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Pidion Haben, the redemption of the firstborn. Theological-political interpretations of a Mitzvah
The paper deals with the mitzwà issued by Shemot/Exodus 13: 13, which imposes the consecration and the ransom of every, human and animal, first-born. This commandment, called pidion haben, in the rabbinical judaism refers to the ransom of the first-born male son, to be paid by the father during a ceremony held 31 days after the birth. In this perspective, the concepts of redemption and ransom are discussed, and shown to imply a de-theologising way of thinking of both the man and the world, and to begin a process towards political liberation and autonomy.
Nel libro di Shemot/Esodo, in mezzo tra il racconto delle dieci piaghe che colpirono l’Egitto e il racconto dell’effettiva uscita dall’Egitto, si trova la prescrizione di ricordare e celebrare ogni anno il giorno di questa gehullà o “redenzione” attraverso un rito (cfr. Shemot/Esodo 12, 43-13, 16). E tra le prime mitzwot (precetti) che incombono agli ebrei, ancor prima di uscire dall’Egitto, e che paiono scaturire da questi drammatici eventi di liberazione, vi è la legge sui primogeniti ossia la mitzwà della consacrazione e del riscatto di ogni primo nato di bestiame e di esseri umani. Tale precetto, che riguarda il popolo ebraico, è espresso ivi nel cap. 13, al versetto 13: «ve-kol bekor adam be-vanekha tifde», «e ogni primogenito tra i tuoi figli riscatterai»; ma tutti i primi sedici versetti di questo capitolo, e persino la tragica premessa della decima piaga, contestualizzano il comandamento e lo dettagliano e persino lo spiegano (in uno dei pochi casi in cui la Torà si premura di dar conto del perché e del valore di un ordine divino). Questo comandamento ha preso, nel giudaismo rabbinico, il nome di pidion haben, il riscatto/la redenzione del figlio, inteso come il primo nato maschio di sua madre: tale mitzwà, che va adempiuta il 31esimo giorno dalla nascita, spetta al padre (come del resto la circoncisione all’ottavo giorno). Da tale precetto il padre è esentato qualora egli fosse un cohen (sacerdote) o un levi. L’ebreo che, trovandosi nelle condizioni per cui il pidion haben è obbligatorio, non fosse stato riscattato subito dal proprio padre (o da un tribunale rabbinico, in casa di assenza del padre), da adulto deve provvedere a riscattare se stesso. Presupposti e dettagli del rito del riscatto sono descritti e prescritti nello Shulkhan ‘aruq, ossia il codice halakhico più autorevole nel mondo ebraico sino ad oggi (e li analizzerò più avanti).
Il termine pidion viene dal verbo padah (radice pe-dalet-he/iod) e porta il significato di liberare, redimere, riscattare. Esso trova applicazione, oltre al contesto che stiamo analizzando, anche nel caso del riscatto di ebrei cui fosse toccato in sorte di trovarsi schiavi o prigionieri (in questo caso l’obbligo del riscatto ricade sull’intera comunità). Si estende persino agli oggetti sacri, per renderli di uso comune. Il riscatto si suppone pagato in moneta sonante o in oggetti di eguale valore monetario (ma non in banconote, assegni o cambiali).
La bekorà (pl. bekorot), bekorutà in aramaico, ossia la primogenitura, era nella cultura dell’antico Israele una vera e propria istituzione giuridica, dal valore multiplo che oggi chiameremmo sociale, economico e religioso. Il termine si applicava ai primi nati sia della specie umana sia delle altre specie di animali domestici. Le norme che regolavano tale istituzione hanno dato forma a uno specifico trattato del Talmud, Bekorot, che appartiene all’ordine (mishnico) Qodashim, delle “cose sacre”. Dalla stessa radice viene il termine bikurà (pl. bikkurim) che indica le primizie, intese come i primi frutti di un giovane albero piantato da almeno tre anni, e, per estensione, tutti i primi frutti dei campi; anche sulle norme delle primizie esiste un trattato talmudico, Bikurim, che si trova nell’ordine agricolo degli Zeraim, delle “sementi”.
La mitzwà del pidion haben deve essere anzitutto collocata nel contesto del diritto, meglio dei “diritti dei primogeniti” o, visto dall’alto lato della medaglia, nel contesto dei loro doveri. Da un punto di vista sociale ed economico, infatti, era dovere del primogenito per linea paterna prendere il posto del padre alla sua morte e garantire così nome e legittimità (politica e religiosa), stabilità e sussistenza alla famiglia, in senso lato del termine, in seno alla tribù, anch’essa intesa in senso lato. Per adempiere a tale prerogativa – con i suoi onori ed i suoi oneri – il diritto antico (cfr. Devarim/Deuteronomio 21) gli assegnava il doppio dell’eredità (dei beni paterni) che ricevevano singolarmente gli altri fratelli maschi e lo tutelava dalle bizzarrie senile di genitore con scarso senso del diritto, come narrato, ad esempio, nel caso di Eshav/Esaù e Jaakov/Giacobbe. Proprio quest’ultimo caso illustra il fatto che anche la berakà con l’eredità spirituale (“la promessa”) era prerogativa del primogenito, e documenta come essa, pur ereditata, non costituisca tuttavia un dono automatico, per così dire, ma vada meritata ed apprezzata, pena il perderla. Ma questa primogenitura in linea paterna conviveva con una primogenitura in linea materna, ossia con l’esistenza di più primogeniti che un padre poteva avere con diverse mogli. È questa la primogenitura che soggiace alla legge del riscatto o pidion haben: essa include quella patrilineare ma la sorpassa estendendosi a chiunque sia il primo (se maschio) a “rompere/aprire il grembo materno” – l’espressione biblica è peter kol rechem – e si applica «tra i figli di Israele sia agli esseri umani sia al bestiame» ((Shemot/Esodo 13, 2), versetto che esplicita come chi possegga queste primogeniture sia riservato per “consacrazione” a Dio. «Esso appartiene a Me» dice il testo, e Rashi (XI sec) esplicita: «L’ho acquistato per Me, perché ho colpito i primogeniti d’Egitto»[1]. È chiaro dunque dove venga radicata questa consacrazione: negli eventi tragici della redenzione dall’Egitto e in particolare in Shemot/Esodo 12, 29: «A mezzanotte il Signore colpì ogni primogenito in Egitto, dal primogenito di Faraone che siede sul trono sino al primogenito del prigioniero rinchiuso nel carcere o ai primi nati degli animali». Il rito-memoriale di Pesach, che si ripete annualmente, è dunque la cornice indispensabile per capire la legge sui primogeniti consacrati a Dio: «Cederai al Signore ogni primogenito, cioè ogni primogenito di bestia e di ciò che ti appartiene, se maschio, lo consacrerai al Signore» (ivi, 13, 12); ma anche il loro riscatto: «Ogni nato di asino lo riscatterai con un agnello oppure lo abbatterai colpendolo alla nuca; riscatterai ogni primogenito di uomo» (ivi, 13, 13). È sorprendente come la domanda del v. 14: «Quando tuo figlio ti chiederà: Cosa significa tutto ciò?» – domanda che ritroviamo all’inizio, quasi come motore dell’intera aggadà di Pesach – possa riferirsi non tanto al rito pasquale quanto al versetto che precede, ossia al riscatto dell’asino e dell’uomo che nascono per primi. Infatti la risposta diretta, al vv. 14-15, si riferisce alla piaga dei primogeniti e alla legge del pidion: «Tu gli risponderai: Il Signore ci ha tratto dall’Egitto […] e quando Faraone ostinatamente si rifiutò di lasciarci andare, il Signore colpì a morte ogni primogenito in Egitto sia fra gli uomini sia fra le bestie. Per questo io offro al Signore ogni primo nato maschio e ogni primogenito dei miei figli riscatterò». È chiaro dunque che il valore religioso della primogenitura è più vasto e radicale del suo stesso valore socio-economico e l’intero capitolo 13 del secondo libro della Torà serve da esauriente spiegazione in tal senso.
In Bemidbar/Numeri, al capitolo 3, viene offerta un’ulteriore spiegazione della primogenitura, che è uno sviluppo di quella che troviamo in Shemot/Esodo. Essa pone l’accento sulla dimensione “sacra” dei primogeniti in chiave di ‘avodat haShem, di servizio/culto divino. «Il Signore disse a Mosé: “Ecco, io ho eletto i Leviti tra i figli di Israele al posto di ogni primogenito che nasce per primo dal seno materno tra i figli di Israele: i Leviti saranno miei, perché ogni primogenito è mio. Quando io colpii tutti i primogeniti nel paese d’Egitto, io mi riservati in Israele tutti i primogeniti degli uomini e degli animali: essi saranno miei, Io sono il Signore”» (vv.11-13). In questo passo sembra verificarsi un duplice transfert: 1) i primogeniti ebrei sono “sollevati” da un destino di morte e “riservati” al servizio divino; 2) la consacrazione dei primogeniti a Dio è “scambiata” con la consacrazione di un’intera tribù, quella di Levi, che d’ora in avanti servirà Dio nei riti del santuario portatile (il Mishkan) e nella custodia dei suoi arredi, e più tardi del tempio (il Bet haMiqdash). La proprietà divina dei “primi nati” è sostituita con il servizio esclusivo dei Leviti, alla cui tribù appartengono anche le famiglie sacerdotali (i discendenti di Aronne). Nel trattato talmudico Zevachim (112b), sui sacrifici animali, si legge che, fino alla completa costruzione del santuario portatile, il servizio levitico era affidato ai primogeniti, come se questi fossero i sacerdoti del popolo; solo in seguito quel servizio fu affidato a una tribù intera (Levi) sollevandone i primogeniti di tutte le altre tribù. Tuttavia, questa scambio o sostituzione non fece venir meno il carattere sacro dei primogeniti, se lo stesso terzo capitolo di Bemidbar/Numeri, ai versetti 40-51, nel contesto del censimento di tutti i primogeniti maschi, ne prescrive appunto un riscatto:
«Per il riscatto (peduià) dei 273 primogeniti dei figli di Israele, che oltrepassano il numero dei Leviti, prenderai cinque sicli a testa; li prenderai secondo il siclo del santuario, che è di venti gherà per siclo. Darai l’argento (kesef) ad Aronne e ai suoi figli, quale riscatto di coloro che superano il numero dei Leviti. Mosè prese l’argento del riscatto (kesef ha-pideom) da coloro che superavano per numero i riscattati dai Leviti. Dai primogeniti dei figli di Israele prese l’argento: 1165 sicli, secondo il peso dei sicli in uso nel santuario. Mosè diede il denaro dei riscattati (kesef ha-peduim) ad Aronne e ai suoi figli, come il Signore aveva comandato a Mosè»[2].
È stato comunque fatto notare che la tradizione rabbinica ha limitato quella sostituzione alla generazione del deserto, dopo la quale ogni primogenito tra i figli di Israele sottostà alle legge della consacrazione a Dio e del riscatto, un tempo riservato a quanti non venivano sostituiti dai Leviti. La meticolosa descrizione di questo precetto nella Torà lascia intendere la sua rilevanza, non puramente simbolica, nella concezione – nell’auto-percezione – dell’antico popolo ebraico e della ripartizione dei suoi obblighi teologico-politici. Non stupisce che l’halakhà abbia recepito questa legge ebraica antica e l’abbia adattata come mitzwà rituale del riscatto (simbolico) del primo nato nel trentunesimo giorno dalla sua nascita. Perso il valore strettamente economico e sociale della primogenitura, permane quello morale e religioso, innestato – come visto sia in Shemot/Esodo 13 sia in Bemidbar/Numeri 3 – nell’epopea della liberazione del popolo ebraico dall’Egitto, primogenitura riscattata come sineddoche ossia pars pro toto, o meglio reshit, fioritura dell’intera redenzione di Israele.
Tutta la narrativa dell’uscita dall’Egitto ruota attorno al tema del riscatto/redenzione e del suo prezzo. La simbologia del sangue sacrificale ne è il cuore. Lo insegna l’aggadà shel pesach, ossia il rito della pasqua ebraica: «Rabban Gamliel diceva: Non adempie il proprio dovere [di commemorare l’uscita dall’Egitto/fare pasqua] chi non pronuncia a pesach queste tre parole [ebraiche]: pesach ossia l’agnello sacrificale, mazà ossia pane azzimo e maror ossia erba amara». Mai toccato nel corso del seder, della cena pasquale, l’osso di agnello sta al centro del rito come simbolo dell’offerta sacrificale, il cui sangue all’ingresso delle case ebraiche sostituì quello dei primogeniti ebrei in Egitto mentre i primogeniti egiziani perivano. Violento e poco diplomatico, questo è il mezzo e il prezzo della redenzione dall’Egitto. La stessa aggadà, nel commentare Devarim/Deuteronomio 26, 8: «Il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano forte, con braccio disteso, con grande terrore, con segni e prodigi», spiega:
«Non per mezzo di un angelo, non per mezzo di un serafino, non per mezzo di un inviato ma HaQadosh Baruch Hu – ossia il Santo in persona – con la sua gloria, come è detto: Passerò per la terra d’Egitto questa notte, colpirò ogni primogenito in terra d’Egitto, dall’uomo fino alla bestia, e di tutti gli dèi dell’Egitto farò giustizia, Io il Signore (cfr. Shemot/Esodo 12, 12). Passerò per la terra d’Egitto [significa] Io stesso, e non un angelo; colpirò ogni primogenito [significa] Io stesso, e non un serafino; di tutti gli dèi dell’Egitto farà giustizia [significa] Io e non un inviato. Sono Io il Signore, Io e nessun altro»[3].
E due volte, nel rito, si versa il vino (rosso) in un piatto a simboleggiare quel versamento di sangue: il prezzo della redenzione, la salvazione divina dei primogeniti ebrei. Come la Torà già narra e anticipa in Bereshit/Genesi 22, nella storia dell’’aqedat Jizchaq o legatura di Isacco,
«il sacrificio animale è una sostituzione simbolica del sacrificio di sé, o del sacrificio del figlio. Nel suo ruolo di narrazione fondante del sacrificio, la legatura di Isacco delinea il significato dell’atto sacrificale: il sacrificio, che in quanto dono sembra far parte di un ciclo di scambio, è in realtà un simbolo di un dono che non può essere contraccambiato»[4].
Ma come il filosofo israeliano Moshe Halbertal fa giustamente notare, i significati dell’atto sacrificale erano molteplici e complessi nella spiritualità e nella ritualità dell’antico Israele. Nel caso dell’esodo il sacrificio ossia «il versamento del sangue dei primogeniti» fu una punizione per l’Egitto ma, attraverso la sostituzione dei primogeniti con gli agnelli, fu una consacrazione per Israele: da quel momento i primogeniti ebrei non appartengono più ai loro padri e alle loro madri, alle loro famiglie e tribù, ma appartengono a Dio e sono “separati” come i leviim e i cohanim, i leviti e i sacerdoti. Essi sono per Dio in quanto «prezzo del riscatto», sono il simbolo stesso della redenzione. Se la tribù e la famiglia li rivogliono indietro, ora li devono scambiare con Dio stesso, colui che – ki-vjakol, se così si può dire – «in persona» ha operato «con grande terrore» la redenzione del popolo tutto. Si viene così a creare la paradossale logica di un doppio riscatto: riscattati dalla schiavitù e dalla morte dei primogeniti che erano «in Egitto» per mezzo della sostituzione con il sangue del pesach, dell’agnello, ora tali primogeniti vanno ri-riscattati dalla consacrazione divina, vanno per così dire riscattati una seconda volta e scambiati di nuovo: con cinque shekalim. Da offrire a chi? A un cohen, in quanto legittimo destinatario di tutte le primizie e di tutte le cose consacrate e sacrificate al Signore, l’unico vero proprietario. In tal senso è illuminante il passo della Torà, in Bemidbar/Numeri 18, in particolare i versetti 13-17, là dove rivolgendosi direttamente ad Aharon ha-cohen Dio dice:
«Le primizie di quanto produrrà la loro [dei figli di Israele] terra, che essi portino al Signore, sarà tua. Chi sarà puro nella tua casa dovrà mangiarne. Ogni cherem in Israele sarà tuo. Ogni primo parto di qualunque animale, che essi offrano al Signore, sia degli uomini che delle bestie, è tuo; ma riceverai il riscatto di ogni primogenito di uomo, come il riscatto di ogni animale impuro [esplicitamente è comandato il riscatto dell’asino]. Gli obbligati al riscatto dovrai riscattarli dall’età di un mese in poi, valutandoli cinque shekalim di quelli in uso nel santuario del peso di venti gherà. Però il primogenito del bestiame bovino, ovino e caprino non dovrai riscattarli: essi sono sacri. Il loro sangue lo spargerai sull’altare, il chelev [il grasso destinato ad essere bruciato sull’altare, cfr. Wajiqrà/Lv 3] lo farai andare in fumo: sacrificio da ardere, profumo grato al Signore».
Mi soffermo sul v. 14: «Ogni cherem in Israele sarà tuo». La versione della Torà in uso tra gli ebrei non traduce questa parola tecnica e rimanda a Wajiqrà/Levitico 27, 28, passaggio in cui si parla appunto di riscatti e consacrazioni: «E ogni cherem [particolare forma di consacrazione] che un uomo faccia al Signore di qualsiasi cosa che gli appartenga, sia di uomini sia di animali, che di campi di suo possesso, non si venderà né si riscatterà: ogni cherem è cosa santissima del Signore». La versione cattolica predisposta dalla Conferenza Episcopale Italiana (CEI) traduce il termine cherem con una parafrasi: «Quanto sarà consacrato per voto di sterminio in Israele». La parola “sterminio” rimanda all’idea del sacrificio totale, consumato dal fuoco. È una consacrazione appunto totale e irreversibile.
La mitzwà del pidion haben, dunque, è qui inserita nel suo contesto sacrificale: i bekkorot o primogeniti sono “primizia” e come tale sono cosa santissima e consacrata a Dio. Valgono teologicamente come gli animali puri, che vanno sempre sacrificati; e tuttavia, come gli animali impuri, sono da riscattare: i bekkorot si riscattano con denaro per mano dei cohanim o sacerdoti che ne sono, per così dire, legittimi usufruttuari. Solo tale contesto spiega perché da questa mitzwà siano esenti i primogeniti degli stessi leviim e cohanim: perché essi sono e devono restare “consacrati a Dio”, e dunque non sono soggetti a riscatto, non sono “riscattabili” (l’halakhà specifica che questo è il caso di ogni primogenito il cui padre o la cui madre sia cohen o levi).
Infatti che a riscattare sia il padre e che a prendere il prezzo del riscatto sia un cohen può avere un davar acher, un’altra interpretazione. Come abbiamo detto sopra, all’inizio, nel deserto, tutti i bekkorot svolgevano funzioni sacerdotali presso il Mishkhan, il Santuario portatile; poi il loro posto fu preso dai leviim e dai cohanim, per sostituzione. In tal senso, il riscatto è un modo per riconoscere questa sostituzione sacerdotale, nel duplice senso che il cohen sostituisce il primogenito e che i cinque shekalim sostituiscono il bambino ripagando il cohen per il lavoro (‘avodà) che svolge al suo posto, per conto dei primogeniti. Emblematici in tal senso sono il gesto e le parole del rito del pidion haben. Secondo lo Shulkhan ‘aruq, il padre deve rispondere al cohen se preferisce il figlio o il denaro; poi, dopo due benedizioni che il padre pronuncia, il denaro passa nelle mani del cohen, il quale lo pone sulla testa del bambino e dice: «ze tachat ze, ze chiluf ze, ze machul ‘al ze» ossia: «questo è al posto di questo, questo in cambio di questo, questo in remissione di questo»; e concludendo la benedizione auspica che «questo bambino possa entrare nella vita, nella Torà e nel timore del Cielo; e voglia il Cielo che, come è stato riscattato e redento, così possa entrare nella Torà, possa sposarsi e compiere molte opere buone». Solo dopo tale gesto e tale benedizione anche il padre mette le proprie mani sul figlio e lo benedice: «Che tu possa diventare come Efraim e Manasse!». Al termine il cohen recita il qiddush, la benedizione sul vino, che dà il valore di festa a questo riscatto[5].
Il rito, a ben vedere, elegge ed eleva il cohen a una funzione che potremmo definire e qualificare come, a sua volta, “sostitutiva”. Ogni sacerdozio vive di questo spirito di sostituzione, nel senso levinasiano del termine: egli è responsabile per altri a prescindere da ogni scelta: il cohen nasce cohen – senza merito né colpa –, nasce tale e non lo diventa, e in questo suo nascere cohen porta inscritta quella che Levinas chiama «una responsabilità anteriore ad ogni libero impegno; il se stesso, al di fuori di tutti i tropi dell’essenza, sarebbe la responsabilità per la libertà degli altri»[6]. Non a caso “sostituzione” è una delle parole chiave dell’etica levinasiana, che sta al cuore del volume Altrimenti che essere: come il cohen, il soggetto etico è passivo dinanzi a questa sostituzione – riceve il denaro, subentra all’altro e si aggioga il giogo altrui, espia per lui, operando un transfert che il filosofo ebreo-francese identifica con la soggettività stessa. Qui sostituzione-con ed espiazione-per significano la stessa cosa: portare la colpa d’altri ed espiare per altri. Ma qui Levinas non pensa alla kehunà, al sacerdozio come parte di Israele, ma a tutto Israele come cohen hagadol rispetto alle nazioni, rispetto ai gojjim. Israele-cohen è il modello di ogni sostituzione, di ogni soggetto espiatorio e, in quanto eletto, è il primogenito consacrato per il quale qualcun altro ha espiato. Chi? Anokhì, anì – dice l’aggadà di pesach: il Soggetto con la S maiuscola, il Dio di Israele – l’unico che può dire io perché si è fatto responsabile ultimo del riscatto, della redenzione/dell’espiazione. In linguaggio biblico questa è l’elezione di Israele, è l’essere ‘am segullà: un’eredità a parte, di cui la kehunà è cifra teologico-politica.
Ma in tema di sacrificio dei primogeniti diventa cruciale la riflessione sulla decima piaga, chiamata dall’aggadà di pesach con il nome di makkat bekorot, alla lettera il flagello o il colpo (ossia la piaga) che colpì a morte i primogeniti, uomini e animali, tra gli egiziani (cfr. Shemot/Esodo ai capp. 11 e 12). Si tratta dell’apice di un climax di flagelli con il quale Dio punisce le colpe degli egiziani – complici nelle sofferenze degli ebrei – e convince Faraone a lasciar uscire i discendenti di Giacobbe/Israele dall’Egitto. La spiegazione delle dieci piaghe come mera strategia di convincimento di Faraone sembra debole alla tradizione rabbinica, che preferisce vedervi un vero e proprio atto di giustizia divina: la morte dei primogeniti “ricompensa” – middà kebeghed middà, misura per misura – gli egiziani per il decreto faraonico citato in Shemot/Esodo 1, 22, ossia il comando di far annegare ogni neonato maschio «esponendolo al Nilo», gettandolo nelle acque. Non a caso la prima delle dieci piaghe, ossia l’inizio del climax, colpisce le acque del Nilo che diventano sangue (ivi, 7, 17-21) mentre l’ultima è detta anche la piaga del sangue, quello dei primogeniti morti; e non a caso a compiere il segno del primo flagello non è Mosè, il salvato dalle acque[7], ma Aronne, il primogenito. Il tema del sangue (e della giustizia retributiva) dunque è centrale anche in questa prima parte della narrativa esodica, prima di diventare il mezzo del riscatto di Israele nel simbolo del pesach ossia dell’agnello sacrificale.
Ma la decima piaga, la morte dei primogeniti dell’Egitto, viene direttamente ricordata e quasi ripresa dalla tradizione rabbinica in modo inaspettato attraverso una mitzwà detta ta’anit bekorot: un digiuno a cui sono tenuti i primogeniti ebrei la vigilia della festa di Pesach. È un digiuno di cibo e bevande dall’alba al tramonto (sebbene oggigiorno sia uso celebrare il sium ossia la fine della lettura di un trattato talmudico, al mattino, per permettere di mangiare prima che cominci la festa). La tradizione spiega e descrive i digiuni come atti di penitenza/espiazione oppure come segni di lutto nazionale; ma come si spiega il digiuno dei primogeniti? Espia qualcosa? O per cosa si farebbe lutto? Il codice halakhico Sulkhan ‘aruq lo definisce un digiuno di ricordo, per commemorare la liberazione dei primogeniti ebrei dall’Egitto, o meglio il loro essere stati risparmiati dall’angelo della morte quando gli ebrei si preparavano a lasciare l’Egitto mentre i primogeniti egiziani venivano colpiti e morivano. Io preferisco chiamarlo un digiuno di solidarietà e interpretarlo come un atto di compassione e di solidarietà che gli ebrei fanno nei confronti dei primogeniti degli egiziani colpiti a morte dalla decima piaga senza loro colpa: pagavano infatti le colpe dei loro padri e di Faraone; in un certo senso, erano vittime involontarie della violenza dei propri stessi padri. Questa prassi ebraica tradizionale ripropone il mai risolto dilemma delle colpe dei padri che spesso ricadono, volens nolens, sui figli e il principio etico, sottolineato da Geremia 31, 26-29, per cui le colpe sono individuali e non collettive o generazionali e come tali vanno espiate. Ma è un fatto che gli effetti di quelle colpe sono lunghi e contaminano anche chi non le ha commesse, dando indirettamente ragione all’antico proverbio semitico: i padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei loro figli si sono danneggiati[8].
Torniamo ora a Shemot/Esodo 13, 11-16, considerato una delle basi della mitzwà del pidion haben. Proprio il versetto 13 afferma: «E ogni primo nato di asino [peter chomer] lo riscatterai [tifdè] mediante un agnello, oppure lo abbatterai colpendolo alla nuca, e ogni primogenito di uomo [bechor adam] tra i tuoi figli riscatterai [tifdè]». L’imperativo-futuro del riscatto è qui identico per l’asino prima e poi per l’essere umano. Cosa significa tale identità del verbo che comanda il riscatto/la redenzione? E soprattutto perché proprio l’asino, un animale impuro?
Cominciamo da questa seconda domanda. Essendo impuro l’asino non può essere sacrificato nel tempio come bovini, ovini e caprini, e la sua carne non può essere consumata. E tuttavia, in quanto primo nato tra gli animali domestici, appartiene al Signore e dovrebbe restare proprietà sacra del tempio e dei sacerdoti. Ma questo, per ragioni di purità, è impossibile. Il dubbio è sciolto dalla stessa Torà, che ordina al proprietario la sostituzione del giovane asino con un giovane ovino, così che l’asino sia riscattato, o meglio liberato, e torni ad essere utile a chi lo possiede nella vita quotidiana. A ben vedere, si tratta di un’utilità fondamentale: un asino è un grande valore economico, un compagno nella vita produttiva, un investimento redditizio; è l’equivalente di un mezzo di trasporto odierno e un segno di benessere e di ricchezza. Il suo riscatto – eccezione alla regola che prevede l’offerta/il sacrificio di ogni altro primo nato animale – diventa un pilastro dell’economia della tribù e della nazione. Ma presuppone che esso sia, appunto, redento attraverso un’offerta sostitutiva, un agnello. Come quello di cui si parla nel contesto: il pesach, l’agnello il cui sangue riscatta il primogenito tra i popoli, il popolo d’Israele. Vi sarebbe qui un’implicita, ma non così nascosta, analogia tra l’asino e Israele. E qui si inserisce la seconda domanda: cosa insegna il fatto che per il riscatto di entrambi, l’asino e l’uomo, si usi lo stesso verbo, tifdè, lo stesso imperativo? E perché, se non si riscatta l’asino, esso va abbattuto? Azzardo un’unica spiegazione a entrambe le domande.
Se l’asino non venisse riscattato, esso – in quanto consacrato e dunque proprietà divina – non potrebbe essere utilizzato come compagno di lavoro e fonte di ricchezza economica. Sarebbe un’usurpazione, anzi un abuso del sacro, una forma di sacrilegio. Abbatterlo previene la grave trasgressione di non riconoscere/dare a Dio ciò che è di Dio. Ponendo come alternativa al riscatto la morte, la Torà insegna che non esiste un’opzione o un’alternativa alla redenzione divina, che il rifiuto della libertà – quando è offerta – non è la schiavitù ma la morte, l’impossibilità di essere-nel-mondo in modo libero, utile, produttivo. Tale libertà mondana – e insisto sul mondana/economica – è frutto di un riscatto dalla sfera del divino e dalle obbligazioni del sacro. In quanto consacrati, i leviim e i cohanim non hanno parte alla terra ossia alla vita produttiva, economica e militare dell’antico Israele. Ki-vjakol, appartengono a Dio, non al mondo o al mercato o alla sfera dell’economico. Dio stesso li ha sottratti e riservati a sé, al proprio esclusivo servizio. Questa è la ragione per cui i figli dei leviim e dei cohanim non devono sottomettersi al pidion haben, anche nel caso in cui ad essere levi o cohen è la madre. Proprio il caso del pidion hachomer, per analogia, spiega il senso più profondo della mitzwà: perché Israele viva e viva nella sua terra una vita libera e produttiva, occorre che tutti coloro che non sono “parte per Dio” appartengano, per questi aspetti mondano-economici, a se stessi. Per loro il riscatto significa un principio di autonomia e di responsabilità non verso Dio, ma verso il mondo, verso il creato. Ora, autonomia e responsabilità sono tratti caratteristici di una condizione che nella modernità abbiamo imparato a chiamare “laicità”. Chi è laico? Chi è libero, autonomo e responsabile delle proprie azioni e si relaziona al mondo nel rispetto delle sue finalità naturali, che sono “economiche” nel significato più etimologico del termine. Mosè Maimonide avrebbe detto: un «‘olam ke-minhagò noheg» cioè «un mondo che si comporta secondo le sue proprie leggi»[9]. Ma questa è appunto una splendida definizione di laicità. Dunque, il riscatto dell’asino restituisce a Israele i mezzi per essere libero economicamente nella sua terra, lavorandola e coltivandola secondo le normali, naturali leggi dell’economia e della politica, nel senso più vasto e nobile di questi termini. La redenzione dell’asino è, da questo punto di vista, un autentico fondamento del principio di laicità. Il fatto che la mitzwà sia espressa con lo stesso verbo tanto per l’asino (prima) quanto per l’uomo (dopo) rafforza l’idea che il riscatto dalla sfera del sacro e dalla esclusività “per Dio” vale sia per gli animali sia per uomini, accomunati dal destino di lavorare insieme per il benessere proprio e del mondo, uniti nella missione di coltivare il giardino del mondo ke-minhagò, secondo le sue leggi e le sue intrinseche finalità. A Dio ciò che è di Dio, al mondo ciò che è del mondo: questo significa il riscatto contestuale del primogenito dell’asino e del primogenito dell’uomo, secondo un ordine che mette l’intenzionalmente l’uomo dopo l’asino, non per svalutarne la superiorità morale ma per insegnare l’umiltà e la solidarietà tra creature tutte care a Dio in quanto tali. Prevedendo, come alternativa, l’abbattimento dell’asino non riscattato, la Torà non invita ad una mattanza di questi ignari animali da soma; al contrario, essa invita ed educa al dovere del riscatto della stessa natura e alla redenzione del mondo – in ebraico chiamata anche tiqqun ‘olam – non per via di consacrazione ma per via di liberazione. In questa prospettiva, redenzione e riscatto sono concetti “teologico-politici” perché indicano una modalità de-teologizzante di pensare sia l’uomo sia il mondo, sostituendo alla sacralizzazione, per così dire, un processo di liberazione politica e di “autonomizzazione”, attraverso la presa di coscienza delle leggi della natura, ma non senza il correttivo della solidarietà e della responsabilità inter-creaturale. In tal modo la Torà costituisce una via che permette al mondo di fiorire al proprio meglio nel segno della giustizia. Per questo la benedizione sul bambino riscattato augura che esso «entri nella Torà, nella kuppà [ossia sotto il baldacchino nuziale] e nelle opere buone», cresca cioè nel mondo e lo faccia crescere – sposandosi e generando figli – nello spirito della Torà e in un’economia di giustizia.
In questo contesto non è peregrino rileggere il passo neotestamentario di Lc 2, 22-24 come il racconto del pidion haben di Gesù di Nazareth, la mitzwà del riscatto del primogenito (almeno in via matrilineare, data l’enfasi sulla verginità della madre) compiuta dopo la brith milà, ossia la mitzwà della circoncisione (cfr. Lc 2, 21) e – forse – prima del bar mitzwà, il rito comunitario davanti ai maestri che introduce il ragazzo ebreo nella vita religiosa degli adulti rendendolo, appunto, “figlio del precetto” (cfr. Lc 2, 41-50). Ma di questi tre precetti ebraici compiuti da Gesù Luca sembra dare enfasi, guarda caso, proprio al pidion haben, che però la tradizione cristiana conosce invece con il nome di “presentazione di Gesù al Tempio”. La Bibbia di Gerusalemme, con traduzione della CEI, rimanda ai passi della Torà che abbiamo sopra commentato, a riprova che in questo testo di Luca si riconosce l’adempimento della mitzwà del pidion haben, e si sottolinea come due volte nei due versi si dica che tutto fu fatto «secondo la legge di Mosè» o «secondo la legge del Signore» ossia seguendo le istruzioni della Torà (sebbene qui siano associate la legge del riscatto del neo-primo-nato e la norme della purificazione della puerpera). Luca, a ben vedere, non parla genericamente di «presentazione al Tempio» ma della «loro purificazione», stranamente al plurale (solo la madre era soggetta a tale purificazione, dopo 40 giorni dal parto), e dell’atto di portare il bambino «a Gerusalemme [e dove, se non al Tempio?] per offrirlo al Signore», un’offerta seguita dal contestuale e immediato riscatto con i cinque shekalim. Qui Luca non fa menzione del prezzo del riscatto del primogenito ma solo dell’offerta sacrificale a scopo espiatorio per la purificazione della puerpera per mezzo di una coppia di volatili puri (cfr. Wajqrà/Levitico 5, 7 e 12, 6), sovrapponendo di fatto i due comandi della Torà, che però erano e sono diversi e ben distinti per significato. Un commento ebraico a questo passo lucano ricorda che nella Legge mosaica e nell’halakhà non è mai stata richiesta una «presentazione del neonato», primogenito o meno, al Tempio[10].
L’intera unità letteraria lucana intende inserire complessivamente la nascita di Gesù nel contesto di una rigorosa pratica della Torà, sebbene mettendo l’evento nella prospettiva di una profezia di redenzione/consolazione messianica che ha per oggetto Gerusalemme, il Tempio e l’intero Israele (a differenza di Matteo che mette la nascita di Gesù direttamente nel contesto di alcuni midrashim storico-universalizzanti: il viaggio dei saggi-magi, la discesa e l’uscita dall’Egitto, la crudeltà di Erode). Ma il pideon haben è esplicitamente alluso nell’offerta del bambino – che ha senso solo alla luce della legge della consacrazione/riscatto dei primogeniti (del resto in 2,7 Luca dice espressamente che Maria «diede alla luce il suo figlio primogenito») – e nell’insistenza che i suoi genitori furono attentissimi nell’osservare la Legge, la Torà. Ora, la tradizione cristiana ha condensato questi eventi nella «festa della presentazione di Gesù al tempio» nella data liturgica del 2 febbraio (che, stando al modo ebraico di contare la scansione del giorno, è già la sera del primo febbraio) ossia il 40esimo giorno di vita di Gesù, data della probabile purificazione di Maria, ma non del pidion haben che, come abbiamo visto, doveva essere il 31esimo dalla nascita del bambino. Tale data è dunque più una festa mariana che un ricordo di questa tappa ebraica della vita di Gesù, che nel 2 febbraio è di fatto occultata. Come del resto è stata occultata, più di recente, la festa della brit milà, della circoncisione di Gesù, che cadeva il primo gennaio e che è stata sostituita dall’ennesima festa mariana. Per quanto il magistero cattolico affermi l’importanza delle radici ebraiche del cristianesimo, tale affermazione resta vuota e infeconda fino a quando non verrà, anche e soprattutto liturgicamente, riconosciuta l’ebraicità di Gesù, che passa attraverso la sua piena osservanza della legge di Mosè, a cominciare dalla sua circoncisione, dal suo pidion haben in quanto primogenito e dal suo bar mitzwà a tredici anni (che sia o meno il racconto incluso in Lc 2). Sono molte, oggi, le voci che nel cattolicesimo reclamano la restituzione, anzi la restaurazione del primo gennaio a questa memoria (ebraica) degli inizi della vita di Gesù. Ma dopo la circoncisione andrebbe fatta anche memoria del suo pidion, del suo essere stato riscattato come primogenito di Maria «secondo la Legge di Mosè» con i cinque shekalim che tutti i padri ebrei erano tenuti a pagare a un cohen. Ma forse l’idea che il ricattatore del mondo sia stato a sua volta riscattato, o che il redentore dell’uomo dovesse a sua volta essere redento, suona troppo ebraica e non abbastanza cristiana…
[1] Rabbi Shlomo Yitzhaqi, Commento al Tanakh (CITAZIONE).
[2] Le note del Chumash in uso tra le comunità ebraiche italiane nel commento a questi versetti spiegano che, poiché il numero dei Levi era 22mila mentre quello dei primogeniti era 22.273, occorreva stabilire chi fossero questi che eccedevano la sostituzione. Per stabilire chi era sostituto (dai Leviti) e chi invece doveva essere riscattato con cinque sicli, «secondo l’interpretazione tradizionale, si ricorreva (a quanto pare) al sorteggio. I primogeniti dovevano estrarre un cartellino dei quali 22mila portavano scritto il nome Levi e 273 l’indicazione cinque sicli. Chi aveva estratto il nome Levi s’intendeva sostituito con un Levita, che aveva estratto l’indicazione cinque sicli doveva essere riscattato» (Bibbia ebraica, a cura di Dario Disegni, Giuntina, Firenze 1995, p. 225).
[3] Aggadà shel pesach, (CITAZIONE).
[4] M. Halbertal, Sul sacrificio, Giuntina, Firenze 2014, pp. 36-37.
[5] Cfr. Shulkhan ‘aruq, (CITAZIONE).
[6] E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983, p.137.
[7] Rashi spiega: «Poiché il fiume [Nilo] protesse Mosè quando vi fu gettato, Dio non lo fece colpire da Mosè stesso con la piaga del sangue [prima] e delle rane [dopo] ma affidò l’incarico ad Aronne. Così Mosè non peccò di ingratitudine verso le acque del fiume che non lo avevano affogato. Sempre per la legge del contrappasso, le acque del mare dei giunchi affogheranno invece Faraone, i suoi carri trainati dai cavalli e i suoi cavalieri (cfr. Shemot/Esodo 15,1.21)» (CITAZIONE).
[8] Cfr. P. De Benedetti – M. Giuliani, Farsi perdonare. Il valore della teshuvà, Morcelliana, Brescia 2013, pp.49-56.
[9] M. Maimonide, Mishneh Torah (CITAZIONE).
[10] The Jewish Annotated New Testament, ed. by Amy-Jill Levine, Marc Zvi Brettler, Oxford University Press, New York 2011, p.103, dove si afferma anche che, «contrariamente a un insegnamento diffuso, la storia [di Gesù tra i dottori nel Tempio] non rende conto del bar mitzwà di Gesù».