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Redeeming Italy from the sins of princes. A political-military interpretation of “redemption” in The Prince
In The Prince, the words redemption, redeemer, redeem only appear in Chapter 26. In this paper, I will attempt to answer two questions: “why, in the final exhortatio of The Prince, does Machiavelli choose to use this semantic field of redemption, which he never uses anywhere else?” and “how should we interpret this presence of the term redemption in The Prince?”. Machiavelli uses words (sins, redemption) that were part of Savonarola’s prophetic vocabulary. Whoever wants “to become the leader of this redemption”, i.e. the redemption of Italy from “barbarous cruelty and irreverence”, must “above all, as the very foundation of every undertaking, obtain his own weapons”. The task of the “redeemer” of Italy is a politico-military one. The use of the semantic field of redemption therefore functions to distance the politico-military from the theological discourse, as has already been done in Chapter 12, where the “sins” are not those intended by Savonarola, but the “sins of princes”, in other words, “sins” of a military nature.
Redenzione, redentore, redimere sono parole che Machiavelli adopera solo nell’ultimo capitolo del Principe – di cui si conosce l’importanza: è la famosa esortazione a liberare l’Italia dai barbari[1]. Machiavelli vi adopera due volte redemptione, due volte il verbo redimere (una volta al congiuntivo e un’altra al passato remoto), una volta redemptore. Intendo rispondere in questo saggio a due domande a proposito di questa non ovvia presenza. La prima è “perché Machiavelli utilizza proprio qui, nell’exhortatio finale del Principe, questo campo semantico della redenzione che non è mai adoperato altrove?”. La seconda: “Che senso si può dare a questa presenza?”.
Due tematiche del capitolo possono spiegare la presenza di queste parole: si tratta della vindicatio in libertatem annunziata sin dal titolo del capitolo (quindi una questione legata al diritto) e delle numerose allusioni a Dio e alla religione presenti nell’exhortatio.
La seconda parte del titolo del capitolo, In libertatemque a barbaris vindicandam rinvia alla manumissio: si tratta di fare di uno schiavo una persona libera. La vindicta era la bacchetta con la quale lo schiavo veniva toccato dall’assertor libertatis per indicare che diventava un uomo libero. Nel capitolo xxvi, questa indicazione mette in evidenza che si tratta di ridare la sua libertà all’Italia che si trova in uno stato di servitù e che l’atto di liberazione si configura come un atto di giustizia[2]. Ora, redemptio è una parola che viene spesso adoperato nel Corpus iuris, generalmente per indicare la redemptio captivorum, il riscatto dei prigionieri e si tratta dunque di un senso che Machiavelli poteva quindi avere in mente quando si accingeva a parlare della necessaria liberazione dell’Italia dalla schiavitù[3].
Ma anche il senso religioso di redenzione funzionava benissimo con la tonalità del capitolo, nel quale sono numerosi i riferimenti a Dio. È da notare che tutti questi riferimenti a Dio si trovano nello stesso passaggio del capitolo, appunto quello che introduce l’idea della redenzione e dell’appello alla famiglia dei Medici come unica capace di «farsi capo di questa redemptione»:
«[4] E benché insino a qui si sia mostro qualche spiraculo in qualcuno, da potere iudicare ch’e’ fussi ordinato da Dio per sua redemptione, tamen si è visto come dipoi, nel più alto corso delle actioni sua, è stato dalla fortuna reprobato. [5] In modo che, rimasa come sanza vita, aspetta quale possa essere quello che sani le sua ferite e ponga fine a’ sacchi di Lombardia, alle taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca da quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite. [6] Vedesi come la priega Iddio che li mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà et insolenzie barbare. [7] Vedesi ancora tutta pronta e disposta a seguire una bandiera, pur che ci sia uno che la pigli. [8] Né ci si vede al presente in quale lei possa più sperare che nella illustre Casa vostra, la quale con la sua fortuna e virtù, favorita da Dio e dalla Chiesa, della quale è ora principe, possa farsi capo di questa redemptione. [9] Il che non fia molto difficile, se Vi recherete innanzi le actioni e vita de’ sopra nominati; e benché quelli uomini sieno rari e maravigliosi, nondimeno furono uomini, et ebbe ciascuno di loro minore occasione che la presente: perché la impresa loro non fu più iusta di questa, né più facile, né fu Dio più amico loro che a Voi. [10] Qui è iustizia grande: iustum enim est bellum quibus necessarium et pia arma ubi nulla nisi in armis spes est. [11] Qui è disposizione grandissima: né può essere, dove è grande disposizione, grande difficultà, pure che quella pigli delli ordini di coloro che io ho preposti per mira. [12] Oltre a di questo, qui si veggono extraordinarii senza exemplo, condotti da Dio: el mare si è aperto; una nube Vi ha scorto il cammino; la pietra ha versato acque: qui è piovuto la manna; ogni cosa è concorsa nella Vostra grandezza[4]. [13] El rimanente dovete fare Voi: Dio non vuole fare ogni cosa, per non ci tòrre el libero arbitrio e parte di quella gloria che tocca a noi[5]» (sott. nostra).
Si nota la presenza della questione delle armi (di cui riparlerò nel §2): la redemptione, che appare qui per la prima volta, è chiaramente legata alla situazione contemporanea delle guerre d’Italia e l’orizzonte descritto da Machiavelli è quello della necessità di far guerra.
Finora appare chiaramente che il campo semantico della redenzione poteva trovarsi nel capitolo xxvi semplicemente perché vi si inseriva benissimo, stabilendo un richiamo a due tematiche importanti: la liberazione dalla servitù e l’aiuto divino per condurre le azioni necessarie. Ora mi sembra che si possa aggiungere un altro elemento, ed è la presenza del termine “redenzione” nelle prediche di Savonarola[6]. Bella forza, avrà sicuramente voglia di dire il lettore, il frate adoperava “redenzione” nelle prediche, c’è proprio da stupire! E devo quindi precisare un po’ quello che intendo dimostrare. Non parlo ovviamente dell’uso “religiosamente corretto” della parola (il Redentore nostro, appropinquat redemptio nostra…). Quest’uso è ovviamente presente nelle prediche e rinvia tra l’altro alla citazione frequente del passo del Vangelo di Luca, XXI, 28 («et levate capita vestra: quoniam appropinquat redemptio vestra»). Intendo sottolineare che in due serie di prediche legate a momenti di crisi intensa, le prediche sopra Ezechiele[7] e quelle sopra l’Esodo, l’idea che la redenzione è vicina è appunto legata in modo netto alla crisi che si sta svolgendo e alle “tribulazioni” che la crisi sta provocando. Eccone un esempio, tratto dalle prediche sopra l’Esodo: «Rallegratevi adunque tutti voi, buoni; e se siate tribulati e perseguitati, state allegri, e dite: Appropinquat redemptio nostra; cioè: “Quanto più siamo tribulati, tanto si appropinqua più la nostra redenzione”»[8].
Le prediche sopra l’Esodo sono pronunciate dal Frate in un momento di intense difficoltà per lui e i suoi seguaci, pochi mesi prima dell’assalto contro San Marco e del processo che seguirà, in un momento in cui le minacce del papa cominciano a fare effetto sulla maggioranza dei Fiorentini. Mi pare possibile paragonare il modo in cui il Frate spiega a chi lo ascolta che l’esistenza delle «tribulazioni» dimostra la certezza di una pronta redenzione e il modo in cui Machiavelli presenta la situazione presente dell’Italia. Infatti l’occasione descritta da Machiavelli potrebbe venire definita come la peggiore di tutte le situazioni possibili; paragonando le situazioni che hanno conosciuto Moisè, Ciro e Teseo con la situazione dell’Italia, egli scrive:
«[…] così al presente, volendo conoscere la virtù di uno spirito italiano, era necessario che la Italia si riducessi ne’ termini presenti, e che ella fussi più stiava che li Ebrei, più serva che’ Persi, più dispersa che gli Ateniesi: sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa, et avessi sopportato d’ogni sorte ruina» (Principe, xxvi 3).
Questa situazione, Machiavelli la presenta come necessaria, come un’occasione da non lasciare perdere «acciò che la Italia vegga dopo tanto tempo apparire uno suo redemptore». Nel Principe, cap. xxvi, come nelle prediche sopra Ezechiele e sopra l’Esodo, appare un legame forte, quasi necessario, tra una situazione cattiva (dal punto di vista politico e militare) e la speranza della redenzione. Questa similitudine tra la redenzione che Machiavelli lega a una «occasione» che si legge come la peggiore delle situazioni e il legame tra «tribulazioni» e redenzione nel Savonarola mi pare un indizio testuale da non trascurare. Non la posso presentare come una certezza assoluta perché la parola “redenzione” non appare nelle prediche che Machiavelli ha sentito personalmente e di cui parla nella sua famosa lettera a Ricciardo Becchi (9 marzo 1498) ma mi pare probabile che Machiavelli abbia preso l’idea del legame “situazione difficile”-“redenzione vicina” nelle prediche del Frate, così come, nelle prediche del Frate, aveva preso in prestito (e in questo caso esplicitamente) l’idea dei «peccati» responsabili della cattiva situazione militare italiana, nel capitolo xii, 9: «e chi diceva come n’erono cagione e peccati nostri, diceva il vero; ma non erano già quegli che credeva, ma questi che io ho narrati; e perché gli erano peccati di principi, ne hanno patito le pene ancora loro».
D’altronde, Machiavelli, anche se scrive all’amico Vettori, il 19 dicembre 1513, a proposito di un altro predicatore, «la predica io non la udi’, perché io non uso simili pratiche, ma la ho sentita recitare così da tutto Firenze», sa benissimo cosa dice il Frate… Oltre alla sua presenza ad alcune prediche sull’Esodo (presenza testimoniata dalla sua lettera a Becchi), i suoi scritti dimostrano che conosce e cita le tematiche ed i modi di dire ricorrenti del Frate: oltre ai «peccati», cita almeno «e’ savi del mondo»[9] e la frase «Pax, pax et non erit pax»[10]. Che l’abbia sentito di persona, oppure che l’abbia «sentita recitare così da tutto Firenze», mi pare dunque probabile che il legame testuale sia da fare anche per «redenzione».
L’Italia del capitolo xxvi, «sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa, et [che ha] sopportato d’ogni sorte ruina»[11] fa pensare all’Italia del capitolo xii, «corsa da Carlo, predata da Luigi, sforzata da Ferrando e vituperata da’ Svizzeri» e questo per colpa dei condottieri italiani «che infino alli nostri tempi hanno governato queste arme» dando favore alle «arme mercennarie» e alla cavalleria[12]. Non è un caso se si stabilisce un legame tra l’ultimo capitolo e il capitolo xii, il primo dei capitoli che tratta la questione delle armi: è da notare subito che gli errori politici e militari, commessi dai principi italiani, vengono chiamati «peccati» da Machiavelli. Quando commenta il modo con il quale il re di Francia Carlo viii ha potuto pigliare l’Italia «col gesso», senza incontrare la minima resistenza durante il «viaggio di Napoli» dell’autunno 1494, Machiavelli scrive: «e chi diceva come e’ n’erano cagione e’ peccati nostri, diceva il vero; ma non erano già quegli ch’e’ credeva, ma questi che io ho narrati; e perché gli erano peccati di principi, ne hanno patito le pene ancora loro» (Principe xii 9). Non c’è dubbio: egli fa riferimento alle prediche sopra Aggeo del novembre-dicembre 1494, durante le quali Girolamo Savonarola (appunto «chi diceva come e’ n’erano cagione e’ peccati nostri»), dichiarava quasi ogni giorno ai fiorentini che la guerra che si stava svolgendo si spiegava con i loro peccati e quelli degli italiani[13].
È da notare che Machiavelli adopera «peccati» esattamente nello stesso senso politico-militare nei Discorsi e nell’Arte della guerra:
«Ed infra i peccati de’ principi italiani, che hanno fatto Italia serva de’ forestieri, non ci è il maggiore che avere tenuto poco conto di questo ordine, ed avere volto tutta la sua cura alla milizia a cavallo. Il quale disordine è nato per la malignità de’ capi, e per la ignoranza di coloro che tenevano stato» (Discorsi, II xviii).
«Dico, pertanto, che quegli popoli, o regni, che istimeranno più la cavalleria che la fanteria, sempre fieno deboli ed esposti a ogni rovina, come si è veduta l’Italia ne’ tempi nostri; la quale è stata predata, rovinata e corsa da’ forestieri, non per altro peccato che per avere tenuta poca cura della milizia di piè, ed essersi ridotti i soldati suoi tutti a cavallo» (Arte della guerra, II 78).
Ora, come abbiamo mostrato per l’uso di «redemptione», anche per «peccati» si possono mettere in evidenza altri usi che si legano ad altre tematiche dei testi machiavelliani. È stato notato che, nel Principe, l’uso di peccato per indicare gli errori sulla questione delle armi poteva anche essere un richiamo petrarchesco, poiché è presente nella canzone Italia mia, dalla quale Machiavelli trae il “detto” finale del Principe[14].
In diversi luoghi dei Discorsi (I vii; I xxxi; I lviii; II xviii ; II xxiii ; II xxviii; III xxix; III xlix), «peccati» viene adoperato per parlare di azioni che vanno contro una legge e devono dunque essere castigate. Va messo in evidenza il legame con il passo di una predica sopra Aggeo di Savonarola nella quale il Frate fa riferimento a Sant’Agostino e a Tommaso:
«Dalla quale legge naturale è proceduto poi la legge civile e canonica; ed è tanto ferma quella legge eterna e tanto da esser obedita, che ogni peccato che si fa contro ad alcuna di queste leggi procedute da quella, come vuole santo Augustino, si dice esser contra la legge eterna; e però diffiniscano e’ sacri dottori el peccato in questo modo: Peccatum est dictum, vel factum, vel concupitum contra legem aeternam[15], perchè tutte le leggi da questa dependano…» (Aggeo, VI, p. 92).
Passo rapidamente perché non è un uso presente nel Principe, ma il legame con la tradizione religiosa e giuridica mi pare da sottolineare per la somiglianza con quello che ho sottolineato per gli usi di “redenzione”.
Aldilà dell’uso della terminologia religiosa e del riferimento (che probabilmente veniva avvertito dai lettori contemporanei e in cui vedo un uso cosciente dell’ironia come strumento argomentativo), l’analisi politico-militare è ben precisa. I peccati dei principi italiani consistono nella scelta di aver affidato la guerra a truppe e condottieri mercenari (condottieri che si affidavano alla cavalleria e non ai fanti). Le disfatte italiane non sono quindi un effetto della fortuna, bensì i risultati dei «peccati» commessi nel modo di far guerra: nel capitolo xxiv, quando vuole spiegare perché i principi d’Italia hanno perso il loro Stato, egli sottolinea che non devono accusare «la fortuna, ma la ignavia loro» (xxiv 8), cioè la pigrizia e, nel senso latino, la viltà; in altri termini, il peccato peggiore per un militare. La ragione delle loro sconfitte è dunque «uno comune difetto quanto alle arme» (Principe xxiv 5). Prende allora tutto il suo senso, nel momento in cui Machiavelli esorta a liberare l’Italia dai barbari, l’invocazione di un redentore d’Italia, cioè di un uomo capace di «redimere» l’Italia dai peccati dei principi, facendo scelte militari differenti. Machiavelli esprime in modo chiarissimo il compito di chi voglia assumere quel carico: «è necessario innanzi a tutte le altre cose, come vero fondamento d’ogni impresa, provedersi d’arme proprie, perché non si può avere né più fidi, né più veri, né migliori soldati» (xxvi 20). Questa definizione in universali non basta a Machiavelli; il capitolo definisce più precisamente cosa significhi «provedersi d’arme proprie» nel momento storico considerato e non a caso si tratta di ordinare una fanteria nuova, «la quale resista a’ cavalli e non abbia paura de’ fanti» (xxvi 25), di fondare «uno ordine terzo» che eviti le debolezze delle fanterie spagnole e svizzere:
«E benché la fanteria svizzera e spagnuola sia existimata terribile, nondimanco in ambedua è difetto per il quale potrebbe non solamente opporsi loro, ma confidare di superargli. Perché gli Spagnuoli non possono sostenere e cavagli, e li Svizzeri hanno ad avere paura de’ fanti quando gli riscontrino nel combattere obstinati come loro: donde si è veduto e vedrassi, per experienza, li Spagnuoli non potere sostenere una cavalleria franzese e li Svizzeri essere rovinati da una fanteria spagnuola»(xxvi 22-23).
Un “saggio” di quest’ultima ipotesi è stato dato, secondo Machiavelli, dalla sanguinosa battaglia di Ravenna, svoltasi l’11 aprile 1512, durante la quale i francesi di Gaston de Foix, i cui fanti erano tedeschi, ebbero la meglio sulle truppe della santa lega, la cui forza principale era formata da truppe spagnole. La fanteria spagnola riuscì a ritirarsi in ordine, e il capitano francese fu ammazzato durante una carica della cavalleria francese per tentare appunto di disordinare i fanti di Pedro Navarra. L’analisi che Machiavelli fa, dal punto di vista del confronto tra fanti tedeschi e fanti spagnoli dà per evidente la forza superiore di questi ultimi:
«E benché di questo ultimo non se ne sia visto intera experienza, tamen se ne è veduto uno saggio nella giornata di Ravenna, quando le fanterie spagnuole si affrontorno con le battaglie tedesche, le quali servano el medesimo ordine che ‘ Svizzeri: dove li Spagnuoli, con la agilità del corpo et aiuto delli loro brocchieri, erano entrati tra le picche loro sotto, e stavano sicuri ad offendergli sanza che ‘ Tedeschi vi avessino remedio; e se non fussi la cavalleria, che gli urtò, gli arebbono consumati tutti» (xxvi 24).
Lo svolgimento della battaglia di Ravenna sarà ripreso in termini simili in diversi luoghi dei Discorsi (II xvi 26-xvii 22) e dell’Arte della guerra (II 66), e anche Guicciardini, nella Storia d’Italia X xiii[16], darà una descrizione molto simile del combattimento tra le due fanterie. Bisogna però ricordare che nel Ritratto delle cose della Magna, § 50, Machiavelli parla della battaglia di Ravenna per dimostrare la bontà delle fanterie tedesche («se, nella giornata di Ravenna tra e’ Franzesi e’ Spagnuoli, e’ Franzesi non avessino avuto e’ lanzcheneche, arebbono perso la giornata»)[17]. Ciò che qui interessa è la conclusione che trae Machiavelli di questa analisi: «Puossi adunque, conosciuto il difetto dell’una e dell’altra di queste fanterie, ordinarne una di nuovo, la quale resista a’ cavalli e non abbia paura de’ fanti: il che lo farà la generazione delle arme e la variazione delli ordini (xxvi 25)». Per Machiavelli, il modello iniziale per la fanteria è indubbiamente quello, storico, degli svizzeri, ma l’insegnamento tratto dal confronto, sperimentato, della milizia alla tedesca con la moderna fanteria spagnola lo porta ad una certa evoluzione nella propria riflessione che ridà maggior vita al modello romano in una prospettiva tutta contemporanea e ben lungi dall’essere “antiquaria”: si tratta infatti di pensare l’ibridazione delle qualità delle fanterie settentrionali, iberiche e romane messa al servizio dell’auspicato risorgimento di una fanteria tutta italiana. E sarà quindi nell’Arte della guerra che Machiavelli spiegherà in termini militari cosa significano «la generazione delle arme e la variazione delli ordini».
Nel secondo libro dell’Arte della guerra, evocando di nuovo la battaglia di Ravenna, risponde molto precisamente alla questione della «generazione delle arme»:
«Ciascuno sa quanti fanti tedeschi morirono nella giornata di Ravenna; il che nacque dalle medesime cagioni: perché le fanterie spagnuole si accostarono al tiro della spada alle fanterie tedesche, e le arebbero consumate tutte, se da’ cavagli franzesi non fussero i fanti tedeschi stati soccorsi; nondimeno gli Spagnuoli, stretti insieme, si ridussero in luogo securo. Concludo, adunque, che una buona fanteria dee non solamente potere sostenere i cavagli, ma non avere paura de’ fanti; il che, come ho molte volte detto procede dall’armi e dall’ordine.
COSIMO Dite, pertanto, come voi l’armeresti.
FABRIZIO Prenderei delle armi romane e delle tedesche, e vorrei che la metà fussero armati come i Romani e l’altra metà come i Tedeschi. Perché, se in seimila fanti, come io vi dirò poco di poi, io avessi tremila fanti con gli scudi alla romana e dumila picche e mille scoppiettieri alla tedesca, mi basterebbono; perché io porrei le picche o nella fronte delle battaglie, o dove io temessi più de’ cavagli; e di quelli dello scudo e della spada mi servirei per fare spalle alle picche e per vincere la giornata, come io vi mostrerò. Tanto che io crederrei che una fanteria così ordinata superasse oggi ogni altra fanteria (II 66-71, sott. nostra)[18]».
Se la questione della «generazione delle arme» è posta con chiarezza e sviluppata lungo tutto il secondo libro, quella della «variazione delli ordini», benché meno ovvia da spiegare militarmente, è anch’essa presente in diversi luoghi del testo e uno di questi è molto vicino a quello che abbiamo appena citato, quando Fabrizio Colonna spiega appunto (riprendendo argomenti che abbiamo già letti nei Discorsi, II xviii 7-9) «quale ordine o quale virtù naturale fa che i fanti superano la cavalleria»:
«Sono più tardi a ubbidire, quando occorre variare l’ordine, che i fanti; perché, s’egli è bisogno o andando avanti tornare indietro, o tornando indietro andare avanti, o muoversi stando fermi, o andando fermarsi, sanza dubbio non lo possono così appunto fare i cavagli come i fanti» (Arte della guerra, II 88, sott. nostra).
Un altro passo è importante per capire il significato della «variazione delli ordini»; si tratta di uno scambio tra Luigi Alamanni e Fabrizio Colonna dopo la descrizione della battaglia modello del terzo libro; alla domanda di Luigi che vuole sapere se l’esercito si deve sempre disporre nello stesso modo quando si prepara a combattere («Useresti voi sempre questa forma di ordine…?»), Fabrizio risponde: «No, in alcun modo: perché voi avete a variare la forma dell’esercito secondo la qualità del sito e la qualità e quantità del nimico» (III 172-173, sott. nostra). Potrebbe anche trattarsi del modo in cui romani e greci rifacevano le loro righe durante la battaglia, modo descritto da Fabrizio, all’inizio del libro terzo, ma bisogna notare che in questo caso Machiavelli utilizza sistematicamente l’espressione «modo di (a) rifarsi» (III 18, 20, 21, 30) e mai «variazione» o «variare delli ordini». Tuttavia, e questo può forse indurre a prendere per buono anche quest’ultimo senso, troviamo un passo il cui parallelismo con quello del Principe, xxvi 25 è notevole, in cui Machiavelli spiega che, quando i romani ebbero a combattere contro le falange greche «sempre queste furono consumate da quelle, perché la generazione dell’armi, come io dissi dianzi, e questo modo di rifarsi, poté più che la solidità delle falangi» (iii 30).
Quelle repubbliche o quei principi che non hanno armi proprie perché hanno disarmato i loro popoli, devono assoldare stranieri. Nel Principe, Machiavelli dimostra «la infelicità» delle armi «mercennarie et auxiliarie» che «sono inutile e pericolose». Le armi ausiliarie «sono quando si chiama uno potente che con le sua arme ti venga a difendere […] Queste arme possono essere buone e utile per loro medesime, ma sono, per chi le chiama, quasi sempre dannose: perché, perdendo, rimani disfatto; vincendo, resti loro prigione (Principe, xiii 1-2). Insomma – spiega Machiavelli – «nelle mercennarie è più periculosa la ignavia, nelle ausiliarie la virtù» (xiii 9). L’ironia machiavelliana è efficace e pungente sia contro i capitani mercenari, che «vogliono bene essere tua soldati mentre che tu non fai guerra; ma, come la guerra viene, o fuggirsi o andarsene» (xii 7), che contro le truppe ausiliarie a proposito delle quali egli avverte che «colui adunque che vuole non potere vincere, si vaglia di queste arme» (xiii 7). Ma la polemica è rivolta innanzitutto contro le armi mercenarie, i condottieri e la milizia italiana: la formula sarcastica che evoca la storia recente della milizia italiana e dei suoi condottieri, – «e’l fine della loro virtù è stato che Italia è stata corsa da Carlo, predata da Luigi, sforzata da Ferrando e vituperata da’ Svizzeri» (xii 31) – riassume con la forza dell’immagine quello che tutti sapevano o avrebbero dovuto sapere: «ora la ruina di Italia non è causata da altro che per essersi per spazio di molti anni riposata tutta in sulle armi mercennarie» (xii 8).
Nello stesso capitolo xii, Machiavelli torna alle origini di questo stato di fatto e enuncia rapidamente l’analisi storica che secondo lui spiega la scelta delle truppe mercenarie:
«Avete adunque ad intendere come, tosto che in questi ultimi tempi lo Imperio cominciò ad essere ributtato di Italia e che il Papa nel temporale vi prese più reputazione, si divise la Italia in più stati: per che molte delle città grosse presono l’arme contro a’ loro nobili, – e’ quali prima, favoriti dallo Imperatore, le tenevano oppresse; – e la Chiesa le favoriva per darsi reputazione nel temporale; di molte altre e’ loro cittadini ne diventorno principi. Onde che, essendo venuta la Italia quasi che nelle mani della Chiesa e di qualche republica, ed essendo quelli preti e quelli altri cittadini usi a non conoscere arme, cominciorno a soldare forestieri.» (xii 28-29)
Questa spiegazione, che mette in evidenza il ruolo negativo del potere temporale della chiesa e della sua lotta contro l’impero, è ripresa nelle Istorie fiorentine (I xxx), con diverse precisazioni storiche (sul ruolo del papa Benedetto XII che «fece uno decreto che tutti i tiranni di Lombardia possedessero le terre che si avevano usurpate, con giusto titulo» [I xxx 1]). Il risultato è il «guasto mondo», il mondo in cui la virtù è spenta non per colpa di una lunga pace, bensì dalla «viltà» delle guerre, «come chiaramente si potrà cognoscere per quello che da noi sarà da il 1434 al ‘94 descritto dove si vedrà come alla fine si aperse di nuovo la via a’ barbari e riposesi la Italia nella servitù di quelli» (Istorie fiorentine, V i 11). La rovina d’Italia è dunque legata alla scelta di fare la guerra con le armi mercenarie e alla responsabilità specifica della chiesa in questo processo (come chiariscono anche Discorsi, I xii 17: «Abbiamo, adunque, con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obligo, di essere diventati sanza religione e cattivi: ma ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è la seconda cagione della rovina nostra. Questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa».)
Che Machiavelli abbia pensato proprio alla redemptio captivorum mentre scriveva che gli Italiani erano «diventati […] cattivi» per “merito” della chiesa, non oserei affermarlo… e si tratta da parte mia anche di una strizzatina d’occhio (quasi) finale! Aggiungo però che chi sta riflettendo sulla redenzione nell’uso machiavelliano (e sul modo in cui quest’uso si lega a una denuncia del ruolo negativo della Chiesa nella questione delle armi) ci pensa… (infatti, come dice un proverbio francese, «on ne prête qu’aux riches»!).
Riprendo, in sintesi, i punti essenziali delle ipotesi che ho presentato in questo saggio: l’operazione di Machiavelli consiste a utilizzare termini (peccati, redenzione) che facevano parte della lingua profetica «di quel gran Savonerola,/ el qual, afflato da virtù divina,/ vi tenne involti con la sua parola» (Decennale primo, v. 157-159). Chi vuole «farsi capo di questa redemptione», cioè della redenzione dell’Italia dalle «crudeltà et insolenzie barbare», deve «innanzi a tutte le altre cose, come vero fondamento d’ogni impresa, provedersi d’arme proprie». Il compito del redentore d’Italia è politico-militare e significa «provedersi d’arme proprie», mettere in funzione «l’ordine terzo» della fanteria e ciò significa preoccuparsi de «la generazione delle arme e (del)la variazione delli ordini». L’uso del campo semantico della redenzione ha quindi per funzione di staccare il discorso politico-militare dal discorso teologico, come era già stato fatto nel cap. xii dove i «peccati» non erano quelli a cui pensava Savonarola, ma i «peccati di principi», cioè «peccati» di ordine militare. Aggiungo ancora (e sarà l’ultimo punto) che quest’operazione è una riprova di quella che chiamerei l’ironia machiavelliana, cioè l’uso dell’umorismo sarcastico come arma politica, ironia che bisogna prendere in conto quando si leggono i testi machiavelliani[19].
[1] Antonio Gramsci aveva capito l’importanza di questa «chiusa» e messo in evidenza il suo legame con l’insieme dell’opuscolo: «Anche la chiusa del Principe è legata a questo carattere “mitico” del libro: dopo aver rappresentato il condottiero ideale, il Machiavelli con un passaggio di grande efficacia artistica, invoca il condottiero reale che storicamente lo impersoni: questa invocazione appassionata si riflette su tutto il libro conferendogli appunto il carattere drammatico» (quaderno 13, § <1>, Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, ed. V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p. 1555).
[2] Si nota anche che la prima invocazione – quella a pigliare l’Italia, Exhortatio ad capessendam Italiam (per, appunto, liberarla della sua schiavitù) – viene espressa con un verbo capessere che è adoperato in un contesto di guerra: bellum / pugnam capessere significa entrare in guerra, iniziare un combattimento. L’atto di ridare la libertà all’Italia è sin dal titolo legato all’ipotesi di un ruolo determinante delle armi.
[3] Ringrazio Diego Quaglioni di avermelo fatto notare.
[4] È stato notato che gli avvenimenti, presenti nell’Esodo, appaiono qui nell’ordine in cui vengono esposti in Salmi 77 (78).
[5] Si cita dall’edizione critica di Giorgio Inglese riprodotta in Machiavel, De Principatibus. Le Prince [texte italien de G. Inglese, traduction et appareil critique de J.-C. Zancarini et J.-L. Fournel, nouvelle édition], PUF, Quadrige, Paris 2014.
[6] Cfr. J.-L. Fournel – J.-C. Zancarini, voce Savonarola, Girolamo in Enciclopedia machiavelliana, G. Sasso & G. Inglese (dir.), Istituto per la Enciclopedia italianaTreccani, Roma, 3 vol., 2014 (in particolare per la bibliografia critica).
[7] Cfr. J.-C. Zancarini, Far la guerra con la pace nel cuore. La guerra nelle prediche e gli scritti di Girolamo Savonarola, in G.C. Garfagnini, Savonarola. Democrazia, tirannide, profezia, SISMEL, Edizioni del Galluzzo, Firenze, 1998.
[8] Esodo, predica IV (28 febbraio 1498), vol. I, p. 106. Altri luoghi delle prediche dove si verifica la presenza del legame “tribulazioni”-“redenzione”: Esodo, predica XVI (12 marzo 1498), vol. II, p. 116; Esodo, predica XVII, vol. II, p. 166; Esodo, predica XXII, vol. II, p. 318; Ezechiele, predica XXX, vol. II, p. 28 (2 marzo 1497); Ezechiele, predica XXXI, vol. II, p. 46 (3 marzo 1497). Si cita sempre dall’edizione nazionale delle opere di Girolamo Savonarola, Belardetti, Roma.
[9] Cfr. Discorsi, XXX xx: «le sue prediche sono piene di accuse de’ savi del mondo e d’invettive contro a loro…».
[10] Cfr. la lettera a Vettori, 26 agosto 1513: «In modo che, considerato queste qualità con le cose che di presente corrono, io credo al frate che diceva “Pax, pax, et non erit pax”».
[11] Principe XXVI, [3]: «così al presente, volendo conoscere la virtù di uno spirito italiano, era necessario che la Italia si riducessi ne’ termini presenti, e che ella fussi più stiava che li Ebrei, più serva che’ Persi, più dispersa che gli Ateniesi: sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa, et avessi sopportato d’ogni sorte ruina».
[12] Principe XII, [31]: «Dopo questi, vennono tutti li altri che infino alli nostri tempi hanno governato queste arme: e’l fine della loro virtù è stato che Italia è stata corsa da Carlo, predata da Luigi, sforzata da Ferrando e vituperata da’ Svizzeri».
[13] Valga per tutte questa citazione della predica del 1° novembre 1494: «Vox dicentis: — Clama; — una voce che dice: — Chiama; — o Florentia, propter peccata tua venient tibi adversa. O Firenze, o Firenze, o Firenze, per li tuoi peccati, per la tua sevizia, per la tua avarizia, per la tua lussuria, per la tua ambizione verranno ancora a te di molte traverse e di molti affanni». (Aggeo, I, p. 21)
[14] Cfr. Canzoniere, cxxviii, 80: «Né v’accorgete anchor per tante prove/ del bavarico inganno ch’alzando il dito colla morte scherza?/ Peggio è lo strazio, al mio parer, che ‘l danno;/ ma ‘l vostro sangue piove/ piú largamente, ch’altr’ira vi sferza./ Da la matina a terza/di voi pensate, et vederete come/ tien caro altrui che tien sé cosí vile./ Latin sangue gentile,/ sgombra da te queste dannose some;/ non far idolo un nome/ vano senza soggetto:/ ché ‘l furor de lassú, gente ritrosa,/ vincerne d’intellecto,/ peccato è nostro, et non natural cosa».
[15] Augustinus, Contra Faustum manichaeum, 22, 27, in CSEL 25, 621 (PL 42, 418); Thomas Aquinas, Summa theologiae, I-II, q. 71, a. 6: Ed. Leon. 7,8-9.
[16] F. Guicciardini, Storia d’Italia, ed. S. Seidel Menchi, Einaudi, Torino 1971, vol. II, pp. 1030-1041.
[17] Cfr. J.-L. Fournel – J.-C. Zancarini, voce Ravenna, battaglia di, in Enciclopedia machiavelliana, cit.
[18] Si nota che la finzione del dialogo riprende raccomandazioni logistiche già presenti nella Provisione del 1506 nella quale si chiedeva che vi fossero sempre nel Palazzo «almeno dumila petti di ferro, 500 scoppietti e 4000 lancie» (Provisione, in Opere, ed. C. Vivanti, Einaudi-Gallimard, Torino 1997, vol. I, p. 35 § 16). Si vede anche che le due questioni fondamentali per ordinare una buona fanteria procedono, esattamente come nel Principe, «dall’armi e dall’ordine».
[19] Cfr. J.-C. Zancarini, Ridere delli errori delli huomini. Politique et comique chez Machiavel, de la Mandragore au Prince, in « Cahiers de la Renaissance italienne » 5(2004), pp. 19-40.