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The dogma of “reversibility”. Guilt, torment and suffering in Joseph de Maistre’s works
This paper connects Joseph de Maistre’s providentialist interpretation of the French Revolution in his Considerations on France (1796) with his thoughts on the problem of evil in the world and in history, which make up the theodicy found in/underpinning the Saint Petersburg dialogues(1821). Outlining some of the features of Maistre’s political theology, I reveal the link which he makes between guilt, torment/torture and suffering, and his focus on the idea of sacrifice – in particular the sacrifice of the innocent – seen as key to the understanding of the outrage of the suffering of the righteous in the world.
Il tema generale del volume occupa un posto centrale nella riflessione filosofica di Joseph de Maistre, e, in particolare, nella filosofia e teologia della storia che egli ha sviluppato come cornice entro la quale inserire un’interpretazione provvidenzialistica della Rivoluzione francese. Essendo centrale, questo tema si ritrova in molti suoi scritti, ma per esigenze di sintesi mi riferirò inizialmente alle Considérations sur la France[1] e in seguito e soprattutto alle Les Soirées de Saint-Pétersbourg[2]. La tesi che de Maistre avanza in questi e altri scritti è chiara, lineare, coerente, ancorché ovviamente la si possa ritenere discutibile sotto diversi aspetti o addirittura respingere del tutto. Cercherò di restituire il nocciolo di questa tesi, accennando in conclusione a qualche elemento di discussione.
Com’è noto, gran parte della riflessione di de Maistre è stata ispirata dall’evento della Rivoluzione francese, un evento al quale sarebbe eufemistico dire che egli ha guardato in termini critici o polemici. Egli l’ha considerata piuttosto un sovvertimento senza precedenti dell’ordine politico, morale e religioso dell’Europa, tanto da vedere in essa «un carattere satanico»[3]. Il carattere satanico della Rivoluzione francese non risulta soltanto, per de Maistre, dalla apostasia del cristianesimo che essa ha attivamente promosso, ma dal susseguirsi confuso del suo procedere e dalle divisioni senza fine che ha generato nel popolo francese e che hanno prodotto a loro volta un immane bagno di sangue. Un evento tanto inaudito e segnato a tal punto dall’eterogenesi dei fini da concludersi, come de Maistre scrive in Du Pape, con il mettere «sul trono un gendarme còrso al posto di un re francese; e, nel popolo, la servitù al posto dell’obbedienza»[4], non può essere compreso restando fermi all’analisi delle sole cause politiche; la sua comprensione deve elevarsi a un piano teologico e quindi deve collegare i due piani, quello politico e quello teologico, secondo una riflessione che è squisitamente di teologia politica.
È esattamente quello che de Maistre fa nei primi capitoli delle Considérations sur la France, dove guarda all’evento della Rivoluzione a partire dal presupposto che esista un governo di Dio sulle cose del mondo. Egli scrive nell’incipit:
«Siamo tutti legati al trono dell’Essere Supremo con una catena leggera, che ci trattiene senza asservirci. L’azione degli esseri liberi sotto la mano divina è quanto di più ammirevole esista nell’ordine universale della cose. Liberamente schiavi, essi operano secondo volontà e necessità insieme: fanno realmente quello che vogliono, ma senza poter disturbare i piani generali».[5]
Secondo questa concezione, che combina misteriosamente libertà umana e disposizione divina, l’evento della Rivoluzione è liberamente voluto dagli uomini, ma l’inconseguenza tra quello che gli uomini hanno voluto con essa e il risultato finale delle loro azioni, il carattere meccanico del suo procedere che sembra indifferente alla diversità degli attori che la guidano, dimostrano secondo de Maistre che essa risponde non ad un disegno umano, bensì divino. Ma come può un evento giudicato tanto catastrofico essere il prodotto della volontà di Dio? La risposta di de Maistre è che esso è tale proprio in virtù di questo carattere. Le sofferenze che gli uomini hanno dovuto subire con la Rivoluzione, le vittime che essa ha prodotto, fra le quali vi sono anche quelli che ne sono stati gli ispiratori, sono una punizione, e una punizione, sia quando è comminata da Dio sia quando lo è dagli uomini, ha come scopo il pagamento del debito contratto con la colpa e la rigenerazione.
In questo consiste l’interpretazione provvidenzialistica di de Maistre della Rivoluzione francese. Con essa gli uomini hanno avuto l’illusione di agire liberamente e di farlo contro Dio, ma in realtà la catena che li lega a Dio si è fatta più corta e stretta ed essi sono stati costretti a volere quello che non volevano; la loro colpa viene così punita e con la punizione c’è la speranza che vi sia una rigenerazione. E, in effetti, de Maistre, che scrive la Considérations sur la France nell’infuriare degli eventi della Rivoluzione, spera che, superata la prova e scontata la punizione, il cristianesimo trovi nuovo vigore in Francia e con esso si restauri un re cristiano capace di corrispondere a quello che per de Maistre è un vero e proprio primato perduto da questa nazione in Europa, un primato anzitutto di tipo religioso.
In questo contesto de Maistre tocca due questioni che potrebbero mettere in dubbio la sua interpretazione provvidenzialistica della Rivoluzione. La prima riguarda la sofferenza degli innocenti che scontano la medesima punizione dei colpevoli. Se Dio intende punire questi ultimi, perché finisce per punire anche i primi? Così facendo Dio non si mostra forse ingiusto? La risposta di de Maistre è duplice: in primo luogo occorre considerare che è difficile per gli uomini farsi un’idea adeguata dell’innocenza e comunque, a ben vedere, non c’è alcuno che sia veramente innocente. Scrive de Maistre:
«Le nostre idee sul bene e sul male, sull’innocente e sul colpevole, sono troppo spesso alterate dai nostri pregiudizi (…) Insomma, vi sono azioni scusabili, perfino lodevoli secondo le vedute umane, e che sono in fondo infinitamente criminali. Se ci vien detto, ad esempio: Ho abbracciato in buona fede la rivoluzione francese, per puro amore della libertà e della mia patria; ho creduto, in anima e coscienza, che essa avrebbe arrecato la fine degli abusi e la pubblica felicità; noi non abbiamo niente da replicare. Ma l’occhio per il quale tutti i cuori sono diafani [l’occhio di Dio] vede la fibra colpevole; scopre, in un ridicolo bisticcio, in un piccolo fruscio dell’orgoglio, in una passione bassa o criminale, il primo mobile di quelle risoluzioni cui si vorrebbe dar lustro agli occhi degli uomini; e per lui la menzogna dell’ipocrisia innestata sul tradimento è un delitto in più.»[6]
Se l’innocenza non esiste, tutti sono in qualche modo colpevoli e meritano quindi la punizione e in questo modo l’obiezione di ingiustizia rivolta a Dio viene a cadere. Ma questa risposta non basta: ad essa se ne aggiunge un’altra che è di diverso tenore, ma ugualmente importante. «Siamo continuamente assaliti dall’immagine tanto penosa degli innocenti che periscono insieme ai colpevoli», scrive ancora de Maistre, ma questo problema va considerato
«nel suo rapporto col dogma universale, antico quanto il mondo, della reversibilità dei dolori dell’innocenza a profitto dei colpevoli. È da questo dogma, mi sembra, che gli antichi derivarono l’usanza dei sacrifici che praticarono ovunque, e che credevano utili non solo ai vivi, ma anche ai morti (…) Il cristianesimo è venuto a consacrare questo dogma, che è assolutamente naturale per l’uomo, quantunque paia difficile concepirlo per mezzo della ragione. (…) Si domanda talvolta a che cosa servono quelle austerità terribili, praticate da alcuni ordini religiosi, e che sono pure dei sacrifici volontari; sarebbe come domandare a che cosa serve il cristianesimo, poiché esso si fonda interamente su questo medesimo dogma amplificato, dell’innocenza che paga per la colpa».[7]
Vedremo meglio in seguito la portata di questa osservazione; per intanto consideriamo come de Maistre risponda alla seconda obiezione che potrebbe mettere in discussione la sua interpretazione provvidenzialistica degli eventi della Rivoluzione, e cioè il rilievo che i mezzi scelti da Dio per la punizione sono orribili, sono appunto la guerra, lo spargimento di sangue, la distruzione. Per questo, se Dio non è ingiusto, non mostra forse di essere crudele? La risposta di de Maistre suona nella maniera seguente:
«La storia dimostra, disgraziatamente, che la guerra, in un certo senso, è la condizione abituale del generale umano; vale a dire che il sangue umano deve scorrere senza interruzione sul globo, qua o là, e che la pace, per ogni nazione, non è che una tregua». […] «È lecito dubitare, del resto, che questa distruzione violenta sia, in generale, un male così grande come si crede: per lo meno, è uno di quei mali che entrano in un ordine di cose dove tutto è violento e contro natura, e che producono delle compensazioni. In primo luogo, quando l’anima umana ha perduto la sua energia a causa della mollezza, dell’incredulità e dei vizi cancrenosi che seguono l’eccesso della civilizzazione, essa può essere depurata solo nel sangue”. E poi “si sa che le nazioni non arrivano mai al più alto livello di grandezza di cui sono capaci, se non dopo guerre lunghe e sanguinose».[8]
La guerra, con lo spargimento di sangue e la distruzione che ne seguono, è spaventosa, ma il fatto che sia spaventosa non costituisce un motivo né per negarla, dal momento che è così presente nella storia umana, né per mancare di riconoscere che essa è un mezzo necessario alla rigenerazione dell’umanità quando gli altri, meno cruenti, non funzionano. Se oggi non riconosciamo più questa evidenza è perché, secondo de Maistre, la filosofia moderna ce lo impedisce con il suo vacuo ottimismo. Scrive De Maistre:
«Non c’è che violenza nel mondo; ma noi siamo viziati dalla filosofia moderna, la quale ha detto che tutto è bene, mentre invece il male ha tutto insozzato, e che, in un senso assai vero, tutto è male, perché niente è al suo posto. Essendosi abbassata la nota tonica del sistema della nostra creazione, tutte le altre si sono abbassate in proporzione, secondo le regole dell’armonia. Tutti gli esseri gemono e tendono, con fatica e dolore, verso un altro ordine di cose. Gli spettatori della grandi calamità umane sono indotti soprattutto a queste tristi considerazioni. Ma guardiamoci dallo scoraggiarci: non c’è castigo che non purifichi; non c’è disordine che l’amore eterno non rivolga contro il principio del male. È dolce, in mezzo al generale sovvertimento, presentire i piani della Divinità».[9]
Se i piani della Divinità, che de Maistre dice di presentire nel 1796, fossero stati riferiti ad una rigenerazione cristiana della Francia e dell’Europa, tramite la prova terribile della Rivoluzione, è certo che essi non si sono realizzati. De Maistre stesso ha avuto modo di constatarlo. Più di un ventennio dopo e quindi qualche anno prima di morire, a chi gli chiedeva il suo pensiero sullo stato presente del cristianesimo in Europa, egli rispondeva di primo acchito con due sole parole: «Guardate e piangete (Voyez et pleurez)»[10].
È forse a causa di questa disillusione sul piano storico, indotta dalle vicende successive alla Rivoluzione e dal carattere ambiguo della Restaurazione, che la medesima visione provvidenzialistica proposta nelle Considérations sur la France si ritrova ne Les Soirées de Saint-Pétersbourg, ma trasferita su un livello più concettuale e astratto, al riparo dai pericoli della smentita storica, per quanto certamente sempre pronta a ricevere dalla storia una conferma, quando essa vorrà darsi. Infatti de Maistre, il fervido ammiratore della cultura classica che ha tradotto e commentato il saggio di Plutarco Sui ritardi della giustizia divina[11], ha sempre conservato la convinzione che la punizione dei malvagi da parte di Dio può senz’altro ritardare, secondo il metro di giudizio umano, perché Dio è buono e concede tempo, ma inevitabilmente arriva, perché Dio è giusto, e con essa l’attuazione dei suoi piani.
Riprendiamo quindi le tesi precedenti di de Maistre per come egli le espone nella sua opera più significativa. Al centro dei colloqui delle Soirées sta ancora una volta il tema del «governo temporale della Provvidenza», e con esso dello scandalo della sofferenza del giusto. È il problema classico della teodicea: perché anche i giusti devono soffrire se Dio governa il mondo e se Dio, secondo la concezione del teismo, è onnipotente e perfettamente buono? Nei confronti di questo problema la filosofia moderna, dopo Leibniz, ha mostrato per lo più un atteggiamento scettico che è un aspetto di quell’atteggiamento più generale che de Maistre ha chiamato “teofobia”, cioè la paura di immischiare Dio con le faccende del mondo. Un tale atteggiamento finisce naturalmente per veicolare l’ateismo, ma lo fa in modo ipocrita, affermando in realtà di mirare alla salvaguardia della trascendenza divina e richiamando ad un contegno di umiltà del pensiero umano in simili questioni. Un tale atteggiamento va smascherato ed è quello che de Maistre fa in diversi luoghi delle Soirées:
«Tutte le volte che vedete un filosofo dell’ultimo secolo inchinarsi rispettosamente davanti a qualche problema, dirci che la questione supera le forze dello spirito umano, che non cercherà di risolverla, ecc. … siate certi che al contrario teme che il problema sia troppo chiaro, e si affretta a lasciarlo da parte per tenersi il diritto di intorbidare l’acqua». […]. «Non fatevi sedurre dalla teorie moderne sull’immensità di Dio, sulla nostra piccolezza e sulla follia che commettiamo volendo giudicare secondo noi stessi: belle frasi che non vogliono esaltare Dio quanto piuttosto abbassare l’uomo (…). Non temiamo mai di elevarci troppo e di indebolire le idee che dobbiamo avere dell’immensità divina. Per mettere l’infinito tra i due termini, non è necessario abbassare l’uno; basta elevare senza limiti l’altro. Immagini di Dio sulla terra: tutto quello che abbiamo di buono gli assomiglia».[12]
Quest’ultima osservazione rimanda al principio che de Maistre fa valere per superare l’infinita differenza tra la natura di Dio e quella dell’uomo, cioè il principio di analogia. Senza di esso non è possibile una teologia politica in senso proprio e in de Maistre l’analogia tra teologia e politica non è semplicemente di relazione o formale, com’è intesa da C. Schmitt[13], ma intrinseca e sostanziale. La sofferenza del giusto nel mondo solleva il dubbio circa la giustizia di Dio e per fronteggiare questo dubbio non c’è altra via che ricorrere al concetto di giustizia che ci è disponibile, cioè a quello umano, nella convinzione che «la giustizia divina può essere contemplata e studiata nella nostra, molto più di quanto crediamo»[14].
Ora, noi vediamo che nel mondo, affinché ci sia giustizia, è necessario che il crimine venga punito, anche se la punizione può arrivare in ritardo o non prodursi sempre in riferimento al singolo individuo. Chi ha la prerogativa della punizione? Colui che detiene la sovranità, il quale ha però bisogno di qualcuno che infligga ai criminali i castighi che sono assegnati dalla giustizia umana, e costui è il boia, colui che, come de Maistre scrive in famose pagine nel I Colloquio delle Soirées, nel medesimo tempo è «l’orrore e il legame dell’associazione umana», perché, tolto lui, «l’ordine lascia il posto al caos, i troni si inabissano e la società scompare»[15].
Se la giustizia umana funziona in questo modo, perché quella divina dovrebbe funzionare diversamente? E in effetti per de Maistre l’analogia fra le due è perfetta, ancorché noi possiamo contemplarla solo come in uno specchio:
«Dio che è l’autore della sovranità, lo è anche del castigo […]. C’è dunque nel cerchio temporale una legge divina e visibile per la punizione del crimine; e questa legge, tanto stabile quanto lo è la società che essa fa sussistere, è messa invariabilmente in atto dall’origine delle cose: il male che è sulla Terra, agisce costantemente; e per una conseguenza necessaria esso deve incessantemente essere represso dal castigo».[16]
Ogni castigo genera naturalmente dolore e, se «ogni dolore è un supplizio imposto per un delitto attuale o originale»[17], continua de Maistre, «ogni supplizio supplisce», cioè assolve al debito contratto con il delitto. Per questo egli osserva: «Guai […] alla nazione che abolisse i supplizi! Perché il debito di ogni colpevole, non cessando di ricadere sulla nazione, obbligherebbe questa a pagare senza misericordia, con il pericolo di vedersi infine trattata come insolvente a rigor di legge[18].
L’analogia con la giustizia umana getta così una luce sul mistero del male e della sofferenza nel mondo e sul modo in cui procede la giustizia divina. Il male esiste nel mondo non perché Dio lo abbia voluto, ma perché l’uomo ha degradato se stesso e la natura con il peccato originale. Questa tesi rispecchia, da una parte, un dogma centrale del cristianesimo che deve essere creduto, ma dall’altra, come accade per tutti i dogmi cristiani secondo de Maistre, essa è suscettibile di un consenso universale ed è quindi perfettamente razionale.[19] Nessuno infatti può credere, afferma de Maistre, che l’uomo allo stato attuale sia uscito «dalle mani del creatore»[20] e quindi lo stato attuale dell’uomo deve essere una degradazione; ma «se ogni degradazione non può essere che un castigo, e se ogni castigo suppone un delitto, la sola ragione si trova condotta, come per forza, al peccato originale»[21]. Il peccato è quindi la causa originaria del male del mondo alla quale si può arrivare sola ratione; esso è il principio «che tutto spiega, e senza il quale nulla si spiega»[22], ma è anche qualcosa che si ripete continuamente nell’uomo, rendendolo capace di commettere tutti i crimini e al tempo stesso vulnerabile a soffrire tutti i mali.
E in effetti noi constatiamo che gli tutti gli uomini, buoni o malvagi che siano, sono costretti a soffrire non perché siano buoni o cattivi, ma appunto perché «ogni uomo, in quanto uomo, è soggetto a tutte le disgrazie dell’umanità».[23] Quest’ultima è una legge generale, che essendo tale, non è ingiusta e quindi è capace di privare la sofferenza del giusto del suo carattere scandaloso. In un mondo regolato da leggi che Dio non può ordinariamente sospendere senza renderlo caotico, “i beni e i mali sono una specie di lotteria da dove ognuno, senza distinzione, può estrarre un biglietto bianco o un biglietto nero”[24]. In un mondo del genere resta vero che la virtù può limitare fino a un limite sconosciuto il numero e l’intensità degli stessi mali fisici[25] e che la felicità appartiene di diritto soltanto alla virtù[26], ma questi mali non possono essere tolti del tutto e la felicità non appartiene necessariamente al singolo virtuoso. D’altronde, se ogni azione virtuosa o viziosa fosse ricompensata infallibilmente con la felicità o il castigo, la virtù stessa perderebbe il suo significato.
I mali appartengono dunque al mondo a causa del peccato, cioè a causa di una colpa originaria dell’uomo, essi lo fanno soffrire e rappresentano per lui sempre un supplizio e insieme, a seconda dei casi, un rimedio o un’espiazione: «Nell’ordine materiale, come nell’ordine superiore, – scrive de Maistre – la legge è la stessa e tanto vecchia quanto il male: il rimedio del disordine sarà il dolore»[27]. I mali e il dolore non erano necessari, poiché l’innocenza poteva prevenirli, ma una volta resi necessari dall’uomo essi fanno parte irrimediabilmente della vita umana in un modo che varia a seconda dei tempi e dei luoghi, ma che nel complesso è uniforme e costante. Parlare di un progresso storico dell’umanità che porta dal male verso il bene, dalla sofferenza verso la felicità, dalla guerra verso la pace è quindi per de Maistre una solenne sciocchezza. Le famose pagine che egli dedica proprio alla guerra nel VII Colloquio delle Soirées rientrano all’interno di questa visione e non meritano di considerate isolatamente[28]: la guerra, infatti, non è altro che un «capitolo della legge generale che pesa sull’universo»[29], cioè della «grande legge della distruzione violenta degli esseri viventi» che «si compie incessantemente dall’insetto all’uomo»:
«La terra intera, continuamente intrisa di sangue, non è che un immenso altare dove tutto ciò che vive deve essere immolato senza fine, senza misura, senza tregua, fino alla consumazione delle cose, fino all’estinzione del male, fino alla morte della morte” (…). “La guerra è dunque in se stessa divina, perché è una legge del mondo».[30]
Ma questa legge terribile, come ogni legge, ammette delle eccezioni? De Maistre pensa di sì. I mali e le sofferenze che essa impone possono essere prevenuti o comunque mitigati dalla preghiera, perché le leggi con cui Dio governa il mondo sono sì costanti, ma, a differenza di quello che hanno pensato la filosofia e la scienza moderne[31], non sono invariabili. Dio, che è l’artefice di questi leggi, può disporne in modo da fare quello che per noi è impossibile. Ancora una volta torna l’analogia con la giustizia umana: se le ferventi suppliche degli amici di un condannato «possono disarmare il sovrano»,[32] la preghiera può ottenere lo stesso risultato nei confronti del Dio che governa il mondo.
Ma i mali, con le relative sofferenze, possono essere svincolati dalla loro necessità anche in virtù delle sofferenze degli innocenti, dal momento che «il giusto, soffrendo volontariamente, non espia [satisfait] solo per se stesso, ma per via della reversibilità, espia anche per il colpevole»[33]. Eccoci quindi davanti nuovamente a quello che de Maistre chiama il «dogma della reversibilità»[34] o della della «sostituzione»[35], cioè alla credenza universalmente attestata nelle più diverse culture e religioni che la salvezza arriva mediante il sangue e “che l’innocenza può pagare per il colpevole”[36].
Questa credenza, come de Maistre illustra nel suo Éclaircissement sur le sacrifices, sta alla base di ogni pratica sacrificale nelle religioni non cristiane ma è stata espressa al suo livello più sublime proprio dal cristianesimo, sebbene esso l’abbia purificata dall’orribile abuso che ne è stato fatto nelle prime con i sacrifici umani[37]. È in questo dogma, infine, che possiamo trovare la risposta più profonda alla domanda che agita la teodicea, quella sulla sofferenza del giusto. De Maistre lo afferma chiaramente nella conclusione del X Colloquio, lasciando intravedere la sua indole di mistico trattenuta sotto le vesti dell’uomo di legge, del politico, del filosofo: “Quando dunque il colpevole ci chiederà perché l’innocenza soffre in questo mondo, noi non mancheremo di risposte, come avete visto, ma possiamo sceglierne una più diretta e più toccante forse di tutte le altre. Noi possiamo rispondere: essa soffre per voi, se lo volete”.[38]
La concezione che ho appena esposto di de Maistre, come ho detto in apertura, è chiara, lineare, coerente, ma naturalmente è discutibile sotto diversi profili, soprattutto se si mettono in discussione le premesse da cui essa muove. Un premessa fondamentale è ovviamente quella che egli stesso chiama del “teismo”, cioè la credenza razionale e religiosa al tempo stesso dell’esistenza di un Dio buono e onnipotente che governa il mondo. Di solito chi parla di teologia politica in Occidente ha in mente questa concezione di Dio e quindi, a mio avviso, una teologia politica che intenda essere presa sul serio deve chiarire preliminarmente se accetta o meno questa premessa.
Come ho accennato in precedenza, una concezione della teologia politica che riduca quest’ultima al rilievo dell’analogia esistente tra concetti giuridico-politici e concetti teologici, cioè la concezione fondamentalmente sostenuta da C. Schmitt, è insufficiente. Essa serve tutt’al più al lavoro dello storico o del sociologo, ma non del filosofo.[39] Una tale concezione assume come un fait accompli la secolarizzazione, e quindi guarda al legame tra teologia e politica come a qualcosa che è venuto meno e che sopravvive soltanto in sbiadite immagini sporadicamente riaffioranti nella società secolare, ma questa concezione non è affatto valida né per de Maistre, che non viveva ancora in una società secolare, né necessariamente lo è per noi che viviamo in una società post-secolare. Detto in termini ancora più diretti: che la società in cui viviamo sia secolare, non-secolare o post-secolare, se Dio esiste e governa il mondo, è ovvio che anche la politica dipende da Dio, come tutto il resto; se quindi si parla di teologia politica nel quadro del teismo se ne deve parlare in quello che a me sembra il suo significato più plausibile, cioè in senso teorico come tematizzazione del fondamento teologico della politica e in quello pratico come relazione di dipendenza della prassi politica dai comandi divini. È esattamente quello che de Maistre fa in modo coerente.
Un seconda premessa che si potrebbe mettere in discussione della concezione di de Maistre è quella della forte caratterizzazione confessionale della sua teologia politica, cioè il fatto che sia una teologia politica cristiana. In quanto tale, essa potrebbe essere giudicata come inadeguata per un contesto culturale e religioso di tipo pluralistico com’è quello odierno. Tuttavia, il teismo che costituisce lo sfondo della sua teologia politica non è una semplice opzione confessionale, ma restituisce il concetto di Dio ritenuto più adeguato dal punto di vista razionale. Ora, sulla adeguatezza o meno del concetto di Dio dal punto di vista razionale il fenomeno della pluralità religiosa incide fino ad un certo punto. Una volta che la pluralità religiosa sia riconosciuta e accettata, in ogni caso rimane infatti il problema di discernere tra le concezioni che le diverse religioni hanno di Dio quella più adeguata dal punto di vista razionale. Un simile discernimento lo mettiamo continuamente in opera anche oggi, quando per esempio siamo soliti affermare che il concetto di Dio del fondamentalismo religioso (in particolare di quello islamico) è da ripudiare.
Anche riguardo a questo problema non si dovrà affermare troppo velocemente che si tratta di un obiettivo irraggiungibile, adottando una visione scettica e in fondo liquidando il problema. Nelle Considérations sur la France, de Maistre ha scritto riguardo al disegno provvidenziale di Dio sulla storia:
«Non vedremo mai tutto durante il nostro viaggio, e spesso ci inganneremo; ma in tutte le possibili scienze, eccetto le scienze esatte, non siamo forse ridotti a fare congetture? E se le nostre congetture sono plausibili, se hanno dallo loro l’analogia, se si appoggiano su idee universali, se soprattutto sono consolanti e tali da renderci migliori, che cosa loro manca? Se non sono vere, almeno sono buone; o piuttosto, dato che sono buone, non sono forse vere?».[40]
Anche in ambito religioso è possibile fare soltanto delle congetture, ma la validità di certe idee universali e una superiorità di tipo pratico sono criteri che, seppur distinti, possono essere utilizzati, come di fatto mi sembra faccia De Maistre, in modo convergente e cumulativo per dare un assenso razionale al Dio di una religione piuttosto che ad un altro. Naturalmente si può non essere d’accordo con la conclusione che un tale Dio sia quello cristiano, ma allora si dovranno illustrare le alternative e motivarle; se non lo si fa, si rinuncia ad un discernimento della diversità religiosa e si ammette implicitamente che la religione abbia perso qualsiasi rilevanza intellettuale. In questo modo l’appartenenza confessionale a quella o quell’altra religione diviene un fatto puramente contingente e arbitrario.
Una terza premessa che si potrebbe discutere della teologia politica di de Maistre riguarda la sua interpretazione sacrificale del cristianesimo. Su questo punto, che è centrale per il tema del nostro seminario, mi vorrei soffermare in conclusione un po’ più distesamente. Questa interpretazione è infatti alla base degli elementi che oggi sembrano più discutibili (e per alcuni più repellenti) della teoria di de Maistre, quali la sua apologia della pena di morte e l’idea che guerra sia la condizione naturale di un’umanità decaduta. Essa può indubbiamente suscitare repellenza ed altrettanto indubbiamente può apparire inattuale nella nostra epoca, ma la repellenza o l’inattualità non sono necessariamente criteri del vero o del falso.
In primo luogo, occorre osservare che questa interpretazione del cristianesimo non veicola la rappresentazione pagana della divinità come un Moloch assetato di sangue o quella gnostica di un “cattivo demiurgo” che si gode lo spettacolo della sofferenza nel mondo. Tali rappresentazioni della divinità sono, infatti, escluse a priori dal teismo di de Maistre. La lettura delle Soirées, com’è noto, ha influito in modo significativo sull’elaborazione della Teodicea di Antonio Rosmini, il quale in un passo di quest’opera esprime bene questo punto che egli condivide pienamente con de Maistre: «Per il teista […] la sola credenza dell’Essere perfettissimo dee troncare ogni dubbio che l’origine del male nuocer possa alle perfezioni divine».[41]
Allo stesso modo è forviante affermare, come ha fatto E. Cioran, che de Maistre è stato «sedotto» dal Dio dell’Antico Testamento e che il suo è un «cattolicesimo giudaico» animato da una «frenesia profetica» in cui non c’è quasi traccia della «dolce mediocrità dei Vangeli»[42]. È vero che, come ancora nota Cioran, de Maistre parla poco del Cristo e quasi sempre usando «frasi convenzionali»,[43] ma per lui è il Cristo che introduce l’uomo al rapporto di amore filiale con Dio e il sacrificio di Cristo è visto come la definitiva esemplificazione, e al tempo stesso la più pura espressione, di quel “dogma della reversibilità” poc’anzi richiamato, che occupa un posto centrale nella sua interpretazione del cristianesimo.
Questa interpretazione offre, in realtà, una risposta al problema della sofferenza nel mondo che si svolge al cospetto di un Dio buono e giusto, e quindi al problema della teodicea. Se la dottrina del peccato originale è vera, come de Maistre ritiene, l’uomo contrae un debito con Dio che cerca di ripagare.[44] I sacrifici costituiscono, secondo de Maistre, la più chiara dimostrazione di questa volontà di riscatto, che nella loro forma più pura, quella che il monoteismo ebraico-cristiano ha promosso, non implica né il tentativo di manipolazione magica della divinità né quello di auto-redenzione, ma la consapevolezza della propria condizione degradata e del fatto che Dio soltanto può dare la redenzione. Il Dio che arriva a sacrificarsi sulla croce è appunto il più chiaro segno che i sacrifici umani non bastano da soli a procurare la salvezza. La teologia del sacrificio o della soddisfazione non è quindi un’invenzione della teologia medioevale, ma l’articolazione riflessiva di una dottrina biblica e di un’intuizione, che in forme diverse, è universalmente presente nella storia delle religioni.[45]
Ora, la tesi di de Maistre è che la nozione di sacrificio possa essere utilizzata per attribuire un senso ai mali fisici e morali che sono presenti nel mondo. Essi, per essere veramente compresi, vanno considerati nell’ottica del pagamento del debito contratto con la divinità e quindi del riscatto. Come accade nella giustizia umana, anche se non sempre sul piano fattuale, il debito deve essere pagato, che lo si voglia o meno, e i mali del mondo e le sofferenze che ne scaturiscono costituiscono appunto il modo per pagare il debito, che esse si accettino o meno. Guardare ai mali presenti del mondo nell’ottica del sacrificio consente, così, a chi li soffre di non essere semplicemente qualcuno che patisce, ma di essere una vittima.[46] Il senso stesso della sua sofferenza si trova appunto nell’essere una vittima. Vittima è allora il criminale che, sul patibolo trasformato in altare, paga per il debito contratto con Dio e gli uomini, ma vittime sono anche gli innocenti, che pagano nel mondo, anch’esso trasformato in un immenso altare, per colpe non loro, e che proprio in questo modo prendono il posto di coloro che non vogliono pagare o pagano in modo insufficiente.
Tutto questo, secondo de Maistre, non accade necessariamente perché, à la Leibniz, rientra nel programma divino “del migliore dei mondi possibili”, e nemmeno è qualcosa di voluto direttamente da Dio in base ad un imperscrutabile disegno di giustizia, bensì è permesso da Dio, perché evidentemente non c’è altra via per consentire il riscatto. Come nelle faccende umane ci si riscatta per davvero soltanto dopo aver pagato il debito che si è contratto, così accade nel rapporto dell’uomo con Dio. Si tratta di una concezione retribuzionistica, sullo sfondo della quale, tuttavia, si dovrà sempre tener presente il sacrificio di Cristo, che supera questa concezione, non perché la abolisca, ma perché, come la grazia fa nei confronti della natura, la perfeziona.
Questa concezione sacrificale del significato della sofferenza può non piacere, ma per rifiutarla motivatamente bisogna trovarne un’altra più convincente e l’impressione è che non sia facile farlo per chi intenda rimanere nel perimetro della teodicea cristiana. È vero che nel dibattito culturale odierno ci si imbatte dappertutto in interpretazioni non sacrificali del cristianesimo, ma in gran parte esse sembrano più deboli rispetto a quella di de Maistre o perché usano soltanto il registro retorico dell’amore o della misericordia di Dio (obliterando completamente quello dell’ira e della giustizia divine, con il quale dovrebbe invece stare in opposizione polare) o perché abdicano a dare un senso alla sofferenza e quindi a una risposta plausibile al problema della teodicea o perché, come accade nella lettura di R. Girard, dapprima antropologizzano e sociologizzano la nozione di sacrificio, estrapolandola dal suo contesto religioso e emendandola della sua funzione espiatoria,[47] e poi, comunque constatata la sua presenza e importanza a livello biblico e teologico, mettono in piedi un’esegesi biblica selettiva, che di fatto marginalizza i passi sacrificali, e bolla l’interpretazione teologica di questi ultimi come un enorme fraintendimento,[48] fino ad arrivare ad una rivendicazione esclusivistica di verità del cristianesimo che si contrapporrebbe al carattere sacrificale di tutte le altre religioni e che nel medesimo tempo dovrebbe costituire il movente futuro per una civiltà non-sacrificale. Lo sguardo realistico che de Maistre aveva delle cose umane e di quelle divine, paragonato con queste interpretazioni, appare ancora di gran lunga più convincente.
[1] J. de Maistre, Considérations sur la France, in Oeuvres Complètes, t. 1, Librairie Générale Catholique et Classique, Lyon 1891, pp. 1-184; tr. it. Considerazioni sulla Francia, Editori Riuniti, Roma 1985 (da ora in poi indicato con la sigla CF).
[2] J. de Maistre, Les Soirées de Saint-Pétersbourg, in Oeuvres Complètes, t. 4 e t. 5, Librairie Générale Catholique et Classique, Lyon 1891-2; tr. it. Le serate di San Pietroburgo, Edizioni Fede & Cultura, Verona 2014 (da ora in poi indicato con la sigla SP seguito dal numero del tomo).
[3] CF, p. 55; tr. it. p 36, modificata.
[4] J. de Maistre, Du Pape, in Oeuvres Complètes, t. 2, Librairie Générale Catholique et Classique, Lyon 1892, p. 172; tr. it. Il Papa, Rizzoli, Milano 1984, p. 159.
[5] CF, p. 1; tr. it. p. 3.
[6] Ibi, pp. 9-10; tr. it. pp. 8-9.
[7] Ibi, pp. 38-39; tr. it. p. 26.
[8] Ibi, pp. 28, 35-36; tr. it. p. 20, 24.
[9] Ibi, pp. 39-40; tr. it. pp. 26-27 modificata.
[10] J. de Maistre, Lettre a M. Le Marquis […], sur l’état du christianisme en Europe (1819), in Oeuvres Complètes, t. 8, Librairie Générale Catholique et Classique, Lyon, 1884, pp. 485-519, cit. 485.
[11] Cfr. Sur les délais de la justice divine, in Oeuvres Complètes, t. 5, Librairie Générale Catholique et Classique, Lyon, 1892, pp. 361-470.
[12] SP, t. IV, pp. 117-118; tr. it. p. 105 e pp. 201-203; tr. it. p. 151.
[13] La debolezza di questa concezione schmittiana dell’analogia tra teologia e politica trova il suo corrispondente nella banalizzazione del tema della sovranità in de Maistre, identificato essenzialmente con quello della “decisione”. Cfr. C. Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, Duncker & Humblot, München-Leipzig 1922; tr. it. Teologia politica, in Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 1972, p. 76.
[14] SP, t. IV, p. 200; tr. it. p. 150.
[15] Ibi, p. 33; tr. it. p. 62.
[16] Ibi, pp. 33-34; tr. it. p. 62.
[17] Ibi, p. 159; p. 129.
[18] Ibi, p. 159; tr. it. p. 129 nota, modificata.
[19] È la prospettiva più volte richiamata da de Maistre, in cui è da ritrovare il senso più autentico del cosiddetto “tradizionalismo”, e che dà l’impressione di oscillare a seconda dei casi tra razionalismo e fideismo, come attestano le seguenti citazioni: «Non vi è alcun dogma nella Chiesa cattolica, né alcuna pratica generale connessa alla suprema disciplina che non abbia le sue radici nell’intimo della natura umana o, il che è lo stesso, in qualche opinione universale, più o meno alterata qua e là, ma comune tuttavia, nel suo principio, a tutti i popoli in tutti i tempi» (Du Pape, cit., p. 348; tr. it. p. 290). «Quando ci occupiamo di filosofia razionale, non dimenticare mai che ogni proposizione metafisica, che non esca naturalmente da un dogma cristiano, altro non e altro non può essere che una colpevole stravaganza». (SP, t. V, p. 189; tr. it. p. 351).
[20] SP, t. IV, p. 68; tr. it. p. 79.
[21] Ibi, p. 71; tr. it. p. 81.
[22] Ibi, p. 61; tr. it. p. 76.
[23] Ibi, p. 26; tr. it. p. 59.
[24] Ibi, p. 14; tr. it. p. 53.
[25] «I vizi morali possono aumentare il numero e l’intensità delle malattie fino a un punto impossibile da determinare; e reciprocamente, che questo orrendo impero del male fisico può essere limitato dalla virtù, fino a limiti del tutto impossibili da fissare» (ibi, p. 48-49; tr. it. p. 69-70).
[26] «La più grande massa di felicità, anche temporale, appartiene, non all’uomo virtuoso, ma alla virtù» iIbi, p. 27; tr. it. p. 59).
[27] SP, t. V, p. 433; tr. it. p. 321 modificata.
[28] Sottolinea giustamente questo aspetto M. Ravera, Joseph de Maistre pensatore dell’origine, Mursia, Milano 1986, pp. 97 ss.
[29] SP, t. V, p. 22; tr. it. p. 264.
[30] Ibi, pp. 25-26; p. 266.
[31] «Tutti i filosofi del nostro secolo non parlano che di leggi invariabili; lo credo: per loro si tratta solo di impedire all’uomo di pregare, ed è il modo infallibile per riuscirci» (SP, t. IV, p. 221; tr. it. 161).
[32] Ibi, p. 220; tr. it. p. 150, modificata.
[33] SP, t. V, p. 90; tr. it. p. 299.
[34] J. de Maistre, Éclaircissement sur les sacrifices, in Oeuvres Complètes, t. 5, cit., pp. 283-360, cit. p. 300; tr. it. Chiarimento sui sacrifici, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1993, p. 12.
[35] Ibi, p. 305; tr. it. 18.
[36] Ibi, p. 300; tr. it. 12.
[37] I sacrifici umani rappresentano, per de Maistre, una deviazione di questa credenza fondamentale, o meglio un abuso di essa, ovvero un’estensione «per falsa induzione ad un caso che le è estraneo» (ibi, p. 306; tr. it. p. 18). L’abuso inizia con il pensare che il sacrificio umano, meglio di quello degli animali, valga per riscattare la colpa umana e con l’individuare in esseri umani già condannati dalla legge, e quindi colpevoli per qualche crimine, le vittime meritevoli di essere sacrificate. Il crimine, secondo la mentalità antica, vincola l’intera collettività e il sacrificio del suo artefice rappresenta un modo per espiare, ovvero per sciogliere questo vincolo e pagare il debito. L’abuso si completa quindi nell’identificare i colpevoli con il nemico e il nemico con lo straniero. La condanna dell’orribile pratica dei sacrifici umani non costituisce, tuttavia, un motivo per eliminare i sacrifici, poiché la parola “abuso”, come de Maistre osserva, «ne désigne que l’usage désordonné d’une bonne chose qu’il faut conserver» (Étude sur la souveraineté, in Oeuvres Complètes, t. 1, cit., p. 366), semmai l’occasione per comprendere il valore del cristianesimo in rapporto alle religioni pagane. Il cristianesimo, infatti, ha abolito tale pratica, ma l’ha fatto inverandola al tempo stesso nel sacrificio di Cristo. In quest’ultimo è quindi da individuare il significato autentico della pratica sacrificale, che presenta tre elementi: l’idea della radicale degradazione umana, quella per cui l’innocente è in grado di pagare per il colpevole, e quella che lega la salvezza all’effusione del sangue. Per una lucida sintesi della concezione demaistriana del sacrificio, cfr. O. Bradley, Maistre’s Theory of Sacrifice, in R. A. Lebrun, Joseph de Maistre’s Life, Thought, and Influence. Selected Studies, Mc-Gill-Queen’s University Press, Montreal 2001, pp. 65-83.
[38] SP, t. V, p. 213; tr. it. p. 363.
[39] Su quelli che sono i limiti macroscopici della concezione schmittiana della teologia politica v. A. Aguti, Sulla legittimità e il significato attuale della teologia politica, in S. Sorrentino – H. Spano (edd.), La teologia politica in discussione, Fridericiana Editrice, Napoli 2012, pp. 49-65.
[40] CF, p. 40; tr. it. p. 27.
[41] Cfr. A. Rosmini, Teodicea, Città Nuova, Roma 1977, p. 139.
[42] Cfr. E. Cioran, Joseph de Maistre (1957), in Oeuvres, Gallimard, Paris 1995, pp. 1519-1559: «Ses affinités avec l’esprit de l’Ancien Testament étaient si profondes, que son catholicisme en paraît, si l’on peut dire, judaȉque, tout empreint de cette frénésie prophétique dont il ne trouvait qu’une faible trace dans la douce médiocrité des Évangiles» (p. 1537).
[43] «Aussi fut-il plus séduit par l’ancien Dieu (“le Dieu de armées”) que par le Christ dont il parle toujours en des phrases conventionelles, “sublimes”, et le plus souvent pour justifier cette théorie, intéressante sans plus, de la réversibilité des douleurs de l’innocente au profit des coupables» (ibi, p. 1527).
[44] Nella visione di De Maistre il peccato non doveva darsi nel piano della creazione divina; è per questo che, una volta datosi, esso esige una riparazione. Se il peccato non si fosse dato, nemmeno ci sarebbe stato bisogno della riparazione e quindi dei sacrifici. In un passo dello scritto sui sacrifici egli lo ribadisce con riferimento al significato cosmico della redenzione di Cristo, cioè al fatto che essa vale per possibili abitanti di altri mondi soltanto qualora essi abbiano peccato: «Se gli abitanti di altri pianeti non sono colpevoli come noi, non hanno bisogno dello stesso rimedio; e se invece lo stesso rimedio è loro necessario, quei teologi di cui prima parlavo [cioè quelli che negano l’ipotesi di una pluralità di mondi] hanno forse paura che la virtù del sacrificio che ci ha salvato non possa elevarsi fino alla luna?» (Éclaircissement sur les sacrifices, cit, p. 353-354; tr. it. p. 38).
[45] Per un’ottima illustrazione del nesso tra la dottrina biblica della riparazione con quella del peccato come debito e della sua legittima articolazione teologica nel Cur Deus homo di Anselmo d’Aosta cfr. G. A. Anderson, Sin. A History, Yale University Press, Yale 2009; tr. it. Il peccato. La sua storia nel mondo giudaico-cristiano, Liberilibri, Macerata 2012, in particolare pp. 84, 274-275, 332-333.
[46] Cfr. quello che de Maistre scrive alla Marchesa de Costa in occasione della morte del figlio soldato a seguito delle ferite riportate in una battaglia: «Suffrons plutôt, souffrons avec une résignation réfléchie; si nous savons unir notre raison à la raison éternelle: au lieu de n’être que des patiens, nous serons au moins des victimes» (J. De Maistre, Discours a MME La Marquise de Costa sur la vie et la morte de son fils Alexis Louis-Eugène de Costa, in Oeuvres Complètes, t. 7, Librairie Générale Catholique et Classique, Lyon, 1898, p. 274).
[47] È il programma che Girard enuncia nelle prime pagine de La Violence e le sacré, con esplicito riferimento allo scritto sui sacrifici di de Maistre. Cfr. R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 19862, p. 15 ss.
[48] R. Girard arriva ad affermare, apparentemente in tutta serietà e senza il gusto che de Maistre aveva per i paradossi, che la lettura sacrificale della passione di Cristo «doit être critiquée et révélée comme le malentendu le plus paradoxal et le plus colossal de toute l’histoire». Cfr. R. Girard, Des choses cachées depuis la fondation du monde, Grasset & Fasquelle, Paris 1978, p. 267.