Introduction. The temple as a theological-political concept.
The essay deals with some aspects of the history of the concept of “temple”, in order to highlight the intertwining of the theological and political dimensions which its development reveals. In Western tradition, the temple coincides, at least to some extent, with the territorialisation of the sacred: it is a sacralised portion of space, which is qualitatively different from the political territory within which it lies, and is subject to a different normativity. It may thus be seen as an extraterritory, characterised by inviolability. This is clearly attested by the right of asylum, which, from Greek temples to Christian churches, has repeatedly been associated with sacred spaces. In the modern era it played an important role in the shaping of certain political and legal concepts, such as, for example, the extraterritoriality of diplomatic premises.
Quello che noi conosciamo come “oggetto tempio” non ha una traduzione univoca nella lingua greca né in quella latina: ἱερόν, ναός, τέμενος, templum, aedes, fanum, cella, sacellum, sacrarium non sono che alcuni dei termini che appartengono al campo semantico in cui tale oggetto può essere inserito. Il lessico del luogo sacro è quanto mai ricco e sfumato.
Etimologicamente, tempio deriva naturalmente da templum che, secondo un’opinione diffusa, deriva da temulus, a sua volta riconducibile alla radice greca τεμ- di τέμνω (separare) e τέμενος, che nel lessico greco indica un recinto chiuso e sacro agli dèi, entro cui si eleva il santuario (ἱερόν), ovvero l’edificio o complesso di edifici o monumenti connessi col culto della divinità venerata, la cui statua è conservata nella cella (ναός) [1]. τέμενος e ἱερόν non sono cioè sovrapponibili, come dimostra l’esistenza di τέμενοι la cui superficie supera quella dello ἱερόν nel quale sono in parte ricompresi o, viceversa, di più τέμενοι entro lo stesso ἱερόν[2]. Presso i Romani, con templum si poteva altresì indicare la zona del cielo nella quale si osservava il volo degli uccelli, così come lo pseudo-territorio rappresentato dal fegato di un animale sacrificato. Templum richiama l’idea di “porzione separata” di spazio, sia essa reale – come quella di un recinto o di un antro – o immaginaria – come poteva essere appunto il cerchio tracciato dall’augure nel cielo con la sua bacchetta[3]. Nel lessico antico, l’accento cade dunque non sulla costruzione sacra, bensì sull’area su cui essa sorge: templum e tempio, cioè, non possono essere semplicemente sovrapposti[4].
L’etimologia ci segnala allora che il concetto di tempio si riferisce anzitutto ad uno spazio fisicamente delimitato e sacralizzato, rispetto a cui lo spazio profano è derivato e complementare[5]. È su tale accezione che i contributi raccolti in questo volume intendono anzitutto indagare: tempio come delimitazione, come confine. Ed è rispetto a ciò che la valenza politica del concetto diventa immediatamente evidente. De-limitare, tracciare i confini implica identificare un rex, ovvero colui che, Benveniste insegna, regit fines, «[traccia] le frontiere in linea retta»[6], delimitando interno ed esterno, sacro e profano, territorio proprio e territorio straniero. Un atto, questo, artificiale ed eminentemente politico, essendo l’occupazione di terra – se si ricorda con Schmitt il nesso tra ordinamento e localizzazione, al cuore della concezione occidentale di diritto – l’«archetipo di un processo giuridico costitutivo»[7] che ha infine per esito l’affermazione del territorio come luogo di esercizio dello ius terrendi e assoggettamento ad un nomos[8]. In questo senso, tempio e definizione di territorio sembrano essere intrinsecamente congiunti.
Il tempio coincide almeno in qualche misura con la territorializzazione del sacro – dunque, con la divinità che si appropria di una porzione di terra, dà luogo a un territorio e ivi fa spazio all’esercizio della propria sovranità, con ciò stesso creando un polo attrattivo (e repulsivo) di relazioni e movimento per la comunità che attorno a quel territorio si struttura[9]. I templi, infatti, hanno spesso determinato l’organizzazione urbanistica circostante e sempre costituito il centro di una partecipazione collettiva, verso cui pellegrinaggi e movimenti comunitari si sono orientati – o, di converso, sono stati esclusi. Tempio, del resto, è anche luogo di scontri e di rapporti di forza, e si colloca certo a pieno e attivamente nel tessuto mobile delle relazioni politiche, geografiche e storiche che ne hanno consentito o ostacolato – e tuttora, negli scenari caldi della politica internazionale come nelle nostre città, ne consentono o ne ostacolano – la costruzione e la fruizione[10].
Rispetto ad una simile definizione di tempio vi sono indubbiamente alcune precisazioni da introdurre, pur se in modo sommario, a chiarirne la parzialità[11]. La determinazione di uno spazio come luogo o edificio sacro investe fin dalle società antiche questioni di ampia portata e varia considerevolmente, in ragione della natura della divinità, della collocazione rispetto alla città, della stanzialità o mobilità, della naturalità o artificialità del luogo prescelto. La concettualizzazione di questo spazio sacro conosce declinazioni assai diverse. Basterebbe ricordare che il tempio, presso i Romani come presso i Greci e le società precedenti, è anzitutto uno spazio di manifestazione o abitazione del divino; tempio, quindi, è spazio abitato dalla divinità assai prima che luogo di assemblea dei fedeli, come diventerà a seguito di un lento – e comunque mai definitivo – processo che va legato alla riflessione sul modo di tributare il culto ed alla critica del sacrificio cruento, nonché al sorgere di nuove religioni che insistono sull’aspetto spirituale della pratica religiosa [12]. Altrettanto, l’organizzazione architettonica di questo spazio si muove lungo un amplissimo spettro. A partire dal VII secolo a.C. si diffonde la tipologia più nota ad Occidente, ovvero quella di un edificio rettangolare in pietra, su un basamento a gradini, poi con pilastri, trabeazione, fregio e timpano, che sarà indiscussa protagonista dell’architettura mediterranea per secoli, prima di cedere alle forme cristiane e islamiche. Ma, ad uno sguardo storicamente avvertito, l’oggetto tempio si rivela quanto mai sfuggente, nelle sue funzioni e concezioni prima ancora che in quanto edificio fisico. Il tentativo di riflettere sulla valenza teologico-politica del tempio deve anzitutto fare i conti con questa indeterminatezza o, per meglio dire, con la plurale determinatezza di culture e contesti in cui uno specifico spazio sacro è esperito – ed ha in tale indeterminatezza il proprio limite.
Inoltre, lo spazio sacro abitato dalla divinità non è necessariamente distinto e confinabile, nella misura in cui, secondo una declinazione non certo priva di implicazioni teologiche e politiche, dio e natura possono avvicinarsi fino a coincidere. La distinzione tra il sacro del fanum e il pro-fanus – con la territorializzazione che ad essa si accompagna – può anche non essere posta, nel momento in cui di Deus sive natura si parla. Una riflessione sul tempio non può non mantenere aperto l’interrogativo sulle conseguenze più propriamente politiche di questa declinazione teologica, che sembra aprire ad un paradigma alternativo alla sovranità territoriale. E, se anche ci si attiene alla distinzione sacro/profano, tale distinzione non va certo ad applicarsi alla sola dimensione spaziale. In questo senso il tempo va indubitabilmente menzionato in primo luogo, e del resto templum e tempus sono stati frequentemente fatti risalire ad unico etimo: il tempo omogeneo e vuoto non è proprio dell’esperienza religiosa e della sua ritualità, che si dispiega piuttosto nella discontinuità netta tra tempo liturgico e tempo ordinario e nell’orizzonte di un tempo primordiale che non appartiene al presente storico[13]. In secondo luogo, lo spazio sacro è stato ricondotto alla persona, in interiore homine, specie nell’ambito del pensiero cristiano delle origini, che notoriamente dà ampio sviluppo al tema dell’abolizione del tempio e del culto visibile. Il riferimento di Gv 4,23-24 agli «adoratori in spirito e verità» e di 1Cor 6,19 al corpo come «tempio dello Spirito Santo» evoca in modo diretto la questione del tempio e della spazializzazione del sacro, aprendo al suo rovesciamento in una sostanziale spiritualizzazione dello spazio sacro, che viene inteso piuttosto in senso cristologico, antropologico ed ecclesiologico[14]. Tali passi neotestamentari saranno ampliamente commentati da Origene e dai Cappadoci in chiave anti-idolatrica. D’altro canto, però, questa non è che una delle tradizioni presenti in contesto cristiano. Lo stesso passo giovanneo evocato pocanzi sarà oggetto, nel pieno Medioevo, solo di qualche frettoloso commento da parte di Tommaso e Bonaventura, preoccupati piuttosto di ribadire il ruolo della visibile mediazione ecclesiale, secondo una linea esegetica lungo cui si era già mosso Agostino[15]. Sarà poi la Riforma protestante a farsi portavoce dell’istanza di spiritualizzazione del sacro in modo esplicito, anche con riferimento alla medesima pericope[16]. La cerimonialità delle chiese cattoliche e la sacralità di luoghi e oggetti di culto sono infatti poste sotto aspra accusa in contesto protestante, in favore della contemplazione interiore. È indicativo che, da un punto di vista terminologico, si senta la necessità di distinguere tra “tempio” – ovvero il luogo di assemblea, spogliato di ornamenti – e “chiesa” – intesa piuttosto al senso di comunità di fedeli che si incontra per comunicare con la divinità[17]; se anche non si annulla l’idea di sacralità dei luoghi dedicati al culto, ciò avviene in virtù del servizio liturgico e della preghiera che ivi avveniva, senza assurgere a proprietà della porzione di spazio in sé[18]. Né mancano interpretazioni contemporanee della spiritualizzazione dello spazio sacro[19], che, come attesta la riflessione di Henri Corbin, sono ben rappresentate anche nel contesto del pensiero islamico[20].
Pur nei limiti ora evocati, è però l’accezione di tempio come territorializzazione del sacro che si vuole qui mettere a tema, per riflettere sul fatto che, nelle società urbanizzate, il tempio è comunque uno spazio qualitativamente differente e sottoposto ad una normatività di ordine diverso. Ad esso appartiene cioè un’alterità, delimitata in confini precisi e simboleggiata anche architettonicamente dal recinto o dal canale che lo separa dalla città, che ne fa, rispetto al territorio politico circostante, un extraterritorio, almeno in qualche misura inviolabile.
Ciò è manifesto nel diritto di asilo, che fin da tempi remoti rappresenta assai di frequente una prerogativa reale dei luoghi sacri[21]. Come noto, per asilo si intende un luogo di rifugio nel quale persone o cose, o almeno alcune persone o cose, suscettibili di costrizione o perseguimento possono sottrarsi a tali azioni per effetto di una legge, di un privilegio o di una consuetudine, trovando non solo temporanea ospitalità, ma riparo sicuro[22]. Nella Grecia antica l’identificazione tra tempio e luogo di asilo sembra vera in modo particolare: lo spazio sacro era immune da ogni atto violento e chiunque entrasse nel recinto di un tempio o si avvicinasse ad un altare si sottraeva con ciò alla violenza e alla legge della città, essendosi posto nelle mani degli dei piuttosto che in quelle degli uomini. Ogni santuario in Grecia, fin dall’età arcaica, garantisce infatti a chi vi si trova una forma di immunità, che consente di presentare supplica in vista dell’ottenimento di protezione da parte del sacerdote e – specie nei casi di templi di maggior importanza, quali il tempio di Esculapio a Pergamo – della garanzia di sostentamento; l’inviolabilità vi risulta garantita dal sacerdote e dalla comunità del luogo, che si fa carico della protezione e, dunque, delle rappresaglie che ad essa possono conseguire[23]. Gli Ebrei, da parte loro, prevedono intere città di rifugio per i colpevoli di omicidio involontario e vi sono tracce che indicano come l’altare del sacrificio svolgesse una funzione analoga, per quanto sia importante sottolineare come l’asilo non fosse una prerogativa associata al tempio di Gerusalemme[24].
La Roma repubblicana sembra invece non aver diffusamente conosciuto il diritto d’asilo. Indubbiamente anche in essa uno spazio si ritrova ad essere sacer in seguito al rito di consacrazione ed è così sottratto alla proprietà umana, riservato agli dèi immortali ed opposto allo spazio profano, santo o semplicemente religioso. Il tempio ivi costruito prevede l’organizzazione spaziale gerarchica (spazio del dio, dei sacerdoti, degli uomini) e, dunque, la strutturazione di un campo di relazioni come effetto di una separazione rituale e giuridica. Tale separazione è però affidata all’intervento o al riconoscimento dell’autorità umana: i templi, cioè, sono piuttosto da intendersi come luoghi inseriti dentro alla città e messi a disposizione della divinità, e ciò rende comprensibile perché ad essi non si applichino le nozioni di extraterritorialità o di asilo[25]. Tali nozioni però fanno gradualmente capolino, probabilmente su influsso ellenico. Nel 22 d.C. il Senato romano opera una revisione dei titoli di concessione degli asili nei territori greci, riconoscendone alcuni ma proibendo nuovi decreti di inviolabilità territoriale nell’intera penisola ellenica, nell’intento di limitare quello che, in quella regione, si era di fatto andato configurando come un diritto incondizionato di immunità e protezione associato a qualsivoglia luogo sacro e che, a scapito dell’ordine pubblico, vi richiamava debitori insolventi e delinquenti di ogni risma[26]. Tuttavia, nel procedere dell’età imperiale sarà consuetudine affermata e diffusa la concessione di protezione a schiavi fuggitivi, debitori nei confronti del pubblico erario e colpevoli di crimini sia nei luoghi di culto che in prossimità delle statue dell’imperatore: sul finire del IV secolo d.C., la legislazione interviene ripetutamente in materia ed è evidente come essa non crei tale diritto, ma lo disciplini limitandone la portata e gli effetti deleteri[27].
La medesima consuetudine viene infatti adottata da parte delle comunità cristiane: viene ribadita da alcuni concili a partire dal IV sec. e ne viene reclamata la legalizzazione[28]. Se il costume aveva inizialmente fissato la protezione in relazione alla chiesa o anche al solo altare, essa dal V sec. si estende anche ad una porzione di spazio circostante l’edificio, individuando uno spazio definito da Agostino come commune refugium, aperto a chiunque, innocente o colpevole[29]. Attraverso l’elaborazione giuridica e canonistica, la violazione dell’asilo finisce con l’essere considerata lesa maestà e sacrilegio[30]; ed è qui significativo rilevare che si tratta di una prerogativa reale, propria del luogo e non della persona del rifugiato (che non avrebbe potuto essere arrestato neppure se questo fosse stata la sua volontà) [31]. La reinterpretazione cristiana non effettua però una semplice trasposizione dei diritti antichi. Certo, resta il riferimento alla santità del luogo e i concili si rifanno ai precedenti storici per appoggiare il diritto d’asilo, ma vi sono altri nuovi argomenti apportati a favore: la lenitas imposta ai chierici vieta ad essi di consegnare alla giustizia un rifugiato che sia a rischio di pena di morte o tortura. A fondamento di tale divieto sta il riferimento al dovere di carità e alla benignitas, che suggeriscono sia meglio purificare il criminale attraverso la penitenza piuttosto che accelerare la sua morte e comparizione di fronte a Dio[32].
Nel procedere del Medioevo, il diritto d’asilo viene ribadito, ma ne viene contestualmente limitata la portata. A partire da Innocenzo III[33], infatti, alcune decretali stilano delle liste di casus excepti, che vanno nel tempo estendendosi sempre più. Più oltre, da parte cattolica si è portati a riaffermare il principio generale, restringendone l’applicazione, secondo quanto verrà infine statuito dalla bolla Cum alias (1591), che stabilisce che, fatti salvi i casus excepti (che vanno dai danneggiatori dei campi agli omicidi ai colpevoli di delitti contro il principe), il diritto d’asilo è istituzione divina la cui violazione equivale a sacrilegio ed è passibile di immediata scomunica latae sententiae[34]. Come chiarisce Francisco Suárez, rispetto alla giurisdizione temporale la chiesa è un «locus exemptus», ovvero un «extra territorium» e, poiché «iurisdictio extra territorium non extenditur», qualora il potere temporale vi intervenga esso si tramuta in violenza e tirannide[35]. Nella prassi come nella teoria, il diritto di asilo negli edifici di culto va però decadendo in misura crescente nella prima età moderna, complici anche gli esiti di una Riforma protestante naturalmente critica nei confronti dei privilegi ecclesiastici e del rilassamento morale di cui la protezione dell’asilo era considerata manifestazione. Nei territori riformati la concessione del diritto d’asilo a determinati luoghi viene assorbita tra le prerogative regie; tale diritto risulta pertanto pienamente snaturato, venendo meno il suo fondamento in una giurisdizione altra che si traduce nell’identificazione di extraterritorialità, ed è comunque sostanzialmente abolito in tutta Europa entro la metà del XIX sec.[36]: se l’asilo non può non evocare l’emblematica figura di fra’ Cristoforo, tratteggiata in quegli anni da Alessandro Manzoni, ciò avveniva nel momento in cui ormai era radicale la contestazione di tale privilegio nel nome di un’unica sovranità e di una legge civile che, come aveva scritto il nonno di Manzoni, Cesare Beccaria, «seguir deve ogni cittadino, come l’ombra segue il corpo»[37].
Parallelamente a tale scomparsa, è interessante però notare l’emergere di un’altra forma di extraterritorialità, ovvero quella riconosciuta agli edifici delle ambasciate. Essa risale allo sviluppo della diplomazia residente nella prima età moderna e ha nel tempio un riferimento concettualmente importante. Il graduale riconoscimento giuridico di tale extraterritorialità – a cui si giunge sia attraverso la questione del diritto di cappella (ovvero di celebrare la messa nella cappella dell’ambasciata secondo il rito della confessione del sovrano che egli rappresenta e non del sovrano presso il cui Paese egli si trova), sia grazie alla questione del diritto di asilo riconosciuto in relazione all’edificio dell’ambasciata – non è affatto estraneo alla precedente elaborazione giuridico-canonistica in merito al diritto di asilo, che anzi ne costituisce l’esplicito antecedente[38]. E si può, infine, ricordare come echi della semantica del luogo sacro e della sua inviolabilità si facciano sentire nel dibattito che accompagna l’approvazione del Quarto Emendamento che, nella Costituzione americana, disciplina l’inviolabilità del domicilio[39]. Anche a tal riguardo si vede allora come il tempio possa essere considerato testimone significativo di quell’intrico di rimandi e corrispondenze che, a livello tanto concettuale quanto pratico e istituzionale, si instaura tra il piano teologico e il piano politico nel divenire storico – intrico che, in una prospettiva puramente descrittiva di contesti e relazioni storicamente collocate, i contributi qui raccolti vogliono esplorare.
[1] Cfr. A Latin Dictionary, ed. by C.T. Lewis and C. Short, LL.D. Clarendon Press, Oxford 1879, ad v. templum, e A Greek-English Dictionary, ed. by H.G. Liddell and R. Scott, Oxford University Press, Oxford 1968, ad v. τέμνω e τέμενος, p. 1774. Stefan Weinstock rimanda però anche al significato di trave in legno tagliato, richiamando la struttura sotto cui l’augure sedeva (Templum, in Real Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, hrsg. v. A.F. Pauly und G. Wissowa, vol. V/A1, Metzlersche, Stuttgart 1934, coll. 480-85). Varrone, De lingua latina, VII, §7 lo fa risalire a tueri, «a tuendo primum templum dictum».
[2] Cfr. L. Guerrini, Temenos (τέμενος), in Enciclopedia dell’arte antica, 7 voll., dir. da R. Bianchi Bandinelli, Treccani, Roma 1958-1966, online su http://www.treccani.it/enciclopedia/temenos_(Enciclopedia-dell’-Arte-Antica)/
[3] Secondo Varrone, «dictum templum locus augurii aut auspicii causā quibusdam conceptis verbis finitus» (De lingua latina 7, §6). Qualche secolo più oltre, Servio Onorato (fine IV sec.) specifica ancora che «templum dicitur locus manu auguris designatus in aëre, post quem factum ilico captantur auguria» Servius Honoratus, In Vergilii Aeneidos Commentarius, 1,92).
[4] Su questi aspetti si veda infra il contributo di John Scheid.
[5] Su cui si veda É. Benveniste, Profanum et profanare, in Hommages à Georges Dumézil, Collection Latomus 45, Bruxelles 1960, pp. 46-53; tr. it. disponibile su http://www.ec-aiss.it/index_d.php?recordID=444.
[6] Id., Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, tr. it. di M. Liborio, 2 voll., Einaudi, Torino 1976, vol. II: Potere, diritto, religione, p. 295.
[7] C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “Jus Publicum Europaeum”, tr. it. di E. Castrucci, Adelphi, Milano 1991, p. 25.
[8] Per una problematizzazione del concetto di territorio si veda G. Boffi, Migrazioni, Orthotes, Napoli 2014, pp. 140-42 e, con riferimento alla dottrina medievale in tema di ius terrendi, S. Elden, The Birth of Territory, The Univ. of Chicago Press, Chicago-London 2013, pp. 218 ss., unitamente alle considerazioni sul nesso iurisdictio/territorium di C. Latini, Il privilegio dell’immunità. Diritto d’asilo e giurisdizione nell’ordine giuridico dell’età moderna, Giuffrè, Milano 2002, pp. 106-24.
[9] Sul tempio come centro si vedano almeno le riflessioni di M. Eliade, Il sacro e il profano, tr. di E. Fadini, Paolo Boringhieri, Torino 1967, pp. 25-59, e infra le considerazioni di Bernhard Welte discusse dal saggio di Silvano Zucal e, più estesamente, il contributo di Guido Boffi.
[10] Il saggio di Massimo Giuliani rilegge infra la complessa realtà contemporanea dell’area del tempio a Gerusalemme alla luce della riflessione sul nesso tra messia e tempio sviluppata dal giudaismo rabbinico.
[11] Si veda la problematizzazione offerta infra dal contributo di Guido Boffi, unitamente ai molteplici spunti ricavabili da A. Vauchez (ed.), Lieux sacrés, lieux de culte, sanctuaires. Approches terminologiques, méthodologiques, historiques et monographiques, École Française de Rome, Roma 2000, che spazia dall’età antica alla contemporaneità, da W. Coster – A. Spicer, Introduction: the dimension of sacred space in Reformation Europe, in W. Coster – A. Spicer (eds.), Sacred Space in Early Modern Europe, Cambridge Univ. Press, Cambridge 2005, pp. 1-16, e da S. Ribichini, «Più volte mutò nome la terra Saturnia» (Verg. Aen. VIII 329), in X. Dupré Raventós – S. Ribichini – S. Verger (eds.), Saturnia tellus: definizioni dello spazio consacrato in ambiente etrusco, italico, fenicio-punico, iberico e celtico, atti del Convegno internazionale svoltosi a Roma dal 10 al 12 novembre 2004, Consiglio nazionale delle ricerche, Roma 2008, pp. 19-26. Per un primo inquadramento rispetto alla valenza del tempio presso le società antiche del Vicino Oriente, della società greca e romana, cfr. i contributi raccolti alla voce Temples and sanctuaries, in D.N. Freedman (ed.), The Anchor Bible Dictionary, 6 voll., Doubleday, New York 1992, vol. 6, pp. 369- 392.
[12] Sulla complessità e l’ambivalenza di tale processo si veda il percorso storico delineato, rispetto alle religioni semitiche, nella parte II, pp. 155-306, di H.W. Turner, From Temple to Meeting House. The Phenomenology and Theology of Places of Worship, Mouton, The Hague 1979 (che alle pp. 260-77 prende in esame la tradizione islamica, su cui v. altresì infra il saggio di Massimo Campanini).
[13] Cfr. M. Eliade, Il sacro e il profano, cit., pp. 60-66.
[14] Cfr. G. Gaeta, Il culto «in spirito e verità» secondo il Vangelo di Giovanni, in P.C. Bori (ed.), In spirito e verità: letture di Giovanni 4, 23-24, EDB, Bologna 1996, pp. 9-20; P. de Navascués, Tempio, in A. Di Berardino (ed.), Nuovo dizionario patristico e di antichità cristiane, 4 voll., Marietti, Genova 2006-10, vol. 3, coll. 5215-17. Si pensi anche al riferimento di Ap 21,22 all’assenza di qualsivoglia tempio nella Gerusalemme celeste. Su questa tradizione si vedano infra i contributi di Gaetano Lettieri e di Francesco Ghia.
[15] Si veda la ricostruzione di G. Lettieri, In spirito e/o verità. Da Origene a Tommaso d’Aquino, in P.C. Bori (ed.), In spirito e verità, cit., pp. 43-72.
[16] Si veda ad es., con riferimento a Gv 4,23-24, l’argomentazione di J. Calvin, Institution de la religion chrestienne, Meyrueis, Paris 1859, t. II, l. III, cap. XX.30, p. 223: «Car si nous sommes les vrays temples de Dieu, il faut que nous le priions en nous, si nous le voulons invoquer en son vray temple. Et quant à ceste opinion rude et charnelle, laissons-la aux Juifs ou aux Gentils: puis que nous avons le commandement d’invoquer en esprit et vérité le Seigneur»; una sintetica presentazione della critica di Calvino alla territorializzazione del sacro – e dei suoi sviluppi nella teologia a lui successiva – in C. Grosse, Liturgical sacrality of Genevan Reformed Churches 1535-1566, in Sacred Space in Early Modern Europe, cit., pp. 60-80.
[17] Cfr. W. Richard, Untersuchungen zur Genesis des reformierten Kirchenterminologie der Westscheiz und Frankreich, mit besonderer berücksichtigung der Namengebung, Francke, Bern 1959, pp. 72-85.
[18] Cfr. C. Grosse, Liturgical sacrality of Genevan Reformed Churches 1535-1566, cit., che a p. 66 specifica: «It is the act of worship that takes place there that distinguishes the temple from every other edifice: it becomes consecrated as a place dedicated to the divine service. […] Contrary therefore to the generally held ideas, the Reformation did not completely reject the idea of holiness being present in the world. In its conception of the place of worship, the sacred is coincident with the liturgical communication that the Church maintains with its God». Si veda anche il contributo di B. Heal, Sacred image and sacred space in Lutheran Germany, in Sacred Space in Early Modern Europe, cit., pp. 39-59.
[19] Per una riflessione sul mutare dello spazio sacro e delle sue funzioni nella contemporaneità si veda infra il contributo di Silvano Zucal.
[20] Su cui si veda infra il saggio di Francesca Forte.
[21] Su quanto segue, oltre agli studi specifici citati via via, si vedano le ricostruzioni di insieme offerte da G. Le Bras, Asile ou Asyle, in Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastiques, sous la dir. de A. Baudrillart, Letouzey et Ané, Paris 1912-, t. IV, 1930, col. 1035-1047; G. Vismara, Asilo (diritto di), in Enciclopedia del diritto, Giuffré, Milano 1958ss., vol. III; U.E. Paoli, Asilia. Diritto greco/Asilo. Diritto greco e romano, e P.G. Caron, Asilo. Diritto canonico e diritto pubblico statuale, medioevale e moderno, entrambi in Novissimo Digesto Italiano, vol. I/2, Torino 1958, rispettivamente pp. 1035-36 e 1036-39; H. Wißmann, Z.W. Falk, P. Landau, Asylrecht, in Theologische Realenzyklopädie, De Gruyter, Berlin-New York 1979, vol. IV, pp. 315-327.
[22] Sul nesso tra ospitalità, la cui richiesta sia avanzata in condizioni di necessità, e diritto di protezione che ne consegue secondo la tradizione islamica si sofferma infra il contributo di Ida Zilio Grandi.
[23] Cfr. U. Sinn, Greek sanctuaries as places of refuge, in N. Marinatos, R. Haegg (eds.), Greek sanctuaries. New approaches, London NY 1993, pp. 88-109, e K.J Rigsby, Asylia. Territorial Inviolability in the Hellenistic World, Univ. of California Press, Berkeley 1996, p. 2, volume che raccoglie fonti in relazione a luoghi definiti inviolabili (asylia) tra il 260 a.C. e il 22 d.C. Si veda più estesamente C. Traulsen, Das sakrale Asyl in der Alten Welt: zur Schutzfunktion des Heiligen von König Salomon bis zum Codex Theodosianus, Tübingen, Mohr Siebeck 2004, pp. 131-219.
[24] Su questi aspetti si veda infra il contributo di Gian Luigi Prato.
[25] Si veda infra il saggio di John Scheid, nonché il suo Les espaces cultuels et leur interprétation, in «Klio» 77 (1995), pp. 424-432.
[26] Cfr. C. Traulsen, Das sakrale Asyl in der Alten Welt, cit., pp. 253-263, e K.J. Rigsby, Asylia, cit., p. 4, che ricorda altresì che simili provvedimenti furono presi nei confronti degli altri territori ellenistici.
[27] Si vedano in merito C.Th. 9.45 (De iis qui ad ecclesiam confugiunt, laddove si specifica tra l’altro a quali pertinenze della chiesa si possa estendere il diritto); C.Th. 9.44 (De iis qui ad statuas confugiunt, a conferma del fatto che anche la statua dell’imperatore ha questa efficacia); più oltre, C.I. 1.12 (De iis qui ad ecclesiam confugiunt vel ibi exclamant). Le prime leges rilevanti in merito risalgono agli anni Ottanta del IV sec., mentre un’effettiva istituzione del diritto di asilo avrà luogo a partire dal 419 e sarà confermata ed estesa nella sua portata – nell’impero d’Oriente e, successivamente, d’Occidente – nel 431. Cfr. A. Ducloux, Ad ecclesiam confugere: naissance du droit d’asile dans les églises, Boccard, Paris 1994, pp. 53-80.
[28] A. Ducloux, Ad ecclesiam confugere, cit., pp. 26ss. ricorda in questo senso già il concilio di Serdica (343 d.C.), pur osservando come il cercare rifugio nei luoghi sacri cristiani fosse, fino alla seconda metà del IV sec., una consuetudine diffusa, ma priva di qualsivoglia forma giuridica perché se ne riconosceva «une sorte de droit d’essence divine, supérieur au droit positif. Par consequent, ce droit existait, de facto, en dehors de toute législation positive» (p. 13). Quanto alla tematizzazione dell’asilo da parte dei padri della Chiesa, si veda ibi, passim e in particolare pp. 170-206 per la discussione dell’articolato pensiero di Agostino, definito «théoricien du droit d’asile».
[29] Ibi, pp. 208-10, con riferimento alla costituzione del 21 novembre 419 (riprodotta ibi, p. 284); cfr. altresì C. Th. 9.45.4 (con il testo della costuzione del 23 marzo 431), ripresa in C.I. 1.12.3. Alcuni provvedimenti successivi alla compilazione teodosiana restrinsero la protezione accordata, in particolare escludendo gli schiavi da tale tutela, nell’intento di tutelare erario pubblico e creditori privati. L’estensione del diritto d’asilo alle pertinenze dell’edificio verrà ribadita anche in età carolingia (cfr. ad es. il Karoli Magni capitularia. Capitulare legibus additum (803), c. 3, in Monumenta Germaniae Historica Leges, Sectio II: Capitularia regnum Francorum, Hannover 1883, tom. I, p. I, p. 113; altri riferimenti a provvedimenti di età longobarda e carolingia in P.G. Caron, Asilo, cit., p. 1037). Quanto alle estensioni introdotte dalla dottrina successiva, v. C. Latini, Il privilegio dell’immunità, cit., pp. 84-104.
[30] Di lesa maestà e sacrilegio parlano già rispettivamente C.I. 1.12.2 e C.I. 1.12.3.
[31] Quella della ratione loci risulta l’interpretazione maggioritaria dell’immunitas locale nella dottrina medievale giuridico-canonistica, cfr. C. Latini, Il privilegio dell’immunità, cit., pp. 75-76, dove vengono altresì discusse le condizioni soggettive considerate in dottrina, tra cui anzitutto la condizione di uomo libero.
[32] Alcuni accenni al periodo premoderno sono ricavabili da C. Latini, Il privilegio dell’immunità, cit., pp. 65-70, oltre che da G. Le Bras, Asile ou Asyle, cit. Da una prospettiva più ampia, sulle immunità e esenzioni – tra cui il diritto d’asilo – concesse da parte regale o papale nell’Europa medievale, sul loro significato giuridico e fiscale, e sulla loro portata intrinsecamente politica – in ragione del loro ruolo nella definizione di equilibri di potere e alleanze –, si veda B.H. Rosenwein, Negotiating space. Power, restraint, and privileges of immunity in early medieval Europe, Cornell University Press, Ithaca 1999.
[33] Si veda X 3.49.6; l’intero titolo 49 del Terzo libro del Liber extra tratta De immunitate ecclesiarum, cemeterii et rerum ad eas pertinentur e vi si trova altresì la lista di casus excepti introdotta da Gregorio IX (X 3.49.10). Quanto alla disciplina precedente, cfr. molti dei canoni raccolti in Decretum C. 17 q. 4.
[34] Gregorio XIV, Cum alias, in Bullarum privilegiorum ac diplomatum romanorum pontificum amplissima collectio, Romae 1751, t. V/p. I, n. XVII, pp. 271-73. Il Concilio di Trento era intervenuto sinteticamente in materia di asilo in sessione XXV, De reformatione, cap. 20, in J. Alberigo – J. A. Dossetti – P. Joannou – C. Leonardi – P. Prodi (eds.), Conciliorum Oecumenicorum Decreta, 1973, pp. 795-96. Sulle censure spettanti al giudice secolare e a chi violi l’asilo v. C. Latini, Il privilegio dell’immunità, cit., p. 315-21, che alle pp. 213-304 si sofferma a lungo sui casus excepti.
[35] Cfr. F. Suárez, De Virtute Et Statu Religionis. Tomus I, Lugduni 1609, Tr. II, Lib. III, caput XIII: Quale crimen committant, & quam poenam incurrant iudices reos ab ecclesiis extrahentes, p. 279.
[36] Se in Francia già nel corso del XVI sec. Francesco I e Enrico II avevano sostanzialmente eliminato ogni forma di inviolabilità dei luoghi sacri e la legislazione post-rivoluzionaria non fa che statuire definitivamente la sua inammissibilità, sul territorio italiano fu il Piemonte ad abolirlo per primo nel 1850, con la legge Siccardi (l. 1013/1850, art. 6). Cfr. la ricostruzione offerta da P.G. Caron, Asilo, cit., pp. 1038-39 e C. Latini, Il privilegio dell’immunità, pp. 305-06, pp. 364-68 (con alcune significative fonti riportate quanto alla dottrina protestante), nonché gli estesi riferimenti alla prassi europea ivi contenuti nel §3.4, pp. 330-75, e nel §2.2, pp. 432-46.
[37] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Mondadori, Milano 1991, § XXXV, p. 92.
[38] Su questi aspetti si veda infra il contributo di Dante Fedele.
[39] Muovono in questa direzione le considerazioni e le fonti avanzate da B.H. Rosenwein, Negotiating space, cit., pp. 210-12, che nelle pagine precedenti discute, nella stessa prospettiva, del principio di common-law per cui «every man’s house is his castle».