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Redeemers and traitors. Being fair to Nietzsche in the age of “general economic administration of the earth”
This paper examines the concept of redemption in Nietzsche’s work. Nietzsche resolves, on the one hand, to adopt a genealogical approach to the concept; on the other hand, from a completely secular point of view, he wants to test it out in the field of contemporary cultural and ideological debate. While the first task involved reclaiming the idea of redemption by criticising the Christian power with which it had “cut a deal” in order to survive, in the second instance it was a question of freeing it from the political power – imperial Germanism – by which it had been subjugated. In view of the size of the political stakes at play, Nietzsche demands the philosophical liberation of the idea of Erlösung. He wants to redeem it from the classic dualistic – and manipulative – “shepherd/flock” paradigm embodied in the historico-political methods of the autocrat/mass dichotomy, and from what – in his eyes – emerged as a tacit understanding between liberal individualism and democratic or socialist egalitarianism.
Ho titolato “redentori e traditori” questo mio intervento immaginandovi un’endiadi concettuale al modo di quelle tanto amate da Machiavelli. Nietzsche vuole “redimere” e “tradire” l’interpretatio christiana di Erlösung: i due termini, che suonano ben distinti al nostro orecchio, in questo caso si coordinano in un unico gesto. Redimere non è una cosa semplice. E che rientri nella concettualità nietzscheana non è scontato per la letteratura critica. A fugare il sospetto che si stia sovrainterpretando una qualche sporadica, se non ambigua occorrenza testuale potrebbe già essere sufficiente leggere un’annotazione contenuta in un quaderno del settembre-ottobre 1888: «I. La redenzione dal cristianesimo: l’anticristo; II. […] dalla morale: l’immoralista; III. […] dalla “verità”: lo spirito libero; IV. […] dal nichilismo: – – –. Nichilismo come conseguenza necessaria di cristianesimo, morale e concetto di verità della filosofia» (eKGWB/NF-1888,22[24])[1]. La data di redazione finisce per sbalzare questo appunto con un rilievo considerevole. Una sorta di epitome che ritaglia e mostra nello scorcio della redenzione una linea di tendenza certo non secondaria del pensiero di Nietzsche.
D’altro canto non v’è chi non colga il problema posto dalle espressioni citate. “Redimere dal cristianesimo” implica esercitare l’operatività concettuale dell’idea di redenzione. E tuttavia proprio questa si riallaccia al patrimonio della ricca, diversificata tradizione giudaico-cristiana in modi che paiono inoscurabili. L’anticristo nietzscheano vorrebbe “vendicarsi” della cristianità egemonica, farla tramontare definitivamente, ma anche riscattare da “schiavitù” l’idea di redenzione che essa ha detenuta. In qualche maniera, dunque, dovrebbe essere possibile sciogliere il vincolo: dovrebbe essere possibile una redenzione che, per giungere finalmente a sé, tradisca venendo meno alla fede data. Che, redimendosi, redima dai dispositivi ermeneutici e politico-culturali del cristianesimo stesso, dall’amministrazione delle coscienze e dal pastorato delle vite di singoli e comunità. Ma come? In quale significato potrebbe essere disponibile un concetto di Erlösung “riacquistato” dalla religione e dalla civiltà cristiana? Inoltre, perché riscattarlo? Per lavorarvi quale filosofia, con quale strategia?
Anticipo per tratti essenzialissimi le linee principali della mia argomentazione. Prendendo parola sull’idea di redenzione, Nietzsche si prefigge, per un verso, di istruirvi un approccio genealogico. Si trattava di mostrarne una buona volta la provenienza. Dunque, non soltanto la sua genesi in antichi culti orientali ma, soprattutto, le concretissime modalità tramite le quali in determinate circostanze il cristianesimo se ne appropriò violentemente, marchiandola con un segno destinato a durare nei secoli (in hoc signo vinces!). Per altro verso, in un’accezione totalmente laica, Nietzsche vuole metterla alla prova entro il dibattito culturale e ideologico-politico contemporaneo, rendendo persuasi della necessità, proprio lì, di “redimerla” una seconda volta. Se la prima volta si trattava di riscattare l’idea di redenzione tradendo il potere cristiano con cui era “scesa a patti” pur di rimanere in vita, la seconda volta si trattava di riscattarla dal potere politico che l’aveva assoggettata. Due istanze di liberazione da intendere nient’affatto quali fasi cronologicamente successive, bensì in quanto operazioni simultanee. Redimere la redenzione dal germanesimo imperiale oltre che dal cristianesimo. Ciò che importava, infatti, era il riscattarla anche dal suo effettivo riutilizzo ideologico nei confronti di masse amorfe di individui mantenuti nella gregarietà tramite l’aspettativa indotta di un rinnovamento radicale che però soltanto un qualche liberatore – l’individuo “eccezionale” – avrebbe potuto operare. Proprio perciò Nietzsche reclama il riscatto filosofico dell’idea di Erlösung: per la posta politica in gioco. Vuole redimerla dalla «morale», ovvero dalla tipica macchinazione dualistica (teologico-politica) “pastore/gregge” concretizzatasi segnatamente nelle modalità storico-politiche dell’alternativa autocrate/massa, e di conseguenza in ciò che ai suoi occhi emergeva quale tacita intesa di individualismo liberale ed egualitarismo democratico o socialista[2].
Il punto, dunque, non è affatto quello di un puro e semplice discorso filosofico. Sulle scene politico-culturali del tempo Nietzsche vede salire facili “redentori” della disgregazione, tutti figuri che inquadra nel «tipo Redentore dell’umanità». Il più clamoroso da smascherare nella temperie degli anni Ottanta è senz’altro Wagner, colui che nella prima metà del decennio precedente lo aveva sedotto al compito di “riacquistare” esteticamente la cultura tedesca – con buona pace di Schopenhauer[3]. Ma altri messia dal volto fosco agitavano l’epoca sprofondandola in torbidi sogni. Si deve sempre tener presente, infatti, il contesto storico-politico tedesco: dal gennaio 1871 Gugliemo I, fondando il secondo Deutsches Kaiserreich, aveva ambito a ricostituire il sogno di Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero. Non un sogno qualunque, non una figura qualsiasi, non una qualsiasi politica. Correvano i tempi del «pericoloso carnevale della follia nazionalistica» (eKGWB/NF-1885,2[3])[4] e della più stolida «balordaggine patriottica»[5], durante i quali il «primo statista, nella cui mente un bello sfondo di legittimismo e cristianesimo si combina con una spregiudicata politica estemporanea, […] suscita una curiosità ironica» (eKGWB/NF-1885,2[10])[6]. Trionfava «l’esclusivo interesse […] ai problemi della potenza, del commercio e – per terminare – del “ben vivere”» (eKGWB/NF-1885,2[5])[7]. Un trionfo che mascherava il livellamento al ribasso dell’umanità: precisamente ciò che Nietzsche prende di mira nei processi di democratizzazione in quanto istanze di egualitarismo nel e del «rimpicciolimento» indifferenziato, in quanto economia della mortificazione e dell’annichilimento.
Di qui l’esigenza di un altro redentore, a venire, di un tutt’altro tipo di uomo e di realtà:
«Ma in un qualche tempo, in un’età più forte di questo marcido, dubitoso presente, dovrà pur giungere a noi l’uomo redentore, l’uomo del grande amore e disprezzo, lo spirito creatore, che sempre la sua forza incalzante torna a spingere via da ogni eremo e da ogni trascendenza, colui la cui solitudine è fraintesa dal popolo, come se fosse una fuga dalla realtà – mentre è soltanto il suo sprofondare, il suo seppellirsi, il suo inabissarsi nella realtà, affinché un giorno, quando tornerà alla luce, ne porti fuori con sé la redenzione di questa realtà: la sua redenzione dalla maledizione che ha posto su di essa l’ideale esistito sino a oggi. Quest’uomo dell’avvenire, che ci redimerà tanto dall’ideale perdurato sinora, quanto da ciò che dovette germogliare da esso, dal grande disgusto, dalla volontà del nulla, dal nichilismo, questo rintocco di campane del mezzodì e della grande decisione, il quale nuovamente affranca la volontà, restituisce alla terra la sua meta e all’uomo la sua speranza, questo anticristo e antinichilista, questo vincitore di Dio e del nulla – dovrà un giorno venire…» (eKGWB/GM-II-24)[8].
L’idea di redenzione, per quanto appartenga al cristianesimo, non è primitivamente cristiana. Ciò costituisce “il fatto” irrecusabile a giudizio di Nietzsche. Il cristianesimo, semmai, se ne appropria. La concatena al proprio apparato dottrinario, la ricostruisce nell’insieme della propria concettualità e intanto la “mette in catene” per sfruttarla. Tale presa di possesso impone una provenienza che va risalita genealogicamente, perché in nessun caso la conquista deve poter fungere da origine. Ecco il punto critico – avrò modo di tornarvi.
Ora però rileva precisare il quadro. Sbaglierebbe di molto chi intendesse che Nietzsche intenda semplicemente liquidare l’ermeneusi del Christenthum, o comunque sia certo di potervi prescindere con un balzo. Anzi, come mi sforzerò di riuscire a mostrare tra breve, nello specifico egli è ben consapevole di dovervi muovere in quanto dispositivo d’interpretazione inaggirabile, solo che si voglia ragionare di una qualsiasi Erlösung ventura. Ne fa fede già il solo fatto che l’opera che più di ogni altra discute e utilizza l’idea di “redenzione” sia L’anticristo. Primo degli scritti postumi lasciato pronto per la stampa, il suo sottotitolo, lo ricordiamo benissimo tutti, suona: Maledizione del cristianesimo. Vi si possono ritrovare ben ventisei occorrenze dei termini “redenzione” e “redentore”. Sono più del doppio di quante non siano reperibili nell’opera che si collocherebbe al secondo posto in questa classifica di occorrenze, cioè Genealogia della morale, che ne conta dodici. Si potrebbe ipotizzare, con una certa naiveté, che tanta frequenza terminologica si spieghi precisamente con la reiterata robustezza dell’invettiva – di ciò che Pier Paolo Pasolini avrebbe chiamato semplicemente “bestemmia”. Ma le cose non sono così semplici (al modo in cui non sono mai semplici in Nietzsche). Proviamo allora a capirci di più lasciando parlare in primo luogo i dati dell’analisi lessicologica, i quali, come accade spesso con i dati in generale, non risultano meno significativi di teorie altisonanti.
Il complesso dei termini legati alla semantica del “redimere” (erlösen, Erlöstwerden, Erlöser, Erlösung, Erlösungsbedürftigkeit, Erlösungbedürfniss) gode di persistenza nell’opera nietzscheana. Lo troviamo ramificato in circa quattrocento passaggi testuali fra volumi editi, manoscritti autorizzati per la pubblicazione, scritti e frammenti postumi[9]. Cresce dal 1870, nei testi e appunti preparatori a La nascita della tragedia, sino a Ecce Homo, dicembre 1888, poco prima che la vita cosciente di Nietzsche si ottenebri nella follia. Nel complesso il filosofo “lavora” tale concettualità riprendendola da angolature diverse, fra consapevoli contraddizioni e tradimenti ma senza abbandonarla. Fedele per anni. Dunque, una questione tutt’altro che transitoria e accidentale. Proprio perciò vale la pena parlarne: tuttavia come? E poi, in che modo possiamo essere sicuri che si tratti effettivamente di una sola e medesima questione, al di sotto degli stessi termini distribuiti lungo l’intero arco del pensiero nietzscheano, così ricco di slanci, deviazioni, mutamenti, trasformazioni? E, nel caso in cui invece fossero rintracciabili più questioni, potrebbe comunque sottostarvi una sola posta in gioco oppure no? Quale, o quali?
Avanzo un’ipotesi. In realtà tramite il concetto di Erlösung Nietzsche prende parola a fronte di problemi diversi, che l’unico termine non deve farci confondere, per quanto siano certamente concatenati. Mi sembra di riuscire a individuare l’apertura di almeno cinque grossi fronti di discussione. In termini disciplinari: uno di filosofia dell’arte, uno di filosofia politica, uno di filosofia teoretica, un altro di storia delle religioni, infine uno di psicologia della religione. Cinque fronti che non sono separati astrattamente né cronologicamente, per quanto se ne possano distinguere differenti periodi di emergenza. Neppure possiedono però un’unica radice. Il duplice tema redenzione/redentore non costituisce affatto qualcosa come una loro base comune: è semmai l’effetto di superficie di un urto, di una frattura concettuale ripetuta. La costellazione di segmenti che ne deriva pone, nel suo insieme frammentario, la problematica nietzscheana della Erlösung. Ma cosa risulta “urtante”?
Fluch auf das Christenthum. Non occorre frequentare la Nietzsche-Forschung per conoscere l’asprezza e l’inappellabilità del giudizio stilato nei confronti del “maledetto” cristianesimo. Lo si ritrova senza fatica fra le pagine di molti testi nietzscheani, e magari contestualmente a Erlösung. Ciò costituisce più che un indizio: solo in quanto ateo Nietzsche tratta di “redenzione” – sia in senso oggettivo, con il termine messo fra virgolette riferito in modo specifico all’idea cristiana, sia usandolo in funzione soggettiva.
Il proprio ateismo Nietzsche l’ha sprigionato nei testi come un urlo. Ciò ognuno lo sa: ma proprio l’ovvietà e il clamore dell’esecrazione nietzscheana non devono arrestare il lavoro concettuale. Guai a chi corra a iscriversi al nefasto partito del “nietzscheanesimo” (come pure a quello dell’“antinietzscheanesimo”). Nel leggere i testi nietzscheani si rende necessario tanto un lavoro analitico freddo, hegelianamente controintuitivo, quanto una pazientissima ricostruzione storico-critica dei loro contesti, i quali forniscono una chiave d’accesso del tutto indispensabile. È ciò che Nietzsche stesso invoca quale prudente dovere di imparare a leggerlo lentamente[10].
V’è bisogno di ascolto e attenzione – tutt’altro da toni sdegnati, volontà di rivalsa e condanna. A voler tentare di capire, occorre “essere giusti con Nietzsche”. Al di la della traslazione del celeberrimo titolo derridiano[11], quest’espressione mi è stata ispirata da un lungo aforisma di Opinioni e sentenze diverse, che conclude: «il filosofo deve dunque dire, come Cristo, “non giudicate!”, e l’ultima differenza fra le menti filosofiche e le altre sarà questa, che le prime vogliono essere giuste, le altre vogliono essere giudici» (eKGWB/VM-33)[12]. Per il lettore ciò implica il non doversi arrestare all’invettiva contro quel cristianesimo che a Nietzsche pare carico di odio nei confronti del “mondo”, disgustato dalla vita, impaurito dalla bellezza, dalle emozioni e dalla sensualità, tutti veri e propri sintomi di una sua malattia, della sua stanchezza, del suo esaurimento. È necessario camminare con ben altra prudenza e lentezza nella tempesta della polemica come pure sull’abbacinante superficie della testualità nietzscheana. È necessario, soltanto che si voglia affrontare ragionevolmente la costruzione della domanda perché Erlösung costituisca a tutti gli effetti un problema e non si dissolva invece in un’“irredimibile” fantasia.
Nietzsche non ha torto, io credo, quanto meno nel ritenere che tra l’“essere giusti” e l’“essere giudici” corra in generale il discrimine della postura filosofica. Precisamente per il lavoro che ci si ama riservare in quanto lettori di filosofia, conviene limitarsi a fare del proprio meglio per provare a leggere il testo nietzscheano. Il che non può significare in alcun modo aver fretta di assolvere o condannare Nietzsche, mentre implica lentezza: riconoscere l’assemblaggio delle fonti implicite tessute nella trama testuale; scandagliare i continui riferimenti altrettanto impliciti nell’intarsio dei materiali teorici dalla provenienza più diversa; registrare le operazioni di dinamizzazione di queste medesime fonti, il loro essere spinte oltre, in un’argomentazione originale e acuta.
Nel paragrafo quindici de L’anticristo Nietzsche illustra il genere discorsivo della redenzione cristiana. Mostra come il cristianesimo altro non faccia che inventare un ordine di discorso dallo statuto interamente finzionale. Produce interazioni, rapporti di causa ed effetto tra esseri immaginari. Crea un mondo di finzioni che, sganciato in ogni suo punto dalla realtà, la nega e così concede riparo a coloro i quali, patendo insopportabilmente la durezza delle cose, fuggano la sofferenza, a chi sia «una realtà malfatta». Fosse pura fantasticheria, quel discorso potrebbe servire soltanto a un’evasione irrealistica. Ma di fatto così non è. L’intenzionalità fungente del “redimere” produce un’irrealtà effettiva: lasciando presupporre peccati, punizioni divine, riscatti, e sfruttando gli effetti materiali di tali idee, costruisce un mondo del tutto falso quale loro “oggetto noematico”. Falso ma sedicente vero. Verace e, dunque, credibile.
Ora, per prima cosa qui m’interessa la spiegazione con cui Nietzsche si attesta sul fronte che, in termini disciplinari, ho già chiamato di “psicologia della religione”. Intendo dire che l’argomentazione nietzscheana vuole limitarsi a indagare il vissuto psichico verso la religione quale si presenta nell’esperienza dell’individuo all’interno di un determinato contesto culturale. Questo è il punto. Mira cioè non alla verità tout court della religione bensì alla “verità psicologica” della condotta religiosa (delle religioni positive). In tale prospettiva adotta una sorta di agnosticismo metodologico che rinuncia ad assumere il trascendente in quanto principio esplicativo. Di qui Nietzsche intende portare in scena i fattori psichici che condizionano l’insorgere delle visioni e delle pratiche religiose: gli aspetti percettivi, emotivi e affettivi che le caratterizzano; i conflitti interiori che intersecano il loro sviluppo; i dinamismi, i processi consci e inconsci tramite i quali il singolo giunge a un atteggiamento personale nei confronti di una religione storicamente determinata (non solo nel senso dell’adesione di fede, ma anche eventualmente della negazione e del rifiuto). In tal senso, ribadisco, l’ordine della spiegazione nietzscheana è del tutto psicologico. Lavora la dinamica (e la pragmatica) degli affetti. Infatti, è la «preponderanza dei sentimenti spiacevoli su quelli piacevoli» a costituire la «causa» della morale e della religione fittizie del cristianesimo, dunque anche delle sue rappresentazioni di «effetti puramente immaginari (“peccato”, “redenzione”, “grazia”, “punizione”, “remissione dei peccati”)» (eKGWB/AC-15)[13]. Ora, com’è che i sentimenti spiacevoli risulterebbero preponderanti su quelli connessi al piacere? Da dove proviene il disagio fondamentale? Dov’è possibile osservare il suo impianto nell’anima?
In termini nietzscheani l’«osservazione psicologica» consiste nel «meditare su ciò che è umano, troppo umano» (eKGWB/MA-35)[14]. Non è un caso che la pista per venire in chiaro circa il vissuto dell’idea di redenzione possa risultare già aperta con la raccolta di aforismi del 1878 dedicata precisamente allo scandaglio dell’anima[15]. Da dove proviene «quel processo dell’anima del cristiano che si chiama bisogno di redenzione»? Si tratta di riuscire a dare una risposta «libera da mitologia», «dunque una spiegazione puramente psicologica» (eKGWB/MA-132)[16].
Ebbene, alla luce dell’osservazione rein psychologische, l’essere umano si mostra consapevole che la sua fragilità gli consente di poter compiere ordinariamente soltanto azioni collocate sui gradini inferiori di una gerarchia ideale, quelle motivate dall’inclinazione spontanea a soddisfare bisogni e interessi. Le azioni valutate in generale «le più alte e nobili» gli restano invece sempre soltanto desiderabili, perché destinate a rimanere incompiute. Il malessere di questa frustrazione, il sentirsi insoddisfatti, il disprezzo di sé e il rimorso aumentano quando la visione religiosa inneschi il paragone con Dio, rappresentato come «un essere che è capace solo di quelle azioni che si dicono altruistiche e che vive nella costante coscienza di un pensiero disinteressato» (eKGWB/MA-132)[17]. In verità, se ben ragionasse, l’uomo riconoscerebbe di non poter prescindere dalle esigenze che la sua egoità pone spontaneamente proprio per il suo puro e semplice esserci, e insieme ben saprebbe che, non essendo immaginabile un’egoità divina, neppure è ragionevole riferire a Dio un qualche merito di altruismo (per dir così, un’idea sempre soltanto “umana, troppo umana”): «Come potrebbe l’ego agire senza l’ego? Un Dio che è invece tutto amore, come all’occorrenza si postula, non sarebbe capace di alcuna azione altruistica» (eKGWB/MA-133)[18]. La ragione deve condurre pacatamente l’uomo a liberarsi da tale «errata, non scientifica interpretazione delle sue azioni e dei suoi sentimenti» (eKGWB/MA-134)[19], a liberarsi da «una determinata falsa psicologia, una certa specie di fantasia nell’interpretazione dei fatti interni» (eKGWB/MA-135)[20].
La posta in gioco dipende per Nietzsche da come s’interpretano l’agire e il sentire umani. L’interpretazione tuttavia dev’essere scientifica: né filosofica né teologica – bensì psicologica, fisiologica, etno-antropologica. Spiegare psicologicamente implica i prospetti anche etnologici e storici. Una spiegazione “puramente psicologica” per Nietzsche non può non distendersi all’istante in un’apertura storica. In modo reversibile, lo storico dev’essere insieme psicologo, etnologo e fisiologo. Insieme ma non confusamente. Spiegare dando corpo al «senso storico» si esplica nel saper individuare l’impianto delle gerarchie assiologiche[21]. Ecco che così si apre una seconda faglia di problematizzazione, quella che, di nuovo in termini disciplinari, ho detto “storico-religiosa”. Forse proprio su questo piano di spostamento possiamo cogliere più da vicino quale sia la posta in gioco.
All’ateo Nietzsche il cristianesimo dà pensiero, molto. Come moltissimo lo interessano l’ebraismo e, con un approccio “storico-scientifico” necessariamente ancora povero di strumenti teorici per una materia all’epoca in gran parte nuova, l’induismo e il buddismo. Insomma, le religioni, in generale, lo occupano molto. Tuttavia non in quanto tali e neppure soltanto per i vissuti che le comandano. Ma quali potenze psichiche, energetiche e culturali che concorrono storicamente ai processi di civilizzazione. Come già detto, “storicamente” va inteso alla stregua di: “ponendo gerarchie di valori”. Si badi, proprio qui ricade l’effettiva posta in gioco – rilanciata ancora a noi, oggi. L’indagine nietzscheana non partecipa affatto del “cosa” di una religione, vertendo piuttosto sul come, sulle modalità di funzionamento, operative della sua concettualità. Perché dal “come” dipendono i valori dell’Europa, ovvero i suoi giorni venturi. La posta in gioco è nella fluidificazione e nell’impossessamento dei significati, nel loro travestimento o travisamento; è nelle trasformazioni; è agli incroci delle tradizioni culturali, religiose, politiche; è negli spostamenti ideali e materiali che le muovono e che esse stesse determinano nella vita degli uomini.
Il “come” è il funzionamento. Per Nietzsche: come ha funzionato l’idea di redenzione? Come se ne appropriò il cristianesimo? Come può funzionare contro e dopo di esso?
Su di un piano generale, la prima risposta proviene ancora dagli aforismi del primo volume di Umano, troppo umano. E non è un caso. A partire dal 1875 Nietzsche imprime ai propri studi un nuovo orientamento di ordine etnologico, storico-religioso[22], come pure biologico-naturalistico. Il piano psicologico stesso li esige, non esaurendosi con l’esplicitazione delle dinamiche interiori ma richiedendo l’indagine pragmatica sul modo in cui queste hanno fatto segno per (sono state rese veicolo di) altre operazioni di controllo e dominio. Dal suo punto di vista le religioni appaiono infatti dispositivi d’interpretazione (precisamente: di re- e sovra-interpretazione) che le diverse civiltà hanno utilizzato nel corso della loro storia per l’incanalamento di affetti, sentimenti, passioni e istinti, per disciplinarli agli ordinamenti vuoi sociali vuoi morali.
Affettività e istintualità non sono fenomeni “naturalmente” immutabili, sottratti al tempo, alla storia e al grado di civilizzazione raggiunto. L’istinto è una sorta di memoria postuma incorporata. Vi fermentano esperienze prodottesi molto tempo addietro sulla base di costrizioni e vincoli, di condizioni d’esistenza e necessità ambientali[23]. Gli istinti derivano dalle stratificazioni di giudizi prodotti dalle pulsioni nella costruzione di determinate esperienze. Secondo tale orientamento, le religioni per Nietzsche costituiscono uno dei più potenti dispositivi messi a registro per l’“acclimatazione” storica dell’istintualità e per favorire la coesione sociale attorno a precise gerarchie di valore. Trasfigurando affetti, passioni, sentimenti che le esperienze dolorose inducono nell’anima, le religioni permettono di modificare il giudizio sugli avvenimenti. Sovrainterpretano il male come un bene, suscitano forme di piacere dal dolore[24].
Storici ed etnologi mettono in luce come le religioni apparecchino via via pratiche, forme, sentimenti, norme, riti, credenze, sistemi teorici di significazione e rappresentazione simbolica che, tramite processi graduali di “spiritualizzazione”, bonificano passioni, istinti e impulsi, anche quando crudeli e aggressivi. In qualche modo tutto il materiale dell’affettività, dell’istintualità, viene “redento” dall’arte violenta di reinterpretare e sovrainterpretare, che da esso “martella” nuove forme, nuovi valori, nuovi significati. Ogni passaggio di civilizzazione comporta non soltanto modalità specifiche di interiorizzazione e incorporazione di affetti e pulsioni, ma anche il fatto che una stessa pulsione, reinterpretata in un nuovo vincolo che ammansisce l’animale-uomo, possa assumere una funzione diversa nel quadro di una valorialità inedita, finalizzata a scopi morali, sociali o politici più recenti[25]. Ogni civiltà per Nietzsche è sempre una formazione di “sopravvivenze” stratificatesi, nella quale i più diversi residui di mentalità, culture e pratiche di epoche diverse riaffiorano e si trasformano variamente[26].
Ecco, ora dovrebbe risultare già più chiaro perché all’inizio ho sostenuto che non sia possibile problematizzare la semantica nietzscheana legata al “redimere-riscattare” prescindendo interamente dalla visione del cristianesimo elaborata da Nietzsche stesso. Avrei potuto dire: senza aver prima introdotto alla sua interpretazione-trasvalutazione del cristianesimo. Anzi, allo stesso cristianesimo come dispositivo di reinterpretazione-rivalorizzazione il quale, istruendo un dressage dei moti dell’animo, un «training», una sorta di atletica interiore[27], permette il disciplinamento che “riacquista” istinti e affetti.
Gli istinti e gli affetti interpretano i dati; le religioni reinterpretano istinti e affetti nella produzione della semiosi storica.
«Per la storia del cristianesimo. Continua modificazione dell’ambiente: la dottrina cristiana modifica con esso continuamente il suo centro di gravità […]. Il tipo del “cristiano” riammette gradualmente tutto ciò che originariamente negava (nella cui negazione consisteva). […] Hanno prevalso sul cristianesimo: l’ebraismo (Paolo); il platonismo (Agostino); il culto dei misteri (teoria della redenzione, simbolo della “croce”); l’ascetismo (ostilità alla “natura”, alla “ragione”, ai “sensi” – Oriente)» (eKGWB/NF-1887,11[364])[28].
Questo appunto steso tra il novembre 1887 e il marzo 1888, in realtà ben più lungo del mio stralcio, appartiene originariamente al disegno della compilazione predisposta in vista de La volontà di potenza, il progetto letterario-filosofico forse più clamoroso di Nietzsche poi però abortito per sua stessa mano. Nel suo tono freddo, di scrittura quasi didascalica, così poco “nietzscheana” – se posso dire –, appartiene al genere di quelli che prediligo. Qui di seguito propongo un paio di spunti per la sua analisi.
Anzitutto il primo periodo: Nietzsche sottolinea Schwergewicht, “centro di gravità” o “baricentro”. Entro il suo lessico concettuale si tratta quasi di un terminus technicus, che ritorna strategicamente in vari passaggi dell’opera completa. Non lo pongo però a oggetto della mia attenzione, che invece va qui a ciò che lo precede: la «continua modificazione dell’ambiente». Si dev’essere attenti a non intendere per tesi nietzscheana esattamente il suo obiettivo polemico. Assunto l’influsso delle ricerche naturalistiche, “tradite” testualmente in questo appunto dal termine milieu, è da ritenere che Nietzsche non stia affermando che l’ambiente determina dall’esterno lo sviluppo della dottrina cristiana – come accadrebbe in una prospettiva “darwiniana” applicata alla storia della civilizzazione. Al contrario, sostiene che per spinta della propria forza espansiva interna il cristianesimo è portato ad assimilare elementi estranei, i quali, una volta incorporati, si riveleranno poi forze che avranno influenzato gli spostamenti e le modifiche più decisive dell’organismo complessivo, sino ad averne alterato e complicato via via il “patrimonio ereditario” trasmesso alla generazione successiva di proseliti[29]. Il cristianesimo, lungi dall’apparirgli un compatto blocco monolitico, gli si rivela un continuo ammassarsi di materiali diversi, eterogenei, che vengono assimilati indebolendo-fluidificando le resistenze interne. La crescente affermazione e complicazione nel tempo vanno perciò intese come una pluralità di processi di incorporazione segnati, nei termini della Genealogia della morale, da conflitti e assoggettamenti[30].
Per Nietzsche il movimento cristiano delle origini si è presentato nel mondo pagano come una nuova fede che s’è imposta con tanto più vigore, quanto più è stata in grado di “imbarbarirsi” tradendo le proprie prime caratteristiche per assimilare attese e credenze largamente diffuse nei culti misterici pagani assai popolari nella tarda antichità[31]: fra queste anche la teoria della redenzione. La grande capacità del cristianesimo è consistita quindi non nell’imporre una nuova concezione del mondo già strutturata, bensì nel fluidificare il proprio “senso” fungendo da cassa di risonanza e assorbimento per una pluralità di voci che l’epoca non riusciva più a contenere in un disegno unitario. Invece nel nuovo organismo queste giungevano a trovare modo di affermarsi, al punto da diventarne espressione prevalente, destinata bensì a negarne i tratti primitivi ma insieme a veicolarne l’espansione[32].
Ma torniamo velocemente al testo dell’appunto citato. Ciò su cui vorrei soffermarmi ancora un istante è infine la segnalazione dell’«ebraismo (Paolo)» tra ciò che ha prevalso sul cristianesimo. Paolo è stato il «genio», la figura più importante che “ha fatto epoca”: capace di intuire «come si potesse accendere, con l’aiuto del piccolo, settario movimento cristiano, in discosto dall’ebraismo, una “conflagrazione cosmica”» (eKGWB/AC-58)[33]. Fu il suo impegno a trasformare l’annuncio cristiano in una «dottrina misterica pagana», in un messaggio comprensibile da quanti allora cercavano la salvezza individuale (e in prospettiva quindi la redenzione) nei culti orientali.
Paolo, colto il «grande bisogno del mondo pagano, […] accentuando tutto in modo nuovo, spostando dappertutto il centro di gravità» (di nuovo lo Schwergewicht!)[34], risponde strategicamente ai bisogni delle masse religiose che credevano in figure divine quali Iside, Mitra, Osiride, Dioniso, Grande Madre. “Lavora” i significati del cristianesimo primitivo sino ad alterarli ma riuscendo così a incorporare alla dottrina che egli stesso veniva forgiando alcune immagini potenti dei culti segreti: «Dio in croce, bere il sangue, l’unio mystica con la “vittima”». In particolare ha «bisogno di portare in primo piano il concetto di colpa e di peccato; […] un nuovo culto, una nuova fede, la fede in una metamorfosi miracolosa (“redenzione” attraverso la fede)» (eKGWB/NF-1887,11[282])[35].
Tratto distintivo della religiosità israelitica agli occhi di Nietzsche è la trasformazione del dolore in “colpa”. La radicale peccaminosità diventa, con il senso della colpevolezza, possibilità indiretta di contemplare l’infinita dei gloria. Il passaggio dalla sofferenza al peccato consaputo nella colpa è premessa alla redenzione, alla salvezza: mentre il dolore infiacchisce e corrode le energie vitali, il riconoscimento della colpa opera da stimolante, spingendo a volerla espiare per la liberazione dal male. Questa è la straordinaria fantasia-immaginazione – come dicevo all’inizio – degli ebrei, vero e proprio genio morale tra tutti i popoli, che trova nell’opera paolina il proprio apice insuperabile.
Ma non basta. Paolo opera uno scarto ulteriore, e più profondo. Con lui il pensiero giudaico e poi la tradizione giudaico-cristiana nel suo complesso iniziano a reinterpretare-giudicare il peccato come indissolubilmente legato alla “carne”, alla radicale malvagità del corpo naturale, e quindi alla morte[36]. Sarx, il termine greco con cui gli scritti paolini designano la “carne” che principia moti e desideri contrapposti a quelli dello spirito-pneuma, viene reinterpretato come natura ostile a Dio, anziché soltanto di per sé fragile e imperfetta. L’essere carnale sensibile e mortale dev’essere mortificato[37]. Proprio in quanto principio diabolico, mortale – e non soltanto condizione di fragilità –, il peccato dev’essere redento attraverso la fede che ripristina la relazione con il Dio creatore.
Per concludere. Intenzionalmente non mi sono occupato delle prospettive di filosofia dell’arte/estetica e di filosofia teoretica che aprono faglie problematiche diverse nell’opera nietzscheana attorno all’asse tracciato da Erlösung. Ho focalizzato la mia attenzione su questioni di psicologia della religione e di storia delle religioni in quanto permettono di riscontrare la posta politica in gioco. Consentono altresì di valutarne la contemporaneità fuori da un’ottica storica cui si potrebbe dar seguito (forse anche fecondamente e per altro distante dal “senso storico” coltivato da Nietzsche) in varie direzioni disciplinari: storico-religiosa, storico-politica, storico-filosofica, storico-teologica. In tal senso, le sue considerazioni circa l’esigenza paolina di portare in scena i sentimenti di colpa e di peccato, e la conseguente «metamorfosi miracolosa (“redenzione” attraverso la fede)», assumono un valore emblematico che non può essere trascurato. Costituiscono l’esempio forse più significativo di come nell’ottica nietzscheana le religioni (in questo caso l’ebraismo) siano capaci di plasmare, trasformare e risignificare i linguaggi nient’affatto primitivi e “naturali” dell’istintualità, dell’affettività, della passionalità. Ancor meglio e più precisamente: dato che ad assumere valore per Nietzsche non sono certo le religioni di per sé, la sua messa in questione di Erlösung fornisce l’esempio del modo storico in cui cornici effettuali di senso, strategie ideologiche e tattiche politiche mettano al centro figure e categorie religiose o teologiche pur attestandosi e dispiegando la propria operatività concettuale su un piano anche del tutto autonomo e separato da ogni disegno di trascendenza. Le “metamorfosi miracolose” sono in primo luogo quelle subite dagli istinti nello sviluppo della semiosi storica per opera di reinterpretazioni, aggiustamenti, fermentazioni sempre susseguentisi. Non di rado conflittuali tra loro, sono disposti da linguaggi e pratiche religiose ma più in generale da linguaggi e pratiche di civilizzazione, con il loro influente carico di gerarchizzazioni valoriali, di processi di significazione, modellizzazione e razionalizzazione, di incidenze programmate come pure di controeffettuazioni e singolari effetti di eterogenesi.
La civiltà europea nel suo complesso, con la fitta rete di strategie di identitarizzazione delle quali si è avvalsa per instaurarsi e svilupparsi, è cresciuta come stratificazione di processi di tale natura. In questi hanno giocato un ruolo ora ideale ora politico i vari discorsi di salvazione e redenzione che vi si sono prodotti storicamente. Non si riesce a cogliere lo spessore della messa in questione nietzscheana dell’idea di Erlösung fuori dal contesto in cui la semantica complessiva dei termini connessi al “redimere” dev’essere colta differenziatamente. Ciò va fatto valere opera per opera, al netto di continuità e discontinuità. Non si riesce a distinguervi la posta in gioco fuori dalla battaglia condotta da Nietzsche, pervicace «anti-antisemita»[38], contro l’antisemitismo insorgente, contro la «sgiudizzazione del cristianesimo» (caratteristica dei circoli di antisemiti e adepti wagneriani) per un mitizzato “germanesimo cristiano”, e contro, per dir così, l’“anti-anticristo”, assisogli di fronte nel «marcido, dubitoso presente» con la boriosa sicumera del “redentore”.
Resta a noi iniziare a riflettere con Nietzsche e accanto a lui anche su quel processo di «rimpicciolimento e adattamento degli uomini a una più specializzata utilità», di «trasformazione dell’umanità in macchina», che «rappresenta un massimo nello sfruttamento dell’uomo»: un processo economico di cui oggi sappiamo il nome certamente con maggiore compiutezza di Nietzsche – capitalismo. Su questa via irredimibile,
«che si può ora abbracciare perfettamente con lo sguardo, sorge l’adattamento, l’appiattimento, la superiore cineseria, la modestia degli istinti, la contentezza per il rimpicciolimento dell’uomo – una specie di arresto del livello dell’uomo. Appena avremo raggiunto l’ormai inevitabile amministrazione economica generale della terra, l’umanità come macchina potrà trovare in quel servizio il suo miglior senso: come un enorme ingranaggio di ruote sempre più piccole, sempre più finemente “adattate”; […] come un tutto di immensa forza, i cui fattori particolari rappresentano forze minime, valori minimi» (eKGWB/NF-1887,10[17])[39].
Forse è provenendo dalla concretezza di tali condizioni che, adesso, un discorso “minore” sulle modalità immanenti e la posta politica del redimere può emergere di nuovo ponendo interrogativi che non smettono di riguardarci.
[1] F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, versione di S. Giametta, in Opere complete di Friedrich Nietzsche, ed. it. diretta da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964 sgg. (d’ora innanzi: Opere), vol. VIII, t. iii, Adelphi, Milano 19862, p. 359. In nota a piè pagina indico le traduzioni mentre fra parentesi intertestuali fornisco gli estremi dell’edizione critica digitale: Friedrich Nietzsche. Digitale Kritische Gesamtausgabe Werke und Briefe, a cura di P. D’Iorio, Nietzsche Source, Paris 2009 sgg., <http://www.nietzschesource.org/eKGWB>. L’edizione digitale (eKGBW) adotta le sigle canoniche di opere e dei frammenti postumi, per esempio: eKGWB/WS-188 rinvia all’aforisma 188 de Il viandante e la sua ombra, mentre eKGWB/NF-1888,22[24] indica il frammento 24 del gruppo 22 dell’anno 1888. Facendo precedere <www.nietzschesource.org> a tali sigle, si ottengono gli indirizzi di rete che ogni volta danno accesso ai passi; negli esempi: <www.nietzschesource.org/eKGWB/BVN-1879,869>; <www.nietzschesource.org/eKGWB/WS-188>; <www.nietzschesource.org/eKGWB/NF-1888,14[2]>.
[2] Molto se ne dovrebbe dire, perché si tratta di un argomento di primaria importanza: non vi sono le condizioni per poterlo fare in questa sede evitando di liquidarlo in facili luoghi comuni.
[3] È merito della ricerca di Nicoletta De Cian, Redenzione, colpa, salvezza. All’origine della filosofia di Schopenhauer (Verifiche, Trento 2002), avere mostrato come tutta la prima filosofia schopenhaueriana maturi attorno a un’effettiva «dottrina della redenzione» [Erlösungslehre] che precede la più nota dottrina della redenzione della volontà arazionale e metafisica esposta nel sistema de Il mondo come volontà e rappresentazione. De Cian chiarisce come sia in gioco una «redenzione della nostra stessa ragione e delle sue pretese di “dare ragione” di ciò che la trascende e che è per se stesso infondato (grundlos). La possibilità concreta della sua realizzazione viene attestata dall’artista e dal santo, che manifestano col loro esempio il limite della nostra comprensione ordinaria del mondo» (ibi, p. 264). Nietzsche insiste non a caso in una grande quantità di passi sull’esemplarità delle figure dell’artista e del santo.
[4] F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887, versione di S. Giametta, in Opere, vol. VIII, t. i, Adelphi, Milano 19902, p. 57.
[5] È interessante notare che Nietzsche veda originarsi tale fenomeno ottuso di patriottismo «nell’inquietante 1815, pieno di seduzioni», cioè con il Congresso di Vienna e la conseguente nascita della Confederazione germanica (Deutscher Bund) sottoposta all’egida di Prussia e Austria. «Calò allora improvvisamente la notte sullo spirito tedesco, che aveva fino allora goduto di una lunga e lieta giornata. La patria, i confini, le natie zolle: tutte le forme dell’ottusità presero improvvisamente ad accampare i loro diritti» (eKGWB/NF-1885,2[5]) ibi, p. 58.
[6] Ibi, p. 60.
[7] Ibi, p. 58.
[8] Id., Genealogia della morale, Leipzig 1887, versione di F. Masini, in Opere, vol. VI, t. ii, cura ed. di G. Campioni, Adelphi, Milano 20145, Seconda Dissertazione, § 24, pp. 326-327.
[9] Le prime occorrenze della parola, come sostantivo o in forma verbale (Erlösungsbedürftigkeit, erlösen), compaiono già nel 1866, nell’accezione ordinaria di “liberarsi da” un qualche vincolo. Quanto invece al concetto, se disegnassimo un grafico della frequenza visualizzeremmo facilmente i picchi d’intensità. Sino al 1882 compreso, il primato spetta al 1872 con la pubblicazione di La nascita della tragedia, opera che comunque rimane in assoluto tra quelle in cui il complesso dei termini viene a tema più frequentemente (10 occorrenze). Nei cinque anni intercorrenti dal 1883 al 1888 lo si ritrova ben 238 volte, oltre la metà del totale: proprio il 1883 è l’anno di svolta, con una sessantina di occorrenze tematiche. Anche il 1887 registra una ricca messe di dati, ma la vetta è costituita dal 1888 con 80 presenze.
[10] Cfr. F. Nietzsche, Prefazione, § 5, in Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, Leipzig 1887; tr. it. in Id., Tentativo di autocritica 1886-1887, a cura di M. Brusotti, Il Nuovo Melangolo, Genova 1992, pp. 125-126.
[11] Com’è ovvio sto citando il titolo di J. Derrida, Essere giusti con Freud. La storia della follia nell’età della psicanalisi (1992), tr. it. di G. Scibilia, Raffaello Cortina, Milano 1994.
[12] F. Nietzsche, Opinioni e sentenze diverse, aforisma 33, in Id., Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi, vol. II, Leipzig 18862, tr. it. di S. Giametta, nota introduttiva di M. Montinari, Adelphi, Milano 201010, p. 25.
[13] Ibi, p. 170.
[14] Id., Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi, vol. I, Leipzig 18862, tr. it. di S. Giametta, Nota introduttiva di M. Montinari, Adelphi, Milano 201113, p. 45.
[15] La Parte Terza del primo volume di Umano, troppo umano è dedicata, infatti, a “La vita religiosa”. La si dovrebbe leggere per intero, solo che ci si voglia fare un’idea del paesaggio mentale disegnato dai problemi. Tuttavia, pertinentemente alla focalizzazione di questo volume, può già bastare il ristretto gruppo di aforismi: 132, 134, 135, 141 – e nella Parte Ottava il 476. La prima constatazione è che, eccetto l’aforisma 134, negli altri il tema dominante non è semplicemente Erlösung bensì Erlösungsbedürfniss, “bisogno di redenzione”.
[16] Ibi, aforisma 132, p. 103.
[17] Ibi, p. 105.
[18] Ibi, aforisma 133, p. 105.
[19] Ibi, aforisma 134, p. 107.
[20] Ibi, aforisma 135, p. 107.
[21] Per il riscontro di tale piano metodologico – che va fatto valere reversibilmente ogni qual volta si legga in Nietzsche di una qualche “gerarchia di valori” – forse può bastare un appunto del maggio-giugno 1885: «Il senso storico: la capacità di scorgere rapidamente la gerarchia dei valori in base ai quali un popolo, una società, un individuo vivono. La relazione tra questi giudizi di valore e le condizioni di vita, il rapporto tra l’autorità dei valori e l’autorità delle forze agenti (quello presunto generalmente ancor più di quello reale): il saper ricostruire in sé tutto ciò forma il senso storico» (eKGWB/NF-1885,35[2]). Id., Frammenti postumi 1884-1885, versione di S. Giametta, in Opere, vol. VII, t. iii, Adelphi, Milano 19902, p. 187.
[22] Circa l’approccio nietzscheano a tutta la materia etno-antropologica e storico-religiosa resta fondamentale la monografia di Andrea Orsucci, cui non posso che rinviare per la rilevanza in questa mia breve ricerca in tema di “redenzione”: Orient – Okzident. Nietzsches Versuch einer Loslösung vom europäischen Weltbild, de Gruyter, Berlin – New York 1996.
[23] Un istinto per Nietzsche non coincide affatto con un puro dato naturale né con un comportamento innato. Al contrario, consiste in un’elaborazione artificiale proveniente da circostanze storico-geografiche determinate e destinata a divenire qualcos’altro. È un prodotto culturale. La genesi degli istinti è nell’interazione del corpo-mente animale con il circostante che determina la dinamica pulsionale (intelligente) dell’individuo. Ne accende i bisogni di appagamento, ne innesca le risposte agli stimoli e ne plasma i gusti, per poi venire plasmato a sua volta da valutazioni e prospettive. Gli istinti s’iscrivono in una precisa filogenesi lungo la quale si affina la loro intelligenza. Si estrinsecano come giudizi, cambiando spesso forma e direzione, cioè valore, e rimanendo costantemente accessibili per ulteriori riutilizzi e risignificazioni. Un’attenta disamina della costruzione nietzscheana del concetto e della funzione dell’istinto in: L. Lupo, Le colombe dello scettico. Riflessioni di Nietzsche sulla coscienza negli anni 1880-1888, ETS, Pisa 2007, pp. 75-79.
[24] In un appunto preparatorio per La volontà di potenza leggiamo: «Le passioni trasfigurate: loro ordine superiore, loro “spiritualità”» (eKGWB/NF-1887,9[8]) F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, versione di S. Giametta, in Opere, vol. VIII, t. ii, Adelphi, Milano 19903, p. 6. Cfr. anche Id., Umano, troppo umano, vol. I, cit., aforisma 108, p. 89.
[25] La migliore esposizione nietzscheana di tutta questa dinamica resta a mio avviso: Genealogia della morale, cit., Seconda Dissertazione, § 12, pp. 303-306.
[26] Il concetto di “sopravvivenza” culturale accomuna la ricerca genealogica di Nietzsche con quella storico-iconografica e storico-culturale di Aby Warburg. Entrambi dipendono dall’assimilazione di una medesima fonte, l’etnologo inglese Edward Burnett Tylor, la cui opera capitale in due volumi del 1871, Primitive Culture: Researches into the Development of Mythology, Philosophy, Religion, Art and Custom, era uscita in versione tedesca già due anni dopo (Die Anfänge der Cultur. Untersuchungen über die Entwicklung der Mythologie, Philosophie, Religion, Kunst und Sitte, Leipzig 1873, 2 voll.). Nietzsche l’aveva potuta leggere nel 1875 e utilizzare nello splendido ciclo di lezioni sull’antico culto greco tenute a Basilea come docente di filologia classica tra il 1875 e il 1878. Cfr.: F. Nietzsche, Il servizio divino dei Greci, a cura di M. Posani Löwenstein, con una Nota di G. Campioni, Adelphi, Milano 2012, in particolare pp. 27, 51-54. In queste lezioni si possono riscontrare i debiti con altre fonti di antropologia ed etnologia, fra cui: John Lubbock (The Origin of Civilisation and the Primitive Condition of Man, 1870, tr. ted. 1875), Karl Bötticher (Der Baumkultus der Hellenen, 1856), Wilhelm Mannhardt (Der Baumkultus der Germanen und ihrer Nachbarstämme, 1875). In merito: A. Orsucci, Orient – Okzident, cit., pp. 8-138.
[27] «Una liberazione reale [eine wirkliche Erlösung] da ciò che con un training tanto severo combattevano» è di fatto l’indubitabile guadagno ottenuto da «sportsmen della “santità”, di cui abbondano tutte le età e quasi tutti i popoli» (eKGWB/GM-III-17), tr. it. in: F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., Terza Dissertazione, § 17, p. 370.
[28] Id., Frammenti postumi 1887-1888, cit., pp. 364-365.
[29] Sono convinto che Nietzsche stia applicando alla storia del cristianesimo una concezione del botanico svizzero Karl Wilhelm Nägeli, docente a Monaco ed esponente di spicco dell’antidarwinismo di lingua tedesca. Nietzsche s’“imbatte” nella sua Mechanisch-physiologische Theorie der Abstammungslehre (cfr. la lettera A Franz Overbeck, 14 luglio 1886, in Id., Epistolario 1885-1889, versione di V. Vivarelli, Notizie e note di G. Campioni e M.C. Fornari, Adelphi, Milano 2011, p. 208) e negli anni 1986-1987 ne introduce la teoria dell’evoluzione delle forme organiche entro lo studio dei processi di civilizzazione, confermando il proprio tratto metodologico francamente trasgressivo nei confronti di qualsiasi rigido confinamento disciplinare.
[30] Secondo quanto scrive nella Seconda Dissertazione di Genealogia della morale, in un passo che mette conto leggere per la sua straordinaria importanza metodologica: «“Evoluzione” di una cosa, di un uso, di un organo […] è tutt’altro che il suo progressus verso una meta, e ancor meno un progressus logico e di brevissima durata, raggiunto con il minimo dispendio di forza e beni – bensì il susseguirsi di processi di assoggettamento svolgentisi in tale cosa, più o meno spinti in profondità, più o meno indipendenti l’uno dall’altro, con l’aggiunta delle resistenze che continuamente si muovono contro, delle tentate metamorfosi di forma a scopo di difesa e di reazione, nonché degli esiti di fortunate controazioni. La forma è fluida ma il “senso” lo è ancor di più…» (eKGWB/GM-II-12). F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., Seconda Dissertazione, § 12, p. 305. Si tratta di un paragrafo su cui Michel Foucault tanto deve aver riflettuto – e dal quale molto ha tratto genialmente. In merito: G. Boffi, Genealogia e semiotica. Una pagina di Nietzsche (con Foucault), in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica» 4(2016), pp. 937-961.
[31] Al riguardo Nietzsche mette a frutto lo studio dei due volumi della Sittengeschichte Europas von Augustus bis auf Karl del Großen (edita in tedesco nel 1879) in cui l’autore, lo storico e filosofo morale inglese William Edward Hartpole Lecky, si era diffuso circa le radici pagane ancora vive nella Chiesa cristiana delle origini. In merito, di nuovo: A. Orsucci, Orient – Okzident, cit., in particolare pp. 284-293.
[32] Nietzsche ritiene, seguendo su questo punto il Tolstoj de La mia religione, ampiamente stralciato e parafrasato in L’anticristo, che Paolo trasformi l’annuncio di Cristo sino a rovesciarlo in qualcos’altro che proprio esso dapprima negava. Ma la fonte decisiva per la comprensione nietzscheana della tradizione religiosa d’Israele è costituita per Nietzsche dagli importantissimi studi esegetici di Julius Wellhausen, storico, teologo, veterotestamentarista, orientalista, islamologo. In particolare i suoi celebri Prolegomena alla storia di Israele pubblicati in seconda edizione nel 1883, compulsati intensivamente e trascritti da Nietzsche in molti appunti. Per introdursi al pensiero di Wellhausen – figura determinante ancora per Weber, secondo quanto mi ha precisato Francesco Ghia –, possono bastare le pagine che gli dedica Henning Graf Reventlow: Storia dell’interpretazione biblica, Piemme, Casale Monferrato 1999-2004 (4 voll.), vol. IV.: Dall’illuminismo fino al XX secolo, tr. it. a cura di E. Gatti, Piemme, Casale Monferrato 2004, pp. 360-376.
[33] F. Nietzsche, L’anticristo, cit., § 58, p. 238.
[34] Ma lo spostamento di cui Paolo si rende principalmente colpevole agli occhi di Nietzsche è quello del «centro di gravità» della vita al di là di essa, «dietro questa esistenza»: cfr. eKGWB/AC-42, tr. it. L’anticristo, cit., p. 206.
[35] Id., Frammenti postumi 1887-1888, cit., p. 314.
[36] Attorno al 1880 Nietzsche studia una rilevante monografia del teologo Hermann Lüdemann, uscita nel 1872: L’antropologia dell’apostolo Paolo e la sua collocazione all’interno della sua dottrina della salvezza. Da questo studio trae un motivo che permarrà nel suo pensiero: l’introduzione, proprio per opera paolina, del dualismo ellenistico di spirito e materia nell’ebraismo, cui era sconosciuto.
[37] Nella chiusa di un frammento nietzscheano dell’estate 1880 troviamo la puntuale registrazione della differenza tra peccaminosità veterotestamentaria ed ellenistica: «Il peccato ora come debolezza e imperfezione rispetto a Dio, che è santo – ora come principio diabolico, autonomo» (eKGWB/NF-1880,4[219]). F. Nietzsche, Frammenti postumi 1879-1881, versione di M. Montinari, in Opere, vol. V, t. i, Adelphi, Milano 19862, p. 391 (tr. lievemente modificata).
[38] In una lettera alla sorella Elisabeth, Nietzsche definisce se stesso «quell’incorreggibile europeo e anti-antisemita che è il Tuo inautorevolissimo fratello e fannullone Fritz» A Elisabeth Förster-Nietzsche, <Nizza, 7 febbraio 1886> Domenica, in Id., Epistolario 1885-1889, cit., p. 150.
[39] Id., Frammenti postumi 1887-1888, cit., p. 113.