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Roman redemptio and its Christian reinterpretation. A contribution to the history of the concept of “redemption”
The paper deals with the concept of redemption developed by a number of Early Christian authors (Origen and Ambrose of Milan in particular). Special attention is paid to the close relationship between their interpretation of Jesus’ salvific action, on the one hand, and the practical and theoretical tradition of the delivery of prisoners or debtors, which is crystallised in the juridical institution of the redemptio, on the other. Such a relationship sheds light on the history of the concept and helps to better grasp its wide, nuanced spectrum, which – far from focussing on a momentous event – seems to cover a complex network of theological, social, political and economic relations.
Nell’immaginario occidentale è forse difficile pensare ad un concetto più carico e drammatizzato di quello di redenzione – e della sua personificazione in un redentore. Echi di racconti biblici, storie rabbiniche, inni patristici, speculazioni metafisiche si intrecciano ai colori intensi di vetrate medievali reinventate da Marc Chagall, mentre nell’aria il gregoriano del Veni redemptor gentium ambrosiano si sovrappone ai corali di apertura delle cantate Nun komm, der Heilen Heiland di Bach. Vi rispondono, da lontano, i leitmotiven del Parsifal wagneriano, e alla scena si aggiungono inequivocabili sfumature politiche nella figura ieratica di imperatori carolingi miniati come milites Christi a richiamare l’iconografia del Cristo che scende agli inferi così come, secoli dopo, nel trionfo di quello che Weber avrebbe individuato come potere carismatico, sotto le tetre quinte di un teatro politico occupato dai väterlichen Erlöser[1].
I contributi raccolti in questo volume vogliono costituire una serie – certo non esaustiva – di variazioni sul tema della redenzione, che consentano di apprezzare in esso alcune implicazioni di quell’analogia, concettuale quanto pratica, che caratterizza, almeno in una certa misura, l’articolarsi storico di politica, teologia ed economia. Una prospettiva puramente descrittiva di contesti e relazioni storicamente collocate è quella al cui interno si intende esplorare questa analogia, ponendo a distanza ogni intento fondativo della relazione tra la dimensione politica, teologica ed economica, e ispirandosi piuttosto, nell’intrecciare alcuni elementi storico-concettuali, a quello che si potrebbe definire un nominalismo metodologico[2]. Ciò può risultare ancora più essenziale nella misura in cui al centro di questa analisi è un concetto teologicamente determinante – poiché tale è, indubbiamente, la redenzione.
Scopo di queste pagine è di offrire alcune parziali considerazioni sulla concettualizzazione della redenzione messa a punto dagli autori del primo Cristianesimo – e da Origene e Ambrogio in particolare – per mostrare come essa sia segnata dalla tradizione dottrinale e pratica raccolta nell’istituto giuridico del riscatto dei prigionieri. Il suo rapporto con tale tradizione non è infatti riducibile alla sola dinamica del prestito lessicale e contribuisce a comprendere in che misura il concetto di redenzione si sia associato non tanto ad un evento puntuale e risolutivo, quanto ad una complessa rete di relazioni.
La più semplice delle puntualizzazioni etimologiche ricorda come redemptio/redimo derivino dal verbo emo e, dunque, evochino l’azione di “acquistare” e, più esattamente, di acquistare di nuovo”. Più precisamente, e questo fissa il nostro punto di partenza, rivela che in contesto latino classico il riferimento precipuo è all’istituto che chiariva le modalità e le conseguenze del pagamento del riscatto dei prigionieri romani caduti in mano nemica, secondo un uso di cui si potrebbero evidentemente rinvenire altre tracce nelle società dell’età antica[3]. Esso si collocava nell’ambito dello ius postliminium, ovvero della disciplina che tutelava lo status dei cittadini romani che – dopo esser stati detenuti al di fuori dei confini della civitas vedendosi diritti e libertà civili temporaneamente sospesi, cioè ritrovandosi attribuito in tutto e per tutto lo status servitutis – ritornavano in patria e recuperavano la propria libertas[4].
Il redemptor è, in questo contesto, colui che «emit hominem ab hostibus». Se l’istituto è attestato fin dai tempi repubblicani ed era il Senato stesso a farsi parte attiva per ricondurre in patria i milites, è solo a partire dall’età dei Severi che si definisce un legame giuridicamente protetto a vincolare il redemptus al redemptor, introdotto forse nell’intento di incrementare il numero di soldati prigionieri riscattati attraverso la tutela degli scambi commerciali che li avevano ad oggetto e, in particolare, la tutela degli interessi del redemptor. Nei confronti di questi, in ragione del riscatto da lui pagato, il redemptus si ritrova dunque ad essere obbligato da una forma di debito o servitù. Più esattamente, il captivus che prima di cadere prigioniero era un servus diveniva immediatamente, per effetto della redemptio, proprietà di colui che lo aveva riscattato, essendo fatta salva la possibilità del precedente dominus di rientrare in suo possesso rimborsando il redemptor dell’esborso. Quanto invece a colui che era in precedenza un uomo libero, al ritorno in civitatem egli si vedeva restituire la libertà e la cittadinanza (dopo averle perdute, secondo lo ius postliminium, nel periodo di prigionia), ma alcune misure sono introdotte per legare economicamente il redento alla familia del suo redentore e garantire il risarcimento a quest’ultimo[5].
Di redemptio si parla in poi in tempo di pace, nell’ambito di quello che più propriamente noi definiremmo diritto privato, per indicare il ritorno in libertà di un cittadino che si era venduto come servus a causa dei propri debiti insoluti. La redemptio a domino richiedeva similmente il pagamento di un prezzo o l’estinzione del debito, che era possibile grazie all’intervento di un terzo, il quale diveniva il nuovo dominus del servus, o tramite il rimborso effettuato direttamente da parte di quest’ultimo col guadagno derivatogli dal proprio lavoro, di cui si teneva traccia nella contabilità interna della familia di cui egli era volontariamente entrato a far parte[6].
La redemptio dunque, lungi dal costituire un evento puntuale in sé concluso o coincidere con un puro cambiamento di status, configura un’intera rete di relazioni sociali, economiche e politiche. È di questa meccanica che occorre, nella nostra prospettiva, cercare le tracce – e le discontinuità – nel successivo pensiero, ed anzitutto nel pensiero teologico del primo cristianesimo, che del concetto si appropria nel modo più esteso.
Prima di volgere l’attenzione alle fonti patristiche, si deve ricordare che nella sfera dello ius civile l’istituto mantiene naturalmente una valenza propriamente giuridica anche nei secoli successivi: lo si ritrova ad esempio nella Glossa ai titoli relativi di Digesto (Dig. 49.15, De captivis et postliminio reversis et redemptis ab hostibus) e Codice (C.I. 8.50, De postliminio et de redemptis ab hostibus). Quanto al diritto canonico, sono due anzitutto le situazioni rispetto a cui il tema della redemptio viene affrontato. In relazione al divieto di ordinare sacerdote un uomo non libero, i canonisti stabiliscono che gli ordini maggiori, una volta concessi nonostante l’impedimento dello stato di servitù, non sono revocabili per opposizione del precedente dominus, che però va risarcito con il pagamento di un riscatto[7]. Inoltre, una delle eccezioni al generale divieto di alienazione dei beni ecclesiastici sarà affermata proprio in relazione al loro uso in vista del riscatto di prigionieri. Alle origini di questa tradizione è la scelta di Ambrogio di Milano che, secondo quanto egli stesso racconta nel De officiis, si assunse la responsabilità di vendere i vasi sacri per riscattare i prigionieri caduti nelle mani dei barbari dopo la sconfitta di Adrianopoli del 378[8]. Il passo ambrosiano confluirà nel Decretum e troverà quindi sistematica applicazione[9]. Quello del riscatto dei prigionieri in senso proprio, del resto, era anche un officium pietoso ben rimarcato dalla riflessione morale romana[10]. Già in merito a ciò, dunque, si conferma come Ambrogio incameri e traduca la riflessione morale precedente e si proponga, con la stesura di un nuovo De officiis, di raccoglierne l’eredità, riformulandola e, nei suoi intenti, elevandola alla luce della rivelazione cristiana. Ed è essenziale rilevare altresì, a confermare il suo peso nella traduzione di un’intera eredità culturale, la consapevolezza giuridica con cui egli in quei paragrafi puntualizza il significato della redemptio e del servitutis ministerium che vedremo all’opera più oltre.
È significativo poi che ai tempi della Terza crociata e della caduta di Gerusalemme (1187) – in un momento, cioè, in cui la cattività dei cristiani sotto il nemico saraceno diventa un’urgenza pressante – prenda vita attorno alla figura del religioso francese Jean de Matha (1154-1213) un gruppo di viri redemptores che si proponevano la liberazione dei fratelli correligionari, rifiutando – diversamente, ad esempio, dai Templari e dagli Ospitalieri – l’impiego delle armi e l’implicazione di vincoli successivi di servizio nei loro confronti da parte dei prigionieri liberati. La regula dell’ordine della Santissima Trinità, rivista ed approvata da Innocenzo III nel 1198 con la bolla Operante divine dispositioni, statuiva esplicitamente la redemptio captivorum tra le proprie finalità e prevedeva che i beni fossero divisi in tre parti, da destinarsi rispettivamente al sostentamento dei religiosi, alle opere di misericordia – ovvero all’ospitalità – e, appunto, alla redenzione dei prigionieri cristiani; per consentire lo svolgimento della loro opera, Innocenzo III, che appoggiò fin dagli inizi la nascita dell’ordine, consentì ai Trinitari il contatto commerciale con i saraceni, di per sé proibito[11].
Queste rapide note bastino a mostrare che la memoria della valenza letterale e giuridica della redemptio rimane ben presente e viva fin nel cuore della res publica christiana. Quello che potremmo chiederci, ora, è in che misura e secondo quali modalità il dispositivo giuridico ricordato, di per sé limitato ad una questione specifica qual è quella del riscatto dei prigionieri di guerra e dei debitori, abbia interagito con la concezione teologica espressa dai testi biblici, dando luogo ad una concettualizzazione che è assai più estesa nel suo oggetto così come nella sua portata: la concettualità sviluppata in relazione alla redenzione investe infatti in una qualche misura l’intero complesso delle relazioni sociali, economiche e politiche delle società occidentali. Per apprezzare l’interazione e sostanziare questa affermazione risulta estremamente significativa, come è ovvio, la traduzione teologica che di questo istituto viene effettuata già nell’ambito del primo cristianesimo. Compito delle pagine che seguono è dunque quello di analizzare alcuni tra i più significativi dei molteplici esempi che i testi patristici forniscono a tal proposito.
La presenza di una consistente e ben nota tradizione esegetica che si appropria della logica giuridico-economica del riscatto per spiegare la passione di Cristo e giustificarne funzionamento ed effetti non significa, naturalmente, che dal punto di vista teologico tale interpretazione sia la più appropriata, né quella maggiormente vicina al testo biblico, tanto vetero quanto neotestamentario. Inquadrare la questione in modo rispettoso dell’ermeneutica del linguaggio religioso è certo rilevante ed ha del resto richiamato amplissima attenzione nel dibattito teologico ed esegetico fin dai tempi remoti[12]. Tuttavia, ciò non toglie che l’applicazione di tale logica giuridico-economica alla vicenda di Gesù sia presente già nei testi dei primissimi secoli dell’età cristiana e non faccia che consolidarsi via via – il che è tutto ciò che conta nella prospettiva della Wirkungsgeschichte e di un’ottica pienamente storica e descrittiva. Insomma, se di distanza dal testo biblico si tratta, ciò si traduce qui solamente nella necessità, da un lato, di interrogarsi sulle condizioni che hanno reso possibili tali interpretazioni economico-giuridiche e, dall’altro, di considerarne gli effetti – tanto sul piano teorico quanto su quello pratico.
L’intero spettro semantico della compravendita, del riscatto, della liberazione dello schiavo e del prigioniero viene utilizzato nel dettato neotestamentario – ed in particolare nelle lettere di Paolo e Pietro – a descrivere l’azione di Gesù[13]. Già nel Nuovo Testamento è indubbia da parte degli autori la consapevolezza della valenza giuridica della concettualità della lytron (che diventerà nelle versioni latine la redemptio) introdotta per caratterizzare lo stato dell’umanità e l’operazione salvifica attuata tramite la passione del Cristo. Tale valenza viene esplorata in tutta la sua portata da alcuni degli esegeti dei primi secoli, che costruiscono la propria interpretazione della vicenda salvifica narrata nel testo sacro intrecciando una fitta rete di rimandi interni e sfruttando l’intera profondità anche giuridica dei concetti impiegati. Alcuni testi di Origene ed Ambrogio, in particolare, sono estremamente eloquenti e consentono di apprezzare le modalità di traduzione del concetto. All’opera nella loro analisi si può infatti vedere non un semplice prestito lessicale, ma un’analogia strutturale che viene introdotta e replicata nella comprensione e nell’istituzionalizzazione del meccanismo redentivo, anche forzando il puro dato testuale biblico.
Muoviamo dalla tematizzazione della dimensione pubblica della redemptio, che si comprende in contesto bellico e prevede il riscatto dal nemico. Essa si ritaglia un considerevole spazio nel lungo Commento che Origene scrive alla Lettera ai Romani, conservatoci nella traduzione di Rufino, a cui quindi volgiamo la nostra attenzione: il testo si sofferma più volte sul tema del riscatto e della redenzione e ci consente di seguire alcuni aspetti decisivi dell’interpretazione origeniana. A questo proposito è anzitutto opportuno ricordare che il termine greco diabolos, nella versione biblica dei LXX, rende l’ebraico śātān, il cui significato primario, nell’Antico Testamento, è quello di “nemico”. Pur mantenendo anche altre accezioni, secondo cui il diavolo è identificato ad esempio come seduttore malefico e persuasore, è questo il significato principale che il termine greco assume anche nel Nuovo Testamento. Similmente può dirsi del latino diabolus, che è evidentemente la diretta traslitterazione dal greco e risulta maggiormente diffuso rispetto a quella dall’ebraico satanas: esso coincide con il nome proprio del diavolo, ribelle contro Dio e i suoi piani[14].
Giunto a leggere il ben noto versetto Rom 3,24, e il riferimento ai credenti che saranno «giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù»[15], Origene si propone di considerare più da vicino cosa si debba intendere per redenzione e spiega:
«Redemtio dicitur quod datur hostibus pro his quos in captivitate detinent ut restituant eos pristinae libertati».
Ne deduce quindi che lo stesso è capitato al genere umano, caduto prigioniero:
«Detinebatur ergo apud hostes humani generis captivitatis peccato tamquam bello superata; venit filius Dei qui factus est nobis non solum sapientia a Deo et iustitia et sanctificatio sed et redemptio; et semet ipsum dedit redemptionem, id est, semet ipsum hostibus tradidit, ac sitientibus eis suum sanguinem fudit; et haec est credentibus facta redemptio, sicut et Petrus in epistula sua scribit dicens quia non corruptibili argento vel auro redemti estis sed pretioso sanguine unigeniti filii Dei»[16].
Le ultime parole ci consegnano da subito la pericope 1Pt 1,18-19 come riferimento essenziale, il cui legame con Rom 3,24 verrà del resto statuito dalla Glossa ordinaria[17]. Il riscatto in questione che consente la redemptio dell’umanità prigioniera è appunto, come risulta dalla Lettera di Pietro, il «prezioso sangue del figlio» ed è chiaro in queste righe che esso venga consegnato ai nemici del genere umano, qui indicati al plurale. Chi siano tali nemici è implicito, ed altrove Origene ribadisce che si tratta del «principe di questo mondo», che detiene il dominio sull’uomo in conseguenza del suo peccato e che ne riscuote il prezzo[18]. La concettualità della cattività e la caratterizzazione in tal proposito del diavolo come hostis o inimicus viene impiegata in modo assai esplicito ad esempio da Girolamo[19] e, poco oltre, da Cromazio, che in alcuni sermoni mette in parallelo la cattività tra i barbari e quella presso il diavolo[20]; né mancano alcuni passi agostiniani estremamente definiti e approfonditi[21]. Ma rimaniamo al commento di Origene alla Lettera ai Romani. Poco oltre, infatti, vi si legge:
«Nam cum superius dixisset quod pro omni genere humano redemtionem semet ipsum dedisset ut eos qui in peccatorum captivitate tenebantur redimeret dum sine Deo pro omnibus mortem gustat; nunc addidit aliquid sublimius et dicit: quia proposuit eum Deus propitiationem per fidem in sanguine ipsius, quo scilicet per hostiam sui propitium hominibus faceret Deum et per hoc ostenderet iustitiam suam, dum eis remitteret praecedentia delicta quae pessimis tyrannis serviendo contraxerant eo tempore quo sustinebat et patiebatur Deus haec fieri. Sed ad hoc patiebatur ut post haec id est in hoc tempore ostenderet iustitiam suam».[22]
A questo punto, è la giustizia che contraddistingue l’azione divina ad essere enucleata da Origene e contrapposta al potere esercitato dal diavolo, «pessimo tiranno»: è proprio la giustizia a giustificare la meccanica della redenzione così come viene ricostruita dall’autore – e, di converso, ad essere garantita da essa. Si tratta di un tema ovviamente frequentatissimo, che sarà fortemente presente anche al di fuori della riflessione strettamente teologica. Basti qui ricordare come nella Monarchia Dante insista sulla giustizia come carattere portante della redenzione voluta da Dio per spingersi a giustificare, nella sua difesa della legittimità del potere imperiale, la necessità del ruolo di Pilato e l’insufficienza di quello di Erode. Solo il detentore di una valida giurisdizione sull’intero universo avrebbe potuto emettere una condanna universalmente valida nei confronti di Gesù e, con ciò, garantire la validità universale della redenzione da lui operata. La validità della giurisdizione di Tiberio e del suo vicario Pilato ne risulta dunque indirettamente giustificata[23]. Nella visione dantesca, Dio agisce in modo sommamente giusto e a questa giustizia – e alla sua esplicazione formale – non possono che rispondere tutti i passaggi dell’opera di redenzione. La giustizia è del resto ciò che distingue il buon governo dalla tirannide, un potere che è invece di natura diabolica per eccellenza, come ricorda l’icastico ritratto che, nella stessa temperie culturale, ne fa Ambrogio Lorenzetti al Palazzo Pubblico di Siena[24].
Che il diavolo sia ritenuto un tiranno e come tale consegnato alla tradizione di pensiero successiva non toglie però il fatto che egli, secondo Origene, sia titolare di diritti e che a lui il riscatto sia dovuto in piena giustizia. La sua infatti è una rivendicazione esercitata «iure aequissimo», come scriverà Agostino in un limpido, esteso passaggio dello scritto sul Libero arbitrio[25]. Agli occhi degli interpreti successivi, il problema immediato della lettura elaborata da Origene – che trova piena corrispondenza in quello che è il testo forse più significativo da citare in merito agli iura diaboli e alla giustizia che guida l’agire divino nel riconoscere tali diritti, la Grande catechesi di Gregorio di Nissa – riguarda evidentemente la sua prossimità ad una visione gnostica, ovvero la sostanzializzazione e la legittimazione di una figura del diavolo uguale ed opposta a quella divina che sono implicate nel riconoscimento della necessità del pagamento di un riscatto. Si sa che su questa obiezione esegesi e teologia dibattono con vigore. Prima di giungere alla sistematizzazione dell’interpretazione sacrificale e vicaria offerta dal Cur Deus homo di Anselmo, alla teoria degli iura diaboli si sostituisce – in particolare per opera di Agostino, pur in modo non certo coerente nell’insieme dei suoi scritti – quella che va sotto il nome di teoria dell’abuso di potere da parte di Satana. Quest’ultimo, argomenta Agostino, avrebbe in schiavitù l’umanità, detenendo giustamente alcuni diritti nei confronti di essa a seguito della caduta originale; egli ha però ecceduto i propri diritti e agito ingiustamente infliggendo la morte, punizione per il peccato, a Cristo ed essendo per questo spogliato dei suoi possedimenti, ovvero delle anime peccatrici di cui era sovrano. Ne risulta che i diritti di cui il diavolo è titolare – e, con essi, la sua stessa consistenza sostanziale – vadano ridotti, così come va sfumata la necessità logica dell’incarnazione implicata dalla dinamica giuridica stringente della redemptio per insistere piuttosto sulla sua concessione per bontà divina o sulla sua necessità speculativa[26].
La meccanica introdotta dalla redenzione intesa in chiave giuridica pone però qualche altra difficoltà in termini strettamente esegetici per quanto concerne lo status del redemptus e il legame che lo stringe al redemptor, che qui ci riguarda più da vicino. Che l’associazione di uno status servitutis all’uomo riscattato da Cristo possa essere problematica diventa evidente se si pone mente ai passaggi del Nuovo Testamento che esplicitano la libertà dei figli di Dio e lo statuto di figliolanza e di amicizia che Gesù riconosce ai chiamati, tra cui il passaggio di Rom 8, 15 («voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi»). Proprio in merito a questo versetto Origene, nel commento alla Lettera ai Romani, si premura di distinguere due stadi, di cui quello della perfezione è lo status dei figli, privi di timore, che è preceduto invece da quello della servitù e della paura nei confronti del redentore[27].
Ad essere esplicito nell’accettare le implicazioni giuridiche che stabilivano un legame di dipendenza – debito o servitù – tra il redemptor e il redemptus è invece Ambrogio, che è giunto il momento di inserire nel mosaico che stiamo componendo. Che la venuta di Gesù sulla terra sia legata alla redemptio e al riscatto è chiaro, per Ambrogio, fin dal momento della sua nascita, che nella lunga Esposizione da lui composta sul Vangelo di Luca è riletta alla luce di categorie espressamente giuridiche – secondo quello che è indubitabilmente un tratto costante della sua opera[28]. È in special modo il censimento universale che sarebbe stato voluto da Augusto e che è narrato agli inizi del secondo capitolo del Vangelo lucano a prestargli materia in questo senso[29]. L’ermeneutica ambrosiana si piega con finezza ad interpretare spiritualmente il censimento organizzato da Quirino, facendone un atto necessario all’appartenenza alla comunità ecclesiastica e celeste, e cogliendo nel racconto che ne fa Luca la precisazione di tutti gli elementi contrattualmente necessari per rendere valida la «redempti[o] omnium» – dall’indicazione di luogo alla presenza di testimoni alla precisazione dei nomi dei governatori:
«Praeside inquit Cyrino facta est haec prima professio, ut quasi consulem quendam signi gratia huic libro evangelista ascripsisse videatur. Si consules adscribuntur tabulis emtionis, quanto magis redemtioni omnium debuit tempus adscribi! Habes ergo omnia quae in contractibus esse consuerunt, vocabulum summam illic potestatem gerentis, diem, locum, causam. Testes quoque adhiberi solent; hos quoque nativitati suae et generationi secundum carnem Christus adhibuit». [30]
In queste righe la redenzione è a chiare lettere concettualizzata come un contratto, in piena aderenza al senso più letterale che all’Ambrogio funzionario imperiale risultava tanto immediato. Anche per questo, agli occhi del vescovo di Milano, il censimento universale risultava necessario: esso si inserisce nel disegno divino della redenzione poiché ne fornisce elementi di validità. Ambrogio ritorna di nuovo sulla redemptio più oltre nel corso della Esposizione, osservando come sia il peccato a determinare la vendita dell’uomo e, dunque, la sua condizione di servitù nei confronti del peccato, che viene poi riscattata per bontà divina[31].
Ciò stabilisce però l’instaurarsi di una relazione precisa di dipendenza e debito tra redentore e redento, che viene affermata nel corso dell’Esposizione[32] e trova spazio ancora più esplicito in molti altri passaggi ambrosiani. Dopo il pagamento da parte di Cristo di quanto ciascun uomo deve al diavolo, ad essere mutato è infatti solo il creditore[33] . Il fatto che il debito contratto nei confronti di Cristo sia tanto smisurato da non poter essere ripagato non esclude la necessità di una qualche riparazione nei confronti del creditore:
«Eramus oppignorati malo creditori peccatis, contraximus chirographum culpae, poenam sanguinis debebamus: venit dominus Iesus, suum pro nobis obtulit; sed non potes sanguinem reddere. Bonus quidem servus debet pretium suum reparare domino suo: si non potest pretium reddere, vel hoc faciat ne pretio videatur indignus»[34].
Oltre alla netta descrizione in termini servus/dominus e all’opportunità di «reparare» il costo sostenuto dal dominus, è qui da sottolineare il rimando al chirographum, ovvero la cambiale o documento di debito di cui parla Paolo nella Lettera ai Colossesi (Col. 2,13-14) con riferimento all’iscrizione Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum affissa sulla croce. Saranno molti altri gli autori cristiani – da Agostino a Jacopo da Varazze a Raimondo Lullo – a mettere ampiamente a tema l’ennesimo riferimento giuridico paolino, deducendone che Cristo deve morire per redimere il debito assunto e sottoscritto con l’accettazione del chirographum[35]. In ogni caso, è per Ambrogio una deduzione logica il fatto che, nei confronti di un Christus fattosi dominus e redemptor, il redemptus sia servus:
«Qui enim vocatus est in domino servus, libertus est domini; similiter qui liber vocatus est servus est Christi. Revera enim omnes Christi liberti sumus, nemo liber; omnes enim in servitute generati. […] Ergo redemptus a domino es et servus es qui creatus es, servus es qui redemptus es et quasi domino servitutem debes et quasi redemptori»[36].
In questo passaggio, è il passo di 1Cor 7,22 ad essere commentato, apertamente rivendicando la conoscenza giuridica attestata dai termini impiegati da Paolo. Similmente espliciti nel trarre le conseguenze sono altri passaggi di commento alle epistole paoline che la tradizione ha, fino al XVI secolo, attribuito ad Ambrogio, garantendo loro un’influenza significativa sulla dottrina medievale[37]. Chiosando di nuovo l’epistola ai Romani, lo pseudo-Ambrogio osserva come gli uomini non debbano obbedienza ad Adamo che, primo peccatore, ha lasciato ai suoi successori in eredità la morte: essi devono piuttosto servire la legge di Cristo e rendere ossequio al redentore. In virtù della redenzione, prosegue più oltre, gli uomini sono infatti «domini […] quasi servos in condicione et dominio redemptori»[38].
Il «quasi» che abbiamo letto in alcuni dei passaggi ambrosiani, e ritroviamo in queste righe pseudoambrosiane, può forse essere inteso a sfumare la logica stringente della mera deduzione giuridica anche in un autore ad essa molto fedele. Le difficoltà ermeneutiche con cui i pensatori cristiani, nel tentativo di conciliare la stratificazione del testo biblico con la concettualità che a loro è consegnata dal contesto culturale di appartenenza, si trovano a fare i conti sono appunto testimoniate da simili sfumature e dalle oscillazioni interpretative di cui quanto appena ricordato fornisce qualche minimale esempio. Tali oscillazioni mostrano in che misura l’istituto giuridico di partenza – insieme alla rete di relazioni, anzitutto tra redemptor e redemptus, che esso poneva in essere e normava – venga traslato, reinterpretato e finanche stravolto negli esiti nel corso della sua appropriazione da parte teologica, rimanendo però un riferimento costante.
Le considerazioni in merito allo status di servitù e di debito nei confronti di Gesù redentore ci portano in ogni caso a far emergere da ultimo più direttamente la portata economico-giuridica della concettualizzazione utilizzata, più prossima alla dimensione privata della schiavitù per debito e della redemptio a domino che ne segna la fine. Rispetto ad essa, i passi ambrosiani appena ripercorsi appaiono del tutto trasparenti nella trasposizione messa in atto; e si potrebbe ricordare che altrettanto trasparenti risultavano, del resto, già alcuni passi di Tertulliano[39]. C’è forse però un passo che più di altri rende, assieme alla trasparenza, la creatività della trasposizione concettuale – e apre anche a una lettura dell’agire umano in termini monetari che avrà una certa rilevanza nel pensiero morale cristiano[40]: a consegnarcelo è Origene, cui facciamo ora ritorno un’ultima volta. Si tratta di un un brano piuttosto esteso di un’altra delle sue opere esegetiche, anch’essa arrivata fino a noi nella traduzione di Rufino, ovvero le omelie sul Libro dell’Esodo. La VI omelia, in particolare, commentando la fuga del popolo ebraico inseguito dagli Egiziani, descrive il passaggio vittorioso attraverso il mar Rosso e si sofferma sul testo di Es 15,16 che, nel lodare la potenza di Dio, contrappone ai popoli nemici «il popolo che ti sei acquistato». È proprio l’urgenza di spiegare la ragione di tale acquisto ad aprire un lungo inciso nella lettura della vicenda veterotestamentaria e avviare l’argomentazione che ci interessa.
Gli uomini appartengono fin da subito a Dio, scrive Origene, poiché egli li ha creati. La necessità per lui di acquistarli si giustifica solo in ragione del fatto che essi sono in seguito divenuti a lui stranieri («alienos») e schiavi del demonio, essendosi venduti a quest’ultimo per causa dei loro peccati[41]. E se ciò è potuto accadere, specifica, è perché ogni peccato corrisponde a una moneta ricevuta da parte del diavolo:
«Homicidium pecunia diaboli est; ille enim ab initio homicida est. Fecisti homicidium: diaboli pecuniam suscepisti. Adulterium diaboli pecunia est; diaboli enim in eo imago est et superscriptio. Commisisti adulterium: accepisti a diabolo numisma. Furtum, falsum testimonium, rapacitas, violentia, haec omnia diaboli census est et diaboli thesaurus; talis enim pecunia de eius moneta procedit. Hac igitur pecunia emit ille quos emit, et efficit sibi servos omnes, qui de huiuscemodi censu eius quantulumcumque susceperint. Verum ego vereor ne etiam aliquos de his qui in ecclesia sunt, aliquos de adstantibus, dum nescimus, diabolus mercetur occulte, ne etiam aliquibus nostrorum hanc pecuniam, quam supra enumeravimus, ingerat et faciat illos rursum suos et rursum pro iis tabulas servitutis et peccati chirographa scribat atque immisceat servis Dei eos, quos peccati pretio sibi fecerit servos»[42].
È una vera e propria contabilità morale a prendere vita nell’immaginario del predicatore, in una lettura che ha tra i riferimenti scritturali portanti, accanto a 1Pt 1,18-19, il rinvio, pur asciutto, al chirographum di Col. 2,13-14. Il ragionamento di Origene – che troverà eco in Ambrogio[43] – si limita qui ad associare l’accumulo di monete ricevute dal diavolo al debito contratto nei suoi confronti, che rende gli uomini suoi servi. Di qui la necessità per Cristo di redimere col pagamento del prezzo di sangue; di qui, chiude Origene, la ragione per cui propriamente Dio si trova ad acquistare il proprio popolo[44].
Si vede quindi che le implicazioni dell’istituto giuridico da cui abbiamo preso le mosse vengono estesamente elaborate dagli autori cristiani per comprendere, secondo una sorta di analogia strutturale, l’azione redentiva di Cristo. È anzitutto la dimensione più direttamente pubblica e politica della redemptio ab hostibus a rivelarsi terreno fertile per la costruzione identitaria e istituzionalizzata della comunità cristiana, di cui è parte integrante la contrapposizione tra regno dei cieli e regno degli inferi e la coesistenza, nel tempo storico, di due civitates sottoposte a due differenti sovrani. Questa accezione del concetto, con il suo riferimento precipuo alla liberazione dal nemico e all’opposizione militare tra regni, rimarrà eredità viva nel lessico politico moderno, come attesta l’appello a un principe redentore che chiude la più nota delle opere machiavelliane[45]. Ed è forse solo sul finire dell’Ottocento che si attingerà ad un concetto puramente teologico, ormai dimentico della matrice bellica e giuridica, per applicarlo alla scena politica e alle rivoluzioni che la sommuovono[46].
Altrettanto feconde poi, nella penna degli esegeti dei primi secoli dell’età cristiana, diventano le implicazioni più strettamente economiche dell’istituto. La passione viene da loro presentata anche come operazione di natura economica, interpretata cioè come pagamento di un riscatto e, dunque, concessione di un prestito che sarebbe necessario da parte di ciascun credente valutare (aestimare) per conoscere l’ammontare del suo debito nei confronti di Cristo[47]. E se è indiscutibile la dimensione economica del discorso del primo cristianesimo in materia di salvezza, essa si traduce, di converso, nella rilevanza di tale discorso per la concettualizzazione della prassi economica occidentale. Proprio tale prassi trova del resto largo spazio nella riflessione cristiana fin dai primissimi secoli, che certo non si limita alla censura della ricchezza e del risvolto economico dell’agire umano, ma valorizza e disciplina tale risvolto nell’orizzonte della caritas che regge la comunità cristiana, chiarendo altresì la possibilità di redenzione e riscatto della propria anima ottenibile grazie alla propria ricchezza materiale[48].
Quest’ultima annotazione ci porta infine, pur se cursoriamente, a segnalare il legame tra redemptio e paenitentia di cui parlano le fonti e che consente di riportare il filo dell’analisi sul piano della prassi. Su di esso infatti tale legame ha notevoli conseguenze, poiché coinvolge le pratiche penitenziali che regolano minuziosamente l’esistenza dei credenti in una disciplina che, da un ambito prevalentemente ecclesiastico e monastico, si estende a coinvolgere almeno potenzialmente l’intera societas christiana quando il canone Omnis utriusque sexus del IV Concilio lateranense (1215) statuisce l’obbligo universale della confessione annuale[49]. Particolarmente eloquenti, nella ferrea logica economico-giuridica che li regge e nella concettualità impiegata, sono i tariffari penitenziali che si diffondono nell’Alto Medioevo. Le generose penitenze comminate in termini di settimane, e più spesso anni, di digiuno riscattano le colpe di cui il penitente si è macchiato, e possono essere a loro volta riscattate dalla recita di salmi e dal canto di inni: di redemptio si parla dunque anche in questo senso. E merita marcare che redemptor nei confronti di un penitente che non sia in grado di digiunare – o, più di frequente, salmodiare in latino – può essere anche persona pia da lui compensata con denaro, secondo una prassi che forniva alle comunità religiose una certa ricchezza che, almeno a rigore, avrebbe avuto per finalità lecite solo quelle di essere impiegata per soccorrere i poveri e, in un vero e proprio circolo di redemptiones, per riscattare i prigionieri[50]. Il che ci presenta, da altra angolatura e in altro contesto, un’istantanea del nesso tra il debito che il riscattato contrae nei confronti di colui che lo riscatta e la colpa di cui egli si è macchiato: un nesso che, si sa, sarà poi raccolto nell’ambivalenza del tedesco Schuld che Nietzsche ha insegnato a conoscere[51] e che Benjamin ha piegato a leggere un Kapitalismus als religion[52], a lontana conferma di quanto la redemptio abbia saputo storicamente tradursi in matrice di relazioni sociali, politiche ed economiche.
[1] Una discussione delle tesi weberiane anche in relazione alle vicende storiche del Novecento in L. Cavalli, Charisma and twentieth century politics, in S. Lash – S. Whimster (eds) Max Weber, Rationality and Modernity, Allen & Unwin, London 1987, pp. 317-33, e in R.C. Tucker, The Theory of Charismatic Leadership, in «Daedalus» 97/3 (Summer 1968), pp. 731-756, che a p. 742 ricorda: «The charismatic leader is one in whom, by virtue of unusual personal qualities, the promise or hope of salvation – deliverance from distress – appears to be embodied». Cfr. anche la voce Führerkult, in C. Zentner – F. Bedürftig (eds.), Das große Lexikon des Dritten Reiches, Südwest-Verlag, München 1985.
[2] Su cui v. M. Foucault, Foucault, in Dits et écrits. 1954-1988, 4 voll., ed. D. Defert – F. Ewald, Gallimard, Paris 1994, n. 345, pp. 631-36; tr. it. in Archivio Foucault III, 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 248-52.
[3] Si pensi anzitutto al contesto greco e agli episodi di riscatto di prigionieri (lytron/lytrosis) di cui narrano Plutarco (Vita di Solone 15, con riferimento al provvedimento voluto da Solone) ed Erodoto (Storie 5.77). Cfr. L. Burckhardt, Lytron, in H. Cancik – H. Schneider – M. Landfester (eds.), Der Neue Pauly, Brill, consultato online il 01.02.2018, http://dx.doi.org.kuleuven.ezproxy.kuleuven.be/10.1163/1574-9347_dnp_e715200, e P. Ducrey, Aspects juridiques de la victoire et du traitement des vaincus, in J.-P.Vernant (ed.), Problèmes de la guerre en Grèce ancienne, Mouton, Paris 1968, p. 231-243.
[4] Si vedano L. Amirante, Redemptio ab hostibus, in Novissimo Digesto Italiano, UTET, Torino 1976, vol. XIV, pp. 1102-104 e M.V. Sanna, Ricerche in tema di ‘redemptio ad hostibus’, AV, Cagliari 1998. V. anche Y. Rivière, Captivité et retour de captivité dans la Rome impériale, in «Les Cahiers du Centre de Recherches Historiques» 42 (2008), consultato il 15.11.2015 all’URL: http://ccrh.revues.org/3446. Sull’opposizione tra stutus servitutis e status libertatis e sull’importanza di tale distinzione nell’elaborazione del diritto civile si veda L. Waelkens, Amne adverso, Roman legal heritage in European culture, Leuven University Press, Lovanio 2015, cap. 2.
[5] Nel libro 49 del Digesto è il titolo 15 a trattare De captivis et postliminio reversis et redemptis ab hostibus dedicato allo ius postliminium; ad es., Dig. 49.15.15 prevede che l’erede di un redemptus, per poter succedere al pater, debba prima soddisfare il redemptor. Come osserva Laurent Waelkens nel contributo a questo volume, si deve ritenere che il cittadino riscattato venisse incluso all’interno della familia del redemptor, dove conservava lo status di un alumnus libero, essendo politicamente libero, ma economicamente legato al nuovo paterfamilias.
[6] Sul punto si veda S. Heinemeyer, Der Freikauf des Sklaven mit eigenem Geld, Redemptio suis nummis, Duncker & Humblot, Berlin 2013; quanto alla contabilità in atto all’interno della familia romana, v. L. Waelkens, Gaius IV, 74: Debet ou debetur?, in «Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis» 68(2000), pp. 347-356.
[7] Già nel Codex Iustiniani (C.1.3.36.1) c’è una previsione simile. Cfr. P. Landau, Frei und Unfrei in der Kanonistik des 12. und 13. Jahrhunderts am Beispiel der Ordination der Unfreien, in J. Fried (ed.), Die abendländische Freiheit vom 10. zum 14. Jahrhundert. Der Wirkungszusammenhang von Idee und Wirklichkeit im europäischen Vergleich, Thorbecke, Sigmaringen 1991, pp. 177-96, e R. Helmholz, The Spirit of classical Canon Law, University of Georgia Press, 1996, cap. 3, pp. 61ss.
[8] Cfr. Ambrogio di Milano, De officiis, II.28.136-39, in Sancti Ambrosii Episcopi Mediolanensis Opera, ed. I.G. Krabinger – G. Banterle, Città Nuova, Roma 1977, pp. 260-62, ove è tra l’altro stabilito, a giustificazione dell’azione, il parallelo tra la redemptio captivorum e la redemptio operata da Cristo. Cfr. anche nella stessa direzione ibi, II.15.70-71, p. 222, dove conclude: «Praecipua est igitur liberalitas redimere captivos – et maxime ab hoste barbaro qui nihil deferat humanitatis ad misericordiam».
[9] Cfr. Decretum c.12 q.2 c.14-15, su cui R. Helmholz, The Spirit of classical Canon Law, cit., p. 81.
[10] Cfr. Cicerone, De officiis, II.18.63 e Seneca, De Beneficiis, II.21.
[11] Si veda il capitolo VI di G. Cipollone, Cristianità – Islam. Cattività e liberazione in nome di Dio. Il tempo di Innocenzo III dopo il 1187, Ed. Pontificia Università Gregoriana, Roma 2003, specie le pp. 393-94 e 406-10.
[12] Si veda in questo senso il contributo di Gian Luigi Prato in questo volume, con estesa bibliografia specie in merito al contesto veterotestamentario. Quanto al Nuovo Testamento, oltre a quanto si dirà nel seguito, rimando per un profilo di insieme a J. Rivière, Le dogme de la rédemption. Essai d’étude historique, Lecoffre, Paris 1905; Id., Rédemption, in Dictionnaire de théologie catholique, ed. A. Vacant – E. Mangenot – É. Amann, Letouzey et Ané, t. 13/2, Paris 1937, coll. 1912-2004; S. Lyonnet – L. Sabourin, Sin, Redemption and Sacrifice. A Biblical and Patristic Study, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1998.
[13] Si vedano le voci dedicate da F. Büchsel a Lytron e una serie di termini dello stesso campo etimologico in G. Kittel-G. Friedrich (eds.), Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, Kohlhammer, Stuttgart 1933-1978; tr. it. Grande lessico del Nuovo Testamento, a cura di F. Montagnini-G. Scarpat-O. Soffritti, Paideia, Brescia 1965-92, vol. VI, col. 916-62.
[14] W. Foerster – G. von Rad, Diabállo, Diábolos, in Grande lessico del Nuovo Testamento, cit., vol. II, coll. 921-50 2.
[15] Qui e nel seguito la traduzione utilizzata è La Sacra Bibbia, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Libreria Editrice Vaticana, s.l. 2008.
[16] Origene, In epistula Pauli ad Romanos explanationum libri I-IV, 2 voll., ed. F. Cocchini, Città Nuova, Roma 2014, vol. I, III.4, pp. 286-88. Sulla lettura origeniana della redenzione si veda J.A. Alcain, Cautiverio y redención del hombre en Origenes, Universidad de Deusto, Bilbao 1973, che distingue cinque differenti teorie, soffermandosi su quella «mercantile» della vendita da riscattare alle pp. 177-22 e su quella «giuridica» di debito alle pp. 224-374.
[17] V. Glossa interlineare su Rom 3,24: «Unde non corruptibilibus auro et argento sed pretioso sanguine unigeniti Filii Dei. Id est pretium datum pro nobis» (Glossa ordinaria cum Biblia latina, ed. M. Morard, Glossae Scripturae Sacrae-electronicae (Gloss-e), Institut de recherche et d’histoire des textes (IRHT-CNRS) 2016, all’indirizzo: http://gloss-e.irht.cnrs.fr/php/editions_chapitre.php?livre=../sources/editions/../sources/editions/GLOSS-liber60.xml&chapitre=6, ultima consultazione: 01.02.2018).
[18] In uno dei frammenti superstiti del commento alla Lettera agli Efesini 1,7 Origene afferma: «Redacti autem sumus sub dominio inimicorum, scilicet principis huius mundi et potestatum quae sub eo sunt, et ideo nobis opus est redemptione, et aliquo qui nos redimat dando ut pretium (lytron) suum ipsius sanguinem» (Catenae in Eph., ed. J.A.F. Gregg, in «Journal of Theological Studies» 3 (1901-02), pp. 233-44: 238, citato da S. Lyonnet, De peccato et redemptione, Vol. 2: De vocabulario redemptionis, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1972, p. 28; questo testo di Lyonnet è tradotto in inglese in S. Lyonnet – L. Sabourin, Sin, Redemption and Sacrifice, cit.)
[19] Girolamo, Commentarii in iv epistulas Paulinas. Ad Ephesios, in Patrologiae Cursus Completus. Series Latina, ed. J.P. Migne, Paris 1844-55, vol. 26, col. 480: «Ille redimitur qui captivus est, et in hostium veniens potestatem liber esse desivit: ita et nos quidam dicunt in hoc mundo esse captivos, et sub principibus et potestatibus iugo servitutis teneri, nec ante vinctas catenis explicare manus, et oculos sursum attollere, nisi redemptor advenerit».
[20] Nel suo sermone 12, dedicato all’Epistola ai Romani, si legge: «Si autem eum comparet quem habuit et amisit, non emere, sed redimere dicitur, quia suum redimit, et eum redimit quem habuerat. Unde romani qui de captivitate barbarica, dato pretio, liberantur, non empti, sed redempti dicuntur. […] Incurrerat enim homo dudum dominationem diaboli, veluti barbaricam captivitatem, ut recedens a domino originali inimici fraude caperetur. Sed propterea redempti sumus sanguine christi, propterea de captivitate diaboli liberati, ut ad originalem dominum rediremus, a quo iam recedere non debemus, ne iterum captivitatem diaboli incurramus, et minime iam liberari mereamur» (in Chromatii Aquilensis opera, ed. R. Etiex – J. Lémarié, CCSL 9A, Brepols, Turnhout 1974, pp. 54-55; cfr. ivi anche i sermoni n. 19 e 42).
[21] L’intero meccanismo della redemptio dalla captivitas presso il demonio è descritto estesamente in da Agostino ad esempio nelle Enarrationes in Psalmos, ed. D.E. Dekkers – I. Fraipont, CCSL 39, Brepols, Turnhout 1956, In Ps. XCV.5, pp. 1346-47, ove si legge: «Tenebantur enim homines captivi sub diabolo, et daemonibus serviebant, sed redemti sunt a captivitate. Vendere se potuerunt, sed redimere non potuerunt. Venit redemtor, et dedit pretium; fudit sanguinem suum, emit orbem terrarum. Quaeritis quid emerit? Videte quid dederit, et invenite quid emerit. Sanguis christi, pretium est. Tanti quid valet? Quid, nisi totus orbis? Quid, nisi omnes gentes?»
[22] Origene, In epistula Pauli ad Romanos, cit., III.5, p. 288.
[23] Cfr. D. Alighieri, De monarchia, in Opere, ed. M. Santagata – D. Quaglioni, Mondadori, Milano 2014, vol. 2, II.11, p. 1209.
[24] Sugli aspetti qui evocati si vedano, tra i molti riferimenti possibili, almeno i due saggi dedicati a Lorenzetti in Q. Skinner, Visions of Politics, 3 voll., Cambridge Univ. Press, Cambridge 2002, vol. II, cap. 3 e 4; tr. it. in Virtù rinascimentali, Il Mulino, Bologna 2006, e la prospettiva di insieme offerta da A. Zorzi (ed.), Tiranni e tirannide nel Trecento italiano, Viella, Roma 2013.
[25] Augustinus, De libero arbitrio, libro III, 10.29 e 31, in Aurelii Augustini Opera, Pars II/2, ed. W.M. Green, CCSL 29, Brepols, Turnhout 1970, pp. 293-94: «Servata est ergo in utroque peccato iustitia domini punientis. Nam et illud appensum est aequitatis examine ut nec ipsius diaboli potestati negaretur homo quem sibi male suadendo subiecerat. Iniquum enim erat ut ei quem ceperat non dominaretur. Nec fieri ullo modo potest ut dei summi et veri perfecta iustitia, quae usquequaque pertenditur, deserat etiam ordinandas ruinas peccantium. […] Atque Verbum Dei unicus Dei Filius, diabolum quem semper sub legibus suis habuit et habebit, homine indutus etiam homini subiugavit: nihil ei extorquens violento dominatu, sed superans eum lege iustitiae; ut quoniam femina decepta et deiecto per feminam viro omnem prolem primi hominis tamquam peccatricem legibus mortis, malitiosa quidem nocendi cupiditate sed tamen iure aequissimo, vindicabat, tamdiu potestas eius valeret, donec interficeret iustum».
[26] Sulla dottrina degli iura diaboli e la discussione teologica tra età patristica e medievale cui queste righe fanno riferimento, rimando al profilo tracciato da J. Rivière, Le dogme de la rédemption, cit., pp. 374ss; S. Lyonnet – L. Sabourin, Sin, Redemption and Sacrifice, cit., pp. 207ss, dal capitolo «The rule of Satan» in G.M. Lukken, Original Sin in the Roman Liturgy. Research into the Theology of original Sin in the Roman Sacramentaria and the early Baptismal Liturgy, Brill, Leiden 1973, pp. 157-199, nonché dalla voce di R. Ottone, Redenzione, in Enciclopedia filosofica, 12 voll., Bompiani, Milano 2006, vol. X, pp. 9500-9504. Su Agostino e le riprese medievali del tema v. B. Pasciuta, Il diavolo e il diritto: il Processus Satanae (XIV sec.), in Centro Italiano di Studi sul Basso Medioevo – Accademia Tudertina, Il diavolo nel Medioevo. Atti del XLIX Convegno storico internazionale (Todi, 14-17 ottobre 2012), Fondazione Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 2013, pp. 421-447.
[27] Cfr. Origene, In epistula Pauli ad Romanos, cit., VII.1, pp. 218-24. Sul punto cfr. J. Rivière, Le dogme de la rédemption, cit., alle pp. 248-49, e J.A. Alcain, Cautiverio y redención del hombre en Origenes, cit., p. 182, che rispetto a ciò mostra la tensione interna ai testi dell’autore. Anche Girolamo, nel seguito del testo citato supra in nota 19, si preoccupa di evidenziare come dalla redemptio non consegua uno stato di servitù nei confronti di Cristo. In contesto neotestamentario, rilevano comunque anche i passi in cui Paolo si definisce schiavo di Cristo, tra cui I Cor 7,23 («chi è stato chiamato da libero, è schiavo di Cristo»). Cfr. la voce doulon in C. Spicq, Lexique théologique du Nouveau Testament, Cerf, Paris 1991, pp. 391-97, specie 392-93.
[28] Qualche elemento per comprendere l’utilizzo del patrimonio giuridico romano da parte ambrosiana in J. Gaudemet, Droit séculier et droit de l’église chez Ambroise, in G. Lazzati (ed.), Ambrosius episcopus. Atti del Congresso internazionale di studi ambrosiani nel 16. centenario della elevazione di sant’Ambrogio alla cattedra episcopale. Milano, 2–7 dicembre 1974, 2 voll., Vita e Pensiero, Milano 1976, vol. I, pp. 286–315, specie pp. 287–300, e Id., Le droit romain dans la littérature chrétienne occidentale du IIIe au Ve siècle, Ius Romanum Medii Aevi I.3.b, Giuffrè, Milano 1978, pp. 71–98; cfr. altresì le considerazioni ricavabili dall’analisi di B. Moroni, Lessico teologico per un destinatario imperiale. Terminologia giuridico–amministrativa e cerimoniale di corte nel De fide di Sant’Ambrogio, in L.F. Pizzolato – M. Rizzi (eds.), Nec timeo mori. Atti del Congresso internazionale di studi ambrosiani nel XVI centenario della morte di sant’Ambrogio, Vita e Pensiero, Milano 1998, pp. 341–63, specie pp. 343–45. La decisa presenza di fonti giuridiche in Ambrogio è attestata anche dal fatto che i suoi scritti vengono utilizzati per una ricostruzione dell’attività normativa di età tardo–imperiale (cfr. M. Sargenti – R.B. Bruno Siola (eds.), Normativa imperiale e diritto romano negli scritti di S. Ambrogio. Epistulae — De officiis — Orationes funebres, Giuffrè, Milano 1991).
[29] Sulla traduzione teologica della professio census operata da Ambrogio e la sua tradizione mi permetto di rinviare al mio Per una storia del concetto di professione. La traduzione teologica dell’istituto giuridico romano della professio census, in «Filosofia politica» 1 (2016), 109-22, nonché all’insieme del volume Censo, ceto, professione. Il censimento come problema teologico-politico, «Politica e religione. Annuario di teologia politica» (2015).
[30] Ambrogio di Milano, Expositionis Evangelii secundum Lucam libri I-V, II.39, in Sancti Ambrosii Episcopi Mediolanensis Opera 11, 2 voll., ed. M. Adriaen – G. Coppa, Città Nuova, Roma 1978, vol. I, p. 180.
[31] Ibi, X.66, vol. II, p. 444: «Omnis deinde qui facit peccatum servus est peccati. Peccatis inquit vestris venditi estis. Venditio propter peccata nostra, propter bonitatem autem dei redemtio peccatorum». Cfr. anche, di nuovo con riferimento a 1Pt 18-19, ibi, VII.117, vol. II, p. 178: «Etenim aduersarius tamquam captiva mancipia vilioris pretio aestimationis addicit, at vero dominus tamquam speciosa servitia, quae ad imaginem et similitudinem sui fecit, idoneus sui operis aestimator magno pretio nos redemit, sicut sanctus apostolus dixit: emti enim estis pretio magno».
[32] Ibi, VI.25, vol. II, pp. 26-28: «Sed quis est populus iste, qui amplius debet, nisi nos, quibus amplius creditum est? Illis credita sunt eloquia dei, nobis creditur virginis partus. Habes talentum virginis partum, habes fidei centesimum fructum. Creditus est Emmanuhel nobiscum deus, credita domini crux mors resurrectio. Etsi Christus pro omnibus passus est, pro nobis tamen specialiter passus est, quia pro ecclesia passus est. Itaque non est dubium quod plus debeat qui plus accepit». Sulla spirituale «moneta di virtù» con cui tale debito va ripagato, poche righe innanzi Ambrogio aveva appuntato: «Non materialem faeneratori huic debemus pecuniam, sed meritorum examina, aera virtutum, quarym meritum gravitatis pondere, iustitiae specie, sono confessionis expenditur» (ibi, VI.24, vol. II, p. 26).
[33] Alcune lettere ambrosiane risultano di notevole interesse. Ambrogio è puntuale nel descrivere la situazione debitoria dell’uomo nei confronti del diavolo e, successivamente, del redentore nell’Epistola 1(41), §§7-8, in Sancti Ambrosii epistulae et acta, 4 voll., ed. O. Faller – M. Zelzer, Hölder-Pichler-Tempsky, Vienna 1968-1996, vol. III, pp. 149-50: «Nemo fenus suum patrimonio innocentiae suae poterat exsolvere, de meo une me liberarem habere non poteram, novum genus absolutionis meae detulit; ut creditorem mutarem, quia fenus unde solverem non habebam. Debitores autem nos non natura sed culpa fecerat; peccatis enim nostris aera gravia contraximus. ut essemus obnoxii qui eramus liberi. Debitor enim est qui aliquid accepit de feneratoris pecunia. Peccatum autem a diabolo est, tamquam in eius patrimonio has habet impius opes; sicut enim Christi divitiae virtutes sunt ita diaboli opes crimina sunt. Redegerat humanum genus in perpetuam captivitatem obnoxiae haereditatis gravi fenore quod obaeratus auctor ad posteros de fenerata successione transmiserat. Venit Dominus Iesus, mortem suam pro morte omnium obtulit, sanguinem suum pro sanguine fudit universorum. Mutavimus ergo creditorem, non evasimus». Nell’Epistola 69(72), §8 (ibi, vol. II, p. 182) evidenzia come il creditore, il diavolo, dovesse essere ripagato necessariamente: «Nam si redempti sumus non corruptibilibus argento et auro, sed pretioso sanguine domini nostri Iesu Christi – quo utique vendente, nisi eo qui nostrum iam peccatricis successionis aere quaesitum servitium possidebat? -, sine dubio ipse flagitabat pretium, ut servitio exueret quos tenebat obstrictos. Pretium autem nostrae liberationis erat sanguis domini Iesu, quod necessario solvendum erat ei cui peccatis nostris venditi eramus». L’argomentazione ambrosiana si colloca nel contesto di discussione del superamento della necessità della circoncisione, su cui già le simili osservazioni di Origene, In epistula Pauli ad Romanos, cit., vol. I, II.9, p. 208. 2,13: «Si ergo pretio empti sumus, ut etiam Paulus astipulatur, ab alioque sine dubio empti sumus, cuius eramus servi, qui et pretium poposcit quod voluit, ut de potestate dimitteret quod tenebat. Tenebat autem nos diabolus, cui distracti fueramus peccatis nostris. Poposcit ergo pretium nostrum sanguinem Christi».
[34] Ambrogio di Milano, De virginitate, ed. I. Cazzaniga, Corpus Scriptorum Latinorum Paravianum, Paravia, Torino 1952, XIX.126, p. 100.
[35] Per alcuni riferimenti più puntuali e un’analisi delle implicazioni economiche di alcune letture esegetiche del chirografo si veda R.C. Mueller, Eva a dyabolo peccatum mutuavit. Peccato originale, prestito usurario e redemptio, in D. Quaglioni – G. Todeschini – G.-M. Varanini (eds.), Credito e usura fra teologia, diritto e amministrazione: linguaggi a confronto (sec. XII-XVI), École française de Rome, Roma 2005, pp. 227-45; V. Toneatto, Les banquiers du Seigneur. Évêques et moins face à la richesse (IVe-début IXe siècle), Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2012, pp. 173-77. Un quadro delle differenti interpretazioni esegetiche date del chirografo (inteso ad esempio come confessione di colpa o correlativo della legge ebraica) in G.M. Lukken, Original Sin in the Roman Liturgy, cit., pp. 177-80.
[36] Ambrogio di Milano, De Iacob et vita beata, I.3.12, in Sancti Ambrosii Episcopi Mediolanensis Opera 3, ed. C. Schenkl – R. Palla, Città Nuova, Roma 1982, pp. 242-44.
[37] Su questo testo e la sua importanza qualche informazione in J. Rivière, Le dogme de la rédemption, cit., pp. 239-43.
[38] Ambrosiaster, In Epistulam ad Romanos, in Ambrosiastri qui dicitur commentarius in epistulas paulinas, Pars prima, ed. H.I. Vogels, Hölder-Pichler-Tempsky, Vienna 1966, VIII.12 (recensio γ), pp. 269-71: «Rectum et manifestum est non nos adinventioni Adae, qui carnaliter egit, obsecundare debere, qui prior peccans mortem nobis hereditatis titulo dereliquit, sed legi Christi servire nos debere, qui nos spiritali ratione a morte supra dicta redemit. Huic enim sumus debitores, qui nos carnalibus vitiis sordidatos per lavacrum spiritus ablutos iustificavit et filios dei fecit; prius enim in carne positi exemplo Adae vivebamus subiecti peccatis, nunc vero liberati reddere debemus obsequium redemptori». Più oltre (XIV.8, p. 439): «Verum est omnes nos domini esse quasi servos in condicione et dominio redemptoris et unumquemque pro merito suo tractari».
[39] Così si legge in Tertulliano, De fuga in persecutione 12.3, in Tertulliani opera, pars II: Opera montanistica, ed. A. Gerlo, CCSL 2, Brepols, Turnhout 1954, p. 1150: «Sol cessit diem emptionis nostrae. Apud inferos remancipatio nostra est et stipulatio nostra in caelis […]. Et Dominus quidem illum redemit ab angelis munditenentibus, <a> potestatibus, a spiritalibus nequitiae, a tenebris huius aevi, a iudicio aeterno, a morte perpetua; tu autem pro eo pacisceris cum delatore vel milite vel furunculo aliquo praeside sub tunica et sinum, quod aiunt, ut furtivo, quem coram toto mundo Christus emit, immo et manumisit!». Per una maggiore contestualizzazione si veda l’analisi proposta da J. Rivière, Tertullien et les droits du démon, in «Revue des Sciences Religieuses» 6/2 (1926), pp. 199-216: pp. 211-14, pur nell’intento apologetico di mostrare come questi indizi non siano sufficienti per ascrivere a Tertulliano la teorizzazione dei “diritti del diavolo”. Seppure si discuta sulla precisione dell’utilizzo del lessico giuridico da parte di Tertulliano (cfr. R. Martini, Tertulliano giurista e Tertulliano padre della Chiesa, in «Studia et documenta historiae et iuris» 41(1975), pp. 78-124, e J. Gaudemet, Le droit romain dans la littérature chrétienne occidentale du IIIe au Ve siècle, cit., pp. 15-32), indubbia è la sua costanza. Sulla teoria redentiva di Tertulliano in relazione allo sviluppo dell’idea di Purgatorio si veda infra il contributo di Milena Mariani.
[40] Per un minimo esempio testuale in questa direzione si vedano i passi di Origene e Ambrogio richiamati infra, n. 42.
[41] Cfr. Origene, Homiliae in Exodum, ed. M. Simonetti, Città Nuova, Roma 2005, VI§9, p. 190: «Vides ergo quia Dei quidem creatura omnes sumus, unusquisque vero peccatis suis venundatur et pro iniquitatibus suis a proprio creatore discedit. Dei igitur sumus, secundum quod ab eo creati sumus; effecti vero sumus servi diaboli, secundum quod peccatis nostris venundati sumus. Veniens autem Christus redemit nos, cum serviremus illi Domino, cui nosmet ipsos peccando vendidimus. Et ita videtur tamquam suos quidem recepisse, quos creaverat, tamquam alienos autem acquisisse, qui alienum sibi dominum peccando quaesiverant».
[42] Ibi, pp. 190-92.
[43] Sul peccato (e la virtù) come moneta v. ad es. Ambrogio di Milano, De Iacob et vita beata, cit., I.3.10, p. 240 e i passi citati supra in n. 31 e 32.
[44] Ibi, p. 192: «Paulo latius progressi sumus, dum volumus exponere, quomodo Deus quae sua sunt, dicatur acquirire et redimere Christus sanguine pretioso, quos emerat diabolus vili mercede peccati».
[45] Su Machiavelli cfr. il contributo di Jean-Claude Zancarini infra.
[46] È il caso della Divini redemptoris con cui nel 1937 Pio XI stigmatizza il «nuovo presunto Vangelo, che il comunismo bolscevico ed ateo annunzia all’umanità, quasi messaggio salutare e redentore» (http://w2.vatican.va/content/pius-xi/it/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_19370319_divini-redemptoris.html, consultato il 02.02.2018). Sul rapporto rivoluzione/redenzione si veda la ricostruzione storica conclusiva di Michele Nicoletti infra, nonché qualche spunto in W. Elert, Redemptio ab hostibus, in «Theologische Literaturzeitung» (1947), pp. 265-70.
[47] Con riferimento al sermone 130 di Agostino, Valentina Toneatto (Les banquiers du Seigneur, cit., p. 175) osserva che la passione di Cristo ne esce «encore une fois représenté comme une opération de nature fondamentalement économique, comme un prêt qu’il est nécessaire d’évaluer (aestimare) pour connaître avec exactitude le montant de sa dette et des interêts dont elle est chargée».
[48] Si legga la discussione che ne fa P. Brown, The Ransom of the Soul. Afterlife and Wealth in Early Western Christianity, Harvard Univ. Press, London 2015, per arrivare a contestualizzare i lasciti testamentari pro redemptione animae che si diffondono nell’Alto Medioevo, di cui offre alcuni esempi già a p. 22. Una contestualizzazione problematizzata in G. Todeschini, Il prezzo della salvezza. Lessici medievali del pensiero economico, Carocci, Roma 1994, pp. 119-43, e, più specificamente in merito al tema della redenzione, infra il contributo di Paolo Evangelisti.
[49] Per una lettura di insieme del ruolo della confessione già prima dell’età della Controriforma cfr. almeno T.N. Tentler, The “Summa” for confessors as an instrument of social control, in H. A. Oberman – C. Trinkaus (eds.),The pursuit of holiness in late medieval and Renaissance religion. Papers from the University of Michigan conference, Brill, Leiden 1974, pp. 103-137, P. Prodi, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 87-92, e R. Rusconi, L’ordine dei peccati. La confessione tra Medioevo e età moderna, Il Mulino, Bologna 2002.
[50] Cfr. T. Pollock-Oakley, Les commutations et les rédemptions dans les penitentiels du continent, in «Revue historique de droit français» 18 (1939), pp. 39-57, e C. Vogel, Composition legale et commutation dans le système de la pénitence tarifée, in «Revue de droit canonique», saggio in 3 parti comparse rispettivamente nel volume 8 (1958), pp. 289-318 e nel 9 (1959), pp 1-39 e 341-359.
[51] L’ovvio rinvio è alla II dissertazione di Zur Genealogie der Moral, in Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe in 15 Bänden, ed. G. Colli – M. Montinari, Gruyter, Berlin–New York 1967ss, vol. VI t. II; tr. it. di F. Masini Genealogia della morale, Adelphi, Milano 2008. In una prospettiva più ampia, di Nietzsche e redenzione si occupa infra il contributo di Guido Boffi.
[52] W. Benjamin, Kapitalismus als religion, in Gesammelte Schriften, 7 voll., ed. R. Tiedemann – H. Schweppenhäuser, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1991, vol. VI, pp. 100–103; tr. it. di C. Salzani Capitalismo come religione, Il Melangolo, Genova 2013. Uno sviluppo della riflessione benjaminiana in E. Stimilli, Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo, Quodlibet, Macerata 2011 e M. Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2012.