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“Without money you shall be redeemed” (Is 52:3). Redemption in the Old Testament between theological metaphor and hybrid legal language
Most Old Testament texts dealing with redemption and ransom use legal language, even when God is the redeemer, although in this case the fact that God redeems without paying a ransom is emphasized. This essay reviews the terminology around both redemption and ransom, focusing on the verbs pdh and gʼl and their derivatives. It also considers the topic of expiation, expressed through the ransom kōfer and a particular usage of the verb kipper, involving blood offerings. Some notes on reconciliation and slave purchase complete the survey. In conclusion, we point out that these texts clearly reveal a theological interpretation of legal language, and highlight the fact that God redeems without ransom (whether paid by, or – in the case of expiation – to him); however, this new hermeneutics is also problematic, and even appears somewhat forced. It is therefore understandable that in later theological (and chiefly Christian) traditions we detect the – at least implicit – idea that a ransom is paid to, or even by, God, notwithstanding the heavy burden imposed by such an idea.
01 – Nell’affrontare un tema assai impegnativo quale è quello della “redenzione” occorre rilevare anzitutto che si può restare alquanto sorpresi nel constatare che in sede esegetica e biblico-teologica si insista fortemente sul fatto che nei testi biblici essa non si realizzi mediante una qualche forma di riscatto quando è operata da Dio. Tuttavia, si afferma nello stesso tempo che questo concetto si esprime con un linguaggio che appartiene alla sfera giuridica e quindi, per poter indicare un atto redentivo che può attuarsi anche in forme diverse, deve essere adattato allo scopo, nel senso anzitutto che l’elemento del riscatto, quando compare e anzi può costituire parte integrante del processo di liberazione, andrebbe eliminato o per lo meno trascurato.
02 – Se d’altra parte si considera globalmente il linguaggio giuridico che compare nei testi biblici che lo adottano, e quindi in primo luogo in quelli legali, si deve rilevare che esso non è mai assunto nella sua genuinità originaria, anche e soprattutto per il fatto che viene inserito in un contesto religioso. Resta pertanto difficile isolarlo nel suo genere autentico, e in particolare risulta praticamente impossibile stabilire sino a che punto se ne possa definire l’applicazione concreta in sede strettamente giuridica. Tuttavia, per quanto riguarda il suo adattamento alla sfera religiosa, è possibile rintracciare una qualche gradualità nel processo della sua adozione, delineando perciò un passaggio da accezioni puramente “profane” a significati teologici. È quanto possiamo fare appunto in questa sede, a proposito del concetto di redenzione. Per una maggiore chiarezza espositiva, ci limitiamo perciò a tracciare un percorso strettamente filologico, fondato su una rassegna del lessico corrispondente. La nostra sarà dunque semplicemente una raccolta sintetica di testi, così come sono già presentati negli strumenti lessicali o nei dizionari teologici comunemente usati, riprendendo perciò affermazioni note e panoramiche consuete. Organizzeremo soltanto questi dati secondo un ordine più consono alla tematica che vogliamo affrontare, aggiungendo osservazioni critiche utili a una sua migliore puntualizzazione. Solo al termine di questo itinerario illustrativo riassumeremo la problematica che ne deriva, con alcune riflessioni conclusive.
03 – Poiché non intendiamo occuparci direttamente dell’ampio tema della redenzione ma solo dell’elemento del riscatto che vi può essere implicito[1], esaminiamo anzitutto quelle forme di riscatto che gravitano attorno al verbo pdh (e le sue eventuali derivazioni sostantivali) e in seguito quelle che si esprimono con il verbo gʼl (e derivati). È questa la terminologia principale attraverso cui si presenta una redenzione che, almeno a prima vista, coinvolge anche una qualche forma di liberazione, e quindi può aprirsi a un’accezione teologica. Ma per affinità concettuale dobbiamo estendere lo sguardo anche a quell’ambito redentivo che può essere legato a una qualche espiazione, ed è opportuno pertanto considerare anche il sostantivo kōfer e il verbo kipper da cui deriva, aggiungendo qualche breve annotazione sulla cosiddetta sofferenza “espiatrice”. Per completare la panoramica, è opportuno soffermarsi infine su qualche accenno al tema della riconciliazione e dell’acquisto (di schiavi), ma come riflesso di una terminologia neotestamentaria (si tratta dei verbi ajlla/ssw e composti, e ajgora/zw).
Si parla anzitutto di un riscatto normale da schiavitù, per il quale tuttavia si usano ambedue i verbi sopra citati, pdh e gʼl. La normativa si incontra però in diversi contesti.
– Il riscatto ordinario è previsto in alcune norme specifiche: Es 21,8 (la schiava che non si vuole prendere in moglie può esser riscattata); 21,10s. (se non si vuole prendere in moglie la schiava, bisogna rifornirla di beni per il suo sostentamento; in caso contrario, se ne va libera senza riscatto); Lv 19,20-22 (indirettamente: se si ha un rapporto sessuale con una schiava promessa in sposa, ma non riscattata né affrancata, si paga un risarcimento e si offre un sacrificio di riparazione).
– Si prevede però un trattamento particolare per lo schiavo “ebreo”: Es 21,2 (nel contesto della legislazione sull’anno sabbatico[3], deve essere lasciato libero il settimo anno, senza riscatto); Dt 15,12 (lo stesso vale per l’”ebreo” e l’”ebrea” che si sono venduti per debiti).
– Collegata alla liberazione sabbatica è quella della legge del giubileo, espressa però dal verbo gʼl. Secondo questa normativa, gli schiavi stranieri possono essere comprati e lasciati in eredità (Lv 25,44-46); il “fratello”, ossia l’israelita, che si è venduto a un altro israelita per debiti diventa libero nell’anno del giubileo (25,39-43); se ci si è venduti per debiti a uno straniero si ha il diritto di riscatto da parte di un parente o da parte di se stessi (25,47-55). Nel contesto, si nota un evidente parallelo tra la liberazione dalla schiavitù e il riscatto della terra, la quale torna in possesso del suo proprietario nell’anno del giubileo (25,23-28), poiché “le terre non si potranno vendere per sempre” (v. 23)[4]. Ma proprio questo parallelo manifesta e accentua la dimensione “utopica” della normativa.
– La motivazione teologica di queste leggi consiste principalmente nel richiamo alla liberazione dalla schiavitù egiziana, sia per il settimo anno (Dt 15,15) sia per l’anno giubilare (Lv 25,42.55)[5]. È difficile tuttavia sapere se effettivamente e in che misura esse fossero applicate. Si cita di solito al riguardo Ger 34,8-16.17-22, dove si parla di un patto concluso dal re Sedecia con tutto il popolo di Gerusalemme, con cui ci si impegnava a liberare gli schiavi ebrei, ma l’accordo non è stato osservato, e vi è qui un richiamo esplicito alla liberazione al settimo anno (v. 14).
– Naturalmente la motivazione teologica va tenuta distinta dalla legislazione come tale e va spiegata in ambito proprio, poiché la normativa della liberazione, pur con pagamento di riscatto, di per sé è già contemplata sul piano strettamente giuridico. Basti accennare al codice di Hammurapi, dove si parla di liberazione dopo tre anni da una schiavitù contratta per debito (§ 117) e del riscatto di una schiava con figli, che il padrone era stato costretto a vendere (§ 119); anche il soldato può essere riscattato (§32) e altre norme si trovano infine ai §§ 118 e 278-281 (con un caso di riscatto senza pagamento in 280)[6].
– La concezione di fondo da cui è tratta questa normativa, quasi per sottrazione, è che i primogeniti, uomini e animali, appartengono a Dio, e quindi viene concessa la possibilità di riscatto in alcuni casi per gli animali, ossia l’asino (Es 13,13; 34,20) e l’animale impuro (Nm 18,15), e sempre per l’uomo (Es 13,1.12; 22,28; 34,19s.; Nm 18,15-18).
– Il riscatto dei primogeniti dell’uomo si effettua sostituendoli con i leviti: a ogni primogenito corrisponde un membro del gruppo dei leviti e per la parte eccedente si offrono 5 sicli a testa: così in Nm 3,39-51, dove i primogeniti censiti sono in numero di 22.273 mentre i leviti risultano soltanto 22.000.
– Anche in questo caso la motivazione teologica è legata all’uscita dall’Egitto ed è più specifica, formulata quasi come una legge del contrappasso alquanto artificiosa: come in quell’occasione, poiché il faraone si ostinava a non lasciar partire gli Israeliti, Dio ha ucciso ogni primogenito in terra d’Egitto, così in futuro gli Israeliti dovranno sacrificare a lui ogni primogenito, riscattando però quelli umani (Es 13,11-16, spec. 15); analogamente, Dio ha consacrato a sé ogni primogenito fra gli Israeliti, animale o uomo, il giorno in cui ha percosso tutti i primogeniti in terra d’Egitto (Nm 8,17).
Già abbiamo constatato dalla rassegna precedente che il verbo pdh, pur riferendosi a forme di liberazione di per sé collegabili alla sfera giuridica (almeno per quanto riguarda la schiavitù) tende a sovraccaricarsi di un’accezione teologica, ma quest’ultima si rende manifesta in altri casi, per cui il verbo o i suoi derivati vengono per conseguenza ad assumere anche una connotazione generica di liberazione da situazioni esistenziali precarie. Distinguiamo in proposito alcuni ambiti di applicazione.
– Nel Deuteronomio il verbo viene usato più volte per indicare la liberazione o il riscatto dalla schiavitù egiziana: 7,8; 9,26; 13,6; 15,15; 21,8; 24,18[7].
– Questo riferimento consente perciò di porre in correlazione il primo con il secondo esodo, contrassegnati dalla stessa terminologia (pedûyê YHWH): Is 35,10; 51,11.
– Si giunge così a una liberazione in senso ampio, per esempio dalla morte (Os 13,14; Gb 5,20; 33,28 e cfr. v. 24; si veda anche Sal 49,16; Sir [ebr.] 51,2; Pr 11,4 con soggetto la giustizia). Significativo è infine Sal 49,8s.: “L’uomo non può riscattare (lōʼ-fādōh yifdeh) se stesso, né pagare a Dio il proprio prezzo (kofrô). Troppo caro sarebbe il prezzo (pidyôn) di una vita, non sarà mai sufficiente”.
– Resta controverso il caso di Es 8,19, dove Dio parla al faraone per bocca di Mosè, dicendo: “Farò distinzione fra il mio popolo e il tuo popolo”. L’ebraico per “distinzione” usa pedût ma in base al greco diastolh/, l’apparato critico della Biblia Hebraica Stuttgartensia propone pelût. Tuttavia, poiché anche il greco diastolh/ può significare talvolta “pagamento” e la preposizione ebraica bên (“fra”) viene usata nelle transazioni, si vorrebbe vedere anche in questo testo una liberazione collettiva. Ma questa lettura è difficilmente sostenibile[8].
Oltre a dover osservare che il verbo gāʼal e il suo participio gōʼēl trovano un uso assai frequente nella Bibbia ebraica, ci limitiamo qui a segnalare i loro diversi settori di applicazione, lasciando per ultimo quello teologico.
– Si prescrive anzitutto un riscatto della proprietà fondiaria prima dello scadere dell’anno del giubileo, da parte di un parente o anche da parte di se stessi se si hanno mezzi sufficienti (Lv 25,25-28).
– Anche la casa che si possiede in città può essere riscattata entro un anno (25,29s.), ma ciò non vale per le case che si trovano nei villaggi (v. 31).
– Ai leviti però è riservato un diritto perenne di riscatto sia per le loro città che per le case in esse collocate (25,32-34).
Sul piano narrativo il riscatto di tipo gʼl trova una esemplificazione concreta nel libro di Rut, dove però l’applicazione si presenta problematica. Rileviamo solo due elementi.
– Colui che ha il diritto di riscatto è Booz, un parente (Rt 2,1)[10], oppure un innominato parente ancora più stretto (3,12).
– Al riscatto di una proprietà (“campo”) si unisce il riscatto di una persona, Rut appunto, per mantenere il nome del defunto legato all’eredità (4,10): in altre parole, alla geʼullāh si associa il levirato (Dt 25,5-10), ma questa combinazione non è attestata altrove[11].
Ciò che si vota al Signore (persone, animali e cose) può essere riscattato: la normativa per i singoli casi è esposta in Lv 27 (si noti, tra l’altro, anche il primogenito di animale impuro, v. 27). Tuttavia la persona votata allo sterminio non può essere riscattata (v. 29, con uso del verbo pdh).
Il cosiddetto vendicatore del sangue dovrebbe riscattare il sangue versato mediante omicidio. Ma la legislazione intende proteggere contro di lui l’omicida involontario, prevedendo città di asilo entro cui quest’ultimo può rifugiarsi: si veda Nm 35,9-28 (spec. vv. 12.19.21.24s.27 e anche v. 31 per la proibizione del riscatto dell’omicida volontario e v. 32 per il divieto di riscatto dell’omicida involontario che intendesse fuggire dalla città di asilo); Dt 19,1-13 (vv. 6.12); Gs 20,1-9 (vv. 5.9). In 2Sam 14,11 si prospetta un’applicazione concreta della norma, ma in deroga (il vendicatore del sangue non deve uccidere il figlio della vedova che supplica Davide).
Se ci si è resi colpevoli verso altri, nel senso che si sono sottratti beni altrui, vi è l’obbligo di restituzione, con l’aggiunta di un quinto del loro valore; se poi non vi è un parente stretto a cui dare il risarcimento, la restituzione va fatta al Signore, ossia al sacerdote, aggiungendo un ariete per l’offerta di espiazione (Nm 5,5-8).
Segnaliamo ancora alcuni usi singolari del verbo gʼl, che tendono già verso un uso traslato: Pr 23,11 (il vendicatore degli orfani di cui si è invaso il campo); Sal 72,14 (il re messianico riscatti dalla violenza e dal sopruso la vita dei miseri); Gb 3,5 (il giorno della nascita di Giobbe sia rivendicato dalla tenebra e dall’ombra di morte).
Già gli usi profani del verbo, nella loro diversificazione, rendono difficile una sua resa precisa nei singoli casi[12], e la situazione è ancora più complessa sul piano teologico, per il quale possiamo sintetizzare la presenza del verbo e dei suoi derivati nei punti seguenti.
– Si trova usato spesso in riferimento all’esodo e alla liberazione dalla schiavitù egiziana: Es 6,6 (// nṣl hifil “liberare”); 15,13 (cfr. v. 16 qānāh “acquistare”); Sal 74,2 (//qānāh); 77,16; 78,35; 106,10 (// yšʻ hifil “salvare”); Is 51,10 (part. geʼûlîm e al v. 11 nuovo esodo con pedûyê YHWH)
– Per analogia, o meglio per conseguenza, risulta spontaneo il riferimento contestuale a un nuovo esodo, dove la liberazione originaria dalla schiavitù egiziana assume la connotazione di un “ritorno”, con implicazioni significative sul piano della rivendicazione della terra, un tratto che resterà essenziale nella storia dell’ebraismo. Com’è noto, questa nuova configurazione del rapporto si accentra nei testi del Deuteroisaia: Is 43,1; 44,22s.; 48,20; 52,3.9; 62,12 (part. geʼûlê YHWH) e anche 35,9.
– Pertanto il participio gōʼēl diviene facilmente un attributo di YHWH, per la funzione che esercita nei confronti di Israele (assieme ad altre sue qualifiche, tra cui soprattutto quella di essere il qādôš, “santo” di Israele): Is 41,14; 43,14; 44,6.24; 47,4; 48,17; 49,7.26; 54,5.8; 59,20; 60,16; 63,16.
– Un elemento fondamentale che caratterizza questa applicazione traslata è l’assenza di un pagamento o di un onere economico. È pur vero che YHWH, in qualità di “salvatore” e santo” , una sola volta afferma di dare in riscatto per Israele altre terre o nazioni (“Io do l’Egitto come prezzo per il tuo riscatto [kofrekā], l’Etiopia e Seba al tuo posto”, Is 43,3, dove tuttavia non compare gʼl), ma altrove la gratuità viene espressamente sottolineata: così in Is 45,13: (“Egli [= Ciro] ricostruirà la mia città e rimanderà i miei deportati, non per denaro e non per regali [lōʼ bimḥîr welōʼ bešōḥad]”, anche qui senza gʼl), e soprattutto in Is 52,3 (“Per nulla foste venduti [ḥinnām nikmartem] e sarete riscattati senza denaro [welōʼ bekesef tiggāʼēlû]”). Cfr. anche Is 50,1s.
– Ampliando l’accezione teologica, la liberazione di tipo gʼl può divenire generica (malattia, violenza, vita in pericolo): Gen 48,16 (il soggetto è il malʼāk, ma al v. 15 Dio); Mi 4,10 (//nṣl nifal, Sion liberata); Os 13,14 (morte); Lam 3,58; Sal 19,15 (gōʼēl); 69,19; 72,14 (v. 13 yšʻ hifil); 103,4 (fossa/morte); 107,2 (2b, in 2a geʼûlê YHWH).
Gb 19,25 costituisce un caso esegetico particolare: “Io so che il mio redentore (gōʼălî) è vivo e che, ultimo, si erigerà sulla polvere”. Si discute se il redentore sia Dio oppure un personaggio diverso da lui, che esercita questa funzione: forse il “testimone” (ʻēd) di 16,19 o l’”arbitro” (môkîaḥ) di 9,33 o ancora il “mediatore” (mēlîṣ) di 33,23[13].
Talvolta gʼl è usato in parallelo con pdh, per cui i due verbi in pratica si equivalgono: Os 13,14; Is 51,10s. // 35,9s. (nuovo esodo); Ger 31,11; Sal 69,19. Tuttavia è opportuno aggiungere qualche considerazione sul loro significato più specifico, per sottolineare maggiormente il loro rilievo teologico. Si ritiene talvolta che pdh si ambientasse in origine nel diritto commerciale e quindi appartenesse alla sfera giuridica, e avrebbe ampliato poi il suo significato in sede teologica, e ci si richiama anche al riguardo all’arabo fadā (“riscattare pagando”) e all’etiopico pdyt (“riscatto, pagamento”)[14]. Ma è difficile sostenere questa tesi[15]. Del resto il verbo accadico padû, che si cita per provare che il significato originario si sarebbe perduto, può essere applicato a campi diversi, tra cui anche quello giuridico, e ciò è ancora più evidente per l’accadico paṭāru, evocato anch’esso in questo dibattito: lo si usa per cose comuni, per rapporti interpersonali (per definire obblighi) e anche sul piano religioso (con soggetto gli dei) e può persino significare “perdonare (un peccato)”; anche qui, il caso della schiavitù costituisce solo uno dei settori della sua applicazione (come ad esempio nel codice di Hammurapi §§ 32, 119 e 281)[16]. L’uso veterotestamentario di pdh per settori diversi conferma quindi anche sul piano comparativo che non è possibile separare sempre l’ambito puramente profano da quello religioso[17]. A sua volta, gʼl viene usato in senso più ristretto, cioè in ambito familiare, e sembra supporre un legame che si intende ripristinare: se ciò dal lato profano può avvenire con pagamento di riscatto, sul piano teologico Dio libera senza di esso; tuttavia bisogna osservare che questa applicazione traslata potrebbe anche significare che egli è in qualche modo obbligato a intervenire, e infatti quando si vuole trovare una qualche spiegazione dell’intervento liberatore dalla schiavitù egiziana la si riscontra nel fatto che egli aveva già reso suoi familiari i patriarchi, soprattutto Abramo. Il diritto familiare resta vincolante, pur traducendosi in liberazione gratuita. Si può tutt’al più aggiungere che con gʼl si pone in rilievo il soggetto operante mentre con pdh si accentua maggiormente l’azione, compiuta mediante un intervento che non suppone alcun legame precedente tra le due parti; se ciò è vero, allora il riscatto dei primogeniti andrebbe inteso come una concessione che Dio fa agli uomini[18]: se questi infatti ne avessero diritto, in quanto si supporrebbe anche in questo caso un ambito familiare, si userebbe gʼl, mentre di fatto questa normativa viene formulata con pdh.
La versione greca della LXX rende spesso (ma non esclusivamente) sia pdh che gʼl (e derivati) con una terminologia che fa capo al sostantivo lu/tron, cui si collegano lutrouvn, lutrwth/ς e lu/trwsiς, e ciò avviene sia per i testi che contemplano un riscatto/liberazione in senso profano sia per quelli dove si è passati a un significato teologico. Ora, nella grecità classica questa terminologia comporta il versamento di un riscatto (e lu/tron ne indica il prezzo), ma l’uso biblico là dove esso non è previsto ha fatto assumere al gruppo lessicale un significato diverso, che è quello che si riscontra nel Nuovo Testamento, ampliandosi anche nelle sue componenti (ajpolu/trwsiς, che si trova in Lc 21,28 e nell’epistolario paolino, nella LXX compare solo in Dn 4,34 ma non ha corrispondente in ebraico). Un’apparente eccezione, che però è conforme al significato più preciso dell’originale, è la resa di gōʼēl haddām (il “vendicatore del sangue”) con il part. ajjgcisteu/wn o il sost. ajgcisteuς/ajgcisteuth/ς (e per il verbo gʼl in Rut con il verbo ajgcisteu/w), con cui si indica appunto colui che esercita il diritto del parente più vicino, il parente stretto. Non possiamo soffermarci ulteriormente sul valore semantico innovativo che è racchiuso in questo comportamento della LXX: è sufficiente rilevare come esso sia coerente con la l’accezione teologica dei due verbi che abbiamo registrato.
Se sembra abbastanza facile constatare come in un processo di liberazione possa essere eliminato il pagamento di un riscatto a livello teologico, quando si tratta di risarcire un danno o di rimuovere una colpa il problema diviene più complesso. Si entra qui nel campo dell’espiazione e, dal lato religioso, in un ambito cultuale e sacrificale che prescrive spesso l’uso del sangue. In coerenza con il procedimento filologico che abbiamo scelto di seguire, cerchiamo anche qui di indicare il passaggio da un livello all’altro tramite una rassegna della terminologia adottata in questo campo, che si concentra sulla radice kpr, da cui è tratto il sostantivo kōfer (“prezzo del riscatto”) e il verbo kipper (“risarcire” ed “espiare”, usato quasi sempre al piel)[19].
Il termine kōfer non ha significato cultuale e indica una transazione con cui si ripara qualche danno e colui che l’ha commesso si riconcilia con il debitore, che viene così appagato, sul piano materiale e anche morale (cessa ad esempio dalla sua ira). Nell’uso concreto del termine si suppone il versamento di un riscatto, ovviamente non sempre in denaro. Possiamo documentarlo in maniera esauriente con una rassegna completa dei testi, in tutto una dozzina.
Es 21,30: il proprietario del bue che era solito cozzare con le corna e provoca la morte, deve essere messo a morte egli stesso (v. 29); “se invece gli viene imposto un risarcimento (kōfer), pagherà il riscatto (pidyôn) della propria vita, secondo quanto gli verrà imposto”.
Es 30,11: nel deserto, “all’atto del censimento ciascuno di essi (= gli Israeliti) pagherà al Signore il riscatto della sua vita (kōfer nafšô), perché non li colpisca un flagello in occasione del loro censimento”[20].
Nm 35,31s.: “Non accetterete prezzo di riscatto (kōfer) per la vita di un omicida, reo di morte, perché dovrà essere messo a morte. Non accetterete prezzo di riscatto (kōfer) che permetta all’omicida di fuggire dalla sua città di asilo”. Già abbiamo incontrato questo testo a proposito del “vendicatore del sangue” (vedi sopra, 2.4).
Gb 33,23s. (parole di Eliu): “Ma se vi è un angelo sopra di lui, un mediatore solo fra mille, che mostri all’uomo il suo dovere, che abbia pietà di lui e implori: ‘Scampalo dallo scendere nella fossa, io gli ho trovato un riscatto (kōfer)’”.
Pr 6,35: del marito di una donna adultera si dice che “non accetterà compenso alcuno (kōfer)”.
Pr 13,8: “Riscatto (kōfer) della vita d’un uomo è la sua ricchezza”.
Pr 21,18: “Il malvagio serve da riscatto (kōfer) per il giusto e il perfido per gli uomini retti”.
Altre volte il compenso non è puro risarcimento ma diventa piuttosto un prezzo di corruzione. Così almeno nei tre passi seguenti.
1Sam 12,3: Samuele rivendica il proprio operato di fronte al popolo dicendo, tra l’altro: “Da chi ho accettato un regalo (kōfer) per chiudere gli occhi a suo riguardo?”. Si intende evidentemente qui un regalo di corruzione o subornazione, e queste parole di Samuele sono rievocate anche in Sir 46,19 (ebr.), dove ricompare lo stesso termine kōfer.
Am 5,12: “Essi (generico, ma cfr. “la casa d’Israele” al v. 1) sono ostili verso il giusto, prendono compensi illeciti (kōfer)”.
Gb 36,18 (parole di Eliu a Giobbe): “Fa’ che l’ira non ti spinga allo scherno, e che il prezzo eccessivo del riscatto (kōfer) non ti faccia deviare”. Il riscatto eccessivo potrebbe essere inteso anche come una sofferenza intensa ma più probabilmente si tratta anche qui di denaro di corruzione.
Infine, dobbiamo collocare in questo elenco anche Sal 49,8 e Is 43,3, che abbiamo già incontrato rispettivamente parlando di pdh (1.3) e del riscatto teologico senza denaro (2.7). Nel primo, l’impossibilità di pagare a Dio il proprio riscatto conferma l’accezione economica del termine, per negazione, e nel secondo il valore economico è trasferito al valore di una terra o nazione.
Si tende a speculare sul significato e soprattutto sugli effetti delle azioni descritte con il verbo kipper ricorrendo a paralleli linguistici che potrebbero essere determinanti per intendere l’esito dell’azione in ambito teologico. A seconda che il verbo debba connettersi con l’arabo kafara (“coprire) o con l’accadico kapāru (nell’intensivo kuppuru, “cancellare”) si otterrebbe una rimozione fittizia o reale del debito o della colpa, sollevando così un enorme problema sul piano della giustificazione. È preferibile invece considerare da vicino l’uso del verbo nel suo contesto veterotestamentario[21] e affrontare le questioni che esso solleva in connessione con gli elementi che lo accompagnano, tra cui il versamento del sangue.
Nell’uso non religioso del verbo il pagamento compensatorio può essere indicato espressamente o essere implicito, senza alcuna difficoltà: così Giacobbe placa l’ira del fratello con un dono (Gen 32,21), Davide è intenzionato a risarcire i Gabaoniti e lo fa a caro prezzo, consegnando loro sette membri del casato di Saul perché siano impiccati (2Sam 21,3 e cfr. vv. 1-9), più in generale Isaia prevede per Babilonia una calamità che essa non potrà evitare (con qualche mezzo riparatore, Is 47,11) e il saggio è in grado di placare l’ira del re, anche se non si specifica come (Pr 16,14).
Quando l’azione riparatrice coinvolge Dio, si constata che l’espiazione non è intesa come punizione da parte sua e neppure come una sorta di autoassoluzione da parte umana, quasi come una redenzione autonoma: si tratta in qualche modo di un atto salvifico che ristabilisce un rapporto compromesso, eliminando così una tensione che si era venuta a creare tramite una sorta di defezione. Questo procedimento, descritto in termini piuttosto generici, va illustrato riunendo assieme diversi elementi, che ruotano attorno al verbo kipper.
Anzitutto, Dio non è mai oggetto dell’azione indicata con kipper al piel e in diversi casi ne rappresenta il soggetto; il verbo pertanto viene a significare sostanzialmente “perdonare”, pur con diverse sfumature. Così avviene in numerosi testi, nei quali va notata la resa diversificata del verbo: Es 32,30 (Mosè, soggetto parlante, vuole “ottenere perdono” da Dio per il popolo); Dt 21,8 (gli anziani pregano perché Dio “liberi dalla colpa” il popolo Israele che egli ha redento [pdh]); 32,43 (Dio “purificherà” la terra e il popolo); Ger 18,23 (Dio non deve “lasciare impunita” l’iniquità dei cospiratori contro Geremia); Ez 16,63 (Dio stabilirà nuovamente un’alleanza con Gerusalemme, dopo aver “perdonato” quello che essa ha fatto); Sal 65,4 (Dio “perdona” i nostri delitti); 78,38 (Dio molte volte “perdonava” la colpa, trattenendo la sua ira); 79,9 (nel lamento collettivo si invoca Dio perché liberi gli oranti e “perdoni” i peccati); Dn 9,24 (sono fissate settanta settimane per “espiare” l’iniquità); 2Cr 30,18 (Ezechia prega Dio perché “liberi” dalla colpa chi è disposto a cercarlo, anche se ha mangiato la Pasqua senza la purificazione prescritta). A questo gruppo di testi si può collegare anche l’uso del verbo al passivo pual, con un significato che oscilla tra “perdonare” ed “espiare: Is 6,7 (il peccato di Isaia è “espiato”); 22,14 (il peccato dei Gerosolimitani non sarà “espiato” finché non saranno morti); 28,18 (sarà “annullata” l’alleanza conclusa con la morte); Pr 16,6 (con la bontà e la fedeltà si “espia” la colpa); lo stesso vale per l’hitpael di 1Sam 3,14 (la colpa della casa di Eli non sarà mai “espiata”). Nella preghiera di Dt 21,8, citato sopra, si invoca ancora che sangue innocente non sia “imputato” al popolo Israele (con un raro passivo nitpael).
Di solito la critica storico-letteraria attribuisce i testi che parlano di espiazione alla scuola sacerdotale, con qualche eccezione, ma ai fini della nostra esposizione possiamo prescindere da simili classificazioni e ci limitiamo a rilevare la struttura sintattica della frase con cui si formula l’esecuzione del sacrificio espiatorio: in genere il soggetto agente è il sacerdote, mentre l’oggetto a cui l’atto è diretto, cioè colui a cui il sacrificio è finalizzato, è retto da una preposizione (ʻal, talvolta doppio[22], le, baʻad, be, ʼet), e ciò da cui si è liberati è retto da min. La frase classica si trova spesso in Lv 4-5, quando si parla del sacrificio per il peccato (ḥaṭṭāʼt) e del sacrificio di riparazione (ʼāšām), e suona così: “Il sacerdote compirà per lui il rito espiatorio (wekipper ʻālāyw) e gli sarà perdonato” (cfr. Lv 4,31 e i vv. 26.35, e 5,6.10.13.18.26). Il passivo “gli sarà perdonato” (wenislaḥ lô) è evidentemente “teologico”, volendo evitare di nominare Dio espressamente.
Quando ciò da cui si è liberati è una realtà concreta, il rito espiatorio equivale a una purificazione: dalla lebbra (Lv 14,18.20), dalla gonorrea (Lv 15,15). Ma è chiaro che soprattutto quando l’espiazione è effettuata direttamente su un oggetto o un luogo destinato alla sacralità, essa è sinonimo di purificazione, e i due atti, pur distinti da verbi diversi, sono intesi unitariamente. L’esempio più evidente è l’altare del nuovo tempio in Ez 43,20.26, mentre in 45,20 kipper indica da solo la purificazione del tempio stesso (pur indicando ancora, nel regime del nuovo tempio, la normale espiazione con i relativi sacrifici: 45,15.17). Tuttavia, la connessione semantica tra “espiare” e “purificare”, insita in kipper, non permette di distinguere sempre tra i due significati nell’uso del verbo, e vi è anche chi la vede presente ovunque[23].
All’animale che viene ucciso per effettuare il rito di espiazione viene posta la mano sulla testa, da parte di colui che ha commesso la colpa che va eliminata: ad esempio in Lv 4 possono essere il sacerdote (v. 4), gli anziani (v. 15), un capo (v. 24), colui che ha peccato per inavvertenza (v. 29). Questo gesto non significa che si trasferisce la propria colpa sull’animale, con trasmissione automatica o magica, ma si tratta di una sorta di delega conferita all’animale. Il sangue di quest’ultimo viene offerto perché a questo scopo l’ha dato Dio stesso. È ciò che avviene, su un piano collettivo, nel giorno dell’espiazione (yôm kippūr), descritto in Lv 16: il sangue del giovenco del sommo sacerdote e quello del capro del popolo viene asperso sul propiziatorio (vv. 11-15) e sui corni dell’altare (vv. 18s.); un altro capro, su cui Aronne ha imposto le mani e ha confessato i peccati degli Israeliti, viene poi inviato nel deserto (vv. 20-22): con questo rito “apotropaico” si allontana il peccato, tramite l’animale (che in questo caso però non viene ucciso)[24].
Il sangue dell’animale elimina dunque la colpa. La spiegazione sintetica di questa sua funzione è data in Lv 17,11: “Poiché la vita della carne è nel sangue. Perciò vi ho concesso di porlo sull’altare in espiazione per le vostre vite (lekapper ʻal-nasfšōtêkem); poiché il sangue espia in quanto è la vita (kî haddām hûʼ bannefeš yekappēr)”. Può darsi che in queste parole risuoni ancora un significato propriamente espiatorio, forse più antico, ma qui non bisogna intendere che si voglia restituire la vita a Dio, poiché in tal caso non vi sarebbe stato bisogno di un rito di espiazione[25]. Inoltre, il sangue non agisce in sostituzione della vita dell’uomo; l’espressione ebraica con cui si conclude il v. 17 (bannefeš yekappēr) va intesa infatti nel senso che il sangue espia “in quanto è vita”, conferendo un significato ben preciso a bannefeš[26] che escluda un’interpretazione sostitutiva[27]. È la traduzione greca che rendendo con ἀντὶ τῆς ψυχῆς ejxila/setai può aver introdotto questa diversa interpretazione (“espierà al posto della vita”), che è quella comunemente attribuita altrove al sacrificio espiatorio (ad esempio nel mondo greco)[28].
A tutto il complesso del sacrificio espiatorio veterotestamentario si sono cercate varie spiegazioni, che tentano di sottolineare come esso non supponga un pagamento o una sostituzione, cioè un riscatto compensativo, almeno direttamente, e le posizioni degli studiosi possono essere ricondotte a tre linee essenziali[29].
– L’espiazione è un affrancamento mediante sostituzione, ad esempio di un animale al posto dell’uomo, ma va assimilata a una purificazione rituale che concerne uno spazio, come quella effettuata nel tempio (Jacob Milgrom)[30].
– L’espiazione operata mediante l’animale è effettivamente un sacrificio o un riscatto, e il peccatore si identifica con l’animale, ma tutto ciò ha valore simbolico, in quanto viene a significare la donazione che il peccatore fa di se stesso a Dio (Bernd Janowski)[31].
– L’espiazione si fonda sulla disponibilità divina alla riconciliazione: Dio non solo rinuncia alla pena ma rende possibile la ricomposizione della frattura con l’uomo offrendo egli stesso il mezzo con cui l’uomo effettua la sua offerta espiatoria; il sangue quindi di per sé non purifica ma è solo segno di riconciliazione (Adrian Schenker)[32].
Restano tuttavia alcune difficoltà. Nell’esporre i vari casi in cui è prevista un’espiazione, i testi biblici non sembrano eliminare completamente quegli elementi che dovrebbero evidenziare il riscatto gratuito e privo di sostituzione.
– La compensazione è richiesta ancora in diverse occasioni: Lv 5,16 (risarcimento del danno arrecato al santuario, calcolato in denaro con l’aggiunta di un quinto, e rito espiatorio con l’ariete portato dal colpevole in sostituzione del denaro); Nm 5,7s. (il colpevole restituisce quanto ha sottratto con l’aggiunta di un quinto, con rito di espiazione); Nm 31,51 (offerta di una parte del bottino di guerra per il rito espiatorio); anche Es 30,15s. (il denaro prelevato con il censimento è “a riscatto delle vostre vite”: kesef hakkippūrîm).
– Pur essendo abbastanza chiaro e condivisibile quanto abbiamo detto poco sopra sul valore del sangue e l’uso dell’animale, resta da chiedersi se effettivamente la concezione di una sostituzione resti superata o abolita: se lo si può affermare in un certo senso, va notato anche che il linguaggio non perde i connotati dell’analogia da cui è tratto[33].
Nella maggior parte dei casi kpr al piel è reso dalla LXX con ejxila/skomai. Anche per questa scelta terminologica si fa notare che nella grecità il verbo base iJla/skomai significa “rendere benevolo” e ha per oggetto una divinità o anche un defunto. Ma nella LXX si opera una trasposizione, in quanto il verbo, con il suo composto ejxila/skomai, viene ad assumere il senso di “purificare” ed “espiare” e non regge più un accusativo di persona ma ha come oggetto, a cui è rivolto, una cosa (o ancora una persona, in quanto purificata) oppure una colpa. Anzi, nell’uso del verbo si può notare addirittura una trasposizione dall’ambito cultuale a quello etico, in quanto l’”espiazione dei peccati” è operata sul piano individuale da chi “onora il padre” (Sir 3,3) e persino su quello impersonale dalla ṣedāqāh, reso in greco (secondo una sua corretta accezione semantica) con ejlehmosu/nh, che corrisponde al concreto “elemosina” (così in Sir 3,30, dove il verbo greco sta per l’ebraico kpr al piel)[34]. Ci si chiede inoltre se questa evoluzione semantica[35] fosse già iniziata prima della LXX, in quanto il placare gli dei poteva comportare anche la purificazione della persona e l’espiazione della colpa: i due effetti, di cui il secondo poteva dapprima considerarsi solo collaterale, si sarebbero poi fusi in un significato ampliato del verbo[36]. Si tratta però solo di ipotesi non comprovata. La trasformazione nell’uso e nel significato del verbo è certo rilevante e rende possibile soprattutto la sua adozione nella teologia neotestamentaria della “redenzione”: in fondo, essa si risolve in un capovolgimento di prospettiva, per cui non è più l’uomo che cerca di influire sulla divinità ma viceversa è quest’ultima che agisce a beneficio dell’uomo[37].
Resta parò ancora da considerare l’aspetto più soggettivo dell’azione espiatoria nei riguardi della divinità, al di là della ritualità oggettiva: è questa infatti la dimensione più impegnativa e più costosa, con forte impatto psicologico. Parliamo cioè della sofferenza umana che, nella concezione ordinaria dell’espiazione, verrebbe richiesta dalla divinità stessa per placare la sua ira. Se però espiare viene a significare perdono gratuito, senza offerta sostitutiva o compensativa ad opera di una controparte colpevole, anche la sofferenza dovrebbe restare esclusa dalla prassi riparatrice. Ed è questa infatti la conseguenza della interpretazione veterotestamentaria che si viene a dedurre dai testi.
Tuttavia, come già abbiamo osservato per altri aspetti, anche in questo caso si tratta di una concezione che stenta ad imporsi. Dobbiamo cioè rilevare che l’idea di una sofferenza rivolta a placare l’ira della divinità ricompare in alcune testimonianze tardive, in testi giudaici scritti in greco. Si cita al riguardo 2Mac 7,37s.: il settimo dei fratelli perseguitati sotto Antioco Epifane afferma di voler offrire “il corpo e la vita per le leggi dei padri” e supplica Dio perché si mostri placato (i¢lewς) al suo popolo e “possa arrestarsi l’ira dell’Onnipotente, giustamente attirata su tutta la nostra stirpe”. Più espliciti ancora sono due testi di 4 Maccabei, che è un’ampia riflessione sul significato che la persecuzione maccabaica può assumere per la sofferenza dei perseguitati. In 6,29 Eleazaro supplica Dio con queste parole: “Fa che il mio sangue sia sacrificio di purificazione (kaqa/rsion) per loro e prendi la mia anima in riscatto (ajnti/yucon) della loro”[38] (il “loro” indica collettivamente il popolo, menzionato al v. 28); in 17,21s., in una sintesi finale, si afferma più espressamente: “… poiché il tiranno è stato punito e la patria è stata purificata (kaqarisqhvnai), perché essi sono divenuti come riscatto (ajnti/yucon) per il peccato del nostro popolo. E per mezzo del sangue di quegli uomini pii e grazie al sacrificio espiatorio della loro morte (touv iJlasthri/ou touv qana/tou aujtwvn), la divina provvidenza salvò Israele dai mali che lo affliggevano”[39]. Tuttavia anche questo zelo religioso, nell’intenzione dell’autore di 4 Maccabei, non mira a travalicare i confini della tradizione della legge mosaica, e nello stesso tempo vorrebbe essere addirittura una testimonianza a favore della ragione[40]. Si innesca però con questa accentuazione del martirio volontario una ideologia che avrà ampie risonanze nella storia successiva, in ambito sia giudaico che cristiano, con la facile ricaduta in una radicata concezione della sofferenza espiatrice e della violenza che vi è racchiusa[41].
Dobbiamo necessariamente inserire qui alcune considerazioni sulla figura del “servo di YHWH”, poiché alcune espressioni, soprattutto del quarto canto a lui dedicato in Is 52,13-53,12 sembrano attribuire alla sua opera e alle sue sofferenze una funzione espiatrice in sostituzione e a favore di altri. Egli infatti “si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori” (53,4) ed è stato trafitto, schiacciato, castigato per le nostre colpe e “per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (v. 5); l’iniquità di noi tutti è stata fatta ricadere su di lui dal Signore (v. 6); è stato eliminato e “per la colpa del mio popolo fu percosso a morte” (v. 8); di lui si dice inoltre che “offrirà se stesso in sacrificio di riparazione” (v. 10), “giustificherà molti addossandosi le loro iniquità” (v. 11) ed “è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti” (v. 12). La terminologia ebraica usata sembra indicare chiaramente che la vicenda del servo riassume in sé la condizione di altri, colpevoli: così ad esempio il fatto che YHWH ha fatto ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti (hifgîaʻ ʻăwôn, v. 6), ed egli porta il peccato di molti (nāśāʼ ḥēṭʼ, v. 12), per cui egli, giusto (ṣaddîq), giustificherà (yaṣdîq) molti (v. 11).
Tuttavia va osservato che, benché la sofferenza di uno solo abbia efficacia su molti, non si usa qui il verbo kipper, che indica appunto l’espiazione, e il sacrificio di se stesso, che il servo offre, è indicato piuttosto come ʼāšām (v. 10), cioè, tecnicamente, come “sacrificio di riparazione” (per la cui codificazione si veda Lv 5,14-26; 7,1-6). Assieme agli altri tre, questo canto può esser inoltre interpretato in riferimento alla situazione che può averlo originato, che è quella dell’esilio babilonese e della liberazione auspicata da parte dei deportati. Nonostante sia difficile identificare il personaggio, a lui è affidata una missione liberatrice, descritta in termini etici e universalistici in Is 42,1-9 (cfr. vv. 6s.), ma il secondo canto lascia intendere che essa si compie con difficoltà e quasi è destinata al fallimento (49,1-7, e in particolare il v. 4: “Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze”; il servo è “disprezzato, rifiutato dalle nazioni”, v. 7). Anzi, nel terzo canto, parlando in prima persona, il servo riferisce persino di un maltrattamento subito, una sorta di persecuzione (50,4-11, cfr. vv. 5-7). Probabilmente, quest’ultima ha avuto l’esito più negativo, che ha condotto il servo a una morte ingloriosa, di cui il quarto canto tenta una spiegazione.
Se è valida questa ricostruzione, allora la vicenda del personaggio si svolge in mezzo a un gruppo con cui egli si mostra solidale ma che a sua volta si riconosce colpevole anche nei suoi confronti. I persecutori non sono identificati: si può pensare ai Babilonesi ma si può ritenere anche che siano gli stessi esuli che non hanno capito o accolto la sua missione. Perciò il servo, “giusto”, è stato ucciso (53,8) ingiustamente e in questo senso può esser assimilato a una vittima.
Ma in questa interpretazione effettuata dal testo, va tenuto presente che ciò che è addossato al servo è designato con il termine ʻawôn, che non indica la colpa, bensì le sue conseguenze (la colpa è già stata perdonata, come si afferma in 40,2), e la parola viene ripetuta ben tre volte nel quarto canto (53,5.6.11). Il Signore ha riversato su di lui le conseguenze della colpa (v. 6)[42], che egli ha accolto intercedendo per i colpevoli (v. 12). La morte del servo può essere stata causata quindi dai Babilonesi, ma forse anche dai suoi connazionali, se non altro per negligenza, e a questo fatto viene conferita una interpretazione teologica. Essa sottolinea che l’eventuale processo di riconciliazione, cui il servo mirava con la sua opera, inteso in senso sacrificale ha favorito l’intervento divino e la liberazione del popolo dall’esilio, naturalmente nella misura in cui quest’ultimo era avvertito come punizione di una colpa[43].
A complemento di quanto si è detto per l’espiazione è opportuno aggiungere qualche dato relativo al concetto di “riconciliazione”, che viene ad assumere anch’esso una certa rilevanza sul piano teologico[44].
Il vocabolario della riconciliazione interessa piuttosto il Nuovo Testamento, e richiederebbe quindi una trattazione più specifica in quell’ambito; qui lo illustriamo soltanto per quanto riguarda i suoi presupposti veterotestamentari, e in lingua greca. Infatti nel Nuovo Testamento esso si concentra attorno al verbo ajlla/ssein e ai suoi composti dialla/ssein (Mt 5,24), katalla/ssein (Rm 5,10; 1Cor 7,11; 2Cor 5,18s.), ajpokatalla/ssein (Ef 2,16; Col 1,20) e sunalla/ssein (At 7,26), con i sostantivi katallagh/ (Rm 5,11; 11,15; 2Cor 5,18s.) e ajnta/llagma (Mt 16,26; Mc 8,37).
Mentre il concetto di espiazione, come si è visto, appartiene alla sfera religiosa e cultuale, quello di riconciliazione interessa invece quella profana, dove indica semplicemente la ricomposizione di tensioni o conflitti di varia natura, e quindi anche sul piano politico. A questo livello il gruppo lessicale viene usato anche nell’Antico Testamento, con applicazioni diversificate: ajlla/ssein in Es 13,13 (bis) e Lv 27,27 per rendere l’ebraico pdh nel senso di “riscattare”, katalla/ssein in Ger 31,39 (= ebraico 48,39), ajnta/llagma in Sal 88(89),52; Sir 6,15; 26,14; Ger 15,13 (tesori abbandonati al saccheggio, in “compenso” dei peccati); Rt 4,7; Gb 28,15, diallagh/ in Sir 22,22; 27,21, katallagh/ in Is 9,4, suna/llagma in 1Mac 13,42 (per indicare un “contratto”); Is 58,6, e si può aggiungere anche dialla/ssein di 1Esd 4,31.
In epoca tardiva, greco-romana, i due concetti di espiazione e di riconciliazione tendono ad avvicinarsi tra loro, a tal punto che la riconciliazione viene introdotta nell’area dell’espiazione. Lo attesta un passo di Dionigi di Alicarnasso (Antichità romane 8,50,4) dove si dice che gli dei sono indulgenti (suggnw/monteς) verso le colpe umane e facilmente riconciliabili (eujdia/llaktoi) e che molti che si sono resi colpevoli nei loro confronti ne hanno placato l’ira (to\n co/lon ejxila/santo). Si noti l’accostamento tra eujdia/llaktoi e ejxila/santo, dove il primo assume un significato religioso, mentre altrove in Dionigi conserva un senso comune (4,38,2 e 8,61,4). In realtà, a ben vedere, già nel concetto di espiazione è incluso quello di riconciliazione: l’evidenza si esplicita anche sul piano terminologico e ciò può spiegare già di per sé perché nella LXX e poi nel Nuovo Testamento il linguaggio della riconciliazione si riversi in un significato teologico e soteriologico. Si suppone cioè che vi sia un rapporto infranto tra Dio e l’uomo e che quest’ultimo si riavvicini a Dio confidando nel suo perdono.
Di questa connotazione arricchita sono testimoni alcuni testi della LXX: katalla/ssein in 2Mac 1,5; 7,33 (qui in contrapposizione all’ira divina); 8,29, anta/llagma in Sal 54(55),20 (si parla di un cambiamento, indicato dall’ebraico ḥālîfāh) e in Sir 44,17 (Noè è segno di riconciliazione, ebr. tḥlyp) e katallagh/ in 2Mac 5,20 (anche qui in antitesi all’ira divina). L’uso si estende anche a Flavio Giuseppe, che in Antichità giudaiche 6,143 adotta il riflessivo katalla/ttesqai per Samuele che prega Dio di riconciliarsi con Saul, e in Guerra giudaica 5,415 parla di Dio che è disposto a riconciliarsi (eujdia/llaktoς) con chi confessa le sue colpe. Similmente, in 3Mac 5,13 si afferma che Dio si riconcilia facilmente (eujkata/llaktoς). Si prepara così la strada al Nuovo Testamento, dove la riconciliazione procede su iniziativa divina e, detto in estrema sintesi, trova il suo fondamento nella morte di Cristo (Ef 2,16; Col 1,20.22) e in questa connessione Paolo se ne ritiene ministro (2Cor 5,18-20).
Poiché siamo partiti dal riscatto che si esplica soprattutto nei confronti della schiavitù, aggiungiamo da ultimo soltanto una annotazione sul verbo ajgora/zein (e ejxagora/zein) che nel Nuovo Testamento viene impiegato in analogia con l’acquisto degli schiavi[45].
Dobbiamo ricordare che a Delfi veniva praticato un acquisto dello schiavo da parte della divinità, al fine di liberarlo. Si trattava però di una finzione giuridica, nella quale la presenza della divinità serviva a garantire la validità del riscatto, mentre di fatto il rivenditore dello schiavo riceveva il normale compenso dal compratore effettivo. A ricordo di questa prassi, si cita per l’ambiente giudaico il passo di Sifre Numeri (115, in relazione a Nm 15,41): “Quando il Santo riscattò il seme di Abramo, lo riscattò non come suo figlio, ma come suo schiavo, perché nel caso che volesse comandargli qualcosa ed egli non volesse obbedire, potesse dirgli: ‘Siete miei schiavi’”. È chiaro però che anche in questo testo il senso è traslato e non si sottintende un pagamento reale. Per quanto concerne la LXX, mentre ajgora/zein viene usato nei suoi normali contesti di compravendita, l’unica attestazione di ejxagora/zein è metaforica: in Dn 2,8, con oggetto kairo/n, rende l’aramaico zbn con oggetto ʻiddānāʼ, indicando “temporeggiare”, “perdere tempo”, e dunque non interessa il nostro argomento.
Senza addentrarci in una descrizione più dettagliata dell’uso dei due verbi nel Nuovo Testamento, rileviamo soltanto che in 1Cor 6,20 e 7,23 ajgora/zein viene detto della schiavitù dei cristiani, che sono divenuti proprietà di Cristo: non si precisa né il compratore né il venditore e anche il “prezzo” (timhvς) resta generico; il ricorso all’immagine della schiavitù è estrinseco (cfr. anche Ap 5,9). Lo stesso vale per ejxagora/zein usato per il riscatto dalla maledizione della legge in Gal 3,13; 4,5, inteso come liberazione da schiavitù: il richiamo al riscatto vuole indicare solo che si tratta di un acquisto reale ed efficace[46]. Insomma, il Nuovo Testamento, nell’applicazione teologica, prosegue sulla stessa linea dell’Antico, ma resta sempre interessante e problematico il fatto che per esprimere la modalità dell’azione redentiva ricorra a un linguaggio giuridico.
La panoramica che abbiamo tracciato non è certo completa e si è volutamente ristretta a presentare quegli aspetti del “riscatto” che hanno assunto risonanza teologica. Più che soffermarci su quegli addentellati che una tematica così complessa racchiude, ci siamo limitati soltanto a rilevare i passaggi da un livello all’altro, poiché questo è il punto più rilevante della tematica che abbiamo affrontato e che possiamo ora riprendere con alcune riflessioni che ne intendono mettere in evidenza le implicazioni ulteriori e i problemi che ne conseguono.
Nelle varie accezioni sotto cui si presenta la tematica della redenzione connessa con un riscatto, l’interpretazione teologica non è un semplice rivestimento ulteriore o accessorio di un linguaggio giuridico: i due piani sono strettamente uniti tra loro, per cui già nella formulazione di un regolamento giuridico si introduce senza soluzione di continuità la motivazione religiosa (per esempio nella normativa sulla schiavitù la liberazione dall’Egitto). A sua volta, quindi, il linguaggio teologico presuppone quello giuridico, su cui si fonda, ma non consente a quest’ultimo di riemergere nella sua integrità funzionale effettiva (parliamo di funzionalità e non di formalità, poiché dal punto di vista formale è ovvio che nell’ambiente dell’antico Israele, come in quelli ad esso vicini, non esiste un diritto “laico” che prescinda da una dimensione religiosa).
La regolazione giuridica resta dunque assorbita e fagocitata da un significato teologico. Si potrebbe vedere in questa osmosi una nobilitazione del diritto, ma in realtà essa può comportare anche una decurtazione di elementi che nella strutturazione originaria sarebbero essenziali. Tale è nel nostro caso l’eliminazione del prezzo del riscatto in quella che si può definire a grandi linee come una transazione tra Dio e l’uomo (o un gruppo umano), la quale viene ad esprimersi in termini di gratuità in forza di questa privazione. Dio quindi non paga nulla a nessuno. Ma bisogna chiedersi se ciò dipenda dalla natura stessa di Dio (per cui l’assenza di riscatto sarebbe una conseguenza logica dell’applicazione teologica di un concetto di acquisto in cui egli figuri come soggetto) oppure se si possa intravedere qui una caratteristica peculiare della religione descritta nei testi biblici. Del resto, il problema non sorge se o quando Dio debba pagare qualcosa, ma se si deve pagare qualcosa a lui, e se si sia in grado di offrirgli un compenso adeguato o sufficiente.
Potremmo riformulare la relazione tra linguaggio giuridico e interpretazione teologica dicendo che questa seconda è una metafora del primo. Come in ogni metafora, cioè in ogni linguaggio figurato o traslato, il primo elemento dovrebbe contribuire a far comprendere il secondo[47]. Quindi qui il diritto (decurtato) dovrebbe illustrare la “redenzione” gratuita da parte di Dio. Nel caso del gō’ēl, allora, se il punto di riferimento va trovato nel diritto familiare, si dovrebbe capire meglio perché Dio intervenga a riscattare senza pagamento di prezzo. Ma questa istituzione è attestata solo in Israele ed è difficile definire sino a che punto potesse funzionare sul piano del diritto, dato il suo carattere utopico a livello sociale e anche economico. Applicata a Dio, in realtà gli impone un obbligo: Dio è costretto a liberare Israele, pur ribadendo che ciò avviene senza pagare nulla, ma viene meno l’aspetto della pura gratuità del gesto. Il vincolo costituito dal prezzo, insito nella transazione redentiva, viene semplicemente trasferito nell’obbligo inerente alla natura stessa dell’istituzione.
Se torniamo alla questione della schiavitù, resta pur vero che, per ipotesi, anche sul piano giuridico si può prevedere e normare una liberazione puramente gratuita. Ma ciò costituisce piuttosto un’eccezione nell’ambito di un procedimento di manomissione regolato dal lato economico, tanto più se si tiene presente che la schiavitù fino ad epoca moderna concerneva il mondo economico e lavorativo e non quello dei diritti umani. Ma se colleghiamo questa eccezione alla metafora teologica dei testi biblici, e se ricordiamo che essa si traduce qui in una analogia per sottrazione, è facile intuire come il linguaggio di partenza, cioè quello giuridico, non possa resistere a lungo senza ripristinare tutto il suo vigore, eliminando la tensione che si era venuta a creare per contrazione.
Se infine consideriamo la metafora nel suo punto di arrivo, e se proviamo a invertire la prospettiva, possiamo chiederci perché mai l’azione redentrice di Dio debba formularsi, e si sia espressa di fatto, come liberazione da una schiavitù. Certamente ciò può essere dovuto alla coscienza di subordinazione dell’uomo di fronte a Dio, cui si aggiunge un qualche senso di defezione o di colpa, proiettato appunto in un ambiente sociale e storico dove la schiavitù poteva presentarsi come elemento adatto a definire questo genere di rapporto religioso. Tuttavia l’adozione di questa immagine deve essere cosciente anche dei rischi che corre, soprattutto quando la si applica con altro registro interpretativo, e chi è responsabile dell’applicazione deve sforzarsi continuamente di rendere evidente e comprensibile la diversità e la novità dell’interpretazione che intende proporre[48]. Altrimenti, il linguaggio di partenza, poiché resta più immediato ed afferrabile, tende a prevalere. Ed è quanto è avvenuto nella storia del concetto teologico di redenzione, dove appunto il pagamento del riscatto è tornato ad imporsi con tutto il suo peso e le sue (talvolta tragiche) conseguenze[49]. Neppure Dio, se vuole parlare agli e con gli uomini, può sottrarsi alla polisemia ambigua e alla nemesi del loro linguaggio.
[1] Per un primo accostamento al concetto cfr. R. Fabris, Redenzione/riscatto, in R. Penna – G. Perego – G. Ravasi (eds). Temi teologici della Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), pp. 1128-1133; É. Beaucamp, Aux origines du mot “rédemption”. Le “rachat” dans l’Ancien Testament, in «Laval théologique et philosophique» 34(1978), pp. 49-56 (tr. it. Alle origini della parola “redenzione”. Il “riscatto” nell’Antico Testamento, in «Bibbia e Oriente 21[1979], pp. 3-11).
[2] H. Cazelles, pādâ, pedût, pidjôn, in G. J. Botterweck – H. Ringgren (eds.), Grande Lessico dell’Antico Testamento, vol. VII, Paideia, Brescia 2007, coll. 60-69; J. J. Stamm, pdh redimere, in E. Jenni – C. Westermann (eds.), Dizionario Teologico dell’Antico Testamento, vol. II, Marietti, Torino 1982, coll. 350-366.
[3] Una liberazione periodica, legata o meno a determinate scadenze cronologiche, è contemplata non solo in Israele: cfr. M. Weinfeld, Sabbatical Year and Jubilee in the Pentateuchal Laws and their Ancient Near Eastern Background, in T. Veijola (ed.), The Law in the Bible and Its Environment, Publications of the Finnish Exegetical Society 51, The Finnish Exegetical Society, Helsinki 1990, pp. 39-62.
[4] Al riguardo mi permetto di rinviare al mio Il possesso della terra nella legislazione biblica: le motivazioni teologiche di un diritto precario, in G. Soccio (ed.), Terre collettive ed usi civici. Dagli antichi diritti delle popolazioni al diritto all’ambiente delle future generazioni. Convegno di studi organizzato dal Centro Studi e Documentazione “Michelangelo Moricone” – Biblioteca del Convento di San Matteo, San Marco in Lamis 19-20 aprile 2002, Edizioni del Parco, Foggia 2003, pp. 59-78.
[5] A sua volta, ciò che può spingere il Dio degli Israeliti a liberare il suo popolo può consistere non tanto nel tentativo di sottrarlo allo sfruttamento da parte degli Egiziani ma più coerentemente nel fatto che egli, in caso contrario, verrebbe meno alle sue stesse promesse: il motivo vero e proprio sarebbe dunque di ordine strettamente teologico e non sociologico o umanitario interno. Lo si sottolinea ancora recentemente in Ch. Dohmen, Israeliten als Sklaven. Oder: warum Gott sein Volk befreien musste, in P. Merlo – A. Passaro (edd.), Testi e contesti. Studi in onore di Innocenzo Cardellini nel suo 70° compleanno, Supplementi alla Rivista Biblica 60, EDB, Roma 2016, pp. 85-93 (“Die Versklavung der Israeliten in Ägypten bildet folglich in der Sicht der biblischen Erzählung ein Hindernis zur Erfüllung der Verheißungen und damit zur Gotteserkenntnis”, p. 93).
[6] Più precisamente, il § 280 afferma che se qualcuno ha comprato uno schiavo o una schiava in terra straniera ed è tornato poi a Babilonia, se costoro vengono riconosciuti ivi dal loro antico proprietario e sono nativi del paese, “la loro liberazione sarà effettuata senza pagamento” (balum kaspimma andurāšunu iššakkan). I testi dei paragrafi citati si possono trovare in traduzione francese in Le Code de Hammurapi. Introduction, traduction et annotation de André Finet, Littératures anciennes du Proche-Orient 6, Cerf, Paris 1973, pp. 54.78-81.133s.
[7] Cfr. I. Schulmeister, Israels Befreiung aus Ägypten. Eine Formeluntersuchung zur Theologie des Deuteronomiums, Österreichische biblische Studien 36, Peter Lang, Frankfurt am Main 2010, pp. 205-241; 253-304.
[8] L’ipotesi proviene da Henri Cazelles (pādâ, pedût, pidjôn, in Botterweck – Ringgren [eds.], Grande Lessico dell’Antico Testamento, vol. VII, cit., col. 64), secondo il quale si parlerebbe qui di un “atto di affrancamento collettivo, che Dio esegue senza contropartita. Il verbo šjt potrebbe essere stato inserito per «imporre» un pagamento o un’oblazione (Ex. 21,22; Num. 12,11)”. Ora, è vero che nei due testi citati il verbo usato è šyt, ma in Es 8,19 si usa śym! I dizionari sono incerti su quale delle due traduzioni (“distinzione” o “liberazione”) sia preferibile (si veda L. Köhler – W. Baumgartner, Hebräisches und aramäisches Lexikon zum Alten Testament, Brill, Leiden 1983, p. 863 e D. J. A. Clines, The Dictionary of Classical Hebrew, Vol. VI, Sheffield Phoenix, Sheffield 2007, p. 654). Il problema testuale era già stato affrontato in A. A. MacIntosh, Exodus VIII, Distinct Redemption and the Hebrew Roots pdh and pdd, in «Vetus Testamentum» 21(1971), pp. 548-555 e in G. I. Davies, The Hebrew Text of Exodus VIII 19 (Evv. 23): An Emendation, ibi 24(1974), pp. 489-492.
[9] H. Ringrren, gāʼal, gōʼēl, geʼullâ, in Botterweck – Ringgren (eds.), Grande Lessico dell’Antico Testamento, cit., vol. I, coll. 1803-1816; J. J. Stamm, gʼl redimere, in Jenni – Westermann (eds.), Dizionario Teologico dell’Antico Testamento, cit., vol. I, coll. 332-341.
[10] L’ebraico usa mōdaʻ in Rt 3,2, che indica una relazione stretta di conoscenza, un parente (in Pr 7,4 è parallelo di “sorella”) e il testo masoretico in 1,2, per sottolineare questo significato, vuole leggere lo stesso termine nel qere, mentre il ketiv richiedrebbe la vocalizzazione participiale meyuddaʻ, un semplice “conosciuto” (o “conoscente”).
[11] Per una connessione tra la narrativa di Rut e le leggi del Pentateuco cfr. B. S. Jackson, Ruth, the Pentateuch, and the Nature of Pentateuchal Law: in Conversation with Jean Louis Ska, in G. Giuntoli – K, Schmid (eds.), The Post-Priestly Pentateuch. New Perspectives on its Redactional Development and Theological Profile, Forschungen zum Alten Testament 101, Mohr Siebeck, Tübingen 2015, pp. 75-112.
[12] Si tenga presente al riguardo quanto osserva Luis Alonso Schökel: “Non esistendo fra noi tale istituzione, nessun verbo nostro corrisponde alla pluralità di aspetti del verbo ebraico; bisogna scegliere a seconda dei casi l’aspetto che è bene mettere in risalto: riscattare, redimere (dal latino re-emo comprare di nuovo), recuperare, riottenere, reclamare, rispondere di/per. Va notata in italiano la reiterata presenza del morfema re/ri-, che corrisponde a un sema o tratto significativo dell’originale e indica il ristabilimento di una situazione giuridica alterata” (Dizionario di ebraico biblico, San Paolo, Cinisello Balsamo [Milano] 2013, p. 139). Nella trattazione della voce si distingue poi, comunque, un significato proprio e un senso figurato, che equivale a quello teologico.
[13] Per queste possibilità si veda brevemente Ringgren, gāʼal, gōʼēl, geʼullâ, in Botterweck – Ringgren (eds.), Grande Lessico dell’Antico Testamento, vol. I, cit., coll. 1814-1816.
[14] Così inizialmente J.J. Stamm, Erlösen und Vergeben im Alten Testament. Eine begriffsgeschichtliche Untersuchung, Francke, Bern 1940, e anche O. Procksch in Id. – F. Büchsel, lu/w ktl., in G. Kittel – G. Friedrich (eds.), Grande Lessico del Nuovo Testamento, vol. VI, Paideia, Brescia 1970, coll. 883-96 (cfr. 891-893).
[15] Lo stesso Stamm ha attentuato in seguito la sua opinione in pdh redimere, in Jenni – Westermann (eds.), Dizionario Teologico dell’Antico Testamento, vol. II, cit., col. 357.
[16] Cfr. W. Von Soden, Akkadisches Handwörterbuch, Band I, Harrassowitz, Wiesbaden 1972, col. 808 (padû(m)/pedû) e 849-851 (paṭāru(m)); R. D. Biggs (e altri), The Assyrian Dictionary of the Oriental Institute of the University of Chicago, Volume 12, The Oriental Institute, Chicago, IL 2005, pp. 6-8 (padû/pedû) e 286-305 (paṭāru, con un elenco di 23 significati).
[17] Già lo si era rilevato in J. Jepsen, Die Begriffe des “Erlösens” im Alten Testament, in P. Althaus – E. Barnikol – H. Blintzer (e altri), Solange es “Heute” heisst. Festgabe für Rudolf Hermann zum 70. Geburtstag, Evangelische Verlagsanstalt, Berlin 1957, pp. 153-163.
[18] “Grazie a tale riscatto, infatti, Jahve lascia in libertà per gli uomini qualcosa a cui essi non avevano alcun diritto” (Stamm, pdh redimere, in Jenni – Westermann [eds.], Dizionario Teologico dell’Antico Testamento, vol. II, cit., col. 358). Addirittura, più in generale, si giunge ad affermare che “in pādâ è contenuta l’idea di grazia” (Procksch, lu/w ktl., in Kittel – Friedrich [eds.], Grande Lessico del Nuovo Testamento, vol. VI, cit., col. 893).
[19] Cfr. B. Lang, kipper, kappōret, kōfer, kippurim, in Botterweck – Ringgren (eds.), Grande Lessico dell’Antico Testamento, cit., vol. IV, 2004, coll. 508-552; F. Maas, kpr pi. espiare, in Jenni – Westermann (eds.), Dizionario Teologico dell’Antico Testamento, cit., vol. I, coll. 727-739. Utile è ancora L. Moraldi, Espiazione sacrificale e riti espiatori nell’ambiente biblico e nell’Antico Testamento, Analecta biblica 5, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1956 (spec. pp. 182-221), e anche H. Gese, Zur biblischen Theologie, Beiträge zur evangelischen Theologie 78, Kaiser, München 1977, pp. 85-106 (“Die Sühne”) (tr. it. Sulla teologia biblica, Biblioteca di cultura religiosa 54, Paideia, Brescia 1989, pp. 103-128: “L’espiazione”); G. Fischer – K. Backhaus, Sühne und Versöhnung. Perspektiven des Alten und Neuen Testaments, Die Neue Echter Bibel – Themen 7, Echter, Würzburg 2000 (tr. it. Espiazione e riconciliazione. Prospettive dell’Antico e del Nuovo Testamento, Collana biblica – I temi della Bibbia 78, EDB, Bologna 2002). Si veda anche G. Pulcinelli, La morte di Gesù come espiazione. La concezione paolina, Studi sulla Bibbia e il suo ambiente 11, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2007; Id., Espiazione, in Penna – Perego – Ravasi (eds.), Temi teologici della Bibbia, cit., pp. 445-451; Id., Appunti sulla morte di Gesù e la sua interpretazione sacrificale nel NT, in Merlo – Passaro (eds.), Testi e contesti, cit., pp. 151-161.
[20] Per i vari significati di questo censimento rinvio al mio I figli di Israele censiti per volontà divina. Polivalenza di una istituzione politica sanzionata dall’alto, in Censo, ceto, professione. Il censimento come problema teologico-politico, «Politica e religione» 2015, pp. 35-69, spec.47-52.
[21] È quanto si suggerisce, tra l’altro, in Y. Feder, On kuppuru, kippēr and Etymological Sins that Cannot be Wiped Away, in «Vetus Testamentum» 60(2010), pp. 535-545: si critica qui l’abituale comparazione tra l’accadico kuppuru e l’ebraico kipper perché non è attenta all’uso specifico del verbo accadico, che avrebbe soltanto un significato concreto (“cancellare”, “eliminare [fisicamente]), mentre in ebraico kipper assumerebbe un significato astratto; anche se l’argomento non è di per sé del tutto persuasivo (si può passare facilmente da un uso concreto a un altro astratto), la riserva nei confronti di un comparativismo biblico affrettato resta valida.
[22] In Lv 16,10 la preposizione ʻal si riferisce al capro toccato in sorte ad Azazel, e il rito espiatorio è compiuto “su” di esso: non ne è cioè il destinatario o il beneficiario. L’uso è anomalo.
[23] Per una difesa della correlazione tra i due significati cfr. J. Sklar, Sin, Impurity, Sacrifice, Atonement. The Priestly Conceptions, Hebrew Bible Monographs 2, Sheffield Phoenix, Sheffield 2005; Id., Sin and Impurituy: Atoned or Purified? Yes!, in B. J. Schwartz – D. P. Wright – J. Stackert – N. S. Meshel (eds.), Perspectives on Purity and Purification in the Bible, The Library of Hebrew Bible/ Old Testament Studies 474, T & T Clark, New York – London 2008, pp. 18-31; Id., Sin and Atonement: Lessons from the Pentateuch, in «Bulletin for Biblical Research» 22(2012), pp. 467-491. Una posizione più sfumata in R. E. Gane, Cult and Charachter. Purification Offerings, Day of Atonement, and Theodicy, Eisenbrauns, Winona Lake, IN 2005.
[24] Cfr. G. Deiana, Il giorno dell’espiazione. Il kippur nella tradizione biblica, Supplementi alla Rivista Biblica 30, EDB, Bologna 1994, pp. 57-64.68-76.
[25] Lo fa notare giustamente Maas (kpr pi. espiare, in Jenni – Westermann [eds.], Dizionario Teologico dell’Antico Testamento, vol. I, cit., coll 733s.), il quale pensa che Lv 17,11 possa essere considerato “solo un tentativo di spiegazione insufficiente – probabilmente molto tardivo, dell’istituzione dell’espiazione dell’antico Israele”. Cfr. anche spiegazioni oggi ritenute insoddisfacenti in D. J. MacCarthy, The Symbolism of Blood and Sacrifice, in «Journal of Biblical Literature» 88(1969), pp. 166-176; Id., Further Notes on the Symbolism of Blood and Sacrifice, ibi 92(1973), 166-176; J. Milgrom, A Prolegomenon to Lev. 17:11, ibi 90(1971), pp. 149-156 (= Id., Studies in Cultic Theology and Terminology, Studies in Judaism in Late Antiquity 36, Brill, Leiden 1983, pp. 75-84). Per una critica a MacCarthy e Milgrom si veda W. G. Gilders, Blood Ritual in the Hebrew Bible. Meaning and Power, The Johns Hopkins University Press, Baltimore – London 2004, pp. 1-11 e 158-180 (Gilders del resto fa notare che il significato del sangue non è univoco) e Ch. Nihan, The Templization of Israel in Leviticus: Some Remarks on Blood Disposal and kipper in Leviticus 4, in F. Landy – L. M. Trevaskis – B. D. Bibb (eds.), Text, Time, and Temple. Literary Historical and Ritual Studies in Leviticus, Hebrew Bible Monographs 64, Sheffield Phoenix, Shefflield 2015, pp. 94-130.
[26] Si tratta di classificare qui il bet come bet essentiae (tradotto bene nel testo CEI 2008 citato: “in quanto è la vita”) e non come bet pretii (“per una vita”); cfr. N. Füglister, Sühne durch Blut – Zur Bedeutung von Leviticus 17,11, in G. Braulik (ed.), Studien zum Pentateuch. Walter Kornfeld zum 60. Geburtstag, Herder, Wien – Freiburg – Basel 1977, pp. 143-164. Füglister critica la Einheitsübersetzung tedesca per la sua resa con “für ein Leben” e anche la Bible de Jérusalem per il suo “pour une vie” (ibi, pp. 144-146 e 145 n. 10); si può aggiungere che nell’edizione italiana di quest’ultima (La Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 2009, p. 246), che riporta il testo CEI 2008 con il commento della Bible de Jérusalem (Cerf, Paris 1998), non si è aggiunta una nota di raccordo che facesse notare la diversa traduzione.
[27] “Daraus folgt, daß die Stellvertretungstheorie, derzufolge die Opfer insofern Sühnekraft besitzen, als das (im Blut erhaltene) Leben der Opfertiere anstelle des verwirkten Lebens des opfernden Sünders tritt, in Lev 17,11 keinen exegetischen Anhalt hat” (Füglister, ibi, p. 146).
[28] “Secondo il testo ebraico, il sangue non agisce su Dio ma sull’uomo; toglie da lui l’impurità, il peccato, in modo che il peccatore possa entrare in sintonia con Dio” (G. Deiana, Dai sacrifici dell’Antico Testamento al sacrificio di Cristo, Spiritualità 5, Urbaniana University Press, Roma 2002, p. 67, corsivo dell’autore). Per ajnti/ della LXX e l’influsso greco cfr. anche A. Sacchi, La morte del Messia. L’interpretazione sacrificale, Youcanprint Self-Publishing, Milano 2015, p. 33; Deiana, Il giorno dell’espiazione, cit., pp. 183-184.
[29] Per una loro illustrazione sintetica cfr. Lang, kipper, kappōret, kōfer, kippurim, in Botterweck – Ringgren (eds.), Grande Lessico dell’Antico Testamento, cit., vol. IV, coll. 514-516 e anche Pulcinelli, Espiazione, in Penna – Perego – Ravasi (eds.), Temi teologici della Bibbia, cit., pp. 447s.
[30] Milgrom ha proposto più volte questa sua teoria, e tra le sue pubblicazioni al riguardo si veda ad esempio Sin-Offering or Purification Offering?, in «Vetus Testamentum» 21(1971), pp, 237-239 (= Id., Studies in Cultic Theology and Terminology, cit., pp. 237-239); Two Kinds of ḥaṭṭāʼt, ibi 26(1976), pp. 333-337 (= Id., Studies, cit., pp. 70-74); Israel’s Sanctuary: The Priestly “Picture of Dorian Gray”, in «Revue Biblique » 83(1976), pp. 390-399 (= Studies, cit., pp. 75-84); una presentazione riassuntiva si trova anche nel suo monumentale commentario al Levitico (Leviticus 1-16. A New Translation with Introduction and Commentary, The Anchor Bible 3A, Doubleday, New York – London – Toronto – Sydney – Auckland 1991, pp. 1079-1084). La sua problematica, che verte sostanzialmente sulla relazione tra espiazione sostitutiva e purificazione, è stata ripresa anche da Sklar e Gane (cfr. nota 23), con soluzioni che per alcuni aspetti si presentano ancora più radicali (specialmente in Sklar).
[31] Il lavoro principale in cui è esposta la posizione di Janoswski è Sühne als Heilsgeschehen. Traditions- und religionsgeschichtliche Studien zur Sühnetheologie der Priesterschrift. 2. durchgesehene und um einen Anhang erweiterte Auflage, Wissenschaftliche Monographien zum Alten und Neuen Testament 55, Neukirchener, Neukirchen-Vluyn 2000; cfr. anche Id., Das Geschenk der Versöhnung. Leviticus 16 als Schlüsselstein der priesterlichen Kulttheologie, in Th. Hiecke – T. Niklas (eds.), The Day of Atonement. Its Interpretations in Early Jewish and Christian Traditions, Themes in Biblical Narrative 15, Brill, Leiden – Boston 2012, pp. 3-31.
[32] Anche Schenker ha ripreso più volte la tematica: si veda anzitutto Versöhnung und Sühne. Wege gewaltfreier Konfliktlösung im Alten Testament. Mit einem Ausblick auf das Neue Testament, Biblische Beiträge – Neue Folge 15, Schweizerisches Katholisches Bibelwerk, Freiburg 1981, e inoltre Kōper et expiation, in «Biblica» 63(1982), pp. 32-46; Chemins bibliques de la non-violence, C.L.D., Chambray 1987 (tr. it. Percorsi biblici della riconciliazione, Edizioni San Lorenzo, Reggio Emilia 1999); Unreinheit, Sünde und Sündopfer. Kritische Untersuchung zweier verbreiteter Thesen: befleckende Sünden (moral impurity) und Sündopfer chaṭṭaʼt als Reinigungsopfer für das Heiligtum, in «Biblische Zeitschrift» 59(2016), pp. 1-16.
[33] “Dai documenti si ricava che la vita dell’uomo è minacciata quando non è fatta l’espiazione, mentre invece è preservata con il perdono operato mediante l’espiazione. Ciò significa senza alcun dubbio che il sangue dei sacrifici usato nelle pratiche espiatorie era ritenuto idoneo a conservare la vita umana, che altrimenti sarebbe andata perduta. Che vi fosse l’idea di sostituzione – sia pure in misura che non si può determinare – sembra innegabile, stando ai dati relativi a kōfer e all’uso extra-cultuale di kpr” (così Johannes Herrmann in F. Büchsel – Id., i¢lewς, iJla/skomai, iJlasmo/ς, iªlasth/rion, in Kittel – Friedrich [eds.], Grande Lessico del Nuovo Testamento, cit., vol. IV, 1968, coll. 951-1012 [978]).
[34] Per l’innovazione etica introdotta dal Siracide si veda H.-J. Fabry, Sühnevorstellungen bei Jesus Sirach, in S. Kreuzer – M. Meier – M. Sigismund (eds.), Die Septuaginta – Orte und Intentionen. 5. Internationale Fachtagung veranstaltet von Septuaginta Deutsch (LXX.D), Wuppertal 24.-27. Juli 2014, Wissenschaftliche Untersuchungen zum Neuen Testament 361, Mohr Siebeck, Tübingen 2016, pp. 597-613, spec. 605s.608s.
[35] L’acquisizione del significato veterotestamentario è testimoniata anche dalla resa greca iJlasth/rion dell’ebraico kappōret, che a cominciare da Es 25,17 designa il coperchio dell’arca tramite la sua funzione “espiatrice”, ed è tradotto quindi comunemente con “espiatorio”: difficilmente infatti il sostantivo ebraico deriva da una radice ebraica kpr “coprire”, e pur rifacendosi al kpr piel “espiare” va inteso sempre come oggetto metallico (“d’oro”, secondo la prescrizione di Es 25,17) e non astrattamente come luogo o mezzo di espiazione.
[36] Così pure, “espiare” e “propiziare” restano strettamente associati tra loro, come recentemente si rileva in J. E. Allman, iJla/skesqai: To Propitiate or to Expiate?, in «Bibliotheca Sacra» 172(2015), pp. 335-355.
[37] Cfr. Büchsel, lu/w ktl., in Kittel – Friedrich (eds.), Grande Lessico del Nuovo Testamento, vol. IV, cit., col. 995.
[38] Traduzione tratta da Quarto libro dei Maccabei. Testo, traduzione, introduzione e commento a cura di Giuseppe Scarpat. Con una nota storica di Luigi Firpo, Biblica – Testi e studi 9, Paideia, Brescia 2006, p. 211.
[39] Ibi, p. 395. Nella nota critica al v. 22 (p. 405) Scarpat afferma di preferire la lezione touv iJlasthri/ou touv qana/tou aujtwvn (che è del resto quella dell’edizione della LXX di Rahlfs), intendendo quindi iJlasth/rion come sostantivo (“sacrificio espiatorio), anziché adottare la variante dia\ touv iJlasthri/ou qana/tou aujtwvn, dove il termine ha valore aggettivale (“la morte espiatoria”). Benché si tratti di una sfumatura, la lezione da lui accolta sottolinea maggiormente il valore sacrificale della morte.
[40] Cfr. Th. Witulski, Antiochos contra Eleazar – Das vierte Makkabäerbuch als Zeugnis des Ringens um ein zentrales Element jüdischen Glaubens, in «Zeitschrift für die alttestamentliche Wissenschaft» 125(2013), pp. 289-303; H. Spieckermann, Martyrium und die Vernunft des Glaubens. Theologie als Philosophie im vierten Makkabäerbuch, Nachrichten der Akademie der Wissenschaften zu Göttingen: I, Philologisch-Historische Klasse 2004/3, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2004.
[41] Una panoramica che spazia dall’antichità all’epoca moderna, ed esplora anche la ricezione cristiana in varie ramificazioni confessionali, si trova in G. Signori (ed.), Dying for the Faith, Killing for the Faith. Old Testament Faith-Warriors (1 and 2 Maccabees) in Historical Perspective, Brill’s Studies in Intellectual History 206, Brill, Leiden – Boston 2012 (si veda in particolare, per le motivazioni di fondo, J. Assmann, Martirdom, Violence, and Immortality: The Origins of a Religious Complex, pp. 39-59).
[42] In 53,6, mentre il testo ebraico parla di Dio che “fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti” (hifgîaʻ bô ʼēt ʻăwôn kullānû), la LXX può aver insinuato una qualche idea di sostituzione, dicendo che Dio lo ha “consegnato” ai nostri peccati (pare/dwken aujto\n taivς aJmarti/aiς hJmwvn). Similmente, al v. 12, mentre per l’ebraico il servo ha “spogliato se stesso” fino alla morte (heʻĕrāh lammawet nafšô), per la LXX è stata “consegnata” alla morte la sua anima (paredo/qh eijς qa/naton hJ yuch\ aujtouv), lasciando indeterminato chi sia il soggetto che è all’origine dell’atto (il servo di sua volontà o Dio che ha voluto così).
[43] “La fine del servo è stata quindi riletta in chiave sacrificale in quanto con essa egli ha conseguito lo scopo del sacrificio, che era quello di ripristinare l’alleanza di YHWH con Israele… Possiamo dunque concludere che il concetto di espiazione vicaria è assente anche dai carmi del servo” (Sacchi, La morte del messia, cit., p. 55).
[44] Cfr. F. Büchsel, ajlla/ssw ktl., in Kittel – Friedrich (eds.), Grande Lessico del Nuovo Testamento, cit., vol. I, 1965, coll. 673-696; J. T. Fitzgerald, Riconciliazione (NT), in Penna – Perego – Ravasi (eds.), Temi teologici della Bibbia, cit., pp. 1158-1162.
[45] F. Büchsel, ajgora/zw, ejxagora/zw, in Kittel – Friedrich (eds.), Grande Lessico del Nuovo Testamento, vol I, cit., coll 333-344.
[46] “Che si tratti di una metafora è dimostrato dal fatto che è evidentemente assurdo chiedersi chi abbia ricevuto il prezzo di tale riscatto” (Büchsel, ibi, col. 341).
[47] Sul valore creativo e innovativo della metafora nei testi biblici cfr. P. Van Hecke (ed.), Metaphor in the Hebrew Bible, Bibliotheca Ephemeridum Theologicarum Lovaniensium 187, Leuven University Press – Uitgeverij Peeters, Leuven – Paris – Dudley, MA 2005; il curatore del volume sottolinea nell’introduzione (pp. 1-17) che i contributi in esso raccolti sono pressoché concordi nel rilevare il significato nuovo conferito dalla metafora alla realtà cui è applicata, ma ciò vale anche per l’eccezione da lui segnalata: il saggio di Annette M. Böckler sulla metafora della paternità divina (Unser Vater, pp. 249-261) mostra come questo appellativo divino non contenga nulla di nuovo nei testi biblici rispetto al significato che già possiede nel mondo del Vicino Oriente antico, e non quindi nulla di nuovo in assoluto.
[48] Büchsel, dopo aver mostrato che il significato originario di ajpolu/trwsiς è scomparso dall’uso linguistico della Bibbia, dove se ne è affermato uno più generale, aggiunge questa nota: “Analogamente è accaduto per il latino redemptio, che originariamente significava ‘riscatto’ ma che nell’uso linguistico della chiesa ha assunto il significato più generale di ‘redenzione’, sicché quello originario e più particolare è quasi sparito” (lu/w ktl., in Kittel – Friedrich [eds.], Grande Lessico del Nuovo Testamento, vol. VI, cit., col. 959 e nota 22). Il “quasi” suona, nel contesto, come un lapsus (mentis) significativo!
[49] Per questo motivo, gli sforzi degli studiosi che tendono a sottolineare la gratuità del “riscatto” biblico potrebbero richiamare alla mente il mito di Sisifo, pur con l’apparente attenuante di cui l’ha rivestito l’interpretazione di Albert Camus: “Bisogna immaginare un Sisifo felice” (Il mito di Sisifo, Tascabili Bompiani 766, Bompiani, Milano 2013, p. 121; or. fr. Le mythe de Sysiphe, Gallimard, Paris 1942).