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Redemption and Revolution
This contribution investigates the use of the term “redemption” within Western revolutionary literature from the Early modern period onwards. The analysis of a number of texts shows that the term occurs rarely, and mainly refers to the original, juridical, meaning of redemptio ab hostibus; in fact, it is used to indicate concrete cases of redemption from imprisonment/slavery, or the independence of a people from foreign subjection. The theological meaning of the term, and in particular the sacrificial dimension which is often implied in the political theology of redemption (e.g. in De Maistre and Donoso Cortes), is far from being secularized by revolutionary thinkers in their conceiving of political and social revolution; on the contrary, it is severely criticized by many authors (among which Paine, Proudhon and Mazzini).
Nel 1947 usciva sulla Theologische Literaturzeitung un interessante articolo di Werner Elert sulla Redemptio ab hostibus[1]. A due anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, la Germania, per la seconda volta nel Novecento, si ritrovava sconfitta alla fine di un conflitto che lei stessa aveva avviato: i suoi territori erano stati occupati e divisi ab hostibus. La sua storia precedente, dopo la fine della Prima Guerra mondiale, era stata segnata dal mito della redenzione. Dopo la sconfitta e l’umiliazione, il popolo tedesco aveva sperato in una redemptio mondana dai nemici esterni e da quelli interni – reali o immaginari che fossero.
In questo contesto, il “mito” della redenzione aveva prevalso e aveva trascinato nel suo gorgo il popolo tedesco travolgendo il mondo intero in un tragico conflitto mondiale. Nei dodici anni del regime nazionalsocialista la Hitlerjugend si rivolgeva al Führer con l’ultimo verso del Parsifal: «Erlösung dem Erlöser!», «Redenzione al Redentore!»[2]. Ma proprio colui che avrebbe dovuto essere il nuovo redentore tradì clamorosamente questa speranza. Così, dopo il crollo del regime millenario che mai avrebbe dovuto cadere, la Germania si trovava di nuovo non redenta, anzi gravata da più grave e irredimibile colpa[3], divisa e – di nuovo – occupata. Difficile, in tali condizioni e per un teologo come Elert, prescindere da tale situazione storico-spirituale nell’accostarsi al tema della redemptio ab hostibus.
Sul tema generale della redenzione l’apertura del suo articolo non potrebbe essere più cauta: il suo primo obiettivo, infatti, pare essere quello di un ridimensionamento del concetto di redemptio in generale. Elert mette infatti in luce come analizzando il concetto di redenzione ci si trovi di fronte a un singolare paradosso: benché nella dottrina cristiana, sia protestante che cattolica, il dogma della “redenzione” occupi un posto di primo piano e nella storia delle religioni il cristianesimo venga indicato con naturalezza come “religione della redenzione”, tutto ciò – a suo parere – non trova adeguata corrispondenza nei testi evangelici[4]. Assai più spesso infatti, osserva, a proposito di Cristo in tali testi si parla di Salvatore o di Mediatore, mentre il sostantivo “Liberatore” (λυτρωτής) appare nel Nuovo Testamento un’unica volta e non riferito a Cristo, ma a Mosé (At 7, 35). Quanto poi ai termini che letteralmente corrispondono alla “liberazione” (λύτρωσις, ἀπολύτρωσις) questi si trovano utilizzati in contesti escatologici (Lc 21, 28; Rom 8, 23; Ef 4, 30), dove non si parla di un riscatto. In senso stretto il termine “riscattare” (ἐξαγοράζειν) si trova soltanto in due occorrenze paoline (Gal 3, 13; 4, 5), benché, naturalmente, vi siano anche passi contenenti il termine “liberare” (λυτρόομαι in 1Pt 1, 18) o “acquistare” (ἀγοράζειν in 2Pt 2, 1; Ap 5,9 e 14, 3), spesso combinato al riferimento al “prezzo” (τιμής in 1Cor 6,20 e 7, 23), che si possono riferire alla stessa problematica[5].
Prevale in Elert dunque l’impressione che Paolo usi i termini riferentesi al “riscatto” come una generica analogia. In senso stretto, infatti, dal punto di vista teologico, non avrebbe avuto senso riferirsi all’istituto giuridico del “riscatto” degli schiavi presente nel diritto civile, perché l’idea di un “acquisto” è concetto eminentemente profano, difficilmente compatibile con la sfera sacrale. Pensare di far derivare un contenuto teologico dottrinale dal concetto di riscatto degli schiavi gli appare quindi assai problematico, tanto più se si considera che lo schiavo riscattato diviene proprietà del suo liberatore, mentre Paolo insiste sulla condizione di “figlio” e dunque di “libero” del credente nei confronti del suo signore. Né il problema può essere risolto pensando che Paolo avesse in mente l’istituto del riscatto sacrale dello schiavo da parte di un dio che avveniva tradizionalmente a Delfi, perché l’intervento della divinità è in questo caso una mera finzione e il prezzo del riscatto è pagato dallo schiavo stesso o dal suo compratore[6].
A che cosa dunque può riferirsi un tale uso terminologico a proposito dell’azione liberatrice di Cristo? L’unico esempio che può reggere il parallelismo, sia pure nel contesto di un uso analogico ove la dissimilitudo è maggiore della similitudo, è quello – secondo Elert – dell’istituto romano della redemptio ab hostibus. Qui si tratta del riscatto di persone in condizione di schiavitù non in seguito ad azioni personali (ad esempio l’incapacità di pagare i propri debiti), ma in seguito ad eventi pubblici, quali ad esempio una guerra durante la quale dei cittadini liberi siano stati catturati, fatti prigionieri e resi schiavi, ossia trattati come “cose” di proprietà del conquistatore. In seguito a tale condizione il prigioniero non è più una persona dotata di una capacità giuridica. Questa gli può venire restituita soltanto con la sua liberazione, in seguito a fuga, o a una campagna militare vittoriosa o, appunto, al pagamento di un “riscatto”. Non appena egli varca i confini del proprio Paese, torna ad essere la persona che era, dotato della pienezza dei suoi diritti. Il liberatore che ha pagato il riscatto mantiene di fronte al prigioniero riscattato una sorta di diritto di risarcimento: il riscattato non è più schiavo, ma è ancora in potestate del liberatore[7].
Il parallelismo con un tale istituto – nient’affatto infrequente – acquista per Elert un senso entro il discorso paolino: nei testi evangelici si fa riferimento alla liberazione dei prigionieri come segno del compiersi delle profezie e la stessa attribuzione del titolo di “liberatore” a Mosè rimanda evidentemente alla liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù dell’Egitto. Elert sottolinea come, in questa prospettiva, la “redenzione” sia un processo di liberazione dalle potenze nemiche e sia, sempre, un evento collettivo. In ciò tale concetto sarebbe del tutto conforme al paradigma dominante la vita dei popoli dell’antichità secondo il quale è la guerra a determinare le vicende collettive:
«Secondo tale paradigma i destini dei popoli vengono decisi dalla guerra, la guerra è sempre guerra totale, non ha come scopo la regolazione di interessi in collisione tra loro, ma la totale sottomissione dell’avversario, ed essa finisce di solito con la schiavizzazione collettiva del popolo nemico sottomesso. Il singolo condivide il destino della totalità del popolo anche nella sua esistenza privata. Viceversa, se le cose cambiano, da una liberazione collettiva dalla schiavitù egli riottiene la sua libertà personale, ma la possiede soltanto in quanto è membro della totalità del popolo»[8].
Si noti qui con quali espressioni tipiche dello Zeitgeist la dinamica della guerra viene descritta: la guerra totale, la sottomissione/schiavizzazione del nemico, la centralità della totalità del popolo come determinante il destino del singolo.
Questo paradigma, tipicamente veterotestamentario, non è estraneo al Nuovo Testamento: non solo la liberazione operata da Mosè è riscatto dai nemici, anche quella di Cristo si svolge su uno scenario analogo. Le potenze da cui Cristo libera sono spesso descritte come potenze nemiche (il peccato, il demonio, la morte) e coloro che sono liberati da Cristo divengono suo popolo. Ciò accade anche là dove il processo appare individuale: la liberazione può certo riguardare un singolo individuo, ma il suo riscatto lo introduce nello spazio di una “comunità”, di un “popolo”. Nella Lettera gli Efesini (2, 12ss.) ricorre più volte l’idea di una riconduzione da una realtà “straniera” e così anche nell’Apocalisse (5, 9 e 14, 3). Qui il richiamo alla redemptio ab hostibus appare inevitabile.
Naturalmente, secondo questa linea interpretativa, si tratta sempre di analogie e, in senso stretto, nessun istituto giuridico di liberazione dalla schiavitù può esprimere compiutamente la liberazione operata da Cristo: in nessun caso, infatti, l’acquisto o il riscatto di uno schiavo è operato al prezzo della morte dell’acquirente o del liberatore, cosa che invece accade nella morte e risurrezione di Gesù. E tuttavia, pur con questi evidenti limiti, l’analogia con la redemptio ab hostibus può suscitare, secondo Elert, almeno tre questioni. La prima questione riguarda la necessità di ripensare in chiave nuova il tema del “prezzo” (λύτρων) pagato da Gesù. La seconda riguarda il “prezzo” pagato dallo schiavo riscattato: questo, dogmaticamente, non può certo essere una condizione della redenzione, ma può tuttavia essere compreso come sua “conseguenza”; in questa prospettiva potrebbe essere inteso il comandamento di replicare il bene ricevuto. Infine, ci si potrebbe interrogare se dentro questo schema non vi sia anche un’analogia possibile del “patronato” che il redentore conserva nei confronti del redento fino a che questo si trovi in suo potere. Sul piano teologico tale analogia potrebbe essere ritrovata nell’appello che Cristo rivolge al Padre a favore degli eletti: come il patrono diviene protagonista del processo di trasformazione da oggetto a soggetto giuridico, così la redenzione operata da Cristo ha il sapore di una nuova creazione da cui emerge una diversa soggettività.
L’articolo di Elert – sotto il profilo teologico-politico – appare piuttosto interessante per una serie di motivi. In primo luogo, esso stesso è un chiaro esempio di una “teologia politica”: da un lato, il suo logos è interamente impregnato del lessico e della concettualità politica del proprio tempo (e ciò si vede sia nel modo in cui Elert interpreta il linguaggio evangelico, in quanto linguaggio impregnato di categorie politiche e giuridiche dell’antichità, sia nel modo in cui Elert usa il proprio linguaggio – guerra, popolo, nemico –, impregnato di categorie politiche novecentesche); dall’altro, si tratta chiaramente di una teologia che è presa di posizione di fronte alle sfide della storia. In secondo luogo, perché richiama in modo esplicito il tema della “analogia” tra concetti teologici e concetti giuridici. Tuttavia, il modo in cui lo richiama non è quello della secolarizzazione, ossia della trasposizione di concetti teologici nella sfera mondana, bensì, al contrario, quello dell’impiego da parte della teologia di concetti giuridici e politici.
Così facendo Elert si muove in una direzione di una “demitizzazione” della redenzione opposta rispetto a quella abbracciata da parte del pensiero cattolico del Novecento[9].
Se si considera infatti un testo coevo a quello di Elert come The New Science of Politics di Voegelin, è facile notare come in quest’ultimo non si trovi lo sforzo di derivare un concetto teologico (quello di redenzione) da un concetto politico (quello di redemptio ab hostibus), ma, al contrario, si cerchi di far derivare un concetto politico come quello di “rivoluzione” (intesa come liberazione degli oppressi) dal concetto teologico di “redenzione” (intesa come purificazione, liberazione dal male, salvezza). Nell’interpretazione di Eric Voegelin, infatti, l’idea di “rivoluzione” – per lui incarnata in età moderna dai movimenti puritani e illuministi, e in età contemporanea dal marxismo e dal nazionalsocialismo – sarebbe strettamente connessa all’idea di “redenzione”. L’idea di “rivoluzione” rappresenterebbe una variante “attivistica” delle diverse forme di “gnosi” salvifiche[10]: mentre le gnosi contemplative affidano a una conoscenza speciale la via di liberazione dal male, le gnosi attivistiche attribuiscono all’azione – in questo caso all’azione politica condotta da leader ed élites illuminati da una “conoscenza” speciale – la capacità di trasformare la realtà sottraendola alla potenza del negativo, al male, alla sofferenza, e di inaugurare così una nuova umanità “redenta”:
«La gnosi può essere soprattutto intellettuale e assumere la forma di una penetrazione speculativa del mistero della creazione e dell’esistenza, come per esempio nella gnosi contemplativa di Hegel o di Schelling. O può essere soprattutto emozionale e assumere la forma di una inabitazione della sostanza divina nell’anima umana, come per esempio nei leaders paracletici delle sètte. O può essere soprattutto volontaristica e assumere la forma di una redenzione attivistica dell’uomo e della società, come nel caso degli attivisti rivoluzionari tipo Comte, Marx o Hitler. Queste esperienze gnostiche, in tutta la loro varietà, sono il centro da cui si irraggia il processo di ridivinizzazione della società, perché gli uomini che si abbandonano a queste esperienze divinizzano se stessi sostituendo alla fede in senso cristiano una più concreta partecipazione alla divinità»[11].
La tesi di uno stretto rapporto tra rivoluzione politica e sociale e redenzione non è nuova e riprende classici motivi controrivoluzionari ottocenteschi che nel Novecento avevano trovato ampio spazio nello stesso Magistero della Chiesa Cattolica. Si pensi, per fare un esempio eloquente, all’Enciclica Divini Redemptoris, che nel 1937 afferma:
«Il comunismo di oggi, in modo più accentuato di altri simili movimenti del passato, nasconde in sé un’idea di falsa redenzione. Uno pseudo-ideale di giustizia, di uguaglianza e di fraternità nel lavoro, pervade tutta la sua dottrina, e tutta la sua attività d’un certo falso misticismo, che alle folle adescate da fallaci promesse comunica uno slancio e un entusiasmo contagioso, specialmente in un tempo come il nostro, in cui da una distribuzione difettosa delle cose di questo mondo risulta una miseria non consueta»[12].
La stessa tesi avanzata da Voegelin di una «trasposizione» dell’idea di redenzione nell’idea di rivoluzione si trova nell’interpretazione di Augusto Del Noce, che colloca tale processo all’interno della sua più ampia interpretazione del rapporto tra filosofia e prassi politica, rapporto che nell’età moderna avrebbe conosciuto il proprio capovolgimento attraverso il quale la prassi sarebbe divenuta il luogo di inveramento della filosofia. Tale processo avrebbe avuto la sua incubazione nel pensiero di Rousseau e il suo culmine nella filosofia di Marx, ove si troverebbe il concetto di «rivoluzione totale» con la sostituzione della filosofia della prassi alla filosofia speculativa. All’interno di questo processo si giocherebbe la trasposizione dell’idea di redenzione in quella di rivoluzione. Qui, secondo Del Noce, si darebbe una trasposizione dell’idea della Redenzione nella tesi di una «autoliberazione dell’umanità, attraverso la storia, o meglio di una liberazione operata dalla storia […] così che l’umanità, piuttosto che redimersi, è redenta dalla storia»[13].
Dunque, secondo questa interpretazione, l’idea cristiana di redenzione sarebbe stata secolarizzata dai movimenti rivoluzionari che avrebbero interpretato l’azione di rinnovamento sociale e politico del mondo come azione salvifica, anzi addirittura come azione creatrice di una nuova umanità. Con ciò si avrebbe una nuova “divinizzazione” della società, dopo quella delle società antiche e dopo la de-divinizzazione di esse operata dal cristianesimo.
Una tale interpretazione risente evidentemente dell’analisi che lo stesso Eric Voegelin aveva condotto sulle “religioni politiche” [14] e sulle analogie che egli aveva ritenuto di poter individuare tra le società antiche, quale quella egiziana ad esempio, e i fenomeni totalitari del Novecento, in primis il nazionalsocialismo.
Ora, è difficile negare che i movimenti rivoluzionari di età moderna e contemporanea presentino tratti di carattere “messianico”: riformatori sociali e rivoluzionari puritani nutrono la loro lotta politica di motivi teologici e tensioni escatologiche e affrontano lo scontro con l’avversario come fosse la lotta finale con il male; la Rivoluzione Francese conosce numerosissimi motivi di attesa quasi salvifica del Regno della Virtù e di definitiva emancipazione da ogni forma di schiavitù; il marxismo e buona parte del progressismo ottocentesco non sono privi di componenti “messianiche” e, infine, le ideologie totalitarie del Novecento si sono spesso ammantate di caratteri sacrali, hanno presentato i loro leader come “Salvatori” e annunciato la nascita dell’”uomo nuovo”[15]. Ma quando da questi generici riferimenti si passa a considerazioni storico-concettuali più puntuali indagando, sia pure per sommi capi, l’uso del concetto di “redenzione” entro tali movimenti rivoluzionari, il quadro che ne risulta appare più problematico.
Per tutto il primo millennio cristiano, il concetto di “redenzione” conserva chiaramente i segni della sua origine dalla sfera giuridica e politica. Esso riguarda, in particolare, la liberazione di prigionieri tramite il pagamento di un riscatto. Tale concetto, del tutto secolare, viene trasposto nella sfera teologica dove si mescola ad altri concetti della soteriologia cristiana legati ai temi dell’espiazione della pena e del sacrificio riconciliatore[16].
Attraverso l’ampia elaborazione dei Padri della Chiesa, la teologia cristiana assume il concetto giuridico di redemptio ab hostibus, per designare, attraverso i riferimenti biblici alla liberazione dalla cattività del “popolo eletto” in Egitto e in Babilonia, l’azione di Cristo, il quale, attraverso la sua incarnazione-morte/espiazione-resurrezione, avrebbe “redento” l’umanità “prigioniera” del peccato pagando il “prezzo” del suo sangue. La liberazione dalla schiavitù del peccato viene così interpretata nell’ambito del cristianesimo come l’accesso – o il “reintegro” – nella condizione di libertà dei figli di Dio, cittadini della civitas Dei, liberati dalla prigionia del demonio e dalla morte[17].
Nel corso dei secoli il concetto di redenzione, nato da una “teologizzazione” di un concetto prevalentemente giuspubblicistico, si arricchisce di altri elementi attinenti alla sfera dell’etica individuale e del diritto penale, e dunque coinvolgenti la dimensione più propria della soggettività. Conformemente a quella che è stata definita la costruzione dell’individuo moderno operata dalla Scolastica e dal diritto canonico, la teologia cristiana medievale a partire dall’XI secolo opera una decisa interiorizzazione della sfera religiosa e morale: con ciò la condizione di peccato originale, originariamente connotante uno status esistenziale (e quindi trasmissibile per via ereditaria, definibile in termini giuridici e politici, e dunque esteriori), viene trasformata in una condizione di colpa morale (e quindi ascrivibile ad uno status interiore e ad una intenzionalità o volontà soggettiva). Con ciò la dottrina della redenzione cristiana finisce per divenire subalterna alle dottrine della colpa e, alla dinamica prigionia/riscatto/liberazione, subentra la dinamica colpa/sofferenza/espiazione, costringendo la teologia a elaborare complesse teorie della sostituzione vicaria. La redenzione proclamata dal cristianesimo viene così a svolgersi sul piano interiore e spirituale e non si traduce direttamente e necessariamente in un processo di emancipazione sociale o politica. Tuttavia, è innegabile che la nascita dell’individuo moderno – che sul piano giuridico, sociale e politico avrebbe avuto deflagranti effetti emancipatori – sia storicamente impensabile senza il ruolo cruciale dell’esperienza cristiana nel processo di autocoscienza dell’uomo occidentale.
Nonostante questo processo di spiritualizzazione, l’eredità giuspubblicistica del concetto di redenzione non si dissolve, ma rimane per così dire latente anche nel corso del Medioevo.
All’inizio dell’età moderna la costruzione del lessico politico avviene a stretto contatto con gli storici greci e romani dell’antichità. Non stupisce, perciò, di ritrovare in un autore come Machiavelli dei riferimenti ai concetti di “redentore” e “redenzione” che sembrano rifarsi all’antico istituto della redemptio ab hostibus assai più che al complesso e stratificato concetto cristiano di redenzione, frutto dell’assimilazione nel linguaggio teologico del concetto giuridico e politico di redemptio e della sua progressiva omologazione al concetto di “salvezza”. Che qualche incrostazione salvifica possa essere rimasta attaccata al concetto machiavelliano di “redenzione” non deve stupire anche per via del confronto con il Savonarola e della valenza non solo descrittiva ma pure retorica e dunque pratica del linguaggio politico, ma la cifra prevalente del termine è quella originaria, quasi tecnica, del “riscatto” e della “liberazione” dalla prigionia straniera, come processo di riacquisizione di una originaria libertà politica e non certo quale palingenesi sociale o addirittura antropologica[18]. È come se, nonostante l’immersione secolare nel linguaggio teologico cristiano, il linguaggio politico si riappropriasse della propria terminologia riandando alle sue origini e dunque come sfrondando parole e concetti del sovraccarico successivo e procedendo a parlare dei fatti umani in modo più pudico e dunque umano.
Anche il concetto di “rivoluzione” che si forma nella prima età moderna[19] non appare connesso alle riflessioni, assai numerose, che si svolgono sul tema della redenzione. Nel caso inglese, ad esempio, il tema è certo dibattuto nella letteratura politica, ma più nei suoi aspetti teologici che non nei suoi risvolti sociali. Così avviene, per scegliere due casi diversi, negli scritti di Gerrard Winstanley, uno dei più influenti scrittori e predicatori del fronte dei Levellers che elabora una sua teologia della “redenzione universale” del genere umano[20], o nel Leviatano di Thomas Hobbes, dove il concetto di “redenzione”, pur messo in connessione con la dinamica economica del pagamento di un “riscatto” e di un “prezzo”, viene però sottratto alla logica del puro scambio utilitaristica per trovare più ampia risoluzione in una salvezza divina all’insegna della misericordia[21]. Si avverte insomma, in materia di “salvezza”, la cautela protestante nei confronti del potere “salvifico” delle opere umane, che ben difficilmente potrebbe dare vita a una concezione “redentiva” di un’azione umana[22].
Bisogna attendere le celebrazioni della Rivoluzione inglese per trovare una prima significativa connessione tra redenzione e rivoluzione. Ma a dispetto di chi vede nel puritanesimo l’avvio di questo processo di interpretazione redentiva (nel senso di salvifica) della rivoluzione, l’uso politico del termine “redenzione” riprende in questo contesto l’antico concetto della redemptio ab hostibus nel suo aspetto tecnico, ossia di liberazione dallo straniero.
Il sermone di Samuel Rosewell[23] The Revolution or The Redemption of God’s People[24], pronunciato nel 1712, ne è un buon esempio. Volto a celebrare la memoria del re William e della Gloriosa Rivoluzione, il sermone prende le mosse dal versetto 9 del Salmo 111 che nella versione inglese recita: «He sent redemption unto His people». Rosewell ricorda innanzitutto come originariamente il significato di “redenzione” indicasse proprio la liberazione dalla prigionia e solo successivamente si sia esteso a ogni situazione di sofferenza e pericolo[25]. La redenzione di cui parla il Salmo 111 si riferisce infatti a quella redenzione “gloriosa” che viene promessa agli Ebrei nel Libro dell’Esodo (6, 6): «Vi sottrarrò ai lavori forzati degli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi riscatterò con braccio teso e con grandi castighi»[26], e che, secondo Rosewell, rappresenta la più alta opera che Dio stesso può compiere nella storia: è infatti nella liberazione dalla schiavitù che si rivela la suprema potenza divina. Simile alla redenzione operata da Mosè è la redenzione del popolo inglese operata dal re Guglielmo e per questo è sensato ricordare e celebrare la sua nascita con le parole del Salmo: il re Guglielmo, che il predicatore definisce lo “strumento benedetto” di un’altra “redenzione”, quella inglese, come nuovo Mosè, si è posto al servizio dei più grandi disegni della Provvidenza. Ma più grande della redenzione degli Israeliti e di quella degli Inglesi, è la redenzione del mondo operata da Gesù Cristo.
Per cogliere in modo più approfondito il significato della “redenzione” è utile ripartire, secondo il predicatore, dalla prima redenzione, quella operata liberando gli Israeliti dall’Egitto. «Qui possiamo selezionare dalla storia sacra alcune strutture significative, in un ordine tale da poter orientare i nostri pensieri verso un metodo appropriato nel momento in cui riflettiamo su altre redenzioni»[27], osserva Rosewell, quasi alla ricerca di un Idealtypus della redemptio con cui interpretare poi le redenzioni successive. Naturalmente l’intento è apologetico e la qualifica di redemptio apposta a un fatto storico lo enfatizza e ne esalta la grandezza al punto da paragonarlo ad opera divina. Le “strutture” della redemptio che Rosewell propone di esaminare sono: i nemici e i mali da cui si è redenti, lo strumento principe della redenzione e il modo in cui essa avviene.
I nemici da cui il popolo viene redento – che nel racconto biblico sono costituiti dal Faraone e dagli Egiziani – rappresentano un potere tirannico caratterizzato dal dominio dispotico di una volontà arbitraria che si erge a legge suprema e i cui comandi privi di ragionevolezza si impongono tramite una forza crudele. I mali sono la privazione della libertà personale e religiosa e di ogni diritto civile e l’imposizione di inauditi gravami di servitù e tassazioni: la condizione del prigioniero è una condizione di schiavitù e di continue vessazioni, volte a fiaccare con l’esistenza fisica e spirituale attraverso la proibizione del proprio culto e l’obbligo di adorare idoli. Lo strumento della redenzione è un capo come Mosè, che non era affetto da spasmodico protagonismo e, al contrario, tentò umilmente in ogni modo di lasciar spazio ad altri, ma alla fine ebbe successo sui nemici. Infine, i modi della redenzione sono davvero straordinari, giacché essa fu compiuta dall’onnipotenza divina e dalla sua “sovranità assoluta” sulla natura universale. Il punto qui è importante perché sottolinea un tratto tipico dell’età moderna: anche nelle prospettive di interpretazione più radicale del messaggio biblico come messaggio sovversivo dell’ordinamento esistente, la liberazione dalla schiavitù del peccato è operata dall’azione redentiva di Dio, non da un’azione auto-redentiva dell’uomo.
Gli stessi caratteri, secondo Rosewell, si possono ritrovare nella Rivoluzione inglese che a ragione può dunque essere definita la «nostra redenzione» [28]: il nemico è identificato nel papismo (paragonato al potere arbitrario del Faraone) e i mali sono la schiavitù, le vessazioni e i tormenti, l’imposizione di una religione contraria alla Scrittura e alla ragione sostenuta da una sanguinaria inquisizione che vieta ogni libera ricerca nel campo spirituale e che, contro gli insegnamenti del Vangelo, non esita ad usare la forza e perfino la tortura in ambito religioso. A ciò si aggiunge l’oppressione politica con la compressione di molte libertà e perfino la confisca di beni. Lo strumento della liberazione da questi mali è un uomo coraggioso come il Re Guglielmo, novello Mosè, incaricato come lui ad essere «il redentore del popolo di Dio»[29]. Quanto, infine, ai modi in cui la redenzione del popolo inglese è stata operata, se si considerano le avverse condizioni e, nonostante queste, la brevità del conflitto e il limitato spargimento di sangue, davvero si può ritenere che questa liberazione sia stata un’opera divina.
Nonostante il tono ampiamente apologetico del sermone, la conclusione di Rosewell conserva ben chiara la distinzione tra le redenzioni terrene operate da liberatori umani e la «Gloriosa Redenzione del mondo operata da Gesù Cristo»[30] rispetto alla quale tutte le altre redenzioni umane per quanto grandi e illustri sono quasi nulla: queste sono temporali, quella è eterna. Essa libera infatti l’uomo dal nemico più grande che è il demonio e dal male più grande che è l’eterna dannazione, e lo fa attraverso un Redentore che non è uomo ma che è Dio stesso e ricorrendo non a mezzi corruttibili ma al prezzo del suo sangue. Siamo dunque ben lontani dal concepire la Gloriosa Rivoluzione come un evento dal carattere salvifico, inscrivibile nell’orizzonte di un attivismo che attribuisce all’azione politica la capacità di trasfigurare la realtà umana, liberandola dal male.
Certamente gli eventi della Rivoluzione Francese introducono una novità profonda in questo quadro e non è un caso che la componente messianica presente negli eventi rivoluzionari sia colta con grande evidenza dagli osservatori del tempo. Si pensi a questo proposito alle parole di Friedrich Schlegel secondo cui «il desiderio rivoluzionario di attuare il Regno di Dio è il punto elastico dell’educazione progressiva»[31] che ha le sue radici nella Riforma. O ancora alle critiche che, nelle sue Reflections on the Revolution in France[32], Edmund Burke muove a taluni predicatori inglesi come Richard Price, che salutano le vicende rivoluzionarie francesi con le parole del Cantico di Simeone: «Ora lascia o Signore che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola perché i miei occhi han visto la tua salvezza» (Lc 2, 29-30).
D’altra parte non si tratta solo di interpretazioni, giacché tali componenti messianiche sono evidenti nei discorsi di alcuni degli stessi protagonisti della Rivoluzione. Tra questi, Robespierre sosteneva con forza che «la Rivoluzione non è che il passaggio dal regno del crimine a quello della giustizia»[33] e l’idea cristiana che a fronte dell’avvento del tempo messianico la sua venuta andasse “accelerata” trova in lui largo riscontro: «il progresso della ragione umana ha preparato questa grande rivoluzione, ora voi avete il dovere di accelerarla»[34].
Accanto alla componente messianica presente nella Rivoluzione francese, c’è anche una componente che potremmo definire “sacrificale”: le lotte e i sacrifici dei rivoluzionari, definiti «martiri della libertà»[35], vengono compresi da Robespierre come atti non solo politici, ma come tributi alla nuova religione dell’umanità:
«L’odio della malafede e della tirannia brucia nei nostri cuori assieme all’amore della giustizia e della patria: il nostro sangue scorre per la causa dell’umanità: questa è la nostra preghiera, questi i nostri sacrifici, questo il culto che noi ti offriamo!»[36].
E, in un altro discorso, il sangue versato pare capace di dischiudere una nuova vita immortale:
«Portate a compimento, cittadini, il vostro sublime destino. Voi ci avete posto all’avanguardia per sostenere il primo assalto dei nemici della libertà; noi meriteremo quest’onore, e con il nostro sangue tracceremo la via dell’immortalità»[37].
Benché dunque in questo quadro non si trovi evocato il termine e il concetto di “redenzione”[38], ci troviamo certamente di fronte ad una “sacralizzazione” di un ideale politico, quello della Rivoluzione e della stessa Nazione, e si fa strada l’idea che il sacrificio politico di sé, con la disponibilità a versare il proprio sangue e dunque a farsi “martiri della libertà”, possa aprire la strada alla nascita di una nuova era. Tuttavia, questo tema del sacrificio di sé appare muoversi assai più nel solco del pro patria mori degli antichi, così presente nella tradizione repubblicana, che non nel solco di una teologia della redenzione secolarizzata.
D’altra parte a questa tradizione si riferisce anche Joseph de Maistre nelle sue Considérations sur la France. La guerra è per lui lo stato abituale del genere umano dalle sue origini e «il sangue umano deve scorrere senza interruzione sul globo»[39]: è questa la legge dello sviluppo naturale e civile dell’umanità, tanto è vero che quando il sangue cessa di scorrere in una parte, subito scorre dall’altra parte del globo. Per questo quando l’animo umano precipita nella mollezza, nell’incredulità e nei vizi non può essere rigenerato se non nel sangue. L’ideale dei rivoluzionari di un mondo senza guerre è un puro sogno; l’unico modo che l’umanità ha inventato per evitare i massacri delle guerre sono i sacrifici umani, ossia il versare il sangue degli innocenti. È questo per De Maistre il dogma antico della reversibilità dei dolori degli innocenti a favore dei colpevoli che si trova così chiaramente esposto nel mito di Elena, nelle tragedie antiche come l’Orestea di Euripide, nel secondo libro della Repubblica di Platone e negli storici romani (ad esempio nel sacrificio di Decio, narrato da Tito Livio). «Il cristianesimo è venuto a consacrare questo dogma, che è infinitamente naturale per l’uomo»[40]. In questa prospettiva, il sangue versato nella Rivoluzione francese non è per De Maistre che una conferma della legge eterna dell’umanità e la morte di Luigi XVI non è altro che un capitolo della storia del dogma della reversibilità delle sofferenze degli innocenti per la salvezza di tutti[41].
In questo quadro la redenzione operata da Cristo non è un dogma proprio della teologia cristiana, ma è la “consacrazione” di un dogma dominante nelle società antiche, interpretato come dogma naturale. Con ciò è proprio il pensatore controrivoluzionario a svelare il meccanismo sotteso all’interpretazione sacrificale[42] della redenzione, meccanismo squisitamente politico che il Cristianesimo (come da lui interpretato) giungerebbe non a scardinare, ma a consacrare definitivamente. Il carattere “anticristiano” della Rivoluzione francese[43] non starebbe dunque nel sangue versato dal Terrore, ma dalla pretesa di sovvertire quest’ordine necessario delle società umane. Di qui la necessità della pena di morte che culmina nel noto “elogio del boia”[44].
Questa linea interpretativa troverà il suo interprete più radicale in Juan Donoso Cortes e nel suo Ensayo, in cui la difesa dell’interpretazione sacrificale della redenzione svolge un ruolo centrale. Seguendo la linea interpretativa di De Maistre, Donoso Cortes vede nel dogma della redenzione il culmine di una serie di altri dogmi e precisamente di quelli della solidarietà, della reversibilità e della sostituzione. Secondo il dogma della solidarietà di tutto il genere umano, il peccato di Adamo trascina l’intera umanità in una condizione di abiezione da cui nessun essere umano può risollevarsi. Dio, per salvare l’uomo dal peccato, si fa solidale con lui incarnandosi nel Dio fatto uomo, Gesù Cristo. Cristo assume su di sé, attraverso il meccanismo della sostituzione vicaria, il sacrificio espiatorio della colpa di Adamo e la sua sofferenza innocente, attraverso il meccanismo della reversibilità, riscatta l’umanità peccatrice, la quale viene “redenta” dall’accettazione da parte del Padre del sacrificio del Figlio. «Tali dogmi – scrive Donoso Cortes – trovano il loro simbolo nell’istituzione dei sacrifici cruenti»[45], che, come in De Maistre, testimoniano l’eterna legge del sangue, per cui ogni delitto di sangue può essere riscattato solo dal versamento di altro sangue e solo il sangue innocente può purificare. Il cristianesimo non fa che applicare questa legge umana al rapporto tra Dio e l’umanità; l’errore umano è solo quello di pensare che vi siano versamenti di sangue umano capaci di riscattare il peccato dell’umanità contro Dio:
«il sangue dell’uomo non è in grado di espiare il peccato originale, che è peccato della specie, peccato umano per eccellenza; può essere in grado, però, e lo è, di espiare certi peccati individuali; dal che si deduce non solo la legittimità ma anche la necessità e l’opportunità della pena di morte. L’universalità della sua istituzione attesta l’universalità della credenza del genere umano nell’efficacia purificatrice del sangue versato in un certo modo e nel suo potere espiatorio quando in questo modo viene versato. “Sine sanguinis effusione non fit remissio” (Eb 9, 22). Senza il sangue versato dal Redentore non si sarebbe mai estinto quel debito contratto con Dio in Adamo da tutto il genere umano»[46].
Il tema della redenzione non potrebbe essere legato in modo più forte alla dinamica dell’espiazione sacrificale tramite il sangue innocente concepita come la legge immutabile della creazione. L’errore della Rivoluzione dunque sta nel voler sovvertire questo ordine immutabile con la sua visione secolarizzata dello Stato e con le sue teorie dell’illanguidimento della pena, o, in una parola, con la negazione del peccato originale e, conseguentemente, con la negazione della necessità di una sua espiazione tramite l’intervento di un Redentore divino, simbolo della giustizia e al tempo stesso della misericordia divina: «La Redenzione è la sintesi somma che concilia e unisce divina misericordia e divina giustizia»[47]. E l’errore dei rivoluzionari sta nell’aver diffuso l’illusione che vi possa essere una società senza spargimento di sangue:
«Gli stessi che hanno fatto credere ai popoli che la terra può essere un paradiso, ancor più facilmente hanno fatto loro credere che dovrà essere un paradiso senza sangue. Il male non è nell’illusione ma nel fatto che se a tale illusione dovesse un giorno prestar fede il mondo, il sangue sgorgherebbe persino dalle dure rocce, e la terra diventerebbe un inferno».[48]
Di fronte a un tale uso controrivoluzionario del concetto di redenzione, è facile comprendere come sia piuttosto difficile trovare un uso analogo dello stesso concetto all’interno del pensiero rivoluzionario. Se si scorre infatti la letteratura rivoluzionaria del tempo il termine non sembra ricorrere in modo significativo, né pare ricorrere una sua secolarizzazione come se i rivoluzionari intendessero sostituire alla redenzione operata da Dio una redenzione operata dall’uomo, magari attraverso l’azione politica.
Se, dopo aver guardato la Rivoluzione francese, si volge lo sguardo alla Rivoluzione americana, si nota che nelle carte dei Founding Fathers il termine redemption viene utilizzato quasi esclusivamente come termine tecnico: talvolta nel linguaggio teologico a proposito della Redenzione operata da Cristo, più spesso nel linguaggio giuridico a proposito del riscatto di debiti economici, di schiavi o di prigionieri, dunque in linea con l’antica redemptio ab hostibus e ben lontani da ogni dinamica sacrificale. In rari casi si trova la definizione dell’Indipendenza americana come «American Redemption» nel solco di quella linea di liberazione dalla soggezione straniera rappresentata dal sermone di Rosewell a proposito della Rivoluzione Inglese[49].
Se poi, da quest’uso tecnico del termine, l’attenzione si allarga al campo delle dottrine teologico-politiche, non solo non si riscontra una dinamica di sacralizzazione in senso redentivo del processo rivoluzionario, ma si ritrova piuttosto una messa in discussione dello stesso concetto di “redenzione”, che porterebbe con sé l’idea di un’umanità minorata, incapace di provvedere da sé alla propria liberazione, e l’idea di una religione del sacrificio, dello scambio, in cui il “prezzo” del sangue di Cristo sarebbe necessario per il riscatto dell’umanità. Di qui la nascita per gli esseri umani di un senso di colpa permanente avendo essi, indirettamente, contribuito alle origini della creazione all’offesa di Dio con la ribellione del peccato originale e, successivamente, alla morte di Dio con la crocifissione di Cristo.
Su questa linea si trova, ad esempio, la radicale critica che Thomas Paine nel suo The Age of Reason[50] conduce al nostro concetto e alla logica che a suo parere vi è sottesa. Nel Capitolo VIII, dedicato al Nuovo Testamento, Paine vede il concetto di redenzione come il portato di una interpretazione utilitaristica ed economicistica della religione che egli fortemente condanna. La dottrina della redenzione, a suo dire, sarebbe strettamente legata alla dinamica della remissione dei debiti, tipica della vita economica. Secondo questa dinamica, se un debitore non è in grado di saldare il suo debito, un’altra persona può farlo al suo posto ed evitare così che egli finisca in prigione o, se già lo è, lo può riscattare[51]. Ma questa dinamica non si può certo applicare alla giustizia penale: se infatti qualcuno si macchia di un crimine e finisce per questo in prigione, non è certo ammissibile che un innocente prenda il suo posto e paghi per lui. Ciò non può darsi nemmeno se l’innocente fosse consenziente, perché una tale dinamica finirebbe per distruggere l’idea stessa di giustizia e la trasformerebbe in semplice vendetta[52].
Questa monetarizzazione della giustificazione fa nascere il sospetto, secondo Paine, che l’intera dottrina della redenzione sia un’invenzione umana, fabbricata al fine di giustificare non tanto la redenzione operata da Dio, ma quella operata dalla Chiesa che si troverebbe così attribuito il potere di riscattare i debitori in cambio di donazioni pecuniarie[53]. Una tale dottrina, oltre ad apparire a Paine grossolanamente artificiosa e contraria all’idea di giustizia, finisce per avere effetti del tutto negativi sugli individui che la accolgono. Trasformando la condizione dell’uomo nella condizione di un essere gravato da debiti economici, questa dottrina fa di ogni individuo un reprobo, un fuorilegge, caduto nell’abisso di una prigione e disprezzato da tutti, costretto a strisciare per impetrare misericordia a un Dio infinitamente lontano da lui e privo di ogni parentela con lui. A questa ignobile condizione gli uomini possono reagire o disprezzando ogni cosa e cadendo in un gretto cinismo o disprezzando se stessi e ogni dono che essi pure hanno ricevuto, a partire dal grande dono della ragione, e volgendosi a una devozione risentita. In quest’ultimo caso l’umiltà finisce per capovolgersi in presunzione, in eterna ingratitudine, in una insopportabile arroganza e sconfinata presunzione capace di scambiare la propria volontà con quella dello stesso Onnipotente[54].
Insomma se questa è la radice e questi gli effetti del concetto di redenzione è chiaro per Paine che il problema non è quello di “secolarizzarlo”, ma di cancellarlo, perché solo così l’uomo potrà riprendersi la propria dignità e agire moralmente.
È questo quadro, gravato da un intenso confronto teologico-politico tra controrivoluzionari e rivoluzionari, che fa da sfondo al dibattito del primo ’800 sul tema della redenzione[55]. Dentro questa aspra dialettica politica, il tema della redenzione appariva allora marcato da forti accenti restauratori. Di fronte all’esplodere della filosofia della libertà e dell’autodeterminazione umana, la redenzione finiva per sembrare necessariamente collegata a una “religione della dipendenza assoluta” da Dio, insomma – per dirla con Hegel in polemica con Schleiermacher[56] – ad una “religione della schiavitù”. Su questa idea della “dipendenza” pesava anche la concezione del peccato originale che si tramandava a ogni essere umano attraverso l’atto generativo, una sorta di “tara ereditaria” che colpiva non solo Adamo, primo peccatore, ma anche tutti gli esseri umani innocenti da lui nati. Uno scrittore influente come Chateaubriand vedeva la redenzione legata a questa “legge necessaria” che fa ricadere sui figli, anche se innocenti, le colpe dei padri:
«Noi sappiamo che da per tutto il figlio innocente porta la pena del padre colpevole, che questa legge è talmente legata ai principi delle cose, che ella si ripete fino all’ordine fisico dell’universo. Quando un fanciullo viene al mondo tutto cancrenato dalle dissolutezze del padre, perché non si lagna egli con la natura? Giacché finalmente che mai fece quel piccolo innocente per portar la pena dei vizi altrui? Ebbene, le malattie dell’anima si perpetuano come le malattie del corpo; e l’uomo si trova punito nella sua ultima posterità della colpa che gli trasmise, per dir così, il primo fermento del delitto. La caduta così avverata dalla tradizione generale, dalle conseguenze morali e fisiche che affliggono l’universo, la successione del castigo essendo riconosciuta; da un’altra parte i fini dell’uomo essendo rimasti perfetti come innanzi la disubbidienza, quantunque l’uomo stesso sia degenerato, ne segue che una redenzione e un mezzo qualunque di render l’uomo capace de’ suoi fini è una conseguenza naturale dello stato ove è caduta l’umana natura».[57]
Benché il quadro teologico prevalente rimanesse segnato da questa concezione colpevolistica e sacrificale, vi sono, anche in ambito cristiano, autori che all’epoca tentavano di avviare un confronto tra cristianesimo e modernità, tra cristianesimo e libertà, e che si sforzavano di liberare il concetto di “redenzione” dalla logica dello scambio sacrificale del “sangue per sangue” per accentuare la centralità della dinamica spirituale della conversione del cuore, operata non dalla violenza dello scambio ma dalla gratuità del darsi. In questa direzione si possono leggere le intense meditazioni di Rosmini nella sua Teodicea, ove si trova una bella e originale teoria teologico-politica della redenzione, in cui il paternalismo controrivoluzionario viene superato in direzione di un liberalismo teologico secondo cui il modo in cui Dio redime è di associare uomo libero a redenzione. Secondo Rosmini, Dio «volle che l’uomo divenisse insieme con lui l’autore della propria redenzione [… perché] il maggior benefizio che può farsi all’uomo non è di dargli il bene, ma di fare che di questo bene sia egli autore a sé medesimo»[58].
Ma se dall’analisi del pensiero teologico ritorniamo all’analisi del pensiero politico rivoluzionario, il tono prevalente è assai critico nei confronti del concetto di “redenzione”, considerato come gravato da un’antropologia negativa e quindi foriero di prospettive paternalistiche e autoritarie. Esemplare a questo proposito è la posizione di Pierre-Joseph Proudhon nella sua critica a quelle forme di socialismo che cercano di rendersi più accettabili adottando gli schemi interpretativi della religione tradizionale, ossia dipingendo gli esseri umani come esseri “caduti” e dunque bisognosi di “redenzione” dall’alto, sia che questa venga da un Dio sia che venga dallo Stato:
«L’idea della specie umana, della sua essenza, della sua perfettibilità, della sua sorte, sarebbe veramente triste se venisse concepita come un’agglomerazione di individui esposti necessariamente, a causa della disuguaglianza delle forze fisiche e intellettuali, al pericolo costante di una spoliazione reciproca o della tirannia di alcuni. Un’idea del genere rispecchia la filosofia più retriva; appartiene a quei tempi di barbarie nei quali l’assenza dei veri elementi dell’ordine sociale non consentiva al genio del legislatore l’uso di strumenti diversi dal puro e semplice ricorso alla forza; nei quali la supremazia di un potere pacificatore e vendicatore appariva a tutti come la giusta conseguenza di una degradazione anteriore e di una macchia originale. Per essere più espliciti, le istituzioni politiche e giudiziarie per noi rappresentano la formula esoterica e concreta del mito della caduta, del mistero della redenzione e del sacramento della penitenza. Ed è curioso vedere dei socialisti, che si dicono nemici o rivali della Chiesa e dello Stato, recuperare poi tutto quello che oltraggiano: il sistema rappresentativo in politica, il dogma della caduta in religione. Giacché si parla tanto di dottrina, dichiariamo francamente che la nostra è completamente diversa»[59].
Di nuovo, come in Thomas Paine, è il concetto di “espiazione necessaria” ad essere messo sotto accusa. Se da Proudhon passiamo a scorrere gli scritti di Marx, anche quelli passati alla storia delle interpretazioni per il loro maggior carico “messianico”, è facile vedere come il discorso si nutra dei concetti di “liberazione dalla schiavitù” e di “emancipazione” più che di quelli tipici della dinamica redentiva descritta dalla teologia[60]. A parte alcuni generici riferimenti al termine tecnico di “redenzione” nel senso di “riscatto”, presenti negli scritti economici, all’interno degli scritti filosofici e politici il riferimento più forte è quello legato al superamento della condizione di alienazione, come condizione di perdita di sé, di schiavitù, di essere in catene, attraverso un processo di emancipazione che è riappropriazione di sé e della propria essenza umana. Protagonista di tale processo di liberazione dalle catene non è, come nelle dinamiche rivoluzionarie inglese o americana, il popolo soggetto a uno straniero, ma il proletariato, la classe sociale sfruttata dalla borghesia che nel suo emanciparsi emancipa l’umanità stessa:
«Dov’è dunque la possibilità positiva dell’emancipazione [Emanzipation] tedesca? Risposta: nella formazione di una classe con catene radicali, una classe della società civile che non sia una classe della società civile, una classe che sia la dissoluzione di tutte le classi, una sfera che, per la sua sofferenza universale, possieda un carattere universale e non rivendichi un diritto particolare, poiché non ha subito un torto particolare, bensì l’ingiustizia di per sé, assoluta, una classe che non possa più appellarsi a un titolo storico, bensì al titolo umano, che non si trovi in contrasto unilaterale con le conseguenze, ma in contrasto totale con tutte le premesse del sistema politico tedesco, una sfera, infine, che non possa emancipare [emanzipieren] se stessa senza emanciparsi da tutte le altre sfere della società, emancipandole di conseguenza tutte, e che sia, in una parola, la perdita completa dell’uomo e possa quindi conquistare nuovamente se stessa soltanto riacquistando completamente l’uomo [nur durch die völlige Wiedergewinnung des Menschen sich selbst gewinnen kann die völlige Wiedergewinnung des Menschen]. Questa decomposizione [Auflösung] della società, in quanto classe particolare, è il proletariato»[61].
Nonostante alcune traduzioni inglesi di questo famoso testo marxiano ricorrano al termine “redemption”[62] per indicare la dinamica di emancipazione e riacquisto che vi è tematizzata, è difficile vedere nella logica argomentativa di Marx traccia della sistematica teologica della redenzione secolarizzata nel senso sopra descritto.
Si può ben dire dunque che il tratto prevalente del pensiero rivoluzionario ottocentesco a proposito della redenzione non sia quello di una “secolarizzazione” del concetto tesa a sostituire la redenzione operata da Dio con una redenzione operata dall’uomo, quanto, più radicalmente, quello di una messa in discussione del dispositivo concettuale e politico della “redenzione” basato sul meccanismo del sacrificio espiatorio, messa in discussione che si troverà poi chiaramente espressa dalla critica nietzscheana[63]. Ciò si può notare anche in quegli autori che, all’interno del pensiero rivoluzionario, più di altri conservano un afflato religioso come è il caso di Mazzini[64]:
«L’Italia ha evidentemente dalla Storia, dalle condizioni dell’Europa, dai caratteri del suo risorgere, una doppia missione: compiendola, essa si porrebbe a capo d’un’Epoca. La prima – abolizione del Papato, conquista pel mondo dell’inviolabilità della coscienza umana e sostituzione del dogma del progresso a quello della caduta e della redenzione per grazia – è missione religiosa della quale ora non intendiamo parlare e da maturarsi a ogni modo, prima che i decreti d’un popolo di credenti non vengano a compirla col pacifico apostolato. Ma la seconda – sviluppo del principio di nazionalità come regolatore supremo delle relazioni internazionali e pegno sicuro di pace nell’avvenire – è missione politica, connessa intimamente coll’altra, perché guida a un nuovo riparto Europeo che fu sempre, in tutte le grandi Epoche storiche, preludio a una trasformazione religiosa, e da compirsi coll’influenza morale, appoggiata, occorrendo e sotto il momento propizio, dall’armi. Nazionalità è infatti la parola vitale dell’Epoca che sta per sorgere»[65].
Il richiamo al principio di nazionalità ci riporta al contesto originario in cui si forma il concetto di redenzione e precisamente il contesto della redemptio ab hostibus. Al di là del dibattito tra rivoluzionari e controrivoluzionari, nel lessico politico otto-novecentesco il concetto di redenzione rimane infine prevalentemente legato a istanze di liberazione nazionale.
Nei Paesi che cercano la propria indipendenza dalla soggezione straniera il termine viene identificato con quello di liberazione nazionale e si conia perfino il termine di irredentismo per designare il movimento di liberazione delle terre “irredente”, come avviene nell’Italia di fine ‘800[66]. La Prima Guerra mondiale finì per rappresentare il momento culminante delle speranze irredentiste, ma, come è noto, riuscì solo in parte a realizzarne le aspirazioni più profonde: in parte le sorti della guerra, in parte l’oggettivo intreccio di popoli e nazioni che caratterizzava la realtà europea e che certo non si lasciava semplicemente risolvere dall’equazione un popolo=uno Stato, finirono per lasciare aperte molte ferite e ansie irrisolte di “redenzione dai nemici”.
La “redenzione”, da semplice pratica giuridico-politica, si trasformò così nei movimenti nazionalisti più radicali in evento storico cui si attribuiva un potere complessivo di liberazione e rigenerazione, recuperando quel portato sacrificale che la aveva accompagnata nel corso del suo utilizzo da parte del pensiero teologico. Il mito della redenzione si accompagnò così non solo alla liberazione dallo straniero, ma anche all’odio nei suoi confronti e alla volontà di annientarlo. Inutilmente filosofi e teologi avvertiti come Franz Rosenzweig o Karl Barth avevano cercato di distinguere, all’inizio degli anni Venti, tra redenzione e mito della redenzione. Già nel suo Die Sterne der Erlösung (1921) Franz Rosenzweig aveva messo in guardia da tutte le false forme di redenzione rivendicando al popolo ebraico l’unico significato autentico e possibile di redenzione, ossia la vittoria dell’amore sulla morte, e aveva sottolineato come l’unica pratica redentiva fosse l’amore del prossimo, l’amore della generazione futura, quell’amore che si è lasciato alle spalle ogni “guerra giusta”[67]. E Karl Barth, leggendo l’epistola paolina ai Romani, aveva rifiutato una venerazione troppo umana che non rende giustizia al mistero del cosmo e rimandato alla redenzione come a ciò che apre alla «speranza nell’unità invisibile del creato»: essa è «l’invisibile, l’inaccessibile, l’impossibile, che ci incontra come speranza»[68].
Nonostante questi moniti si fece strada l’idea che una redenzione storica fosse possibile non tanto attraverso il riscatto dei prigionieri dai nemici, quanto, più profondamente, attraverso un meccanismo di espiazione. Emblematico a questo proposito l’odio nei confronti degli Ebrei, scelti come ideale capro espiatorio e vittima sacrificale, che si caricò progressivamente di un elemento di purificazione e redenzione. Già negli scritti di Chamberlain è intensa la riflessione sul tema della redenzione connessa all’antisemitismo, ma tale connessione si sviluppa in tutta la sua radicalità nel nazionalsocialismo, negli scritti e nelle azioni di Hitler che concepiva lo sterminio degli Ebrei come un’opera gradita alla divinità e nelle parole di chi, come Julius Streicher, teorizzava che senza una soluzione della questione ebraica non avrebbe potuto esserci nessuna redenzione del popolo tedesco («ohne Lösung der Judenfrage keine Erlösung des deutschen Volkes»)[69]. Era questo l’«antisemitismo redentivo» come è stato definito da Saul Friedländer[70].
Nella tragedia del totalitarismo giunse così al suo apice il terribile meccanismo sacrificale. Difficile poter parlare ancora di “redenzione” senza procedere a una radicale critica del concetto, raccogliendo l’invito di Nietzsche. Si trattava da un lato di distinguere la logica ebraica e cristiana dalle logiche sacrificali di altre prospettive religiose o pseudoreligiose. In questa direzione si è mosso Dietrich Bonhoeffer nel suo sforzo di distinguere il cristianesimo dalle religioni della redenzione. A differenza delle altre religioni orientali, per Bonhoeffer la fede dell’Antico Testamento non è una religione della redenzione e anche il cristianesimo, nonostante le interpretazioni avverse, si muove in questa prospettiva. La speranza nella resurrezione, infatti, non si può confondere con i miti della redenzione. Questi promettono la liberazione dalle sofferenze, dalle angosce, dai peccati e dalla morte nella speranza di un aldilà migliore. Ma il cristiano, diversamente da coloro che credono nei miti della redenzione, non ha una via di fuga nell’eternità: egli deve sempre vivere fino in fondo la vita terrena: «L’aldiqua non può venire superato anzitempo. In ciò il Nuovo Testamento e l’Antico Testamento rimangono intimamente legati. I miti della redenzione sorgono dalle esperienze limite dell’uomo. Ma Cristo afferra l’uomo nel centro della sua vita»[71]. Dunque il cristianesimo non è una religione della fuga o della negazione del mondo; al contrario, è una religione della incarnazione e della fedeltà alla terra, e la stessa partecipazione alla sofferenza di Cristo da parte dei credenti non appartiene a una logica sacrificale, ma alla logica della gratuità[72].
Sul piano filosofico il più significativo tentativo di riabilitazione del concetto di redenzione si deve invece ad Adorno, per il quale la rinuncia al “punto di vista” della “redenzione” equivarrebbe la rinuncia a un pensiero critico, capace di emanciparsi dal mero rispecchiamento dell’esistente. Per questo, dopo aver criticato la logica pagana del sacrificio dell’innocente come espiazione dei peccati del colpevole[73], sulla scia di Rosenzweig e Benjamin[74], Adorno arriva a proporre, in chiusura dei suoi Minima moralia, un originale e nuovo concetto di redenzione a cui legare il compito della stessa filosofia:
«La filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto della disperazione, è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione. La conoscenza non ha altra luce che non sia quella che emana dalla redenzione sul mondo: tutto il resto si esaurisce nella ricostruzione a posteriori e fa parte della tecnica. Si tratta di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica. Ottenere queste prospettive senza arbitrio e violenza, dal semplice contatto con gli oggetti, questo, e questo soltanto, è il compito del pensiero. È la cosa più semplice di tutte, poiché lo stato attuale invoca irresistibilmente questa conoscenza, anzi, perché la perfetta negatività, non appena fissata in volto, si converte nella cifra del suo opposto. Ma è anche l’assolutamente impossibile, perché presuppone un punto di vista sottratto, sia pure di un soffio, al cerchio magico dell’esistenza, mentre ogni possibile conoscenza, non soltanto dev’essere prima strappata a ciò che è per riuscire vincolante, ma, appunto per ciò, è colpita dalla stessa deformazione e manchevolezza a cui si propone di sfuggire. Il pensiero che respinge più appassionatamente il proprio condizionamento per amore dell’incondizionato, cade tanto più inconsapevolmente, e quindi più fatalmente, in balìa del mondo. Anche la propria impossibilità esso deve comprendere per amore della possibilità. Ma rispetto all’esigenza che così gli si pone, la stessa questione della realtà o irrealtà della redenzione diventa pressoché indifferente»[75].
Anche in questa chiusa solenne non vi è traccia di un’autoesaltazione attivistica dell’uomo, ma solo l’indicazione di un compito per una filosofia che voglia giustificarsi «al cospetto della disperazione»: indicare, «senza arbitrio e violenza», prospettive in cui il mondo possa rivelarsi «come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica». Compito «assolutamente impossibile», eppure, in qualche modo, legato alla condizione del mondo. Che, quasi prigioniero in attesa di riscatto, pare esigerlo dal pensiero.
[1] W. Elert, Redemptio ab hostibus, in «Theologische Literaturzeitung» (1947), 5, pp. 265-270. Su Werner Elert (1885-1954), influente teologo luterano e docente all’università di Erlangen, si veda il profilo tracciato da M. Becker, Werner Elert, in M. Mattes (ed.), Twentieth-Century Lutheran Theologians, Vandenhoeck&Ruprecht, Göttingen 2013, pp. 93-135.
[2] Sulla rappresentazione di Hitler come “il Salvatore” si vedano le classiche pagine di R. Guardini, Der Heilbringer in Mythos, Offenbarung und Politik. Eine theologisch-politische Besinnung, Deutsche Verlagsanstalt, Stuttgart 1946 (prima edizione ridotta con il titolo Der Heiland sulla rivista «Die Schildgenossen» 14, (1934-1935), pp. 97-116), tr. it. Il Salvatore nel mito, nella rivelazione e nella politica. Una riflessione politico-teologica, in Id., Opera Omnia, vol. VI: Scritti politici, a cura di M. Nicoletti, Morcelliana, Brescia 2005, pp. 293-345.
[3] Sul dibattito sulla Schuldfrage e la sua stratificata complessità negli anni 1946-1948, cfr. T. Koebner, Die Schuldfrage in T. Koebner – G. Sautermeister – S. Schneider, Deutschland nach Hitler. Zukunftspläne im Exil und aus der Besatzungszeit 1939–1945, Westdeutscher Verlag GmbH, Opladen 1987, pp. 301-329.
[4] Del resto, già agli inizi della sua ricerca, Elert aveva condotto una critica esplicita alla sintesi tra cultura germanica e cristianesimo inteso appunto come “religione della redenzione” operata da Kant, Hegel e Schleiermacher. Cfr. W. Elert, Der Kampf um das Christentum. Geschichte der Beziehungen zwischen dem evangelischen Christentum in Deutschland und dem allgemeinen Denken seit Schleiermacher und Hegel, Beck, München 1921.
[5] Il panorama delle occorrenze terminologiche nel Nuovo Testamento offerto da Elert e qui sintetizzato non è peraltro completo. Una ricostruzione più puntuale può essere ricavata dall’analisi della terminologia della redenzione in termini di liberazione, salvezza e acquisto elaborata da Stanislas Lyonnet in S. Lyonnet – L. Sabourin, Sin, Redemption and Sacrifice. A Biblical and Patristic Study, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1998, pp. 61-119. Cfr. altresì le voci dedicate da F. Büchsel a λύτρων e una serie di termini dello stesso campo etimologico in G. Kittel-G. Friedrich (eds.), Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, Kohlhammer, Stuttgart 1933-1978; tr. it. Grande lessico del Nuovo Testamento, a cura di F. Montagnini-G. Scarpat-O. Soffritti, Paideia, Brescia 1965-92, vol. VI, col. 916-62, nonché i riferimenti al lessico neotestamentario deducibili dai §§4 e 5 del contributo di Gian Luigi Prato supra.
[6] Elert discute qui la tesi avanzata da Adolf Deissmann in Licht vom Osten. Das Neue Testament und die neuentdeckten Texte der hellenistisch-römichen Welt, Mohr, Tübingen 1908, pp. 232ss, e Paulus. Eine kultur- und religiongeschichtliche Skizze Mohr, Tübingen 1925, che riteneva che il riferimento paolino andasse compreso alla luce della tradizione del riscatto sacrale attestata da alcune iscrizioni relative principalmente al tempio di Delfi (riportate e discusse in Licht vom Osten). Si veda una sintesi delle differenti interpretazioni del riferimento al riscatto nei testi paolini in D.F. Tolmie, Salvation as Redemption: The use of “Redemption” Metaphors in Pauline Literature, in J.G. van der Watt (ed.), Salvation in the New Testament, Brill, Leiden 2005, pp 247-269, alle pp. 247-51, con gli opportuni rimandi bibliografici.
[7] Su questo aspetto e sui caratteri più propriamente giuridici della redemptio ab hostibus si veda supra il contributo di Laurent Waelkens.
[8] W. Elert, Redemptio ab hostibus, cit., p. 3, tr. mia.
[9] Per uno sguardo generale sulla teologia cattolica della redenzione si veda il testo della Commissione Teologica Internazionale in merito ad Alcune questioni sulla teologia della redenzione, online all’indirizzo: http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/cti_documents/rc_cti_1995_teologia-redenzione_it.html, consultato il 28 novembre 2017.
[10] Sul punto rimando a M. Nicoletti, Carl Schmitt e Eric Voegelin: teologia politica e gnosi, in L. Alici – R. Piccolomini – A. Pieretti (eds.), Storia e politica: Agostino nella filosofia del Novecento, Città nuova, Roma 2004, p. 39-75.
[11] E. Voegelin, The New Science of Politics, Chicago Univ. Press, Chicago 1954; tr. it. di R. Pavetto La nuova scienza politica, Borla, Torino 1968, pp. 195-96.
[12] Il testo è online all’indirizzo http://w2.vatican.va/content/pius-xi/it/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_19370319_divini-redemptoris.html, consultato il 28 novembre 2017.
[13] A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Aragno, Torino 20042, pp. 7-8.
[14] E. Voegelin, Die politische Religionen, Bermann Fischer, Stockholm 1939; tr. it. in La politica: dai simboli alle esperienze, a c. di S. Chignola, Giuffrè, Milano 1993.
[15] Per un più ampio inquadramento del rapporto tra politica e speranza di salvezza, rimando al mio M. Nicoletti, Politik und Erlösung in P. Koslowski (ed.), Endangst und Erlösung 2, W. Fink, München 2012, pp. 133-148.
[16] Cfr. J. Rivière, Rédemption in Dictionnaire de Théologie Catholique, Letouzey et Ané, Paris 1937, tome III, pp. 1912-2004.
[17] In questo contesto, per giustificare il pagamento del riscatto operato da Cristo, viene elaborata la cosiddetta teoria dei “diritti del diavolo”, su cui, oltre alla sintesi offerta dalla voce citata alla nota precedente, si veda supra il contributo di Tiziana Faitini.
[18] Si veda in questo volume il contributo di Jean-Claude Zancarini.
[19] Cfr. K. Griewank, Der neuzeitliche Revolutionsbegriff. Entstehung und Entwicklung, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1955; tr. it. Il concetto di rivoluzione nell’età moderna, La Nuova Italia, Firenze 1979; R. Koselleck, Revolution, in O. Brunner – W. Conze – R. Koselleck (eds.), Geschichtliche Grundbegriffe, vol. 5, Cotta, Stuttgart 1984, pp. 653-788; Id., Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichtlicher Zeiten, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1979; tr. it., Futuro passato: per una semantica dei tempi storici, Marietti, Genova 1986; M. Nicoletti, Rivoluzione, in Dizionario delle idee politiche, a cura di E. Berti e G. Campanini, AVE, Roma 1993, pp. 746-763.
[20] Cfr. G. Winstanley, The Law of Freedom and Other Writings, ed. by C. Hill, Cambridge University Press, Cambridge 1983.
[21] Cfr. T. Hobbes, Leviathan, Penguin, Harmondsworth 1968; tr. it. di A. Pacchi, Leviatano, Laterza, Roma-Bari 2011, c. XXXVIII, pp. 377-78.
[22] Anche in altre esperienze di radicalismo cristiano come quella di Thomas Müntzer è molto chiaro che la salvezza viene operata da Dio e non dall’azione umana.
[23] Prete presbiteriano (1679-1722). Su di lui cfr. W. Wilson, The history and Antiquities of Dissenting Churches and Meeting Houses, London 1810, pp. 49–57.
[24] S. Rosewell, The Revolution or The Redemption of God’s People. A Sermon Preach’d at the Lord’s-Day’s Evening Lecture in The Old Jewry, November the 4th, 1711. Being the Birth-Day of The Late King William of Glorious Memory, London 1712.
[25] Cfr. ibi, p. 6: «He sent unto them redemption, which in the primary and proper Notion of the Word has a reference to Captivity; but it is often used to signifie a Deliverance from any kind of Sufferings or Dangers».
[26] La traduzione utilizzata è La Sacra Bibbia, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Libreria Editrice Vaticana, s.l. 2008.
[27] S. Rosewell, The Revolution, cit., pp. 8-9, tr. mia.
[28] «Our Redemption (which is but another Word for the Revolution)», S. Rosewell, The Revolution, cit., p. 12.
[29] Ibi, p. 22, tr. mia.
[30] Ibi, p. 25.
[31] F. Schlegel, Prosaische Jugendschriften, hrsg. von J. Minor, Wien 1882, vol. II, p. 239 (Athenaeumsfragmente del 1798).
[32] E. Burke, Reflections on the Revolution in France (1790), Oxford University Press, Oxford 2009, p. 66. Burke accusa Price di aver citato, nel suo Discourse on the Love of our Country (1789), il Cantico di Simeone in occasione di un evento rivoluzionario, ripetendo quanto già il Rev. Hugh Peters aveva detto accompagnando il re Carlo al patibolo durante la Rivoluzione inglese: cfr. Hugh Peter. Preacher, Patriot, Philanthropist, fourth Pastor of the First Church in Salem, Massachusetts, ed. by E. Bradley Peters, New York 1902, pp. 62-63.
[33] M. Robespierre, Discours 7.5.1794, in Œuvres, ed. A. Carrel, Paris 1840 (rist. New York 1970), t. 3, p. 615 (tr. mia).
[34] Id., Discorso del 10.5.1793, ibi, t. 3, p. 363. Su questo tema si vedano i lavori di R. Koselleck citati supra.
[35] M. Robespierre, Sur le jugement du roi (3 déc. 1792), in Œuvres, cit., t. 2, pp. 120-136; tr. it. Discorso sulle decisioni da prendersi nei riguardi di Luigi Capeto, in M. Robespierre, La Rivoluzione giacobina, a cura di G. Cantoni, UE, Milano 1953, pp. 86-95, qui a p. 95.
[36] M. Robespierre, Discours au peuple réuni pour la fete de l’etre supreme, 8.6.1794, in Œuvres, cit., p. 642 (tr. mia).
[37] Id., Discours à la Convention Nationale, 26.5.1794, ivi, p. 623 (tr. mia).
[38] Cfr. C. Vetter – M. Marin (eds.), La felicità è un’idea nuova in Europa. Contributo al lessico della rivoluzione francese, EUT, Trieste 2005ss. Per una prima indicazione lessicografica e ampia bibliografia sulle questioni relative alla dimensione “sacrale” e ai rapporti con la “sfera religiosa” negli scritti di Robespierre, si veda l’ampia introduzione di C. Vetter – M. Marin, La nozione di felicità in Robespierre (ibi, t. I, pp. 22-79).
[39] J. De Maistre, Considérations sur la France, Londres 1797, c. III; tr. it. Considerazioni sulla Francia, a cura di M. Boffa, Ed. Riuniti, Roma 1985, p. 20. Su De Maistre cfr. le considerazioni di Andrea Aguti in questo volume.
[40] J. De Maistre, Considerazioni sulla Francia, cit., p. 26.
[41] Pare che lo stesso Luigi XVI sul patibolo abbia pronunciato le seguenti parole: «Peuple je meurs innocent ! Se tournant vers nous, il nous dit: Messieurs, je suis innocent de tout ce dont on m’inculpe; je souhaite que mon sang puisse cimenter le bonheur des Français». Ciò secondo la testimonianza dello stesso esecutore della sentenza Charles-Henry Sanson riportata sul “Thermomètre du jour”, 21 Février 1793; sulla morte di Luigi XVI come sacrificio dell’innocente per la salvezza del popolo, si veda il cap. I di S. Dunn, The Death of Louis XVI: Regicide and the French Political Immagination, Princeton Univ. Press, Princeton 1994, specie p. 28.
[42] Cfr. più in esteso il suo fondamentale saggio Chiarimento sui sacrifici, a cura di G. Garamella, Immagine, Pordenone 1993. Sul tema dei sacrifici, con riferimento a De Maistre, inevitabile il rimando all’interpretazione di Renè Girard, La violence et le sacré (1972), tr. it. La violenza e il sacro, a cura di O. Fatica – E. Czerkl, Adelphi, Milano 1980; Id., Des choses cachées depuis la fondation du monde (1978), ricerche con Jean-Michel Oughourlian e Guy Lefort: tr. it. Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, a cura di R. Damiani, Adelphi, Milano 1983; Id., Le bouc émissaire (1982), tr. it. Il capro espiatorio, a cura di C. Leverd – F. Bovoli, Adelphi, Milano 1987.
[43] Cfr. J. De Maistre, Considerazioni sulla Francia, cit.
[44] Cfr. Id., Les soirées de Saint-Pétersbourg, ou Entretiens sur le gouvernement temporel de la Providence, Paris 1821; tr. it. Le serate di Pietroburgo o Colloqui sul governo temporale della Provvidenza, a cura di A. Cattabiani, Rusconi, Milano 1971.
[45] J. Donoso Cortes, Ensayo sobre el catolicismo, el liberalismo y el socialismo, Barcelona 1851; tr. it., Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo, a cura di G. Allegra, Rusconi, Milano 1970, p. 367.
[46] Ibi, p. 375.
[47] Ibi, p. 415.
[48] Ibi, p. 379.
[49] L’espressione “American Redemption” si trova ad esempio in una lettera di Cotton Tufts a John Adams del 5 July 1776 (cfr. The Adams Papers, Adams Family Correspondence, vol. 2: June 1776 – March 1778, ed. L. H. Butterfield. Harvard University Press, Cambridge MA 1963, pp. 35–36). Espressioni analoghe si trovano in altri passi, quali ad esempio: «But it is Time for another Revolution in that Country, and to add another Martyr to the Rubric, and a few more Ornaments to Tyburn. The Liberties of the Kingdom are gone past Redemption if some bold Spirit does not check this formidable Combination against their freedom». (John Thaxter to Abigail Adams, 27 July 1782, in The Adams Papers, vol. 4: October 1780 – September 1782, ed. L.H Butterfield – M. Friedlaender, Harvard University Press, Cambridge MA 1973, pp. 354–356).
[50] T. Paine, The Age of Reason, in The Writings of Thomas Paine, vol. IV, ed. M.D. Conway, Putnam’s Sons, New York-London 1796, pp. 20ss.; tr. it. L’età della ragione, a cura di E. Joy Mannucci, Ibis, Como 2000.
[51] Cfr. ibi, p. 77: «Se devo del denaro a qualcuno e non posso ripagarlo e lui mi minaccia di mandarmi in prigione, un’altra persona può accollarsi il debito e pagarlo al mio posto».
[52] «Ma se ho commesso un delitto, la situazione cambia completamente: la giustizia morale non permette che l’innocente sia punito al posto del colpevole, anche se l’innocente si offrisse. Suggerire che la giustizia comporti questo significa distruggere il principio stesso della sua esistenza, cioè la giustizia stessa; non è più giustizia, ma vendetta indiscriminata» (ibi, pp. 77-78).
[53] «Perciò è probabile che l’intera teoria o dottrina di quella che è chiamata redenzione (realizzata, si dice, dall’atto di una persona al posto di un’altra) sia stata in origine fabbricata allo scopo di ricavarne e costruirvi sopra tutte quelle redenzioni secondarie e pecuniarie» (ibi, pp. 76-77).
[54] «Se a un uomo si insegna a contemplare se stesso come un fuorilegge, un reietto, come un mendicante, un miserabile, uno gettato su un letamaio a una distanza immensa dal suo Creatore, che deve avvicinarsi strisciando e inchinandosi servilmente davanti a esseri intermedi, egli finirà per concepire o un’indifferenza sprezzante per tutto ciò che va sotto il nome di religione, o divenire indifferente, o darsi a quella che si chiama devozione. In questo caso, consuma la propria vita nel dolore, o nell’affettazione del dolore; le sue preghiere sono rimproveri; la sua umiltà è ingratitudine; chiama se stesso verme e letamaio la fertile terra; e tutte le benedizioni della vita le chiama col nome ingrato di vanità. Disprezzerà il più bel dono di Dio all’uomo, il dono della ragione; […] Eppure, con tutta questa strana apparenza di umiltà e questo disprezzo per la ragione umana, si permette la più audace presunzione: trova difetti in tutto; il suo egoismo non è mai soddisfatto; la sua ingratitudine è senza fondo. Pretende di dettare all’Onnipotente ciò che deve fare, anche nel governo dell’universo. prega in maniera dittatoriale; quando c’è il sole, prega per la pioggia e se piove, prega per il sole; segue la stessa idea per tutte le cose per cui prega: che cosa sono infatti le preghiere che accumula, se non un tentativo di far cambiare idea all’Onnipotente, di farlo agire diversamente da come agisce? È come se dicesse: Tu non se sai quanto ne so io» (ibi, pp. 78-79, tr. modificata).
[55] Per uno sguardo al dibattito teologico e filosofico ottocentesco sul tema della redenzione, si veda C.-D. Osthövener, Erlösung. Transformationen einer Idee im 19. Jahrhundert, Mohr Siebeck, Tūbingen 2004.
[56] Si vedano su questo confronto le pagine di Omar Brino in questo volume.
[57] F. de Chateaubriand, Génie du Christianisme, I, cap. IV “De la Rédemption”, Paris 1828 (I ed. 1802), p. 20; tr. it. Genio del Cristianesimo, Napoli 1840, p. 13.
[58] A. Rosmini, Teodicea, in Opere edite e inedite di A. Rosmini, a cura del Centro Internazionale di Studi Rosminiani di Stresa, Roma 1977, p. 242 (n. 371).
[59] P.-J. Proudhon, Les confessions d’un révolutionnaire, tr. it. in P. Ansart, P.-J. Proudhon, La Pietra, Milano 1978, pp. 71- 84: Critica della proprietà e dello Stato, pp. 73-74.
[60] Per un primo sguardo all’interpretazione del pensiero di Marx in senso messianico, si vedano le considerazioni di É. Balibar, Le moment messianique de Marx, in Théologies politiques du Vormärz. De la doctrine à l’action (1817-1850), in «Revue Germanique Internationale» 8 (2008), pp. 143-160; poi in Id., Citoyen Sujet et autres essais d’antropologie politique, Presses Universitaires de France, Paris 2011; tr. it. Il momento messianico di Marx , a cura di G. Campailla, in «Consecutio Temporum» 5 (2013), online su http://www.consecutio.org/2013/10/il-momento-messianico-di-marx/ (ultima consultazione 20 novembre 2017).
[61] K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in Annali franco-tedeschi, Ed. del Gallo, Milano 1965, p. 141.
[62] Cfr. ad esempio la traduzione della Critique of Hegel’s Philosophy of Right. Introduction di Rodney Livingstone and Gregor Benton in K. Marx, Early Writings, Penguin, London 1992, pp. 243-257, a p. 256.
[63] Cfr. il contributo di Guido Boffi in questo volume.
[64] Così ad esempio l’inglese Harney nell’ospitare sulla sua rivista i contributi di Blanc e Mazzini: «I have experienced in aiding to give publicity to the deathless writings of a Louis Blanc and a Joseph Mazzini, and to the valuable contributions of others, who, though less known to fame, are equally earnest apostles in the great work of political and social redemption» (cit. in F. Proietti, Louis Blanc nel dibattito politico inglese (1848-1852), Centro Editoriale Toscano, Firenze 2009, p. 66).
[66] Il termine “irredenta” ricorre nel nome dell’”Associazione Pro Italia Irredenta”, fondata nel 1877 a Napoli allo scopo di rivendicare l’indipendenza dei territori italiani, come Trento e Trieste, rimasti sotto l’Impero austriaco dopo il 1866, cfr. N. Criniti, Sulla storia dell’irredentismo, Vita e Pensiero, Milano 1966; A. Ara, L’irredentismo tra tradizione risorgimentale e nazionalismo, Verlag der Österreichischen Akademie der Wissenschaften, Wien 1982; P. Finelli, Per un profilo ideologico dell’irredentismo democratico, in «Bollettino della Domus Mazziniana» 2 (1998); Irredentismi: politica, cultura e propaganda nell’Europa dei nazionalismi, Unicopli, Milano 2017.
[67] F. Rosenzweig, Die Sterne der Erlösung, Kauffmann, Frankfurt am Main 1921; tr. it. La stella della redenzione, a c. di G. Bonola, Vita e Pensiero, Milano 2008, p. 340.
[68] K. Barth, Der Römerbrief, Evangelischer Verlag Zollikon, Zürich 1954 (I ed. 1922); tr. it. La lettera ai romani, a c. di M. Miegge, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 291 e 296.
[69] J. Streicher, Ohne Lösung der Judenfrage keine Erlösung des deutschen Volkes, 1935. Si tratta di un fascicolo della rivista «Der Stürmer» contenente vignette propagandistiche antisemite.
[70] «L’antisemitismo redentivo in altre parole è il risultato dell’antisemitismo razzista da un lato e di una ideologia religiosa o pseudoreligiosa della redenzione (o della dannazione) dall’altro. Il collegamento di queste due componenti conferisce alla lotta contro gli Ebrei l’urgenza e la potenza emotiva di una missione religiosa, di una crociata. Questa lotta non ammette nelle sue espressioni più estreme nessun compromesso. “Con gli Ebrei non c’è nessun patteggiamento, ma solo il duro ‘Entweder-Oder’” scrive Hitler nel Mein Kampf. E in modo ancora più chiaro: “Quando mi difendo dagli Ebrei, mi batto per un’opera del Signore”. Con l’eccezione di Dietrich Eckarts, con insulti simili questo tipo di antisemitismo apocalittico si trova espresso nel modo più significativo nell’opera principale di Houston Stewart Chamberlain del 1899, I fondamenti del Diciannovesimo secolo, e accanto a questi nelle pubblicazioni e attività del Circolo di Bayreuth. Questo ci riporta nuovamente a Wagner» (S. Friedländer, Bayreuth und der Erlösungsantisemitismus, in D. Borchmeyer – A. Maayani – S. Vill (eds.), Richard Wagner und die Juden, Springer Verlag, Heidelberg 2000, p. 9, tr. mia). Il libro in cui Friedländer sviluppa la sua tesi sull’«antisemitismo redentivo» è Nazi Germany and the Jews, vol. 1, The Years of Persecution, 1933–1939, Harper Collins, New York 1997, in particolare cap. III.
[71] D. Bonhoeffer, Widerstand und Ergebung, in Dietrich Bonhoeffers Werke, ed. C. Gremmels – E. Bethge – R. Bethge, Gütersloh 2011, vol. 8, pp. 499ss.; tr. it. Resistenza e resa, a cura di A. Gallas (Opere, vol. 8), Queriniana, Brescia 2002.
[72] Cfr. M. Nicoletti, Die politische Theologie Carl Schmitts und die mimetische Theorie René Girards in B. Dieckmann (ed.), Das Opfer – aktuelle Kontroversen. Religions-politischer Diskurs im Kontext der mimetischen Theorie, Lit, Münster-Berlin-Wien 2001, p. 141-156.
[73] Th.W. Adorno cita a questo proposito il Nietzsche dell’Anticristo (Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1994, § 61).
[74] Cfr. W. Whitson Floyd, Jr., Transcendence in the Light of Redemption: Adorno and the Legacy of Rosenzweig and Benjamin, in «Journal of the American Academy of Religion» 61/3 (Autumn, 1993), pp. 539-551. Sul concetto di redenzione nell’ambito del pensiero ebraico, cfr. anche G. Scholem, Ra’ayon ha-ge’ullah ba-qabbalah, Rubin Mass, Gerusalemme 1942; tr. it. L’idea messianica nella Qabbalah, in L’idea messianica nell’ebraismo e altri saggi sulla spiritualita ebraica, a cura di R. Donatoni – E. Zevi, Adelphi, Milano 2008, pp. 47-58; si veda anche supra il contributo di Massimo Giuliani.
[75] Th.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 304.