e l’esattezza della valutazione delle cose, degli atti e degli uomini è qui il vero tratto distintivo del cristiano «rerum integer aestimator»; è il punto di partenza da cui muove Agostino per sviluppare l’analisi del primo duplice comandamento: «Diliges dominum tuum ex toto corde tuo et ex tota anima tua et ex tota mente tua» e «Diliges proximum tuum tamquam te ipsum». Infatti «modus ergo diligendi praecipiendus est homini» (ibi, I, XXV, p. 48). Il cristiano è così chiamato ad interrogarsi quotidianamente su come Dio goda (frui) ovvero usi (uti) degli uomini e dei beni (ibi, I , XXXI – 2, p. 58) e, contemporaneamente, su come il cristiano stesso debba godere o utilizzare non solo dei beni materiali, ma delle relazioni sociali e comunitarie che si attuano tra gli uomini (v. ad es. ibi, I, XXIX, pp. 52-54) cercando di comprendere ove si collochi il confine, la soglia tra utilizzo strumentale e soddisfazione piena di un bene che non è mera res, ma è qui elevato a categoria di pensiero e di analisi del mondo che non si esauriscono nella nozione di massimo o sommo Bonum. È un discorso pedagogico impegnativo che, così impostato sin dal III capitolo del I libro («Res ergo aliae sunt quibus fruendum est, aliae quibus utendum, aliae quae fruuntur et utuntur. Illae quibus fruendum est, nos beatus faciunt. Istis quibus utendum est, tendentes ad beatitudinem adiuvamur et quasi adminiculamur, ut ad illas quae nos beatos faciunt pervenire atque inhaerere possimus […]»; Agostino, De doctrina christiana, cit., I, III, pp. 20-22 ), viene a concludersi stabilendo una saldatura diretta con il senso profondo della Redenzione, vale a dire della divina economia: «Perché conoscessimo e fossimo in grado di utilizzare tutto ciò, la provvidenza divina ha disposto tutta l’economia temporale per la nostra salvezza (facta est tota pro nostra salute per divinam providentiam dispensatio temporalis): di essa dobbiamo usare (uti), ma non come di un amore […] permanente, bensì transitorio, come di una via, di un veicolo, di un qualsiasi altro strumento […] affinché amiamo le cose in virtù della finalità che per il loro tramite possiamo realizzare (aut si quid congruentius dici potest, ut ea quibus ferimur propter illud ad quod ferimur, diligamus)»; (ibi, I, XXXV, pp. 64-66).
[40] «Sudi la tua elemosina nelle tue mani, in modo che tu non conosca a chi la dai». Si tratta del passo conclusivo del capitolo di apertura della Didachè (I, 6) significativamente ed emblematicamente dedicato alla gestione delle ricchezze ed alla normativa che deve essere seguita al riguardo, ivi comprese le sanzioni da irrogare a coloro che utilizzano impropriamente i denari della comunità (ibi, I, 4 e 5); si cita qui dall’edizione in I Padri Apostolici, cit., pp. 29- 30; v. anche Constitutions apostoliques, cit. Lo sviluppo esegetico che ne dà Agostino costituisce una testimonianza della crescita dell’analisi e della capacità di lettura cristiana delle logiche economiche maturate nell’arco cronologico che intercorre tra la stesura del passo della Costituzione apostolica e gli anni di redazione delle esegesi agostiniane sui Salmi avviate a partire dalla fine di agosto del 392. Si tratta di una dimostrazione storica del significato e del valore dei passi agostiniani che qualificano il ragionamento su tali questioni come «veramente»appartenente «al linguaggio apostolico» e – parimenti – «veramente vantaggioso» per tutti coloro che, da redenti, sono chiamati a gestire i beni e la ricchezza; v. Agostino, Enarratio in Ps. 102,12, PL 37, e http://www.augustinus.it/latino/esposizioni_salmi/index2.htm.
[41] Il riferimento è al passo citato supra nel testo tratto dall’Enarratio in Ps. 102,12.
[42] Agostino, Enarratio in Ps. 146,17, in PL 37 e http://www.augustinus.it/latino/esposizioni_salmi/index2.htm
[43] Per l’uso dell’Enarratio agostiniana appena citata v. in part. Regula Pastoralis, III, 20, in Gregorio Magno Regula pastoralis, ed. F. Rommel, Les Éditions du Cerf, Paris 1992. Per la circolazione nella patristica latina dell’agrafon, utilizzato sia da Agostino sia da Gregorio Magno, è indispensabile vedere K. Niederwimmer, Die Didache, Vandenhoeck und Ruprecht, Göttingen 1993, I, pp. 112 – 114.
[44] Le radici di questa importante attenzione dedicata al dives che si fa cristiano e all’utilità della ricchezza gestita si ritrovano non solo nel capitolo inaugurale della Didachè già segnalato (I, 4-6), ma anche nel Pastore d’Erma, (Ποιμήν του Ερμά); si v. in particolare la seconda similitudine (LI, I) e il paragrafo dedicato alla necessità delle buone opere all’interno della decima (CXIV, 4), Pastore d’Erma, cit., pp. 296-297 e pp. 345-346.
[45] Agostino, Epistolae, Ep. 153, (lettera a Macedonio, 6.24), in PL 33 e http://www.augustinus.it/latino/lettere/index2.htm
[46] Clemente di Alessandria, Tis o soizomenos plousios = Quis dives salvetur? cit., cap. 13, pp. 294-297.
[47] Da questo punto di vista vi è un pieno allineamento tra l’esegesi della conversione di Zaccheo e l’esegesi dell’agrafon Trasudi l’elemosina in mano tua finché non trovi un giusto cui darla: «Non riuscirete a praticare questo precetto se non metterete da parte qualcosa di quello che possedete […]»; Agostino, ratio in Ps. 146,17, cit.
[48] Pastore d’Erma, cit., LVIII, 5, p. 299, il testo greco della similitudine e la sua esplicitazione si può leggere anche in Il Cristo, I, cit., pp. 46-48.
[49] Pastore d’Erma, LV, 2, cit., pp. 296-297.
[50] Ibidem.
[51] Sulla dimensione giuridica della redemptio di età classica si veda in questo volume il contributo di Laurent Waelkens, La redemptio ab hostibus e la redemptio a domino nel diritto romano.
[52] Agostino, Sermo 36,6, cit.
[53] Si rammenti, anche da questo specifico punto di vista che mette in luce l’importanza del duplice piano discorsivo allestito intorno all’economia della salvezza, il passo esegetico di Andrea da S. Vittore dedicato a Isaia 38,14 citato supra. Un passaggio, scritto in pieno XII secolo, che testimonia la continuità e la solidità di una riflessione biblico-esegetica nella quale il ruolo della redemptio e della tutela giuridica che ne scaturisce si presentano come fattori essenziali della crescita del linguaggio analitico economico cristiano.
[54] Agostino, Sermo 36,3, cit.
[55] Ibid.
[56] Cirillo di Alessandria, Lettera ai monaci, 24-25, in Patrologia Graeca, 77, pp. 9-40, qui nella trad. offerta in Cirillo di Alessandria, Epistole cristologiche, ed. e trad. G. Lo Castro, Città nuova editrice, Roma 1999, pp. 97-98.
[57] Cirillo di Alessandria, Seconda lettera a Succenso, par. IV, in Patrologia Graeca 77, pp. 237-245, qui nella trad. offerta in Cirillo di Alessandria, Epistole, cit., pp. 194-196. Sul punto sono fondamentali anche le argomentazioni che strutturano il paragrafo successivo della medesima lettera.
[58] Si ricorderà, per l’insieme delle questioni anche di rilevanza normativa e conciliare circa l’interpretazione del significato della Passione redentiva di Cristo, quanto contenuto nella lettera paolina ai Filippesi: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale pur essendo di natura divina (Hoc sentite in vobis, quod et in Christo Iesu: qui cum in forma Dei esset), non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio (non rapinam arbitratus est esse se aequalem deo), ma […] si fece obbediente fino alla morte e alla morte di croce [Ph 2, 5 – 6, corsivi nostri]. Il sintagma tesoro geloso è la traduzione del termine greco arpagmon, termine che i biblisti intendono legittimamente traducibile come res retinenda o res rapienda, insistendo tuttavia sulla prevalenza della prima accezione con equivalenti semantici quali tesoro, guadagno, cosa da trattenere o usare a proprio vantaggio; basti qui ricordare due passi convergenti di Eusebio di Cesarea: «Pietro considerava la morte in croce come un guadagno (αρπαγμον) rispetto alle speranze di salvezza»(Eusebio, Commentario su Luca, 6) e «molti cristiani consideravano la morte come una cosa da usare a proprio vantaggio (arpagma) per sfuggire alla depravazione degli empi»(Eusebio, Storia Ecclesiastica, VIII, 12, 2, per il testo orig. v. Eusèbe de Césarée, Histoire Ecclesiastique, ed. G. Bardy, Les Éditions du Cerf, Paris 1958). Anche nel greco pre-cristiano e nella testualità greca non cristiana dei primi due secoli dell’era volgare questa precisa accezione è largamente presente in autori assai diffusi: Tucidide, La guerra del Peloponneso, III, 33; Lisia, Frammento XIX; Xenofonte, Memorabili, I; Plutarco, De Alexandri magna fortuna aut virtute, I, 8; Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, II, 41; Luciano di Samosata, Ermotino, 52; Galeno, De Semine, IV e De Simpl. Medicam., XII. Cfr. inoltre W. W. Jaeger, Eine stilgeschichtliche Studie zum Philipperbrief, in «Hermes» 50 (1915), pp. 537- 553; R. W. Hoover, The Harpagmos Enigma: A Philological Solution, in «The Harvard Theological Review», 64 (1971), pp. 95 – 119. La Nuova Diodati del 1991 traduce così il passo paolino: «non considerò qualcosa a cui aggrapparsi tenacemente l’essere uguale a Dio»; mentre la versione vaticana corrente dà: «non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio»; la Concordata propone: «non ritenne come cosa da far propria avidamente l’essere uguale a Dio».In ogni caso, sia che si voglia privilegiare il retinere oppure il rapere, il passo concentra l’attenzione dei discenti sulla modalità con la quale si deve gestire un bene, incarnato al suo massimo livello nella natura divina che è nel Cristo e del Cristo (si notino le due espressioni che descrivono la natura di Gesù come morphé theou e isa theo). Il passo postula quindi direttamente, proprio per il tramite del termine – chiave arpagmon, una cristomimesi dei redenti, segnatamente dei consacrati e di coloro che sono facoltosi, di coloro che tra i fideles sono chiamati ad una buona ed utile amministrazione. Si legga in proposito il versetto che stiamo analizzando (Ph, 2, 5-6) nel contesto della lettera alla comunità cristiana di Filippi da Ph 2, 1 a Ph 2, 7. La citazione paolina, decisiva per la formazione del canone cristologico discusso per tutti i primi secoli della Chiesa – corpo spirituale ed istituzionale che si disegna tanto in Oriente quanto in Occidente -, è ripresa in chiave polemica anche nella controversia teologica che portò allo scontro tra Nestorio di Antiochia e Cirillo stesso sin dentro (e oltre) il concilio di Efeso: «egli [Paolo] facendo memoria della divina incarnazione e volendo parlare anche della passione, pone anzitutto la parola Cristo, termine comune alle due nature […] e continua con espressioni che convengono ad entrambe le nature. Che cosa dice infatti? Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma […] si fece obbediente fino alla morte e alla morte di croce»; Seconda lettera di Nestorio a Cirillo, in Conciliorum Oeconomicorum Decreta, a c. di G. Alberigo et Al., Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 19912, p. 46, con testo greco e latino a fronte. Si tratta di uno dei molti casi nei quali si assiste alla giuridificazione di un tratto identitario cristiano che si realizza con un passaggio diretto dalla letteratura controversistico – teologica alla codificazione conciliare assumendo così i connotati propri di un canone dogmatico e normativo. Nel caso specifico questo meccanismo si rivela di particolare interesse in quanto coinvolge un elemento portante del discorso cristiano che propone un modello idoneativo – gestionale. Per un’importante esegesi agostiniana del passo, atta a dimostrare la coessenziale funzione «servile»di Cristo Mediatore, v. Agostino, De trinitate, cit., I, vii, 14 e VII, iii, 5, testo latino: pp. 38-42 e pp. 426-428.
[59] Agostino, Sermo 36, 3, cit.; Cirillo di Alessandria, Lettera ai monaci, 24-25, cit.; Id., Seconda lettera a Succenso, par. IV, cit.
[60] Agostino, La città di Dio, cit., pp. 17-20, testo latino in PL 41 e http://www.augustinus.it/latino/cdd/index2.htm
[61] Una testimonianza significativa di questo approccio pedagogico agostiniano che non si limita alla sua produzione omiletica si legge nel De trinitate. Qui il lettore è invitato ad impegnarsi per comprendere «la sostanza di Dio»e la sua «incommutabilità»riflettendo sulla natura della moneta che può «senza alcun mutamento, essere detta tante volte in senso relativo, senza che avvenga qualche mutamento nella sua natura o forma per la quale è una moneta, né quando comincia ad essere detta così [‘prezzo’ oppure ‘pegno’], né quando cessa di esserlo«. È sulla base di questa analisi, che distingue natura e forma della moneta dalle sue differenti denominazioni, inerenti alle possibili prestazioni funzionali del nummus, che «dobbiamo accettare, riguardo a quella incommutabile sostanza di Dio, che di essa si dica qualcosa in senso relativo rispetto ad una creatura»; Agostino, De trinitate, cit., V, xvi, 17, testo e trad.: pp. 364-371. Si ricorderà che al centro dell’opera agostiniana vi è la discussione teologica sulle tre figure che compongono la Trinità nella sua definizione ortodossa e che, proprio nel capitolo V, egli mette a fuoco – per il tramite del concetto relazionale – la vexata quaestio circa i predicati che distinguerebbero il Padre dal Figlio, posizione teologica sostenuta in particolare dagli ariani contro il Simbolo niceno.
[62] Si confronteranno utilmente i passi di Cirillo e le esegesi agostiniane che si sono qui analizzate con le modalità di verbalizzazione della passione e della redenzione di Cristo contenute in uno dei testi più risalenti della riflessione cristologica cristiana: le lettere di Ignazio di Antiochia, vescovo e poi martire tra il 107 ed il 118, esponente eminente della cultura della primissima «chiesa di Siria»: «Poiché le cose hanno una fine e due cose ci sono davanti, la morte e la vita, ciascuno dovrà andare al suo posto. Ci sono come due monete, una di Dio e l’altra del mondo ed ognuna di esse ha la sua impronta coniata; gli infedeli quella di questo mondo, i fedeli nella carità quella di Dio Padre per Gesù Cristo. Se non avessimo a morire spontaneamente per lui nella sua passione, la sua vita non sarebbe in noi»; Ignazio di Antiochia, Lettera ai Magnesii, V, in I Padri apostolici, cit., p. 110 (corsivi nostri); testo orig. in Ignace d’Antioche, Lettres – Lettres et Martyre de Polycarpe de Smyrne, ed. P.-T. Camelot, Les Éditions du Cerf, 1a ed. Paris, 1945, Paris 2007, rist. della 2a ed. 1998. La moneta vitale, quella redentiva, è così l’unica moneta che segna l’identità dei fideles ed è l’unica che può aver corso per coloro che intendono la carità redentiva ed il significato della salvezza divina realizzate da Cristo: ciò che i teologi verranno definendo come economia divina nello stesso secolo in cui Ignazio lascia questa riflessione didascalica. La moneta di Ignazio, quella che reca il conio divino, è dunque insieme bandiera, vessillo identitario e divisa autenticata della comunità cristiana dei fideles che intendono la carità e sono capaci di darle corpo. La «società organizzata»ed il «fisco di Cristo» proposti dal vescovo di Ippona nell’Enarratio in Ps. 146,17 trovano quindi nel passo di Ignazio una delle loro matrici più antiche ed autorevoli. Sarà peraltro lo stesso Agostino a servirsi dell’immagine della moneta, la cui natura politologica è incomprimibile ed innegabile, per farne un tratto identitario del vero cristiano (Agostino, Sermo 9.9, in PL 38, e http://www.augustinus.it/latino/discorsi/index2.htm). In questa direzione è indispensabile sottolineare il valore politologico dello stesso discorso didascalico di Ignazio, oltreché di quello agostiniano che veniamo analizzando nel testo. In entrambi i passi va infatti tenuto presente l’elemento volontaristico presente nella prefigurazione di comunità che essi ci offrono. Una comunità di uomini, di fideles, capace di organizzarsi e finanziarsi dandosi valori fondativi, criteri gestionali e di affidabilità spendibile, ma anche parametri di misura propri, in definitiva segni numerabili e simboli specifici, validati ed identitari. Su alcuni aspetti di questo discorso di lunga durata nella testualità e nell’iconografia dell’Occidente cristiano mi permetto un rinvio a P. Evangelisti, La balanza della soberanía, cit.; per il periodo tardo antico sono fondamentali gli studi di P. Radici Colace, Moneta, linguaggio e pensiero nei padri della Chiesa fra tradizione pagana e esegesi biblica, in «Koinonia» 14 (1990), pp. 47 – 64 e D. Lau, ‘Nummi Dei sumus’. Beitrag zu einer historischen Münzmetaphoric, in «Wiener Studien» 93 (1980), pp. 192 – 228; si vedrà utilmente anche P.A. Schiera, Misura 2004, Professionaldreamers, Trento 2004; Id., La misura del ben comune, Eum, Macerata 2010; Id., Dal potere legale ai poteri globali. Legittimità e misura in politica, Scienza & Politica, Quaderno n. 1, Dipartimento di scienze politiche e sociali – Università di Bologna, Bologna 2013.
[63] Secondo la specifica accezione data da Agostino nelle Enarrationes in Psalmos, 102,12 e 143,8, esaminate supra.
[64] Disc. 36, 6. in Agostino, Sermo 36, cit.
[65] Ibidem: «Sed de divitiis suis quid faciant? Divites sint, inquit, in operibus bonis, facile tribuant [1 Tim 6, 18]. Hoc prosint divitiae, ne sit tibi difficultas tribuendi. Vult enim pauper, et non potest. Vult dives, et potest. Facile tribuant, communicent, thesaurizent sibi fundamentum bonum in futuro, ut apprehendant veram vitam [1 Tim 6, 18 – 19]».
[66] Agostino, Sermo 50, 6, in PL 38 e http://www.augustinus.it/latino/discorsi/index2.htm. Si noti come in questo testo la mediazione sia esercitata dal Figlio anche relativamente alle azioni economiche che discendono dal Padre: «Et eam verissime Deus dicit suam, quam non solum condidit affluentissima bonitate, sed etiam providentissima moderatione dispensat. Cum autem hoc genus rerum Dominus in Evangelio mammona iniquitatis appellat, significat esse alterum mammona id est, alias divitias, quas nisi iusti et boni possidere non possunt, ut ideo mammona iniquitatis vocetur, quia iniquitas eas vocat divitias» (corsivi nostri).
[67] Si dovrà focalizzare con attenzione la semantica agostiniana conferita al lessema iniquitas presente con un significato davvero decisivo tanto nel sermo appena citato quanto nel sermo 36, 3. In entrambi i contesti esso non si configura come una generica malvagità, o come una condizione di mera povertà, ma si specifica in una potenzialità negativa di un bene o di una condizione che il cristiano deve saper mutare di segno, riconvertendolo ad una logica positiva, di iustitia nell’uso delle cose. È questa capacità che diventa, nello stesso discorso agostiniano, ma anche nelle opere di Clemente Alessandrino, tratto identitario e distintivo del vero cristiano. Nella prima testualità didascalica cristiana la coppia semantica iniquità/malvagità – considerata come manifestazione di un errato comportamento economico comprensivo di un deficit di analisi strutturale che marchia così l’infidelis, segnatamente l’ebreo incapace di leggere la Scrittura nella sua dimensione spirituale – è ben testimoniata da un passo della Lettera di Barnaba redatta tra il I e il II secolo: «Mosè nel dire: ‘Non mangiate né maiale, né aquila, né sparviero né corvo’ […] aveva in mente tre precetti […] e Mosè parlava nello spirito. Quanto alla carne di maiale è da intendere: non unirti agli uomini che sono tali da rassomigliare ai porci. Quando gozzovigliano si dimenticano del Signore, quando invece hanno bisogno si ricordano di lui […] ‘Non mangerai l’aquila, né lo sparviero, né il nibbio né il corvo’ significa: non unirti, né essere simile a uomini tali che non sanno procurarsi il cibo con la fatica e il sudore, ma rubano nella iniquità la roba degli altri e stanno spiando mentre camminano con aria innocente e osservano chi spogliare per cupidigia. Sono come questi uccelli, i soli che non si procurano il nutrimento, ma oziosi, appollaiati cercano di divorare la carne altrui, pestiferi per la loro malvagità»; Lettera di Barnaba, X, in I Padri apostolici, cit., pp. 200-202, (corsivi nostri); testo orig. in Épître de Barnabé, ed. R. A. Kraft, P. Prigent, Les Éditions du Cerf, Paris 1971. Sulla valenza politologica della testualità cristiana qui esaminata si v. anche n. 61, supra.