01
NOV
2017

Temple-II. In-depth: Bernhard Welte sulla scia di Heidegger. Dal tempio al centro commerciale (ovvero la fine del tempio) (Silvano Zucal)

Abstract

Bernhard Welte in the wake of Heidegger. From the temple to the shopping mall (or the end of the temple)

This essay discusses the fact that sacred spaces are today disappearing, through an examination of Bernhard Welte’s considerations on the meaning of the temple and its spatial separateness. Welte deals with prayer, principally “the prayer of silence”. In order for the “prayer of silence” – a precondition for all other forms of prayer – to be possible, it is necessary to have temples and sacred spaces.  The sacred space par excellence is, according to Welte, the temple; the loss of the temple thus means the loss of silence, and of silent prayer, and, therefore, the withering of all other forms of prayer. Welte’s ideas are compared with those of Heidegger, Max Picard and Romano Guardini.

BERNHARD WELTE SULLA SCIA DI HEIDEGGER. Dal tempio al centro commerciale (ovvero la fine del tempio)

Premessa

 La questione del tempio, nella sua peculiarità di luogo insieme territoriale ed extraterritoriale, inserito nella realtà urbanistica ordinaria, ma nel contempo “altro” rispetto alla realtà quotidiana del fare, del rumore, dell’utile e del funzionale, assume un grande rilievo per ogni prospettiva teologico-politica che insieme sia un’effettiva ricostruzione diagnostica del nostro tempo. In questo contributo si è scelta, come guida per inoltrarsi nel peculiare “territorio del tempio”, la proposta teorica sull’argomento di Bernhard Welte, non dimenticando però l’incrocio di tale originale riflessione con il magistero di Heidegger, che di Welte fu maestro[1], e con la ripresa della stessa tematica da parte dell’allievo di Welte ovvero Bernhard Casper. Al di là del rilevante circuito intellettuale Welte-Heidegger-Casper, abbiamo anche inserito, quale sorta di riscontro a tali posizioni dato il taglio diagnostico-epocale della nostra analisi[2], le analoghe riflessioni di Max Picard e di Romano Guardini.

Ciò che emerge e che si intende mettere a fuoco è il tema della “distruzione del tempio”. Una “distruzione” che oggi non avviene soltanto per ragioni politiche o religiose o belliche, ma anche per una sorta di morbida dissoluzione frutto del processo di omologazione tra gli spazi del sacro dove dovrebbe situarsi il tempio e quelli che non appartengono al sacro[3]. In altri termini, si tende a passare senza soluzione di continuità da un àmbito spaziale ordinario a quello “straordinario” (o meglio che dovrebbe essere tale) in cui si colloca il tempio.

 

  1. 1. Il tempio come luogo del silenzio. Il silenzio e il sacro

Bernhard Welte colloca la sua riflessione sul significato del tempio nella parte terza del suo testo di filosofia della religione Dal nulla al mistero assoluto[4]. Questa terza sezione, che reca il titolo L’uomo come soggetto della religione, è dedicata alla “pratica della fede” ed essenzialmente alla preghiera cui viene attribuito un posto decisivo nella vita religiosa, al punto da farne l’intera attuazione di tale vita. La preghiera è intesa in primis come la “preghiera del silenzio”[5] che è la premessa fondante per la “preghiera come linguaggio”[6] così come per la “preghiera comunitaria”[7] e, infine, per la “preghiera come atto cultuale”[8]. Perché ci sia la “preghiera del silenzio”, premessa ineludibile per tutti gli altri atti oranti, occorrono tempi e luoghi sacri. Il luogo sacro per eccellenza è appunto, per Welte, il tempio e la perdita del tempio implica di fatto la perdita del silenzio e della preghiera silente con il correlato afflosciarsi e deperire di tutte le altre forme di preghiera. In Occidente crisi del tempio e perdita del silenzio sono tra loro correlate.

Oggi viviamo e sperimentiamo una vera e propria eclissi del silenzio, una drammatica mancanza di silenzio. Mancare di silenzio vuol dire fare di tutto perché il punto zero dell’Essere, questa dimensione insieme misterica e imperscrutabile, venga rumorosamente sopraffatto da una immensa quantità di cose e di faccende. La dimensione esorbitante di cose e di faccende va a sovrapporre al vuoto pieno, a cui l’autentico silenzio conduce per  mano, il pieno vuoto, al silenzio dell’Essere il brulichìo vociante degli enti, il commercio con le cose. Solo nell’autentico silenzio si ha la forza di riconoscere e di rispettare quella “misura interna”, come la definisce Welte, ovvero quell’interiore parametro di senso, che, non adeguandosi a nessuna scontata e ovvia verità di fatto, costringe l’uomo a spingersi e a sporgersi finalmente al di là di tutto e a postulare una pienezza in cui quella pretesa di senso (corrispondente all’interiore parametro di senso) possa essere soddisfatta o, perlomeno, non elusa. Questa “differenza di senso” cui tendiamo non è che la distanza interna alla vita, quella trascendenza che, annunciandosi nello stupore, sempre rinvia al di là di sé. Ma non c’è stupore possibile senza vero silenzio. E senza silenzio è impossibile incontrare il sacro: esso è solo lì dove c’è un uomo integrale che non ha rinunciato in partenza alla differenza di senso, che conosce la negazione dell’ovvio e dell’immediatamente rappresentato, che accetta e gusta – proprio per questo – il silenzio. L’uomo che, per un momento, accetta di isolarsi nel silenzio, di vivere il distacco dal vociare opprimente e dall’intrattenersi onni-occupante, non è – come si può pensare – un uomo dimezzato, improduttivo, ma è appunto un uomo integrale che venera il silenzio perché vive nell’anelito e nella speranza della pienezza. Il sacro è lì dove, nel silenzio, c’è una apertura e una speranza di totalità. Il sacro è il fenomeno epifanico del mistero che insieme respinge e affascina. Di qui anche il fascino e il rigetto insieme del silenzio come luogo manifestativo del sacro e, a ciò correlato, il fascino e il rigetto del tempio.

L’apertura al sacro nel silenzio è fonte di una diversa conoscenza, la conoscenza sapienziale. Paolo nella Prima Lettera ai Corinti (1 Cor, 2, 1-15) parla di una sapienza divina, misteriosa che è rimasta nascosta e a cui l’uomo naturale con le forze del proprio intelletto non può aver accesso. A tale sapienza può accedere l’uomo pneumatico, non l’uomo carnale. Il tratto fondamentale della “carnalità” è proprio la chiacchiera inesausta, mentre la dimensione pneumatica ha sempre bisogno del silenzio. Solo nel silenzio cresce l’uomo spirituale finalmente disponibile per la sapienza, avendo tacitato l’uomo carnale che si limita a contemplare i prodotti dell’intelligenza e i connessi trionfi di cui vantarsi con parole vane. Se questo vale per l’accesso alla sapienza rivelata, nondimeno anche l’accesso all’umana sapienza – nella grande tradizione filosofica sia occidentale che orientale – prevede il passaggio obbligato attraverso il crogiòlo del silenzio. Basti pensare agli antichi pitagorici i cui novizi dovevano osservare per cinque anni il più totale silenzio, prima di poter essere finalmente ammessi al grado più alto di conoscenza sapienziale. Questo, nella convinzione che non è la sola attività dell’intelletto umano, ma l’illuminazione che viene dall’alto a offrire la conoscenza della verità ultima, ad aprirci ai territori umanamente indisponibili del divino.

 

  1. 2. Silenzio e spazi esteriori fisici

 Coltivare il silenzio non implica solo il rinnovamento del rapporto di ognuno con il proprio Sé profondo (un vero e proprio ritorno a se stessi). Esso richiede anche spazi esteriori particolari e adeguati. Difficile è raggiungere il silenzio interiore nelle proprie case o – ancor meno – sul lavoro dove non c’è una cella, un luogo deputato al silenzio meditativo che è condizione necessaria (anche se, ovviamente, non sufficiente) per inoltrarsi davvero nel territorio del silenzio profondo. Anche gli spazi infatti sono ormai omologati, mentre per il silenzio e per tutta la sequenza orante che da esso sgorga, occorre (occorrerebbe) – afferma Welte – uno “spazio straordinario”: il tempio appunto. Scrive infatti il nostro pensatore: «Non tutti i tempi né tutti i luoghi sono idonei per uno svolgimento compiuto dell’azione cultuale»[9], per ritrovare quel silenzio che ne è la radice e la forza. Il tempo adeguato è la festa (tema su cui non ci soffermeremo)[10] e ad essa – scrive ancora Welte – «come simbolo cultuale fondamentale del tempo corrisponde il tempio o la chiesa come simbolo fondamentale dello spazio, come luogo separato e innalzato dello spazio, luogo dell’evento cultuale»[11] e luogo silente per eccellenza. Il tempio delimita uno “spazio sacro”, un “posto sacro” e con ciò si intende – come afferma l’allievo di Welte Bernhard Casper – «un luogo, il quale non è affatto una parte della spazialità costituita dalla nostra intenzionalità»[12]. Luogo deputato ed elettivo per il raccoglimento orante, che implica sempre l’oltrepassare una “soglia”, lo sfuggire alla dittatura del quotidiano mediante un’interruzione dell’omogeneità spaziale apparentemente ovvia:

 

«Il fatto che ci raccogliamo in meditazione […] accade attraverso il fermarsi in e presso di sé; attraverso l’esplicito svincolarsi dal potere del quotidiano, che in realtà è onnipotente solo all’apparenza […]. È necessario porre una cesura e oltrepassare una soglia; il che può prender corpo nel fatto che coloro che si raccolgono in meditazione nell’accadimento della preghiera cercano un luogo particolare per questo»[13].

 

Il tempio, lo spazio d’eccezione riservato alla preghiera, e lo spazio ordinario non sono semplicemente l’uno accanto all’altro, come lo spazio di un giardino che frequento per qualche ora con piacere rispetto al resto dello spazio urbano. Lo spazio sacro del raccoglimento, quando in esso accade davvero un pregare autentico, compenetra e trasforma lo stesso spazio ordinario e abituale. Quel che accade in quel tempio, quel pregare, è presente anche negli spazi ordinari della quotidianità opaca. A partire da quanto accade nello spazio d’eccezione, dedicato alla preghiera, allo spazio urbano ordinario,

 

«che in prima battuta è disorientato, si offre un orientamento. […] Lo spazio, inizialmente privo di orientamento, lo riceve da un luogo assunto come centrale. […] L’accadimento della preghiera rivela la sua forza, che rende capaci di orientamento e del discernimento della speranza: essa non potrebbe dar prova di sé, se non nel quotidiano»[14].

 

Per noi moderni, sostiene Welte, la centralità e la peculiarità spaziali del tempio, con la sua potenza orientante, rischiano però di essere sommerse nel continuum spaziale indeterminato:

 

«Anche lo spazio, nella prospettiva moderna corrente, si distende come pura dimensione illimitata e inarticolata. Ma a chi lo guarda nella sua realtà semplice e originaria, come abitazione donata agli uomini, che rende possibile e regge con la forza di Dio il loro vivere sulla terra sotto i doni del cielo, sotto la luce e la pioggia, lo spazio appare in un’articolazione variegata ma non disordinata; e si capisce allora – conclude Welte – come vi siano stati un tempo uomini che ne hanno ricevuto l’indicazione a circoscrivere  determinati spazi come luoghi per eccellenza della presenza di Dio per gli uomini»[15].

 

Il tempio dunque come il “recinto sacro”, come il circoscritto elettivo. La sensibilità spirituale si trasferiva immediatamente in una sensibilità politico-urbanistica e allora, sottolinea Welte, nelle città e nei villaggi,

 

«compare il recinto sacro, il temenos (τέμενος), il templum, ovvero il luogo, lo spazio, la casa-chiesa, la casa della presenza di Dio e della celebrazione cultuale, dove appunto si celebra la comunione di Dio con gli uomini. […] La casa di Dio […] simbolo spaziale […] della presenza di Dio, partecipa alla dialettica di tutti i simboli. […] La casa è limitata, ma in questa limitatezza diventa il teatro d’azione corporale dell’incontro con l’illimitato, che abbraccia tutti gli spazi […] e dentro il quale noi viviamo, ci muoviamo e siamo, sempre e in ogni luogo. […] I luoghi sacri costituiscono il teatro d’azione dove si svolge il culto, costituiscono per il culto […] il giusto spazio. Nello spazio fisico della chiesa […] si innalza nella comunità il linguaggio [alimentato dal rapporto vitale col silenzio] come culto»[16].

 

Se lo si legge a partire dalla nostra abituale concezione della spazialità, il tempio – così chiosa Casper – appare «come un non-spazio; in senso morfologico: come lo spazio delimitato, il temenos (τέμενος), il  templum. Si mostra come il posto, che a partire dalla nostra abituale spazialità, non è definibile come luogo del sistema di coordinate di questa spazialità; piuttosto, questo, trascendendo, dà incondizionatamente senso a tutta la nostra spazialità. Nella spazialità del nostro stesso mondo si dischiude un non spazio, in rapporto al quale innanzitutto è fatto essere ogni nostro avere-spazio»[17]. Illuminante in tale direzione appare un verso famoso del Tao-te-king: «Trenta raggi si riuniscono in un centro vuoto: ma la ruota non girerebbe senza questo vuoto»[18]. La genesi del luogo sacro fa sì che lo spazio ordinario caotico e disorientante trovi finalmente un àmbito datore di senso: «Dallo spazio caotico, apparentemente innanzitutto presente come fatto, ma insicuro nel suo essere […] viene ritagliato un luogo, come l’indicazione rimandante al suo infinito e incondizionato senso, il quale fa sì che ci sia soprattutto spazio. Questo temenos (τέμενος) diventa anche punto centrale, l’Omphalos, come il tempio dei dodici dèi in Atene, o come l’Omphalos di Delfi»[19]. Così sarà anche, nel contesto ebraico, per il tempio di Gerusalemme o per le sue rovine. La peculiare dimensione spaziale occupata dal tempio realizza lo “spazio sacro” che, nel suo delimitarsi, esprime una realtà “oltre-spaziale” e denuncia i limiti strutturali dello spazio ordinario, senza ordine e senso:

 

«Che il posto sacro si eventualizza […], che si apre allo spazio, accade attraverso il fatto che diviene manifesto l’essere-limitato dello spaziale a causa del venire interessati da qualcosa che è più di uno spaziale. Ciò può essere portato al linguaggio nell’esserci e nell’esserci l’uno con l’altro […] solo grazie al fatto che un delimitare abbia luogo all’interno della stessa spazialità. Lo spazio delimitato nello spazio, o il posto delimitato dallo spazio, divengono simboli del trovar-si-coinvolti dallo spazio inteso come più che spaziale. Il posto sacro come il non-luogo […] accade in un movimento dell’oltrepassarsi, dell’andare oltre se stessi da ciò che è innanzitutto abituale, […] pura immanenza di spazialità senza ordine e senza senso. Per l’indicazione vitale di questo evento del nostro-superamento, reso possibile grazie all’avveniente appello del sacro, viene il limite, delimitante il luogo sacro dai luoghi restanti»[20].

 

La costruzione del tempio, come si diceva, corrisponde a una sensibilità politico-urbanistica ma, insieme, determina e struttura l’urbe nella sua interezza. Il tempio, lo spazio sacro, diventa in certo qual modo il “centro del mondo” urbano. Questo è davvero l’aspetto teologico-politico del tempio: «Dallo spazio sacro così delimitato – sottolinea il filosofo tedesco – riceve poi ordine e splendore l’insieme delle abitazioni degli uomini. È a partire dal tempio principale che nelle città romane si tracciavano le strade; e ancora nel Medioevo e nell’epoca barocca le chiese determinavano l’ordinamento delle città cui appartenevano. Lo spazio separato [del tempio] e destinato al culto ha, proprio in questa sua separatezza, una funzione generale, perché determina lo spazio intero»[21] di tutta l’urbe. Grazie al tempio, contemporaneamente, nell’insieme dello spazio – afferma Welte – sorge la distinzione tra sfera sacra e sfera profana: «Alla luce della realtà sacra il resto dello spazio viene considerato profano; ma questo àmbito profano viene irradiato e marcato dal sacro»[22]. È di assoluto rilievo, per il filosofo della religione tedesco, la soglia di passaggio dal profano al sacro e dal sacro al profano: «Non a caso – egli scrive – era il mondo profano ad emanarsi dal temenos[23], dal templum, e il pro-fano nasceva in relazione al fanum [tempio][24], come spazio esterno che lo circondava e ad esso faceva ricevimento»[25]. Come afferma anche Casper, proprio e a partire dall’«evento costituente il posto sacro diviene comprensibile anche il significato religioso, quale la soglia in molte religioni ha, in connessione con l’esperienza del luogo sacro […]. La soglia separa il male dal bene e così diviene con la sua stessa esistenza indicazione della separazione da ciò che deve essere, dal bene, dal fanum – e dal pro-fanum, ciò che nell’effettivo esserci l’uno con l’altro degli uomini giace davanti, e “fuori” di fronte la metà salva. Ma chi vuole varcare il limite, quale il posto sacro delimita, si deve purificare. O piuttosto, pensato nella prospettiva di fondazione: lui si deve lasciare purificare»[26]. Questa necessaria purificazione per oltrepassare la soglia e per l’ingresso nel luogo sacro non è fine a se stessa. Quel “limite delimitante” a cui essa concede l’accesso pone anche e sempre il problema del venire del luogo sacro nuovamente nello spazio quotidiano, dell’irradiazione successiva di quella avvenuta purificazione. Il tempio, il posto sacro è l’evento della «delimitazione per l’orientamento fondante ogni umano avere-spazio […]. Lo spazio sacro [… diviene] lo spazio raccogliente l’esserci dalla dispersione della quotidianità e del male. E solo grazie a tale raccolta diviene possibile l’orientamento nella quotidianità e la sua storia»[27]. Non a caso il tempio o comunque lo spazio sacro può divenire luogo d’asilo, di protezione anche politica.

C’è dunque un’inevitabile diastasi tra lo spazio quotidiano e lo spazio sacro e tutto ciò si rapporta alla dimensione della festa, della preghiera comune e del culto:

 

«La diastasi tra lo spazio quotidiano […] e lo spazio sacro che è debitore ad un incondizionato essere-coinvolti sembra essere comune a tutte le religioni. E poiché il posto sacro è debitore dell’evento dell’appello che supera l’uomo e tuttavia lo supera in modo incondizionato e infinito, esso è manifesto in tutte le religioni in un intimo rapporto con la celebrazione di questo evento. Questo evento viene celebrato nel festeggiamento della festa, nel compimento del culto e nell’accadere della preghiera. Il posto sacro, nato dalla delimitazione, può essere compreso nella sua nascita come espressione di una presa di corpo di questo evento del superarsi concesso all’uomo»[28].

 

  1. Welte e la ripresa della concezione heideggeriana del tempio

La concezione weltiana del tempio riprende, in larga misura, le riflessioni su questo tema di Martin Heidegger, pensatore che, non solo su questo terreno, ha dato con il suo magistero un’impronta decisiva al pensiero di Welte. Egli infatti recupera e fa propri i celebri passaggi sul tempio proposti da Heidegger in Holzwege. Per pensare lo storicizzarsi-eventualizzarsi della verità nell’opera d’arte, Heidegger prenderà ad esempio paradigmatico un tempio greco. Questo, non rientrando nell’arte raffigurativa, si sottrae a ogni tentativo di ricondurre il valore veritativo dell’opera d’arte all’idea di mìmesis, di mera imitazione di una realtà semplicemente presente al di fuori di essa:

 

«Un edificio, un tempio greco, non riproduce nulla. Si erge semplicemente, nel mezzo di una valle dirupata. Il tempio racchiude la statua del Dio ed in questo racchiudimento protettivo fa sì che, attraverso il colonnato, essa risplenda nella sacra regione. In virtù del tempio, Dio è presente (anwest) nel tempio. Questo esser-presente di Dio è in se stesso il dispiegamento e la delimitazione d’una regione sacrale. Ma il tempio e la sua regione non si perdono nell’indefinito. Il tempio, in quanto opera, dispone e raccoglie intorno a sé l’unità di quelle vie e di quei rapporti in cui nascita e morte, infelicità e fortuna, vittoria e sconfitta, sopravvivenza e rovina delineano la forma e il corso dell’essere umano nel suo destino (Geschick). L’ampiezza dell’apertura di questi rapporti è il mondo di questo popolo storico. In base ad essa e in essa, questo popolo perviene al compimento di ciò a cui è destinato»[29].

 

Il tempio è dunque, per Heidegger, quell’evento a partire dal quale si determinano le direttrici essenziali entro cui si orienterà la storia di un popolo. Solo a partire da esso si stabiliscono i criteri essenziali della sensatezza, le decisioni, i desideri fondamentali che definiscono la cultura, l’ identità di un popolo storico. Questo evento inaugurale, e insieme fondativo di un mondo, ha sempre un debito verso qualcosa di “altro” che si viene manifestando come una dimensione dell’implicito, di un’oscurità, una zona di rifiuto, di resistenza alla volontà di esplicitezza propria della sfera profano-mondana:

 

«Eretto, l’edificio [il tempio] riposa sul suo basamento di roccia. Questo riposare dell’opera fa emergere dalla roccia l’oscurità del suo supporto, saldo e tuttavia non costruito. Stando lí, l’opera tiene testa alla bufera che la investe, rivelandone la violenza. Lo splendore e la luminosità della pietra, che essa sembra ricevere in dono dal sole, fanno apparire la luce del giorno, l’immensità del cielo, l’oscurità della notte. Il suo sicuro stagliarsi rende visibile l’invisibile regione dell’aria. La solidità dell’opera fa da contrasto al moto delle onde, rivelandone l’impeto con la sua immutabile calma. L’albero e l’erba, l’aquila e il toro, il serpente e il grillo assumono cosí la loro figura evidente e si rivelano in ciò che sono. Questo venir fuori e questo sorgere, come tali e nel loro insieme, è ciò che i Greci chiamarono originariamente phúsis. Essa illumina ad un tempo ciò su cui e ciò in cui l’uomo fonda il suo abitare. Noi la chiamiamo la Terra. Da ciò che intendiamo con questo termine occorre tener ben lontano ogni idea di massa materiale stratificata o di pianeta in senso astronomico. La Terra è ciò in cui il sorgere riconduce, come tale, tutto ciò che sorge come nel proprio nascondimento protettivo. In ciò che sorge è presente la Terra come la nascondente-proteggente. Eretto sulla roccia, il tempio apre un mondo e lo riconduce, nello stesso tempo, alla Terra, che solo allora si rivela come suolo natale»[30].

 

Proprio e grazie al tempio si rende dunque manifesto qualche cosa di non costruito, una “natura” il cui senso più originario e autentico viene restituito attraverso ciò che i Greci chiamavano phúsis. Il ricorso a parole fondamentali del pensiero greco permette quel passo indietro verso l’“impensato” dal mondo della tecnica, che ha invece stabilito il rapporto con una natura diventata semplicemente “fondo”, deposito di risorse energetiche, riserva che l’uomo usa semplicemente per costruire il suo mondo come sistema totalmente organizzato, come “impianto” (Gestell) dell’organizzazione tecnologica. La natura intesa invece come phúsis è piuttosto la fonte vitale, il suolo da cui viene ogni dischiudersi. Mentre fa dono della sua forza sorgiva, essa si ritrae, si sottrae e si manifesta come l’auto-chiudentesi, ciò che non è mai riducibile a ente, perché condizione del suo stesso venire all’essere. Per farci meglio comprendere questo sottrarsi che, analogamente alla phúsis, è costitutivo dell’opera d’arte e in specie del tempio, Heidegger la contrappone al “mezzo”:

 

«Il mezzo, in quanto determinato dall’usabilità e dal bisogno, subordina a sé ciò di cui è fatto, la materia. La pietra, ad esempio, è impiegata e usata nella fabbricazione di quel mezzo che è la scure. La pietra è [in tal caso è totalmente] assorbita nell’usabilità. La materia è tanto migliore e adatta quanto più si subordina senza resistenza all’esser mezzo del mezzo. Il tempio, al contrario, in quanto espone un mondo, non fa sí che la materia scompaia, ma la fa emergere nell’aperto del mondo dell’opera. La roccia si immedesima nel sorreggere e nel riposare in se stessa e diviene così roccia. I metalli si fanno lampeggianti e rilucenti, i colori splendenti, i suoni risonanti, la parola dicente. Tutto ciò si fa innanzi perché l’opera si ritira nella massa e nel pesantore della pietra, nella saldezza e nella flessibilità del legno, nella durezza e nello splendore del metallo, nella luce e nell’oscurità del colore, nella tonalità del suono e nella forza nominativa della parola. Ciò in cui l’opera si ritira e ciò che, in questo ritrarsi, essa lascia emergere, lo chiamiamo: la Terra […] Su di essa ed in essa l’uomo storico fonda il suo abitare nel mondo»[31].

 

Il “mezzo”, quindi, è tutto assorbito dalla e, nella sua utilizzabilità, in esso nulla si sottrae alla nostra volontà di definirlo in base alla funzione che esso riveste. La materia è pensata come materia inerte, diventata totalmente strumento nelle mani di una volontà calcolatrice, che la scompone, la seziona e disseziona, riducendola a misura. La lucentezza dei metalli, il pesantore della pietra non li percepiamo grazie al calcolo delle vibrazioni, o ricorrendo a una bilancia che ce ne calcola il peso, ma quando li cogliamo nella loro impenetrabilità e incalcolabilità, in questo loro pervicace sottrarsi a ogni volontà di determinazione scientifica, nel loro mantenersi in un costante rifiuto.

Il tempio ha dunque, per Heidegger, una doppia funzione rivelatrice: conferisce alle cose il loro autentico aspetto e agli esseri umani la piena visione di se stessi:

 

«Non accade mai che uomini e animali, piante e cose, siano dapprima semplicemente-presenti e conosciuti come semplici oggetti, per divenire poi, casualmente, il contorno adeguato del tempio, che, a sua volta, si sarebbe un giorno semplicemente aggiunto alla restante realtà. Ci avvicineremo invece a ciò che è (ist), solo procedendo al rovescio, posto che abbiamo occhi per vedere come tutto avvenga al rovescio. Ma il semplice capovolgimento, per sé preso, non chiarirebbe nulla. Stando lì eretto, il tempio conferisce alle cose il loro aspetto e agli uomini la visione di se stessi. Questa visione [però] resta attuale fin che l’opera è tale, fin che Dio non fugge via da essa. Lo stesso vale per la statua del Dio, votatagli dal vincitore durante la lotta. Non si tratta affatto di una specie di ritratto, eseguito perché sia possibile sapere come il Dio è fatto, ma di un’opera che lascia-essere-presente Dio stesso e, pertanto, è (ist) Dio stesso. […Il tempio è] esposizione vera e propria [che] è erezione nel senso del votare e del celebrare. Esporre in questo caso non significa il semplice collocare. Votare significa consacrare, nel senso che nell’esposizione dell’opera viene aperto il sacro in quanto sacro, e viene invocato il Dio nell’aperto del suo essere-presente. [… Nel tempio] il Dio è presente (anwest) nella dignità e nello splendore. Nel riflesso di questo splendore riluce, cioè si illumina, ciò che chiamiamo il Mondo»[32].

 

  1. Dal tempio al “centro commerciale”?

Oggi invece gli spazi delle nostre città non si irradiano più a partire da un centro, da un luogo privilegiato e sacro la cui presenza un tempo era davvero criterio e parametro per la successiva costruzione di strade, città, piazze, luoghi di incontro della comunità: «Le esperienze che stanno alla base della formazione degli spazi sacri – annota Welte sulla scia di Heidegger – ci sono ormai in ampia misura estranee; anche le nostre chiese sono spesso senza orientamento spaziale, così come lo sono le nostre città; e gli antichi santuari sono quasi ridotti ad attrazioni turistiche. Ma quest’ultimo fatto ci induce a chiederci perché tanta gente si senta attratta da questi luoghi, e se non riaffiori qui un’arcaica familiarità con lo spazio come simbolo sacro, rimossa e negata alla superficie della coscienza»[33].

Non è più il tempio – come egualmente ricordava Martin Heidegger in Sentieri interrotti – ad aprire spazi nuovi, a diventare il vero centro di irradiazione di un piano regolatore ideale poiché «la sottrazione di un mondo o la sua scomparsa non sono fenomeni reversibili. Le opere, [il tempio], non sono più ciò che erano»[34], hanno smarrito la loro centralità, sono scomparsi dall’orizzonte nella loro centralità. Piuttosto è il contrario, diventano periferici, cedendo magari la loro centralità a un centro commerciale. Questo determina una vera cesura epocale: in passato infatti «come nel tempo c’erano dei momenti [privilegiati], dei punti festivi, eccezionali, così nello spazio c’erano dei luoghi sacri in base ai quali orientare gli edifici circostanti, come se tutto fosse in funzione loro»[35]. Il tempio, la chiesa con la sua dimensione spaziale straordinaria, stavano in rapporto spaziale alla città nei suoi spazi ordinari così come la festa, giorno privilegiato e speciale capace di inserire il divino nel quotidiano, stava come tempo straordinario in rapporto al tempo ordinario, all’anno cronologico: un momento kairologico in rapporto alla dimensione cronologica ordinaria.

Prerogativa venuta meno insieme alla discontinuità garantita da questo spazio singolare (oltre che centrale) per il silenzio e per il sacro (e per i suoi riti) costituito dal tempio, dalle chiese. Gli spazi per il silenzio rischiano così di essere resi non solo periferici, ma – ciò che è peggio – omologati e indifferenziati. Ciò che infatti sempre più si impone, sottolinea Bernhard Welte, è la programmazione ordinaria e indistinta degli spazi senza più uno spazio esterno privilegiato e dedicato a luogo elettivo del silenzio e della meditazione. Tutto ciò è testimoniato dal proliferare di piani a schiera, di periferie urbane anonime, dalla conurbazione selvaggia. Ne viene dunque una forma policentrica di area urbana con l’assoluta interscambiabilità degli spazi urbani: l’esito è una terribile anomia degli stessi spazi, segno tangibile di un deterioramento che, analogamente all’anonimo scorrere del tempo progressivamente deprivato della sua dimensione festiva, sancisce la scomparsa di quelle che Heidegger chiamava “radure” e il suo allievo teologo Karl Rahner “oasi”, ovvero luoghi (anche) fisici in grado di aprire prospettive architettoniche e religiose differenti, altre[36]. Luoghi ospitali e ospitanti per chi è in cerca di silenzio. Si assiste a un curioso, singolare rovesciamento:

 

«Spazi e tempi sacri si irradiano [sempre più] da spazi e tempi profani e appaiono, più che come punti di forza, come il tempo non sfruttato e perso, come lo spazio inutilizzato, l’interruzione  antieconomica e nostalgica di una catena spazio-temporale che non ammette più lacune. È [così] inevitabile che il ribaltamento ontologico tra sacro e profano finisca per ribaltare il valore dei due stessi termini, cosicché il sacro appare progressivamente come un vuoto da colmare, che non parla più, un’inefficienza – difatti il silenzio del tempo e il vuoto [silente] dello spazio sacri hanno senso in quanto criteri del profano»[37].

 

Costretti ormai come siamo a sopravvivere al proliferare dell’ordinario, che riassorbe e omologa, appiattendo, l’originalità fuori dall’ordinario dei luoghi e degli spazi del sacro, ne viene che chiese e templi del silenzio rischiano di soffocare sotto la stretta mortale dell’urbanizzazione invasiva indiscriminata. Vittime di una paradossale regolarità che non tollera l’eccezione e che uccide in tal modo la possibilità di luoghi in cui trionfi il silenzio e il sacro possa trovare uno spazio epifanico. Per chi crede, spazi esteriori per un’interiorità in avvento della manifestazione del divino.  Anche se forse, suggerisce Welte, è proprio nel degrado urbano del territorio che (paradossalmente) può riemergere il disperato bisogno di uno spazio finalmente altro.

 

  1. Un’analoga diagnosi: Max Picard

Gli spazi che viviamo, nella loro deprimente uniformità, sono dunque tutt’altro che favorevoli e propedeutici all’incontro dell’uomo con il divino. Abissalmente diversa era la situazione in passato ben espressa – con una prospettiva analoga a quela di Welte – da Max Picard in alcuni suoi passaggi davvero esemplari. Il primo è dedicato alle “cattedrali”:

 

«[Nelle grandi cattedrali] il silenzio si è [come] rintanato, al riparo delle loro solide mura. Come l’edera lungo i secoli cresce sulla stessa parete e la ricopre, così la cattedrale è cresciuta sul silenzio, quasi fosse costruita intorno al silenzio. [Anzi] è costruita intorno al silenzio. Il silenzio di un duomo romanico è talmente presente, è qualche cosa di sostanziale e non di accidentale, è come se, simile ad una gigantesca fiera partoriente, la chiesa stessa, per il semplice fatto di esistere, partorisse mura di silenzio, città di silenzio e uomini di silenzio. La cattedrale sembra fatta di sovrapposte pietre di silenzio che l’adornano. Agli angoli delle colonne s’affacciano diverse figure: sono i messaggeri incaricati di portare il silenzio agli uomini della città. Come si inviano i servitori con grandi orci a prendere l’acqua, così queste figure dovevano portare il silenzio […]. La cattedrale si erge come un’immensa cisterna di silenzio; all’interno, nello spazio sacro della cattedrale, non risuona più alcuna parola, la parola diventa qui un canto sulla profondità di un silenzio ancora più intenso. Il campanile della cattedrale è come una pesante scala sulla quale sale il silenzio per librarsi nel cielo; ma ecco che poi, descrivendo un arco, ricade sulla cima di un campanile di un’altra chiesa e così di seguito sembra che quest’arco di silenzio leghi insieme tutte le cattedrali»[38].

 

Oggi però e sempre più spesso, afferma Picard, «le cattedrali sono abbandonate così come è abbandonato il silenzio. Sono ridotte a musei del silenzio […], si ergono come fossero ittiosauri del silenzio, esseri che nessuno più comprende. Non poteva quindi andare diversamente, ossia che la guerra finisse per sparare sulle cattedrali: l’assoluto rumore sparò contro l’assoluto silenzio»[39]. Un’annotazione che ne richiama una analoga di Franz Rosenzweig dell’11 novembre del 1918: l’armistizio era stato firmato e l’ordinamento politico dell’Europa pre-bellica era crollato fragorosamente. Rosenzweig visita con il suo amico Siegfried Kähler il Duomo di Freiburg e le sue rovine, scrivendo a tal proposito:

 

«Questa sera io ero un momento con Kähler nel Duomo, allorché vi erano le condizioni, là vedemmo con gli occhi, che cosa era prima, che cosa resterà dopo. Vennero degli uomini nella cantoria dietro la grata, con delle candele, e si ebbe la sensazione che essi qui andassero protetti dal crollo del mondo verso un’occupazione eterna, secondo la loro occupazione. Che altro sono tali cattedrali se non la pietra diventata “tuttavia” contro il mondo nel mondo»[40].

 

Il secondo testo picardiano è invece dedicato ai templi pagani, come ad esempio il teatro romano di Orange del I secolo, che esprimevano questa straordinaria architettura in grado di restituire il silenzio:

 

«Un grosso muro di pietra, la grande facciata del teatro di Orange in Provenza: è il silenzio stesso. Non è il silenzio che nasce dalla soppressione della parola, qui il silenzio non è sgretolato dalla pietra, ma vi aderisce fin dall’inizio, sta nella pietra […]. Il silenzio abita queste mura: come se avesse attraversato tutte le pietre della Terra e fosse ora giunto all’ultima parete di pietra, se ne sta qui in attesa. Già si sono aperti portoni circolari in fondo alla muraglia e sui suoi fianchi, come se tutto fosse stato predisposto affinché da qui il silenzio si espanda nel mondo. […] Nella pietra si avverte il tessuto del silenzio. È come se da qui tutta la terra potesse essere rifornita di silenzio»[41].

 

Così avveniva anche per i templi greci od egizi: basti pensare, annota acutamente il filosofo svizzero, ai colonnati dei templi greci,

 

«linee di confine lungo il silenzio. Appoggiandosi al silenzio sono divenute sempre più diritte e più bianche. […] Passeggiare tra le colonne greche è un muoversi nella chiara luce del silenzio. Qui luce e silenzio sono tutt’uno. […] Passeggiare tra le colonne egiziane è come passeggiare nel buio, […] sprofondare sempre più […] è una via che conduce verso un silenzio sempre più profondo. […] Le colonne e i templi greci ed egizi in rovina: è come se prima dell’assalto del rumore il silenzio sia esploso e nel suo dirompere abbia schiantato il tempio»[42].

 

La chiesa, il tempio, sempre dunque dovrebbero essere (anche oggi), come lo fu a suo tempo l’arca di Noè, una risorsa contro il nuovo diluvio, quello verboso-acustico, il regno della chiacchera onni-invadente: «una grande arca, scrive metaforicamente Picard, nella quale sono raccolti tutti gli uomini e tutti gli animali, per salvarli dal diluvio del rumore. Un uccello è posato sul bordo del tetto dell’arca e le note del suo canto sono come un bussare alla parete del silenzio per indurlo a venire»[43] di nuovo tra gli uomini. La nuova sfida dell’architettura: far sì che il silenzio possa tornare a prendere dimora nelle nostre città. Far sì che si possano ricreare spazi e luoghi idonei per questo.

 

  1. Spazi, deserto di immagini e immagine di Dio

Senza più spazi, templi, luoghi deputati al silenzio ciò che va a repentaglio non è soltanto l’umano benessere spirituale ma la stessa immagine di Dio. Meglio ancora, si va incontro ad un deserto iconico generale in cui la stessa immagine di Dio viene travolta e compromessa. Dimensione paradossale davvero: la società dell’immagine post-moderna rischia d’essere contemporaneamente un deserto di immagini. Infatti l’uomo si imbatte oggi in troppe cose,

 

«troppe immagini – afferma Picard – urgono nella sua anima; nell’anima non regna più una quiete silenziosa, ma soltanto un’inquietudine silenziosa. L’uomo ne risulta turbato e nervoso, poiché le immagini, che per natura dovrebbero recargli quiete, sono invece foriere d’inquietudine. Oggi le immagini giungono nell’anima non più come donatrici, dispensatrici di quiete attraverso il loro silenzio: oggi vengono per prendere, turbando l’anima per la loro eccessiva quantità e finiscono per consumarla del tutto»[44].

 

L’immagine autentica dovrebbe essere cifra dell’Essere, ove per “cifra”, con Karl Jaspers, intendiamo il tratto fondamentale attraverso cui traspare l’Essere ma anche – anzi soprattutto – la modalità d’accesso privilegiata al suo mistero. L’immagine, potremmo dire, è “parola del silenzio” che richiede il silenzio. Con la perdita del silenzio anche

 

«le immagini sono venute meno – scrive ancora Picard – e tutto è privo d’immagine: l’architettura, l’economia, la tecnica, la società, la vita del singolo individuo, ogni cosa non è più nient’altro che un moto caotico di parti assemblate a volte per caso a volte con violenza, ma sempre solo meccanicamente»[45].

 

Rischia così di andare perduto il tratto caratteristico della vera immagine ossia il fatto di celare dietro la sua apparenza un “eccesso”, un’eccedenza, il suo esser circondata da un magico alone con il rinvio iconico all’Origine. Tutto ciò non può darsi senza un patto sponsale tra immagine e silenzio:

 

«L’immagine tace e, nel suo silenzio, esprime qualcosa. Nell’immagine il silenzio è chiaramente presente, ma vicino a questo silenzio sta la parola. L’immagine è silenzio che parla. L’immagine è come una stazione sulla via che dal silenzio porta alla parola. L’immagine sta al limite tra il silenzio e la parola; su questa frontiera estrema silenzio e parola stanno l’uno di fronte all’altro, ma la tensione si risolve nella bellezza. L’immagine ricorda all’uomo un’esistenza anteriore alla parola»[46].

 

Esistenza che è la sua vera origine. L’immagine è senso che è riposto nel silenzio. In un mondo di pseudo immagini che ci inondano, che non hanno alcuna presenza ma appaiono soltanto per poter poi immediatamente scomparire davanti ai nostri occhi, l’immagine viene abusata e denaturata: «invece dell’immagine regna qui il frastuono visivo»[47] non meno pericoloso di quello acustico.

 

  1. Una provocazione di Romano Guardini: un mondo senza immagini

Per esporre questa tesi conclusiva – e dato il contesto del mio contributo – vorrei riprendere un intervento di Romano Guardini tenuto al Castello di Rothenfels nel 1934 dal titolo Das Bild Gottes. Si tratta di una risposta all’amico architetto Rudolf Schwarz che, sempre in quell’incontro a Rothenfels «aveva parlato della costruzione di chiese e in collegamento con questo dell’immagine di Dio»[48]. Nel suo discorso di chiusura Guardini riflette sul tema dell’“immagine di Dio”, distinguendola dalla realtà di Dio e dalla sua auto-rivelazione avvenuta in Cristo. Mentre la realtà di Dio è eterna, l’auto-rivelazione in Cristo è una volta per sempre, e possiede un contenuto infinito capace di dispiegarsi in ogni tempo. L’“immagine di Dio” è il modo con cui viene còlta quest’ultima e ci restituisce la forma con cui un’epoca storica parla di Dio e lo adora. Mentre nelle epoche passate si può parlare di varie “immagini di Dio” che si sono succedute, l’epoca presente appare a Guardini caratterizzata da un’assenza dell’“immagine di Dio”, frutto del crollo delle precedenti. Si tratta di una situazione rischiosa per la fede, che può indurre a pensare che Dio non esista. In realtà, la vita eterna di Dio, la rivelazione in Cristo e l’opera incessante dello Spirito costituiscono il fondamento per una nuova “immagine di Dio” che, secondo Guardini, rinascerà purificata dalle ceneri dell’epoca presente. Questo, in termini essenziali, il contenuto del saggio. Esso va comunque contestualizzato nella prospettiva complessiva della riflessione di Guardini sulle “immagini” e, a partire da ciò, sull’“immagine di Dio”.

Proprio perché il suo intervento è in relazione fecondamente dialettica (come chiarisce fin dall’esordio) con quello di Rudolf Schwarz, l’architetto amico di Guardini fin dagli anni dei suoi studi a Berlino alla Technische Hochschule (1915-1919), Guardini vede la sequenza epocale delle “immagini di Dio” legata alla successione di figure architettoniche nella costruzione delle chiese e nell’alternarsi degli “stili”: dalla sobrietà antica catacombale alle chiese romaniche, dal gotico al barocco. Il passaggio da uno stile all’altro rappresenta una cesura che toglie una certa “immagine di Dio” per renderne presente un’altra. La novità dell’età post-moderna è che sembra “un’età senza più immagini” e (di conseguenza) senza alcuna possibile “immagine di Dio”. Un deserto religioso e del religioso (giacché il religioso ha sempre bisogno della figurazione) che potrebbe appunto far pensare che la scomparsa dell’“immagine di Dio” coincida con la “morte” dello stesso Dio della fede religiosa. Solo che l’“immagine di Dio” è solo «il corpo, la forma significante che ci si forma di Dio e della sua parola a partire dalla vita temporale»[49], non è Dio nel suo eterno essere; la rivelazione di Cristo mantiene la propria validità al di là delle diverse epoche storiche e quindi anche nel nostro tempo desertificato d’immagini. Per Guardini il post-moderno è invece e piuttosto l’epoca del vuoto religioso determinato dalla massificazione, dal dominio dell’astrazione contro la vita e contro lo spirito, dall’egemonia spaventosa dell’artificiale, dall’assoluto potere della tecnica che determina appunto un mondo senza più immagini e senza più luoghi di silenzio che possano coltivarle. E tutto ciò determina la crisi radicale della costruzione religiosa, la crisi del tempio.

In questo breve testo del 1934 Guardini anticipa, per rapidi cenni, quanto, in modo ben più ampio e articolato, dirà più avanti nel commentare Rainer Maria Rilke e la celebre espressione tratta dalla nona Elegia che, a suo dire, definisce il tratto caratteristico dell’età nuova come un «fare privo di immagine». Le chiese del passato, con le loro architetture solenni, sono nate dagli orientamenti interiori maturati nel silenzio e dalle energie della vita religiosa, mentre ora la tecnica elimina le autentiche forme surrogandole con forme del tutto arbitrarie e artificiali. Guardini farà propria la prognosi rilkiana contenuta nei celebri versi 43-47:

 

«Più che mai prima

precipitano le cose che noi viviamo, poiché

un fare spoglio d’immagine le rimuove e surroga.

Un fare fra croste che vanno volentieri in frantumi, non appena

gli si esaurisce dentro l’azione e si definisce diversa»[50].

 

Una macchina può essere stupefacente per la sua potenza o per la sua precisione, ma ciò che essa produce è sempre e comunque una realtà artefatta. La tecnica è appunto un “fare spoglio d’immagine”. Proprio la questione della tecnica anima il dialogo tra Schwarz, l’architetto che progettava nuove chiese, e Guardini al punto da far sospettare che l’amico al quale Guardini immagina di inviare delle lettere tutte argomentate sulla tecnica e sui suoi effetti potrebbe essere lo stesso Schwarz [51]. Il riferimento è alle celebri Lettere dal lago di Como. Prima dell’età della tecnica le “immagini” erano potenti e tale potenza appare sempre più grande e più arcana quanto più si retrocede nel tempo fino a divenire addirittura magica e mitica. La metamorfosi delle “immagini” e in esse dell’“immagine di Dio” fino alla loro scomparsa che inghiottisce la stessa “immagine di Dio” va a identificarsi, per Guardini, con lo stesso processo della metamorfosi del religioso nella sua correlazione d’opposizione dialettico-polare con la fede. Le “immagini”, infatti, sono per Guardini le forme fondamentali della visione (Anschauung) attraverso cui noi ordiniamo la molteplicità e la realtà policroma del mondo, e questo, non per una ragione teorica, ma piuttosto in vista della possibilità di reggerci e orientarci nel mondo, nel vivere e nell’agire. Le “immagini” sono rappresentazioni che sorgono dall’incontro con una determinata cosa o processo, il cui significato però si estende a tutta l’esistenza. “Immagine” è, in tal senso, la fonte, la sorgente, il cammino, la fiamma, l’onda, l’albero… Esse sono sedimentate nella poesia, nella tradizione sapienziale, nell’arte e costituiscono una sorta di tradizione attiva e operante. Tutte le “immagini” sono di fatto

 

«ricolme di contenuto religioso; appaiono nel mito e nella favola; nel culto e nella consuetudine, nella creatività culturale e nel sogno. Proteggono dal caos. Sono punti luminosi del sacro; abbozzi preliminari dell’agire. Ora [nel post-moderno], molte di queste immagini sembrano impallidire, perché l’incontro da cui sorgono ha luogo sempre più raramente, diventa sempre più confuso – perché la tecnica le rimuove. Chi ha ancora visto una sorgente reale? e, cosa più importante, chi l’ha sperimentata? […] Quando l’uomo attuale ci pensa, gli viene in mente il rubinetto, che si gira»[52].

 

Ormai non c’è più un “fare in immagini”, guidato dalle “immagini” ed espresso in “immagini”. In tale contesto anche l’ “immagine di Dio” non può che scomparire dall’orizzonte.

Ciò che l’uomo genera con il suo insonne operare nel post-moderno sono, come dicono i versi rilkiani citati da Guardini, null’altro che “croste”, cioè depositi, organizzazioni, apparecchiature che non possedendo più forme originarie sono inevitabilmente destinate ad andare in frantumi. Come si disegnerà allora la realtà religiosa nel post-moderno segnato dall’eclissi delle immagini e, in particolare, dell’“immagine di Dio”? Quale tempio sarà ancora possibile progettare e realizzare? Guardini ha ben chiara la differenza che esiste tra il carattere numinoso della realtà mondana e la Rivelazione. Il religioso con le sue “immagini” varia nella storia fino a conoscere una sorta di esaurimento nel post-moderno. La domanda decisiva che Guardini si pone rapidamente nel discorso di Rothenfels è se, insieme con l’esperienza religiosa e con le sue immagini, su tutte l’“immagine di Dio”, divenga assurda e improponibile anche la fede. Se la perdita del religioso implichi il venir meno della possibilità esistenziale della fede. La risposta di Guardini è quella di rintracciare una sorta di dover-essere della fede nel post-moderno, un dover-essere doloroso ma non impossibile, che fa i conti con l’amputazione di un organo vitale, l’organo religioso che è attento alle immagini. Il futuro vedrà, secondo un’espressione celebre di Guardini, una “fede nuda” ovvero una fede deprivata di un’esperienza religiosa costellata da “immagini” e dominata dall’“immagine di Dio”[53].

L’originalità di questo intervento del 1934 è che mentre il Guardini maturo non prevede un ritorno delle immagini e neppure un ritorno dell’“immagine di Dio” e quindi coglie la “fede nuda” e la polarità spezzata tra religione e fede come un dato ormai costitutivo e insuperabile del post-moderno, il Guardini del nostro saggio più ottimisticamente pronostica un ritorno futuro del religioso, delle sue immagini e dell’“immagine di Dio”. Con toni profetici afferma:

 

«Una tale immagine non è ancora qui, ma è in divenire e noi ne abbiamo premonizione […]. In silenzio l’immagine viene alla luce, e mille braccia sono all’opera. Il Dio eterno ed unico [della Rivelazione] si esprimerà nuovamente in un’immagine»[54].

 

Il tempo anti-iconico è dunque (sarebbe dunque) un tempo provvisorio e non potrà che ritornare un tempo nuovamente iconicamente saturo in cui si farà strada l’icona per eccellenza, l’ “immagine di Dio”. E con il suo ritorno anche il tempio, le chiese potranno ritrovare felicemente le loro architetture, come embrionalmente appare, afferma Guardini, almeno sul piano intuitivo anche dalla «mostra sulla costruzione di chiese»[55] visitata in quel contesto della “settimana di lavoro” dei primi giorni d’agosto del 1934. Quelle chiese, in cui, scriverà Guardini quattro anni dopo nella sua prefazione al libro di Rudolf Schwarz Costruire la chiesa,

 

«le forme della costruzione della chiesa appaiono come linee d’intersezione tra uomo e mondo, storia umana e agire divino; come illustrazioni di quella processione misteriosa in cui il popolo di Dio peregrina attraverso il tempo; come giganteschi simboli sui quali si fa possibile contemplare l’essere cristiano nel tempo, e come le forme in cui esso si situa cultualmente»[56].

 

Ritorneranno in quel tempio, in quelle chiese simboli, forme, immagini e, su tutto, l’“immagine di Dio”. Quelle chiese ritorneranno a essere rifugi di silenzio ospitanti immagini che sono parole del silenzio, meglio immagini e forme esse stesse del silenzio. Tesi, almeno in questa fase, ottimistica, che sembra contrastare la posizione di Welte.

 

[1] Come scrive Bernhard Casper, già nel semestre invernale 1942-1943 «Welte aveva ascoltato personalmente Heidegger ed era stato sensibilizzato dal pensiero di lui ad una propria impostazione completamente nuova» (B. Casper, Bernhard Welte und Martin Heidegger. Zur Stellung
Bernhard Weltes im christlichen Denken des 20. Jahrhunderts, in K. Hemmerle (ed.), Fragend und Lehrend den Glauben weit machen. Zum Werk Bernhard Weltes anlässlich seines 80. Geburtstags, Schnell & Steiner, München-Zürich 1987, pp. 12-28, qui p. 13. Lo stesso Casper ha raccolto e curato l’epistolario dei due pensatori e ricordato i loro incontri: B. Casper (ed.), Martin Heidegger, Bernhard Welte. Briefe und Begegnungen, Klett-Cotta, Stuttgart 2003. Un raccordo tra Welte e Heidegger sul tema della preghiera è proposto nel saggio di P. De Vitiis, La preghiera del silenzio. Riflessioni su Heidegger e Welte, in G. Moretto (ed.), Preghiera e filosofia, Morcelliana, Brescia 1991, pp. 207-237.

[2] Il nostro testo non intende in tal senso essere un saggio su Welte, ma piuttosto una riflessione sulla crisi contemporanea del tempio “a partire da Welte” e questo giustifica le scelte bibliografiche per la letteratura sia primaria che secondaria.

[3] Cfr. su questo B. Casper, Raum und heiliger Raum. Zur Phänomenologie des heiligen Ortes, in Günther Riße – Heino Sonnemans – Burkhard Theß (eds.), Wege der Theologie an der Schwelle zum dritten Jahrtausend. Festschrift für Hans Waldenfels zur Vollendung des 65. Lebensjahres, Bonifatius-Verlag, Paderborn 1996, tr. it., Spazio e spazio sacro. Per una fenomenologia del luogo sacro, in «Idee» 48(2001), pp. 17-29.

[4] Cfr. B. Welte, Religionsphilosophie, Herder Verlag, Freiburg im Breisgau 1978, tr. it. di A. Rizzi, Dal nulla al mistero assoluto, Marietti, Genova 1985. Sulla filosofia della religione di Welte e – più in generale – sul suo pensiero sono da segnalare S. Kusar, Dem göttlichen Gott entgegen denken. Der Weg von der metaphysischen zu einer nachmetaphysischen Sicht Gottes in der Religionsphilosophie Bernhard Weltes, Herder, Freiburg im Breisgau-Basel-Wien 1986; K. Hemmerle, Eine Phänomenologie des Glaubens – Erbe und Auftrag von Bernhard Welte, in K. Hemmerle (ed.), Fragend und Lehrend den Glauben weit machen, cit., pp. 103-122; H. Lenz, Mut zum Nichts als Weg zu Gott. Bernhard Weltes religionsphilosophische Anstöße zur Erneuerung des Glaubens, Herder, Freiburg im Breisgau-Basel-Wien 1989; I. Feige, Geschichtlichkeit. Zu Bernhard Weltes Phänomenologie des Geschichtlichen auf der Grundlage unveröffentlichter Vorlesungen, Herder, Freiburg im Breisgau-Basel-Wien 1989; K. Kienzler, Zur Einführung, in B. Welte, Religionsphilosophie, hrsg. von B. Casper und K. Kienzler, Knecht, Frankfurt am Main 1997, pp. 13-40; E. Kirsten, Heilige Lebendigkeit. Zur Bedeutung des Heiligen bei Bernhard Welte, Peter Lang, Frankfurt am Main 1998; S. Loos, Bernhard Weltes Phänomenologie der Religion. Kritische Anfragen im Licht gegenwärtiger philosophischer Religionsphänomenologie, in M. Enders – H. Zaborowski (eds.), Phänomenologie der Religion. Zugänge und Grundfragen, Verlag Karl Alber, Freiburg im Breisgau-München 2004, pp. 203-218; J. Splett, Ein Phänomenologe des Heiligen. Bernhard Welte (1906-1983), in «Theologie und Philosophie» 2 (2006), pp. 241-246.

[5] Cfr. B. Welte, Dal nulla al mistero assoluto, cit., § 13, La preghiera del silenzio, pp. 166-170.

[6] Cfr. ivi, § 14, La preghiera come linguaggio, pp. 171-186.

[7] Cfr. ivi, § 15, La preghiera come culto: comunità, predicazione e preghiera comunitaria, pp. 187-201, part. pp. 199-201.

[8] Cfr. ivi, § 16, La preghiera come culto: il culto come azione simbolico-reale, pp. 171-186. Bernhard Casper ha ulteriormente rielaborato la posizione del maestro nel suo ampio testo sulla preghiera come “evento”: Das Ereignis des Betens. Grundlinien einer Hermeneutik des religiösen Geschehens, Alber, Freiburg im Breisgau-München 1998, tr. it. a cura di S. Bancalari, Evento e preghiera. Per un’ermeneutica dell’accadimento religioso, Cedam, Padova 2013. In esso Casper analizza il linguaggio della preghiera, il senso della preghiera del singolo e quello del pregare in comune che richiede un luogo (tempio) e un tempo (la festa).

[9] B. Welte, Dal nulla al mistero assoluto, cit., § 16, La preghiera come culto: il culto come azione simbolico-reale, p. 208.

[10] Cfr. su questo punto anche B. Casper, Evento e preghiera, cit., cap. X, La celebrazione della festa, pp. 111-122. Basti segnalarne un passaggio: «Affinché possa accadere un pregare in comune, due o più devono convenire, ciascuno in quanto lui stesso, ma tutti convocati dalla medesima chiamata. Questo convenire implica un oltrepassamento dell’interiorità pura, una fuoriuscita del Sé al di là di se stesso, nel prender corpo di quell’uno-con-l’altro che si realizza in modo spaziale e temporale» (ivi, p. 111).

[11] B. Welte, Dal nulla al mistero assoluto, cit., § 16, La preghiera come culto: il culto come azione simbolico-reale, p. 209.

[12] B. Casper, Spazio e spazio sacro, cit., p. 23.

[13] Id., Evento e preghiera, cit., p. 128. Il corsivo è nostro.

[14] Ivi, pp. 129-130.

[15] B. Welte, Dal nulla al mistero assoluto, cit., § 16, La preghiera come culto: il culto come azione simbolico-reale, p. 209.

[16] Ivi, pp. 209-210.

[17] B. Casper, Spazio e spazio sacro, cit., p. 24. Il corsivo è nostro.

[18] Lao Tzu, Tao te ching, a cura di B. Browne Walker, tr.it. e postfazione di C. Lamparelli, Mondadori, Milano 1998, XI, p. 29, ripreso in B. Casper, Spazio e spazio sacro. Per una fenomenologia del luogo sacro, cit., p. 24.

[19] B. Casper, Spazio e spazio sacro. Per una fenomenologia del luogo sacro, cit., p. 24. Importante su questo terreno è un’annotazione, segnalata da Casper, di M. Eliade in Id., Das Heilige und das Profane. Vom Wesen des Religiösen, Rowohlt, Hamburg 1957, p. 14: «La rivelazione di uno spazio sacro offre all’uomo un “punto fisso” e in tal modo la possibilità di orientarsi nella omogeneità caotica, di fondare il mondo e di vivere veramente. Al contrario l’esperienza profana resta nell’omogeneità e relatività dello spazio. Un autentico orientamento è impossibile, poiché il “punto fisso” non è più chiaramente fondato ontologicamente; esso appare e scompare secondo le circostanze del giorno. Non c’è più propriamente alcun mondo, bensì solo frammenti di un universo spezzato, un’amorfa moltitudine con un’infinità di molti luoghi più o meno naturali».

[20] B. Casper, Spazio e spazio sacro. Per una fenomenologia del luogo sacro, cit., p. 25. Il corsivo è di Casper. Il tema del “limite” è sviluppato ampiamente da Bernhard Welte in Id., Die Grenze als göttliches Geheimnis, in Auf der Spur des Ewigen, Herder, Freiburg im Breisgau-Basel-Wien 1965, pp. 62-73.

[21] B. Welte, Dal nulla al mistero assoluto, cit., § 16, La preghiera come culto: il culto come azione simbolico-reale, p. 209. Cfr. nella stessa direzione, per quanto riguarda il tempio greco, L. Bruit Zaidman – P. Schmitt Pantel, Die Religion der Griechen, Beck, München 1994, p. 57: «I santuari e gli edifici riservati al culto sono perciò gli elementi, che ordinano nelle loro origini il territorio rurale e il centro cittadino della polis».

[22] B. Welte, Dal nulla al mistero assoluto, cit., § 16, La preghiera come culto: il culto come azione simbolico-reale, p. 210.

[23] ll termine temenos (in greco: τέμενος, che deriva dal verbo τέμνω, “tagliare”) rappresenta un appezzamento di terreno che viene espropriato e assegnato a capi o regnanti, oppure riservato al culto di un dio o alla costruzione di un santuario. Erano temenoi ad esempio luoghi come l’acropoli (ἱερὸν τέμενος).

[24] Etimologia: latino profanus, composto da pro -innanzi + deriv. da fanum tempio.

[25] O. Tolone, Bernhard Welte. Filosofia della religione per non-credenti, Morcelliana, Brescia 2006, p. 138.

[26] B. Casper, Spazio e spazio sacro, cit., p. 26.

[27] Ibidem. Il corsivo è di Casper.

[28] Ivi, p. 27. Il corsivo è di Casper.

[29] M. Heidegger, Holzwege, Klostermann, Frankfurt a. M. 1950, tr.it. di P. Chiodi, Sentieri interrotti, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1987, pp. 3-69, qui p. 27.

[30] Ivi, pp. 27-28. Il corsivo è nostro.

[31] Ivi, p. 31. Il corsivo è nostro.

[32] Ivi, pp. 28-29. Il corsivo è nostro.

[33] B. Welte, Dal nulla al mistero assoluto, cit., p. 210.

[34] M. Heidegger, Sentieri interrotti, cit., p. 21.

[35] O. Tolone, Bernhard Welte. Filosofia della religione per non-credenti, cit., p. 138.

[36] Cfr. ibidem.

[37] Ivi, pp. 138-139.

[38] M. Picard, Die Welt des Schweigens, Loco Verlag, Schaffhausen-Diessenhofen 2009 (Eugen Rentsch Verlag, Erlenbach-Zürich 19481), pp. 161-162, tr. it. di J.-L. Egger, Il mondo del silenzio, Servitium editrice/Città aperta edizioni, Troina (En), p. 150 (tr. modificata).

[39] Ivi, p. 162, tr. it. cit., p. 150 (tr. modificata).

[40] Il passo è riportato e commentato in B. Casper, Das Gebet stiftet die menschliche Weltordnung, in G. Fuchs – Hans H. Henrix (eds.), Zeitgewinn. Messianisches Denken nach Franz Rosenzweig, Knecht, Frankfurt a. M. 1987, p. 147.

[41] M. Picard, Il mondo del silenzio, cit., p. 162, tr. it. cit., p. 150.

[42] Ivi, pp. 154-155, tr. it. cit., p. 145.

[43] Ivi, p. 162, tr. it. cit., p. 150.

[44] Ivi, p. 84, tr. it. cit., p. 84.

[45] Id., Die unerschütterliche Ehe, Eugen Rentsch Verlag, Erlenbach-Zürich 1942, p. 29.

[46] Id., Il mondo del silenzio, cit., p. 83, tr. it. cit., p. 83(tr. modificata).

[47] Id., Bild und Pseudobild, in Erziehung zur Menschlichkeit, die Bildung im Umbruch der Zeit, Festschrift für Eduard Spranger zum 75 Geburstag, Max Niemeyer Verlag, Tübingen 1957, p. 6.

[48] R. Guardini, Das Bild Gottes. Ansprache bei der Schlußfeier, in «Burgbrief», Brief 11-13, Burg Rothenfels am Main 1934, Aug.-Okt., pp. 56-5; tr. it. di A. Aguti, L’immagine di Dio, in R. Guardini, Filosofia della religione. Esperienza religiosa e fede, Opera Omnia II/1 a cura di S. Zucal in coll. con A. Aguti, Morcelliana, Brescia 2008, pp. 241-244, qui p. 241. Si tratta del discorso per la cerimonia di chiusura di una “settimana di lavoro” tenutasi presso il Castello di Rothenfels, dal 5 all’11 agosto del 1934.

[49] Ivi, p. 244.

[50] R.M. Rilke, Elegia IX, vv. 43-47, cit. in R. Guardini, Rainer Maria Rilkes Deutung des Daseins. Eine Interpretation der Duineser Elegien, Kösel, München 1953, tr. it. di G. Sommavilla, Rainer Maria Rilke. Le Elegie duinesi come interpretazione dell’esistenza, Morcelliana, Brescia 1974, vol. II, p. 408

[51] Lettere dal lago di Como che uscirono sulla rivista «Die Schildgenossen» tra il 1923 e il 1925 e poi in volume: R. Guardini, Briefe vom Comer See, Grünewald-Hermann Rauch, Mainz-Wiesbaden, tr. it. di G. Basso, Lettere dal lago di Como. La tecnica e l’uomo, Morcelliana, Brescia 19932.

[52] R. Guardini, Die Situation des Menschen, in Id., Die Künste im technischen Zeitalter, ed. Bayerische Akademie der Schönen Künste, Oldenbourg, München 1954, pp. 15-42, tr. it. di A. Fabio, in Id., Natura-Cultura-Cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1983, pp. 191-209, qui p. 205.

[53] Cfr. per questa problematica S. Zucal, Romano Guardini e la metamorfosi del “religioso” tra moderno e post-moderno. Un approccio ermeneutico a Hölderlin, Dostoevskij e Nietzsche, QuattroVenti, Urbino 1990, pp. 483-495.

[54] R. Guardini, L’immagine di Dio, cit., p. 244.

[55] Ibidem.

[56] Id., Per accompagnare il lettore, in R. Schwarz, Vom Bau der Kirche, Werkbund, Würzburg 1938, Geleitwort von R. Guardini, pp.1-2 (Verlag Lambert Schneider, Heidelberg 19472), tr.it. di G. Colombi e F. De Faveri, ed. it. a cura di R. Masiero e F. De Faveri, Costruire la chiesa. Il senso liturgico nell’architettura sacra, Morcelliana, Brescia 1999, pp. 29-31, qui p. 27.