01
NOV
2018

Redemption-II. In-depth: La redemptio ab hostibus e la redemptio a domino nel diritto romano (Laurent Waelkens)

Abstract

Redemptio ab hostibus and redemptio a domino in Roman law

This essay presents a synthetic historical account of the Roman juridical institution of the redemptio ab hostibus and the redemptio a domino, which allowed people who had been enslaved in war, or as debtors, to regain their freedom. Particular attention is paid to the condition of the slaves – and their incomes – in the familia of the redeemer to which they belonged until the price paid to obtain their release from the enemy (in the first case) or to purchase them as slaves (in the second case) had been reimbursed. The procedure for the reimbursement is described, and the analysis moves from classical Roman Law  to the Middle Ages, highlighting the difference between the status of the slave according to Roman Law and the status of the slave during modern colonialism (when no formal procedure for ransom and reimbursement  was possible).

LA REDEMPTIO AB HOSTIBUS E LA REDEMPTIO A DOMINO NEL DIRITTO ROMANO

  1. Alle origini della redemptio ab hostibus

Nel diritto romano dell’antichità troviamo un’istituzione che tocca direttamente l’oggetto della ricerca raccolta in questo volume e volta a comprendere, nelle loro radici, i termini “redimere” e “riscattare”. Si tratta nello specifico della redemptio ab hostibus.

Di fatto non sappiamo molto di tale istituto. In età repubblicana, un prigioniero di guerra nemico veniva considerato uno schiavo. I consoli potevano restituirgli la libertà, cosa che accadeva regolarmente quando i prigionieri erano disposti a battersi per Roma; potevano anche impiegare i prigionieri di guerra come servitori di corvée presso l’esercito – tenendoli dunque in servitudine – o venderli come schiavi – come servi. Tale vendita – all’epoca della Repubblica romana – si faceva per mezzo della emptio-venditio, l’antenata del nostro contratto di vendita. Tuttavia, è importante da subito ricordare che i termini “schiavi” e “schiavitù” che utilizziamo oggi hanno un significato piuttosto diverso: essi risalgono, infatti, ai tempi moderni e sono legati alle vicende dei prigionieri di guerra slavi catturati da Costantinopoli nel corso delle guerre slave[1].

Allo stesso modo, un romano fatto prigioniero di guerra dal nemico otteneva lo status di schiavo secondo il diritto romano. Tecnicamente ciò voleva dire che i diritti civili, propri del suo status di soldato, erano temporaneamente sospesi. In effetti, nel diritto romano repubblicano lo status di soldato era definito dal termine status libertatis, e la libertas repubblicana non era null’altro che la somma dei privilegi accordati ai soldati, tra cui erano tra l’altro compresi il diritto di disporre liberamente del proprio soldo e di commerciare, il diritto di suffragio all’interno dell’armata, il diritto di fare testamento, il diritto alle nozze consensuali e l’accesso alle funzioni pubbliche. Se l’esercito fosse stato soddisfatto di loro, essi avrebbero potuto mantenere tali privilegi – come veterani – fino all’ultimo. Ci si può spingere a dire che in ciò stava il segreto della forza delle legioni repubblicane: si tratta infatti di privilegi giuridici che non costavano nulla sotto il profilo economico, ma che erano estremamente motivanti per le giovani reclute romane[2].

Lo status di libertà implicava l’ottenimento dei diritti civili. I soldati – e i veterani – erano tra di loro dei cives, dei compagni d’armi, e per risolvere i conflitti reciproci e privati eventualmente insorti potevano fare appello ai tribunali militari del pretore; nelle controversie private – tra compagni d’armi – la giustizia militare teneva conto dei loro privilegi, di tutte le loro libertà, dei loro diritti civili. La perdita dello status militare equivaleva alla perdita dei diritti civili. Era esattamente quello che si verificava quando un soldato romano cadeva prigioniero dai nemici e, poiché nel regime repubblicano l’assenza di diritti civili equivaleva allo status di schiavo, ne consegue che il soldato romano prigioniero acquisiva tale status.

Qualora il soldato prigioniero fosse riuscito a fuggire, egli riguadagnava immediatamente il proprio status di libertà: ciò era sancito dallo ius postliminii, con cui si riconosceva che egli aveva fatto ritorno all’interno dei confini della repubblica. Tuttavia, poteva naturalmente capitare il nemico vendesse i propri prigionieri di guerra come schiavi. Si poneva in questi casi un problema rilevante: che cosa accadeva se i cittadini romani acquistassero dal nemico dei Romani prigionieri di guerra? Questi ultimi ottenevano lo ius postliminii oppure diventavano veramente gli schiavi dei concittadini che, acquistandoli, li avevano riscattati? Qual era lo status del Romano riscattato dal nemico da un altro cittadino romano[3]?

Eccoci dunque condotti all’istituto che ci interessa approfondire, la redemptio ab hostibus. Sono poche le fonti che abbiamo a disposizione per analizzare questo status. La fonte principale è costituita dal titolo 49,15 del Digesto dell’imperatore Giustiniano (VI secolo d.C.), ove si tratta delle persone riscattate dal nemico. Vi leggiamo che il prigioniero che era schiavo al momento della cattura rimane tale  anche dopo esser riscattato. Al contrario, con il riscatto il prigioniero che al momento della cattura era civis recupera la propria piena libertà, in base allo ius postliminii; tuttavia, egli resta in potestate di colui che ha pagato per lui, fino al momento in cui a quest’ultimo non venga rimborsato il prezzo pagato[4] – ovvero, come indica l’espressione in potestate, fino a quel momento egli fa parte della famiglia di colui che ha pagato il suo riscatto.

È importante a questo punto rilevare che la famiglia romana non deve essere confusa con la nostra famiglia, ampiamente ispirata dal kidushin giudeo-cristiano[5]. Il cittadino romano poteva invocare davanti al tribunale del pretore – e di seguito davanti al tribunale imperiale – i propri diritti civili in favore di terzi, agendo in virtù del proprio ruolo di paterfamilias. Ora, nonostante la prossimità etimologica, la nozione di paterfamilias non ha nulla a che vedere con la paternità; ne troviamo conferma nel fatto che nella terminologia greca dell’epoca tale figura non corrispondeva al patèr, ma all’oikotès. Secondo la giurisprudenza romana, il paterfamilias è in regime di comunità di beni con tutti i membri della propria famiglia, sicché c’è un solo patrimonio per ogni famiglia. Inoltre, in quanto cittadino, il paterfamilias poteva prendere sotto la propria protezione un qualunque terzo nell’ambito di un processo contro un concittadino, assumendosene naturalmente anche tutta la responsabilità: era infatti sufficiente che, attraverso un atto pubblico al foro, per aes et libras, egli prendesse qualcuno sotto la propria protezione affinché questi fosse considerato davanti al tribunale come un membro della sua famiglia.

Una persona che fosse stata riscattata dal nemico si trovava pertanto ad essere inserita all’interno della famiglia così concepita: essa riotteneva la propria libertà, ma rimaneva parte della famiglia del suo redemptor, del suo salvatore, fino al momento in cui il prezzo pagato non venisse rimborsato o rimesso, o fino a quando il salvatore, con una sua dichiarazione, stabiliva che essa ne fosse dispensata. Fino ad allora, la persona in questione conservava lo status di un alumnus libero all’interno della famiglia: essa era politicamente libera, ma economicamente legata al nuovo paterfamilias[6].

In una simile situazione potevano verificarsi due casi. Se, prima di essere fatto prigioniero, il riscattato era un agiato possidente, egli poteva recuperare tutti i suoi beni grazie allo ius postliminii, i quali entravano a far parte del patrimonio della famiglia del suo salvatore. Dal momento in cui quest’ultimo si era visto rimborsare il prezzo pagato, però, l’uomo riscattato doveva essere liberato e, qualora non gli fossero stati restituiti, al netto del prezzo del riscatto, i beni di cui era proprietario, egli aveva il diritto di intentare un’azione contro il suo riscattatore, segnatamente la condictio sine causa.

Ma se, invece, il prigioniero riscattato non possedeva immediatamente i mezzi per rimborsare il proprio salvatore, come avrebbe potuto essere possibile per lui rimborsarlo in seguito, dal momento che viveva in comunità di beni con una famiglia il cui patrimonio era amministrato da un paterfamilias da cui dipendeva? Per comprendere ciò è necessario ricordare brevemente il sistema della contabilità familiare romana. La famiglia era una struttura di responsabilità e la contabilità rappresentava il modo di annotare e aggiornare averi e obbligazioni[7]. Il paterfamilias infatti annotava le entrate e le spese della sua famiglia in un codex accepti et expensi, il suo registro finanziario. Allo stesso tempo le annotava in un secondo codice, il codex rationum. In questo libro mastro ciascun familiare aveva il proprio conto; ogni entrata proveniente dall’esterno, così come ogni spesa sostenuta, era accreditata o addebitata a uno di essi. Era di solito compito dei banchieri tenere questi conti per i loro clienti. Tecnicamente tutti gli averi della famiglia appartenevano al paterfamilias, ma i familiari ottenevano dei diritti a partire dal proprio foglio di conto. In assenza di conflitto, le somme iscritte e i conti dei familiari costituivano delle obbligazioni “naturali”; in caso di conflitto tra il paterfamilias e un membro della sua famiglia, invece, il tribunale avrebbe tenuto in considerazione tale contabilità e le somme attribuite a ciascuno nel codex rationum sarebbero state considerate come diritti dei singoli membri della famiglia[8].

Torniamo al nostro prigioniero riscattato: egli ha verso il suo paterfamilias un debito, che è stato iscritto sul suo conto come “debito per riscatto”. Se ora immaginiamo che detto prigioniero sia impegnato in un lavoro e abbia un salario, è facile immaginare che tale salario debba andare al suo paterfamilias; questi, però, dovrà iscriverlo sul suo conto tra le entrate. Nel momento in cui il paterfamilias avrà iscritto una somma maggiore rispetto alla somma pagata per il riscatto, egli dovrà lasciar andare quello che era diventato suo familiare: non ha più nessun mezzo giuridico per continuare a tenerlo nella sua famiglia.

Il prigioniero riscattato, da sua parte, poteva invocare la vindicatio libertatis.[9] Tutti gli abitanti della Repubblica e dell’Impero – anche gli schiavi – vi avevano diritto e potevano, in qualsiasi momento, rivolgersi alla giustizia per far constatare il proprio status di libertà. In caso di vindicatio libertatis, il giudice prendeva in esame le promesse fatte al richiedente e la contabilità del suo paterfamilias. Nel codex rationum si leggevano le convenzioni stipulate tra paterfamilias e familiare (per esempio. “ti do la libertà per 500 sesterzi”), nonché le somme rese dal familiare al suo paterfamilias che erano imputabili su questa obbligazione (un salario, oppure, per esempio, “1/12 dell’utile che ricavo grazie alla tua attività”). In assenza di contabilità, il giudice deliberava lui stesso sulle obbligazioni naturali presunte all’interno della famiglia. Con l’azione di vindicatio libertatis, il nostro prigioniere riscattato non solo poteva richiamare dal suo redemptore la libertà, ma anche la liquidazione dei conti. Così, ad esempio, poteva sostenere davanti al giudice che il suo paterfamilias aveva trattenuto troppo, oppure di avere diritto alla riduzione del prezzo che gli era stata promessa o ad una quietanza del suo debito. Poteva eventualmente sostenere che il suo paterfamilias gli avrebbe dovuto rimborsare del denaro sostenendo che il suo nuovo paterfamilias aveva pagato un prezzo troppo alto al nemico per riscattare la sua libertà? Non abbiamo alcuna fonte che ci spieghi ciò che il giudice era tenuto a decidere in questo caso. Si può supporre – e tornerò su questo punto a breve – che il prigioniero di guerra fosse implicato nella trattativa sul prezzo. Ma una cosa resta certa: la redemptio ab hostibus creava un debito civile del prigioniero liberato nei confronti del suo salvatore.

In quanto uomo libero, il prigioniero riscattato poteva recarsi dove voleva. Tuttavia, se il redemptor aveva il timore che egli fuggisse senza rimborsarlo, poteva fare richiesta di misure provvisorie al tribunale, il quale interveniva ad esempio stabilendo che il riscattato dovesse restare nella città o nel villaggio, o dovesse presentarsi regolarmente presso l’amministrazione locale. Nella letteratura si fa menzione del fatto che il riscattante avesse il riscattato “in pegno” e dunque godesse nei suoi confronti di un diritto reale[10]. Secondo il diritto romano, però, era impossibile che ciò si verificasse nei confronti di un uomo libero. Una simile lettura deriva da un’interpretazione moderna del fatto che il giudice potesse pronunciarsi in merito al “possesso dello stato” della persona riscattata; ciò però non implicava affatto il “possesso” di quella persona, ma solo la possibilità di controllarne i movimenti. L’intervento del tribunale si limitava a dare al redemptor il diritto a un’interpellanza alle autorità pubbliche per ricondurre presso di sé il prigioniero liberato qualora questi non si fosse attenuto ai propri obblighi. Contro tale misura, il prigioniero riscattato poteva intentare la vindicatio libertatis.

Nella pluralità di casi, una cosa sembra certa, ossia che la redemptio comportava sempre una compensazione: il rimborso del prezzo pagato, una satisdatio – cioè una compensazione che non era in denaro – oppure una forma di liberalità. La redemptio ab hostibus dava luogo a un legame che non poteva essere rotto senza un atto giuridico o la decisione di un tribunale.

 

  1. La redemptio in tempo di pace

Il diritto romano non sarebbe stato diritto romano se i cittadini della Repubblica, e in seguito dell’Impero, non avessero utilizzato l’istituzione con altri fini. Detto altrimenti, se anche la terminologia è rimasta sempre la stessa, il contenuto dell’istsituto è cambiato col tempo. Si pensi in parallelo al caso emblematico dell’evoluzione della cosiddetta venditio trans Tiberim. Se un cittadino non era in grado di pagare i debiti, poteva perdere la propria libertà ed essere venduto come schiavo; trans Tiberim significava infatti, all’epoca dei re, “presso gli Etruschi”, ossia equivaleva ad essere venduto al nemico. In epoca classica venne sempre utilizzato lo stesso termine, seppure quel nemico non fosse più coinvolto: qualsiasi vendita di una persona ridotta in schiavitù, non importava in quale città, si chiamava trans Tiberim.

Subendo una sorte non molto diversa, la terminologia della redemptio ab hostibus venne utilizzata per il semplice riscatto di uno schiavo operato da lui stesso. Già all’epoca della Repubblica, infatti, gli schiavi avevano in alcuni casi la possibilità di guadagnare la propria libertà. Una pratica corrente consisteva nel donare la libertà come beneficio a schiavi che avessero realizzato delle determinate cifre d’affari in un’attività, o che avessero ottenuto dei buoni risultati nello sfruttamento agricolo o forestiero. In questo caso concludevano un accordo con il loro dominus in seguito a cui, il giorno in cui avessero realizzato l’obiettivo preposto, sarebbero stati liberati informalmente; in caso di contenzioso, essi avrebbero potuto invocare in tribunale la vindicatio libertatis e richiedere una liberazione formale. Gli schiavi potevano dunque chiedere in giudizio la propria liberazione qualora avessero convenuto un patto di questa sorta con il loro dominus[11].

Ed è in questo caso che entra in gioco la redemptio ab hostibus in tempo di pace. Capitava infatti che uomini e donne indebitati, perseguiti dai creditori o semplicemente in una situazione economica precaria, si presentassero al mercato e si mettessero personalmente in vendita[12]. Potevano rifugiarsi così sotto l’ala protettiva della famiglia di un paterfamilias e guadagnare in una sola volta la somma necessaria a rimborsare i debiti. “Per mille sesterzi, io sarò vostro schiavo”. A quel punto cominciava la discussione per accordarsi con il compratore sulle condizioni a cui il nuovo schiavo avrebbe potuto riscattarsi. “Quanti debiti avete?” Importante domanda a porsi, perché per i creditori la perdita dello status non estingueva i debiti: attraverso una restitutio in integrum questi avrebbero potuto essere esatti anche se il debitore fosse divenuto schiavo di un terzo. E quindi la proposta, ad esempio: “Vi prendo come schiavo, e pago il vostro mantenimento, ma voi non sarete liberato se nei prossimi cinque anni non mi garantirete, al netto di capitale ed interessi, mille cinquecento sesterzi netti sulla vostra ratio (ossia, sulla vostra scheda nel mio codex rationum)”. Discutendo in questo modo con più venditori le condizioni di redemptio, il cittadino indebitato poteva vendersi a colui che offriva di più. E il diritto romano disciplinava la fattispecie: si trattava di una redemptio ab hostibus lontana dalla guerra, intercorsa tra due cittadini che concordavano che uno sarebbe divenuto schiavo dell’altro e che avrebbe potuto riscattarsi secondo delle condizioni stabilite. Ecco dunque la redemptio ab hostibus in tempo di pace, fatta per riscattare una situazione sociale senza altra via d’uscita.

Per poter comprendere questa realtà si deve tenere a mente la profonda distanza che separa lo status di schiavo a Roma da quello che avevano gli schiavi nell’America dei tempi moderni. L’essenza di tale distanza sta nel fatto che gli schiavi romani erano protetti dal diritto penale e dalle corti civili, tanto in epoca repubblicana quanto in epoca imperiale. Se subivano maltrattamenti, ci segnalano Gaio e il Digesto[13], essi potevano adire la giustizia civile e chiedere la libertà – cosa che però coloro che non volevano pagare le tasse degli uomini liberi o che fuggivano nella schiavitù dai loro creditori non avevano granché a cuore – o chiedere il trasferimento presso un’altra famiglia. D’altro canto, qualora un cittadino si fosse ridotto in schiavitù attraverso un accordo e una mancipatio in pubblico, e in seguito non avesse lavorato e ottemperato all’accordo in modo adeguato, il dominus avrebbe potuto rivenderlo a un terzo.

 

  1. Sviluppi medievali

Non può essere escluso che anche nelle antiche redemptiones ab hostibus, in cui si riscattavano dei veri prigionieri di guerra, questi ultimi fossero direttamente coinvolti nella discussione del prezzo e delle condizioni a cui essi stessi avrebbero voluto riscattarsi. Del resto, nel Medioevo si incontra questa pratica nel diritto di Costantinopoli, ovvero nel diritto greco-romano, in cui tutte le antiche istituzioni del diritto romano hanno potuto continuare la loro evoluzione. E, se abbiamo poche fonti sulla redenzione nell’antichità nel contesto occidentale, ne abbiamo un numero maggiore per quanto riguarda il riscatto dei prigionieri di guerra nel Medioevo, sia in Occidente che in Oriente.

Dall’VIII secolo gli imperatori di Costantinopoli iniziarono a deportare in massa prigionieri di guerra[14]. Del resto, ciò non avvenne solo in Oriente. Carlo Magno infatti fece lo stesso: nel 789 vinse i Sassoni e, per assicurarsi la pace, deportò i migliori guerrieri sassoni, che furono messi in vendita a Verdun, causando dei grandi sommovimenti. Da lì furono condotti a Venezia e poi via mare verso la Spagna, da dove furono sparsi nel mondo arabo. Luigi il Pio vietò la riduzione in schiavitù dei cristiani, ma la pratica di vendere i prigionieri di guerra continuò per secoli. I vescovi tentarono di salvare la vita dei prigionieri di guerra, e vietarono ugualmente ai cristiani di comprarne. La Chiesa non considerava più i prigionieri di guerra come schiavi; già al concilio di Lione del 524 era stato fatto divieto di ridurre in schiavitù le persone libere. Il fatto di mettersi in servitù, al servizio degli altri, era concepito come l’esito di una decisione liberamente presa: coacta enim seruitia non placent Deo. Si trovano così attestati, fino al XII secolo, casi di persone che si sono “vendute” ad altri. Si tratta di una pluralità di soggetti – serui, homines manentes, libellarii, angariales, massarii… – che non sono sottomessi al servizio militare, ma che sono a servizio di uomini liberi. Spesso essi si davano in servitù, apportando i propri beni nella comunità dei beni di un guerriero, al fine di evitare il proprio arruolamento e di assicurarsi sopravvivenza e vecchiaia[15]. I glossatori medievali non assimilavano queste persone dipendenti alla categoria dei servi romani, ma a quella dei coloni, che restavano vincolati al suolo e che chi avesse acquisito un dominio terriero avrebbe dovuto prendere a proprio carico. Si capisce perché a tal proposito i glossatori non parlino più di redemptio ab hostibus[16].

Se guardiamo all’Oriente, vediamo che nel IX secolo si assiste ad un aumento del numero di prigionieri di guerra, chiamati aichmalotoi. Nel XII secolo, allorché la maggioranza dei prigionieri di guerra proviene dai paesi slavi, essi prendono il nome di sklavoi, da cui derivano i termini “schiavitù” , “esclavage”, “slavery”. Il guadagno relativo alla vendita dei prigionieri veniva direttamente incamerato dall’esercito[17]. Tuttavia, l’imposizione di un riscatto per i prigionieri slavi era poco redditizia, poiché le popolazioni cui essi appartenevano non disponevano di mezzi per riscattare i propri prigionieri; d’altro canto, la loro vendita nei paesi ottomani non avrebbe che avvantaggiato tali paesi. Si cercò allora di valorizzare i prigionieri all’interno dell’impero e di impiegarli all’interno dei domini agricoli imperiali, dei possedimenti delle abbazie o presso i privati, recuperando a tal fine la figura giuridica dell’antica redemptio. L’esercito imperiale cercava di piazzare i prigionieri presso un dominus al miglior prezzo possibile, e gli aichmalotoi ottennero – come in passato – il diritto di riscattarsi. Il sistema era il medesimo di quello in atto nella Roma antica: essi potevano raccogliere dei mezzi su un conto di cui il loro dominus, il loro oikotès, era titolare. Come era accaduto a Roma, questi prigionieri messi al lavoro avevano accesso ai tribunali imperiali e rientravano nella sfera di protezione del diritto penale. I padroni dovevano garantire il mantenimento dei loro aichmalotoi e assicurare loro una sussistenza decente; non potevano separarli dai loro congiunti, né dai loro figli. In ogni caso, gli schiavi non erano obbligati a riscattarsi.

Molti di questi schiavi non volevano fare ritorno ai loro paesi di origine – dove sarebbero dovuti tornare ad essere dei soldati – e preferivano lavorare in pace nell’impero. I proprietari terrieri potevano concludere degli accordi con i prigionieri di guerra e impegnarsi ad accoglierli secondo il regime dell’aichmalosia, senza essere obbligati a pagare loro alcun salario. Le abbazie, dal canto loro, non potevano liberare gli schiavi che accoglievano, ma ad essi i patriarchi orientali garantivano l’accesso ai tribunali ecclesiastici. I prigionieri impiegati nei domini imperiali e presso proprietari terrieri laici potevano godere del diritto d’asilo rifugiandosi presso i luoghi sacri (C. 1, 12-13)[18]: in quel caso, sacerdoti e religiosi potevano offrire loro un trattamento caritatevole e i tribunali ecclesiastici erano competenti in merito alla loro liberazioneIn ogni caso, l’imperatore poteva però avocare in appello le decisioni episcopali, avendo la sua cancelleria l’ultima parola. In sostanza, lo status dei prigionieri sembra essere stato amministrato, come molte altre materie in Oriente, attraverso una stretta collaborazione tra la giustizia dei vescovi e quella dell’imperatore[19].

I privati avevano accesso al mercato degli “slavi” e alcuni prigionieri messi al lavoro riuscirono a farsi riscattare. In questo caso essi riguadagnavano la loro libertà, ma erano tenuti, attraverso un contratto di lavoro o d’impresa, a rimborsare all’oikotès, al padrone, il prezzo che questi aveva pagato. La relazione con il loro committente, secondo quanto possiamo ricavare dalla spiegazione che ce ne fornisce l’Ecloga, rientrava allora nella competenza dei tribunali civili imperiali ed era basata sul modello della redemptio ab hostibus[20]. I privati, che non avevano la stabilità di entrate dei grandi proprietari terrieri e non potevano assicurare ai loro servi la sicurezza fino alla morte, erano d’altro canto sempre obbligati ad accettare il loro riscatto attraverso il lavoro e i guadagni. Infatti gli aichmalotoi avevano sempre un conto patrimoniale, che in Oriente prendeva il nome di pekoulion.

I grandi proprietari agricoli dell’Oriente hanno continuato ad assumere degli “slavi” fino al XV secolo. Sussistevano infatti dei settori con alta domanda di personale, come quello del mastice di Chios, quello del grano delle rive del Mar Nero, o quello dello zucchero di Cipro, i cui prodotti erano poi esportati in Occidente. Ancora nel XV secolo i Romaioi – i Romani dell’impero d’Oriente – erano alla ricerca di operai per la canna da zucchero che era coltivata a Cipro, tanto nei grandi domini pubblici e ecclesiastici quanto da parte di privati. Al loro interno si trovavano numerosissimi prigionieri, che avevano status differenti, tra i quali la redemptio[21].

Dopo la Quarta crociata, la simpatia per i Latini scomparve: non si esitava dunque più ad impiegare dei prigionieri cristiani, come accadde ad esempio nel XIV e XV secolo ai Sardi deportati dall’Aragona[22]. A quel punto, forse complice l’indebolimento del potere imperiale, gli aichmalotoi erano ormai impiegati tramite intermediari privati, tra cui in Occidente la casa Marchione era la più celebre; il settore privato aveva fatto della tratta degli schiavi un business.

Si deve ricordare che, dopo la catastrofe del 1453, i Greci emigrati e gli occidentali rimpatriati cercarono di impiantare grandi colture in Occidente. È l’epoca dello zucchero in Spagna e in Sicilia, delle olive di Jaen, del cotone nella valle del Guadalquivir, nella piana di Valencia e nei dintorni di Aleria, dei pistacchi e delle castagne in Balagna e Castagniccia… Gli agenti che piazzavano gli aichmalotoi arrivarono di conseguenza. Nel 1453 dei mercati di schiavi furono organizzati a Genova, Barcellona e Siviglia, ma la popolazione non li accettò affatto[23]. Lisbona sembrava invece meno turbata da questioni di principio e per questo i mercanti di schiavi si spostarono in quella città. A causa di ciò, il re Alfonso si trovò in una condizione di disagio che fu sciolto quando, nel 1454, egli ricevette la bolla Romanus pontifex di Nicola V, che l’assicurava dell’assenza di impedimenti quanto al fatto di ridurre in cattività i Saraceni, i pagani e gli altri nemici di Cristo, anche a vita, ovvero senza possibilità di riscatto. Si tratta di una condanna ispirata dalla rabbia per la sconfitta cristiana e dalla presenza di un numero consistente di Greci emigrati nella cerchia del papa[24].

Da Lisbona gli schiavi erano inviati nei nuovi campi di Castiglia, Aragona e della Linguadoca. La giurisprudenza delle città mediterranee si adattò a questi nuovi prigionieri e si sviluppò di conseguenza. In principio i prigionieri impiegati erano protetti dal diritto penale e i tribunali tutelavano la loro integrità fisica, rispettavano i loro coniugi e le loro famiglie, accordavano loro un patrimonio e la comunione patrimoniale tra sposi[25]. Tuttavia, nella giurisprudenza occidentale del XV secolo non si trova traccia del riscatto. Il tono poi cambiò bruscamente quando i primi prigionieri di guerra di Guinea furono condotti nel Mediterraneo. L’Occidente si rivoltò: mettere al lavoro il nemico saraceno, con piacere – comprare dei prigionieri altrove, mai. Già nel 1462, in una lettera indirizzata al vescovo di Lanzarote che partiva dalla costa della Guinea, papa Pio II aveva condannato questa tratta di prigionieri che erano stranieri alle nostre guerre come un magnum scelus. Gli schiavi e i mercanti di schiavi furono respinti dall’Occidente[26].

Sfortunatamente, però, la miccia era stata accesa e il gusto dello zucchero risultò più dolce di quello della giustizia. Le grandi colture erano delocalizzate a Madera, nelle isole e in Brasile, e andarono espandendosi in seguito in Louisiana e nelle colonie inglesi[27]. Oltremare gli interessi in gioco non furono più quelli degli eserciti imperiali, ma quelli dei capi africani, dei mercanti, dei proprietari di piantagioni e dei coloni che erano in disaccordo con l’Europa e l’avevano abbandonata. Nelle colonie mancavano anche la giustizia, che i giuristi universitari assicuravano ovunque in Europa, e il rispetto dei diritti civili. La sorte dei lavoratori agricoli era nelle mani delle amministrazioni locali, spesso composte di desperados. Si acquistavano i prigionieri di guerra dei principi africani, ma questi non avevano più modo di riscattarsi. In pochi decenni si era cioè passati dalla redemptio ab hostibus alla schiavitù coloniale: in Occidente le facoltà di diritto avevano perduto il contatto con questo vecchio istituto, e, altrettanto, il riscatto e il pekoulion dello schiavo non rientravano più nel diritto civile. A differenza della redemptio ab hostibus, la schiavitù coloniale era divenuta una cattività che privava la vittima del mezzo per riscattarsi.

Gli Spagnoli furono i primi a reagire contro lo schiavismo coloniale. Nelle leggi di Burgos e nella controversia di Valladolid essi vietarono ai conquistatori di ridurre le popolazioni locali in servitù[28]. Inoltre, nel 1551 Carlo V riconobbe che la schiavitù romana era sparita nel Medioevo e che non esistevano più categorie di abitanti che non avessero diritti civili; ai viceré americani ordinò dunque di far rispettare i diritti civili degli indiani. Sfortunatamente questa regola non veniva applicata ai prigionieri di guerra dell’Africa: sembrava già molto che ad essi fosse stata salvata la vita accogliendoli nelle isole… È stato dunque necessario attendere la seconda metà del XIX secolo per porre riparo all’ingiustizia creata da questo smarrimento della redemptio ab hostibus nei paesi d’Oltreoceano.

All’inizio di questo percorso, e nell’intento di interrogarsi sul probabile influsso che l’istituto della redemptio ha avuto sulla nozione di redenzione cristiana, qualcuno  potrebbe essersi fatto l’idea che la redemptio ab hostibus – e il suo implicare il diritto del riscattatore di riavere il prezzo pagato – non corrisponda veramente alla misericordia cristiana. Di sicuro è necessario l’animo del giurista per focalizzare l’attenzione sul prezzo di riscatto e per sviluppare un’attenta giurisprudenza in tal proposito. D’altra parte, però, si deve considerare che il pagamento di questo prezzo non è mai stato obbligatorio e, soprattutto, ha sempre garantito il diritto alla riparazione della situazione civile del prigioniero riscattato. Quando è venuta meno la possibilità del riscatto, la redemptio ab hostibus ha invece condotto al flagello della schiavitù coloniale.

[1] Sul punto mi permetto di rimandare al mio La personne dans le travail en servitude du droit romain antique et médiéval, in Les normes du travail : une affaire de personnes?, a cura di J.-M Tufféry-Andrieu – F. Laronze, Bruylant Bruxelles 2016, pp. 33-51, che tratta dell’origine della schiavitù coloniale. Essa deriva dall’aichmalosia del diritto greco-romano, ossia dallo statuto dei prigionieri di guerra messi ai lavori forzati. Dall’età moderna la visione della schiavitù antica è stata fortemente condizionata dalla schiavitù coloniale e molti storici hanno confuso l’aichmalosia con la seruitus romana (chiamata in greco douleia).

[2] La visione secondo cui lo status di libertà e i diritti civili militari romani hanno costituito la base del diritto civile europeo costituisce la trama di fondo del mio libro Amne adverso, Roman legal heritage in European culture, Leuven University Press, Lovanio 2015, sulla cui interpretazione del diritto romano queste pagine sono fondate e a cui rimando per l’opportuna argomentazione. Nei miei decenni di ricerca lovaniense, ho lavorato ad una visione storica del diritto romano, che si distanzia dall’orientamento degli studi classici il quale, a mio parere, è stato eccessivamente determinato dalla dottrina giuridica di età moderna. Non è questa la sede ripercorrere tutte le tappe di questa visione più storica e meno dottrinale, per le quali rimando alla sintesi offerta da questo volume.

[3] Si vedano M. Kaser, Das römische Privatrecht, I, Das altrömische, das vorklassische und klassische Recht, Beck, Monaco di Baviera 1973, pp. 291 e 302; II, Die nachklassischen Entwicklungen, Beck, Monaco 1975, p. 130; A. Erler, Des Loskauf Gefangener, Ein Rechtsproblem seit drei Jahrtausenden, E. Smdt Verlag, Berlin 1978; rimando poi in italiano alle due monografie di M. V. Sanna, Ricerche in tema di redemptio a hostibus, Biblioteca di studi e ricerche di diritto romano, Edizioni AV, Cagliari 1998, e Nuove ricerche in tema di redemptio a hostibus, Biblioteca di studi e ricerche di diritto romano, Edizioni AV, Cagliari 2001, ove si possono reperire gli opportuni ragguagli sulla bibliografia precedente in materia; si veda inoltre lo studio di S. Heinemeyer, Der Freikauf des Sklaven mit eigenem Geld, Redemptio suis nummis, Duncker & Humblot, Berlin 2013. Un’eccellente analisi della schiavitù romana in generale si trova pubblicata in un’edizione purtroppo poco curata, in cui l’indice e il registro sono difficili da utilizzare: M. Morabito, Les réalités de l’esclavage d’après le Digeste, Annales littéraires de l’université de Besançon, Les Belles Lettres, Parigi 1981, pp. 72-74. Uno studio fondamentale concernente la sorte dei prigionieri e il loro status dopo la liberazione, scritto da uno storico non giurista, è H. Huntzinger, La captivité de guerre en Occident, 378-507, I, Texte, dottorato Strasburgo, 2009, in cui si trovano ampie considerazioni sul riscatto e sulla liberazione. Questo studio contiene un’importante sezione dedicata alla raccolta di fonti: II, Sources, 142 p., in cui si riportano le fonti letterarie dell’epoca, in versione originale e traduzione francese.

[4] D. 49,15 contiene i testi concernenti i prigionieri di guerra, lo ius postliminii (diritto di reintegro) e la redenzione. In questo titolo il Digesto riassume alcune sentenze della prefettura del pretorio, ossia del tribunale imperiale supremo, che risalgono al II e III secolo d. C. La maggior parte dei testi riguarda lo status della persona reintegrata nella società romana, e soltanto alcuni di essi trattano del riscatto. Ad esempio D. 49,15,6 si riferisce a una donna condannata ad metalla, ossia alla miniere (e dunque schiava), che era stata rapita dal nemico e viene riscattata da Cocceius Firmus, con altri prigionieri di guerra; la donna torna alle miniere imperiali, ma l’imperatore deve rimborsare il prezzo pagato da Cocceius. Un caso paragonabile si trova in D. 49,15,12,17. Il testo di D. 49,15,12 tratta di diversi casi di riscatto di prigionieri che precedentemente erano schiavi: vi leggiamo che se colui che era uno schiavo viene riscattato e in seguito liberato da colui che lo ha riscattato, egli non torna come schiavo alla propria famiglia di origine, ma ottiene lo status libertatis. Il prezzo da rimborsare viene menzionato anche in D. 49,15,20,9.

[5] Sulla familia romana, rimando più estesamente al mio Medieval family and marriage law: from actions of status to legal doctrine, in The creation of the ius commune, From casus to regula, a cura di J. Cairns – P. du Plessis, Edinburgh University Press, Edinburgo 2012, pp. 100-122.

[6] Lo status di alumnus è quello dei clientes ed addetti liberi nella famiglia.

[7]Sul sistema contabile della familia romana si veda L. Waelkens, Gaius IV, 74: Debet ou debetur? «Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis» 68(2000), pp. 347-356, cui rimando per l’opportuna bibliografia. Cfr. anche Id., L’origine romaine des obligations naturelles, «Revue historique de droit français et étranger» 90(2012), pp. 318-321. La suis nummis redemptio non necessitava l’intervento di una terza parte, come suggerito da M. Morabito, Réalités de l’esclavage, cit., pp. 166-167.

[8] Sulle obbligazioni intrafamiliari v. nota precedente. Abbiamo anche trattato di questa contabilità familiare a proposito della dote, che è altrettanto un conto del codex rationum: L. Waelkens, Dos naturaliter mulieris est dans D. 23,3,75 in Ius romanum – ius commune – ius hodiernum, Studies in honour of Eltjo J.H. Schrage on the occasion of his 65th birthday, a cura di H. Dondorp – J. Hallebeek – T. Wallinga – L. Winkel, Scientia Verlag, Amsterdam-Aalen 2010, pp. 399-410. Cfr. poi l’analisi di insieme offerta dal capitolo sul diritto romano delle persone in Amne adverso, cit., pp. 193-223.

[9] Sulla vindicatio libertatis v. Kaser, Römisches Privatrecht, cit., I, 115-119, 293-301; II, 132-142.

[10] Commenti su Ulp. D. 49, 15, 19, 9; 21pr.; 30;43, 3. M. Kaser, Römisches Privatrecht, cit. I, p. 291 e n. 22 evita la terminologia del pegno e dei diritti reali: «ein Zurückbehaltungsrecht ohne dass seine personrechtliche Stellung näher geklärt würde».

[11] In merito a questa liberazione “pretoriana” si vedano M. Kaser, Das römische Privatrecht, I, cit., pp. 295-297, e T. Wiedemann, Greek and Roman slavery, Routledge, Londra-New York, passim (che fornisce alcuni esempi nei testi romani, con traduzione e relativa bibliografia).

[12] Analisi di questo fenomeno in M. Morabito, Les réalités de l’esclavage, cit., pp. 72-74, e, più recentemente, in S. Heinemeyer, Der Freikauf des Sklaven mit eigenem Geld, Redemptio suis nummis, cit.

[13] Gaius, Institutiones, 2, 53; D. 1, 6, 2.

[14] Cfr. L. Waelkens, La personne dans le travail en servitude du droit romain antique et médiéval, cit. Molti sono gli studi storici sulla tratta dei prigionieri di guerra. Per l’epoca bizantina uno studio molto valido resta sempre C. Verlinden, L’esclavage dans l’Europe médiévale, II, Italie, Colonies italiennes du Levant, Levant latin, Empire byzantin, De Tempel, Gand 1977; una buona bibliografia è data da H. Köpstein, Sklaven in der Peria, in Fontes minores, IX, Löwenklau-Gesellschaft, Francoforte sul Meno 1993, pp. 1-33; tra gli studi più recenti, vedere Y. Rotman, Byzantine slavery and the Mediterranean world, Harvard University Press, Cambridge (Ms.) 2009 e M. Kaplan, The producing population, in A social history of Byzantium, a cura di J. Haldon, Blackwell, Chichester 2009, pp. 143-167.

[15] Su questi status si veda ad esempio L. Kuchenbuch, Abschied von der Grundherrschaft, Eine Prüfgang durch das ostfränkisch-deutsche Reich 950-1050, in «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, Germanistische Abteilung» 122(2004), pp. 1-99.

[16] Cfr. sugli introiti relativi alla vendita dei prigionieri: T. Rüfner, Die Rezeption des römischen Sklavenrechts im gelehrten Recht des Mittelalters, in Sklaverei und Freilassung im römischen Recht, a cura di T. Finkenauer, Springer, Berlin-Heidelberg 2006, pp. 201-221.

[17] Secondo Y. Rotman, Byzantine slavery, cit., infatti, non era la corona ad amministrare la vendita e incassare gli introiti relativi alla vendita dei prigionieri; su di essi l’esercito era solo tenuto al pagamento all’imperatore di una tassa.

 

[18] Y. Rotman, Byzantine slavery, cit., p. 135-136.

[19] Cfr. M. Angold, Church and society in Byzantium under the Comneni, 1081-1261, Cambridge University Press, Cambridge 1995.

[20] Ecloga 8; cfr. L. Burgmann, Ecloga, Das Gesetzbuch Leons III und Konstantinos’ V, Löwenklau-Gesellschaft, Francoforte sul Meno 1983, pp. 201-03.

[21] Cfr. M. Ouerfelli, Les migrations liées aux plantations et à la production du sucre dans la Méditerranée à la fin du Moyen-âge, in Migrations et diasporas méditerranéennes (Xe-XVIe siècles),  a cura di M. Ballard – A. Ducellier, Publications de la Sorbonne, Paris 2002, pp. 485-500.

[22] Su questo episodio v. Ch. Verlinden, L’esclavage dans l’Europe médiévale, cit., t. I, p. 330-334.

[23] D. Gioffrè, Il mercato degli schiavi a Genova nel secolo XV, Genova 1971; J. M. Mardurell Marimon, Los seguros de vida de esclavos en Barcelona (1453-1523), Documentos para su studio, in «Anuario de historia del derecho espanol» 25(1955), p. 123-188; A. Franco Silva, Regesto documental sobre la esclavitud sevillana, Publicaciones de la Universidad, Siviglia 1979.

[24] Il cardinal Bessarione e Giorgio di Trebisonda sono assai noti, ma centinaia di Greci influenti si trovavano a Roma e gravitavano attorno alla Curia romana. Su questo si veda J. Harris, Greek émigrés in the West, Porphyrogenitus, Camberley 1995.

[25] Ch. Verlinden, L’esclavage dans l’Europe médiévale,. cit., t. I, p. 805-19.

[26] Su questo episodio si veda J. Guiral-Hadziossif, Valence, Port méditerranéen au XVe siècle, 1450-1525, Sorbonne, Parigi 1995, pp. 419-420.

[27] Cfr. B. Esomba, Sucre méditerranéen, sucre atlantique et le commerce du Nord européen au XVe et XVIe siècles, thèse de doctorat, Université de Paris I, 1981; É. Eadie (ed.), La route du sucre du VIIIe au XVIIIe siècles, Ibis Rouge, Petit-Bourg (Guadeloupe) 2001.

[28] V. L. Waelkens, Valladolid et la guerre, Un grand pas en avant vers les droits subjectifs in El ejército, la paz y la guerra, a  cura di J. de Los Mozos Touya e I. Szaszdi León-Borja, Universidad de Valladolid, Valladolid 2009, p. 273-87; Id., Villalar 1521, Une étape pénible vers les droits de l’homme in Imperio y tiranía. La dimensión europea de las comunidades de Castilla, a cura di I. Szaszdi León-Borja e M. Galende Ruiz, Universidad de Valladolid, Valladolid 2013, p. 277-95; Id., Les droits civils romains des Temps Modernes et les Lois de Burgos de 1512 in Valladolid y la historia de los derechos humanos en el Nuevo Mundo, a cura di I. Szaszdi León-Borja, Universidad de Valladolid, Valladolid (in stampa)