What do we see when we think about “temple”?
This essay develops the theme of the temple from the perspective of a phenomenology of the image. In doing so, it intends to problematize the very concept of the temple and its correspondence with images, and to avoid the setting up of “eidetic” hierarchies or paradigmatic models of religious experience. Authors such as Heidegger and Olivetti, who engage in a sort of reductio ad unum (in particular as far as the functions of the temple are concerned), are therefore critiqued. Rather than merely being a delimited portion of (sacred) space, the temple is held to be the space of the sacred, with an orienting, sense-conferring, function, which actually organises relations within the space.
Epigrafe di questo mio intervento è un’affermazione del pittore francese Robert Delaunay che Merleau-Ponty cita in L’occhio e lo spirito: «Sono a Pietroburgo nel mio letto, a Parigi i miei occhi vedono il sole»[2]. Non si parla di templi, è un fatto. Però vi è espressa un’esperienza (estetica) la cui verità cerco di fare mia, anzi nostra. Una verità che riguarda la facoltà dell’immagine, responsabile a vario titolo delle nostre sensazioni, percezioni, immaginazioni. Responsabile cioè delle nostre immagini interne. Noi ci troviamo seduti al tavolo di quest’aula in Trento: ma i nostri occhi cos’hanno visto, mentre si parlava di moschee e sinagoghe, di tempio di Gerusalemme, di templi romani? Riuscivano a stare fissi sui volti dei relatori o piuttosto, per istanti più o meno intensi, frugavano alla ricerca di immagini e riproduzioni colte chissà quando e chissà dove? Sarei pronto a scommettere che, almeno per qualcuno, un’apparente distrazione dal flusso delle parole abbia dato luogo a una sosta di fronte a qualche antico edificio sacro. Tuttavia la nostra visione che si muove qua attorno, nella contiguità fra cosa e cosa di quest’aula, in che modo è riuscita ad arrivare fin là in modo istantaneo? Come fa a vedere immagini di laggiù, fra l’altro magari anche con vivezza e nitidezza di dettaglio, rinunciando a saturare ogni dimensione del visibile con ciò che si trova nello spazio circostante?
Del resto nell’esperienza estetica disponibile già da più di un secolo e mezzo mediante la fotografia, poi con il cinema, oggi ancor di più con le immagini digitali, ciò che ogni volta è attualmente visibile non si situa forse ben oltre l’oggettività e la referenza immediate? Vediamo l’immagine, fissa o in movimento o sintetizzata nel virtuale, senza osservarla in quanto oggetto-immagine, immagine esterna, mentre guardiamo piuttosto in ciò che essa stessa dà a vedere al modo di una finestra aperta su cui ci affacciamo. Ci immergiamo in questa visione offerta da un qualcosa che esiste realmente là dove si trova il nostro corpo e che tuttavia “c’è” secondo, per dir così, una modalità temporale ed “esistentiva” che ci coinvolge in modi d’esperienza ben diversi da quelli oggettuali-naturalistici che intratteniamo con le cose esterne. Più che nella modalità esperienziale di una res data come già separata da noi e verso la quale si tenta un approccio conoscitivo, l’esperienza (estetica) di una tale visione ci coinvolge come un plesso di relazioni di cui siamo già parte, ma senza che noi si possa calcolare previamente in che misura ci troviamo a parte subjecti o a parte objecti. Perché quel che capita è di trovarsi presi in un circuito interattivo ove non sono disponibili polarità e parti precostituite: soggetto/oggetto, interno/esterno.
In tutte queste esperienze, nelle quali i nessi tra sensazione percezione e immaginazione fluiscono a gran velocità l’uno nell’altro alla faccia delle nostre distinzioni concettuali – le quali però non vengono semplicemente annullate ma richiederebbero supplementi d’indagine circa le loro proprietà –, accade come se potessimo, per lo meno a tratti, vedere senza occhi o vedere a occhi chiusi, traversando una sorta di visionaria cecità sull’immediato. Potremmo chiederci dove risieda la potenza visiva della nostra mente, quando questa sembra dare prova di slancio oltre l’organo fisiologico della vista e si sgancia dalla referenza oggettiva immediata. Per riuscire in una visione di questo tipo, il corpo-mente che al di là di ogni sospetta schizofrenia pure siamo e viviamo in maniera unitaria ad ogni istante non deve forse trovarsi in qualche modo altrove rispetto alla situazione concreta dov’esso è a sua volta osservabile e tangibile? Possiamo forse affermare, ricalcando Delaunay e paradossalmente rispetto a ogni constatazione credibilmente realistica, “Sono a Trento, a Gerusalemme i miei occhi vedono il tempio”?
Due precisazioni urgenti per delimitare il campo di queste suggestioni introduttive, che certo sembrano avviarsi per un profilo d’indagine affatto diverso da quelli perlustrati sinora negli interventi raccolti. Mi preme osservare che, almeno in questa sede, non m’interessa un affondo di filosofia della mente né uno studio della sua capacità simbolica o della sua connessione estetica con il mondo, così come neanche una scansione epistemica dell’immagine percettiva attualmente prodotta o di quella riprodotta-ricordata. Non m’interessa perlustrare proprietà di immagini esterne e immagini interne, di immagini mnestiche o immagini fotografiche, cinematografiche, digitali. D’altro canto il titolo che ho scelto mette fuori gioco anche la domanda che in modo più frequente appartiene a ciò che assumiamo come nostra esperienza ordinaria, e con la quale non va confusa quella posta a titolo di questo mio intervento. L’interrogativo conforme alla nostra condotta intellettuale comune suonerebbe piuttosto: “cosa pensiamo quando vediamo un tempio?”. Tale domanda però ora non m’interessa perché non riflette, non agisce su ciò che stiamo vivendo assieme adesso. Non interagisce con la verità che qui stiamo cercando di fare, di ricostruire in una fitta trama di riferimenti a templi per lo più dell’età antica. Qui non disponiamo tangibilmente di un oggetto-tempio. Non ci troviamo fisicamente né dentro né di fronte a un tempio che stimoli una nostra osservazione materiale. Qui “tempio” è per noi un significato privo di qualsiasi referenza concreta immediata: e tuttavia tale privazione di oggettività fisico-materiale non ostacola la visione bensì la promuove, la sollecita forse addirittura ancor di più. Siamo sensibili a ciò che si sottrae immediatamente ai nostri sensi. Cos’abbiamo visto, cosa vediamo, avendo pensato e pensando “tempio”?
Scontato che non si tratti nemmeno di lavorare alacremente di fantasia, la quale ha bensì una sua grammatica e però comporta domande diverse da quelle che sto sollevando, ogni immagine interna suscitata dal nostro termine è comunque pertinente? Basta l’universalità del concetto, kantianamente o fenomenologicamente puro? Come dire, tempio purchessia? Va bene tutto? Dal complesso templare eretto tra la fine del mesolitico e gli inizi del neolitico nell’attuale Turchia, presso i confini con la Siria, quel sito di Göbekli Tepe di cui gli archeologi parlano attualmente come della più antica testimonianza architettonica sacra – forse un santuario, risalente a 12000 anni fa ca. –, sino ai templi mesopotamici, sumerici, egizi, greci, etruschi e romani, ai templi d’Oriente e d’Occidente, ai templi mesoamericani, buddisti, induisti, shintoisti, giainisti, sikh, per giungere a quelli rinascimentali e moderni, passando per sinagoghe ebraiche e moschee islamiche? E le basiliche e chiese cristiane? – le chiese sono templi?
Le immagini che insorgono in noi non sono mai neutre né fisse. Interpretano. Cosa? Esperienze dirette o riferite, oggetti reali o altre immagini. Ma quali e quanti templi abbiamo visitato personalmente dal vivo fra quelli su cui è caduto il discorso in questi giorni? Per alcuni fra noi forse ben pochi. Se così è, allora non ci sarà facile convenire che le nostre immagini interne per lo più si conformano e vivono modellandosi per adesione mimetica o per reazione critica ad altre immagini. Immagini di immagini, simulacri, rappresentazioni, proiezioni. Ciò, si badi, ha a che fare non soltanto con la ricostruzione dei modelli di tempio via via sperimentati nell’architettura sacra che, come ogni episodio d’arte e di cultura in generale, è ben connotata geograficamente prima ancora che storicamente; ciò non ha a che fare con le nostre personali biblioteche iconografiche del sacro, delle religioni, dei luoghi e degli edifici di culto. In modo più decisivo, io credo, ciò riguarda la questione del tempio e, non escludiamolo in linea di principio, le sue valenze teologico-politiche. La genesi del tempio è strettamente legata alle pratiche di rappresentazione-simbolizzazione-visibilizzazione di una potenza – o di un potere – che si pone al centro dello spazio, che “fa centro”, pur restando invisibile al di là dei suoi tramiti materiali ed immaginali efficaci. Segnatamente, la genesi del tempio è connessa materialmente e idealmente a una rappresentazione spaziale. Il tempio è edificio e simbolo, insieme, inscindibilmente.
Quando a lezione mi capita di toccare la questione del tempio – certo di rado, occupandomi di storia dell’estetica e non di storia o filosofia delle religioni –, mi pervade ogni volta il “sacro terrore” che i miei studenti pongano mente subito ad Heidegger, facendo della sua rappresentazione il modello filosofico vero del tempio, di ogni tempio. Mi riferisco a L’origine dell’opera d’arte, la conferenza tenuta dal filosofo per la prima volta a Friburgo il 13 novembre 1935, poi a Zurigo il 17 gennaio 1936, infine a Francoforte, in tre riprese, il 17 e 24 novembre e il 4 dicembre sempre del 1936. Il testo che noi leggiamo abitualmente è quello pubblicato nel ’50 con gli Holzwege[3], nel quale Heidegger ha ritoccato i dattiloscritti delle tre conferenze di Francoforte, redigendo la versione definitiva.
Ora, nel suo libro Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia Emmanuel Faye ha posto in evidenza come nella prima redazione della conferenza il filosofo parli di tempio in termini generali, senza ancora alcuna sua connotazione “greca”. In tale rappresentazione il tempio, visto secondo la sua (presunta) «origine», sarebbe l’opera architettonica dove «un popolo perviene a se stesso, cioè nella potenza organizzatrice del suo dio», il «centro radicato e ampio, nel quale e a partire dal quale un popolo fonda il suo vivere storico»[4]. Tuttavia il fatto di servirsi precisamente di tali espressioni nel novembre 1935, secondo Faye,
«rievoca necessariamente nelle menti del pubblico dell’epoca il congresso del NSDAP che si era tenuto due mesi prima a Norimberga. Quell’anno, infatti, il congresso annuale e il discorso del Führer avevano avuto luogo nell’area dello Zeppelinfeld, delimitata da una tribuna di 360 metri alla quale colonnati e vasche davano le sembianze di un tempio greco. Questa Zeppelintribüne era d’altro canto ispirata a un edificio antico: l’altare di Pergamo. È noto che Hitler aveva scelto Norimberga come luogo simbolico, al centro della Germania, per i congressi annuali del partito che duravano una settimana e si svolgevano generalmente a settembre. E che egli, insieme all’architetto e futuro ministro degli Armamenti Adalbert Speer, ne aveva progettato il sito poi rimasto incompleto: solo la Zeppelintribüne verrà interamente costruita. La scenografia, sempre grandiosa, aveva lo scopo di esibire la solidarietà tra il popolo e il Führer. Ebbene, il 1935 è l’anno in cui, sotto il nome di Congresso della libertà, vengono proclamate le leggi antisemite dette appunto “di Norimberga”. In quel congresso, centocinquanta proiettori da difesa antiaerea innalzano verso il cielo colonne di luce che vanno a delimitare lo spazio dove la folla è riunita per ascoltare Hitler: è così che il tempio di marmo si raddoppia in tempio di luce. […] Parlare – conclude Faye – due mesi più tardi, nella sua conferenza, del “tempio” come luogo in cui il popolo “perviene a se stesso” – concezione non greca ma nazista – e di “radura” (Lichtung), è il modo scelto da Heidegger per celebrare il congresso di Norimberga del settembre 1935. Questo è il motivo per il quale la conferenza L’origine dell’opera d’arte è, nel suo significato storico e politico reale, un testo che è vicino all’essere odioso tanto quanto quello pubblicato da Carl Schmitt nella “Deutsche Juristen-Zeitung” il 1° ottobre 1935, per celebrare le leggi di Norimberga sotto il titolo La costituzione della libertà»[5].
Mi rendo conto che in un contesto di teologia politica che non può non annoverare Carl Schmitt fra i propri astri più o meno lontani, più o meno ispiratori, più o meno benefici, parlarne al modo di un autore di odiosi testi filonazisti possa risultare urticante e funesto come parlare di corda in casa dell’impiccato. Del resto non è affatto mia intenzione convocare per una chiamata in correità gli spettri di Heidegger e Schmitt – gravati in ogni caso dalla responsabilità di non avere mai dato voce ad alcuna retractatio delle loro manifeste collaborazioni. La storia ha già giudicato. Piuttosto, per coloro che oggi svolgono ricerca nell’ambito teologico-politico rimane la possibilità, credo, di fare esodo dalla paradigmaticità delle categorizzazioni e schematizzazioni schmittiane. Possono essere abbandonate o trasformate, oppure semplicemente condotte su altre linee di sviluppo – come per lo più capita nella storia di idee e concetti. Né Schmitt né Heidegger costituiscono o figurano un destino per qualcuno, è evidente. Ancor meno un che di provvidenziale.
Le ambiguità del testo heideggeriano, d’altra parte, rimangono. Il tempio vi è sganciato argomentativamente dalla problematica del sacro e connesso a quella più celebre del disvelamento della verità dell’essere. Ai noti passi de L’origine dell’opera d’arte, nella versione definitiva pubblicata in Holzwege, si rivolse qualche tempo fa Marco Maria Olivetti nel suo studio Il tempio simbolo cosmico (1967), con il quale s’inaugurò la collezione editoriale “Fenomenologia dell’arte e della religione” promossa dal Centro Internazionale di Studi Umanistici diretto da Enrico Castelli Gattinara. Un libro che mi pare ancora un punto di riferimento fondamentale sull’argomento. Forse non mi riesce di concordare su tutto, ma ciò è affatto secondario.
Olivetti sviluppa criticamente l’esposizione heideggeriana per distinguere «tempio filosofico» da «tempio del mito». Due concezioni generate da gesti che esprimono diverse «operazioni esistenziali» costitutive: l’Aufstellen per il tempio filosofico, il témnein per il tempio del mito. Rispettivamente, l’erigere-innalzare di contro al recintare-separare. Dunque, anche il desacralizzare rispetto alla sacralizzazione, perché nell’operazione heideggeriana viene abbattuto il recinto del sacro, spianato per far spazio al luogo dell’uomo e della tecnica. Olivetti radicalizza ciò che Heidegger «cerca di mantenere in un precario e filosoficamente aporetico equilibrio»[6]: terra e mondo, ovvero caos e cosmo, ma anche profano e sacro.
Ora, se il bel testo di Olivetti soffre un limite, dal mio punto di vista è ravvisabile nell’approccio fenomenologico stesso, ben prima che in un qualche contenuto determinato. La fenomenologia intende dare a vedere essenze, colte verticalmente in una serie più o meno coerente e ordinata di fenomeni. Le concezioni materiali, le architetture, come pure le strutture ideali e intenzionali connesse al sacro, al mito, alla religiosità e al culto, tutte traguardate in prospettiva fenomenologica darebbero a pensare in modi diversi una medesima, ricorrente identità sostanziale, profonda, verificata dal gioco integrativo delle parzialità di quegli stessi fenomeni del sacro, del mito, delle religioni. Olivetti non impiega precisamente tali termini ma presumo che concorderebbe sull’assunto. In definitiva il suo discorso sulla simbolicità del tempio potrebbe essere spiegato e sviluppato dalla classica strutturazione ontologica dell’analogia che può cogliere l’identità e la differenza d’essere proprie di ogni manifestazione concreta o intenzionale. Eccetto che l’analogia induce talora a erigere ponti simbolici anche laddove non vi sono propriamente sponde che li possano sostenere in modalità concrete, storiche. Per dir così, rischia di dare a vedere troppo. Come se di fronte a una sequenza di templi dal neolitico a oggi si potesse in ogni caso pervenire alla medesima conclusione essenziale. Mentre così non è, mi pare. I templi sono diversi non soltanto, né principalmente, in quanto edifici bensì nelle loro effettive funzioni e concezioni. Sono diversi come diverse sono le località dove furono costruiti, i gruppi e le collettività che li fecero erigere, le epoche e le culture in cui vennero edificati, le divinità alle quali furono dedicati, le relazioni spaziali e politiche (teologico-politiche) che vi presiedettero e che vi presero forma. Insomma, occorre sempre guardarsi dalla pretesa filosofico-teoretica o metodologico-fenomenologica di poter cogliere astrattamente una – se non addirittura la – verità, attinta in una sua presunta purezza essenziale. Piuttosto, si tratta di valorizzare le verità nelle loro genesi storiche materiali, sempre stratificate in rapporti di forza tra discorsi-relazioni di potere. Verità sempre e comunque espresse nella congiuntura storica, nella contingenza delle cose e degli accadimenti, nelle differenze culturali che, oltre a svilupparsi in momenti successivi, si stratificano e durano tanto nello stesso tempo quanto nello stesso luogo. Da alcuni contributi raccolti in questo volume[7], in me si è rafforzata la percezione, per esempio, di una genesi drammatica e anche concretamente traumatica di più comunità giudaiche e protocristiane che di fatto misero in tensione linee di forza messianiche, escatologiche, carismatiche, le quali richiedono di essere scandagliate una per una nella loro provenienza storica e nei loro effetti materiali, anziché di essere trapassate da uno sguardo direttamente universalizzante, ansioso di giungere alla sola verità “originaria”. Una richiesta che analisi ulteriori potranno certamente soddisfare.
Grazie ai vari saggi qui raccolti, abbiamo potuto riflettere su geografie di spazi sacri, su nascite, formazioni e caratteristiche funzionali di determinati templi, ben più che sul tempio come “simbolo cosmico” universale. Su molteplici immagini e modelli che diedero a pensare, inventare, edificare templi per pluralità di raggruppamenti e culti religiosi. Considero esemplare, oltre al tempio storico di Gerusalemme modellato sull’immagine letteraria sacralizzata del tempio di Salomone[8], la descrizione della pluralità di religioni effettive che costituirono storicamente ciò che per comodità abbreviamo e cataloghiamo al singolare come “religione romana”. Ma, in verità, nessuna reductio ad unum dovrebbe mai essere ammissibile, neppure in via teorica, sia in riferimento a una geografia religiosa che conosceva simultaneamente molti centri già soltanto nel bacino mediterraneo dell’Impero, all’interno persino dei limiti territoriali del suo nucleo – cioè dentro i confini della città di Roma –, sia in riferimento a una storia millenaria considerata a partire dall’età cristiana. Come è venuto in luce anche in questa sede[9], il caso di Roma risulta significativo perché le religioni dei Romani si connotano per l’assorbimento progressivo all’interno delle religioni ufficiali, e dunque tramite dispositivi di regolarizzazione normativa, di altri culti, geneticamente esterni – un po’ come accadde pure sul piano linguistico. Culti esterni che si aggiunsero al fondo italico autoctono quando non ad atavici fermenti indoeuropei. Riti italici, etruschi, greci, romani e via via nei secoli riti egiziani o siriani: tutti questi giunsero a comporre – senza annullarsi – la religione pubblica di Roma. Ma non solo. A Roma, al pari che in varie città dell’Impero, vennero praticate nello stesso tempo anche altre religioni, quali il monoteismo ebraico e i cristianesimi. Ora, non si tratta tuttavia di pronunciare un panegirico di un qualche multiculturalismo o della tolleranza religiosa. Fra l’altro perché così non accadde, infatti: le diverse componenti religiose diedero luogo anche a zone e fasi di conflitto, per esempio all’epoca delle ribellioni ebraiche o nei confronti delle comunità cristiane. In un mondo del genere v’era tempio e tempio, perché parecchi erano gli dei e, all’interno di ogni culto, a ciascuna divinità spettavano propriamente una sua “dignità” religiosa, come pure suoi modi di agire, di entrare in relazione con gli uomini.
Certo non dobbiamo immaginare tali differenze religiose e culturali quali nuclei d’intensa purezza o credenze sempre originarie e autoctone. Le immagini degli dei, i culti, le credenze hanno viaggiato a lungo nella storia delle religioni non meno che nella storia della cultura. Migrazioni da Oriente a Occidente e viceversa. Moti di andata e ritorno con mutamenti, apporti eterogenei, contaminazioni, scambi, stratificazioni che comportarono mescolamenti e dissolvimenti, travestimenti, riplasmazioni, trasformazioni. La scienza delle religioni ha dato conto ormai in modi sia ampi sia minuziosi della quantità e varietà dei percorsi. Qualsiasi considerazione, anche la più banale, non può trascurare che la nostra percezione delle identità religiose e culturali è di necessità molto diversa da quelle che appartennero agli uomini e alle donne delle età antiche. Come immaginiamo noi e come poté immaginarlo un cittadino di Roma, per esempio, il rapporto tra la figura romana di Giove e lo Zeus greco? Oppure, nell’architettura sacra, tra il tempio greco e quello romano? Casi di ridenominazione-ricostruzione di un medesimo culto, di un medesimo edificio, di una stessa funzione, oppure…?
Ora, presumo che si possa riflettere sul composito mondo religioso dell’imperium romano come su un caso esemplare agli occhi contemporanei – non un modello però, si badi. In che senso? Dicevo: per la pluralità e l’assorbimento – non per forza pacifici, anzi – di religioni, culti, riti; per i diversi sistemi di divinità; per i vari nessi tra devozioni particolari/personali e culti costituiti/ufficiali. Personalmente, non essendo uno storico delle religioni, ignoro se si debba guardare definitivamente a questa complessità in senso verticale o orizzontale, gerarchico o stratigrafico. Ciò che mi pare irrinunciabile, piuttosto, è cogliere il divenire, le dinamiche, le trasformazioni. Il warburghiano che c’è in me ama immaginare la possibilità di ricomporre su pannelli di un nuovo “atlante della memoria religiosa” i tanti nessi: le sovrapposizioni, le inversioni, gli spostamenti figurativi, immaginali, simbolici, rituali, cultuali. Mi piace immaginare che sia possibile illustrare più mappe geopolitiche e geostoriche, per esempio dell’imperium, disegnandovi nuclei e relazioni diverse a seconda dei periodi di alta conflittualità religiosa o di relativa stabilità.
A questo punto però vorrei tornare alla domanda dalla quale ho preso avvio sin dal titolo di questo mio intervento. In verità me ne sono allontanato soltanto per ritrovarmi infine più vicino al nucleo della sua questione: cosa vediamo quando pensiamo “tempio”? Le analisi storico-culturali e storico-religiose propongono una tale ricchezza di differenti situazioni e condizioni da risultare effettivamente “disorientanti”. V’è mai qualcosa, mi chiedo, che possa consentire un orientamento positivo (nel senso del gesto affermativo del “porre”, oltre che del giudizio di valore) delle/alle differenze in quanto tali, ovvero quali differenti identità? Intendo: differenze che rimangono differenze e non si stemperano in “quasi-identità”, identità parziali che si vorrebbe finiscano per raccontare “quasi allo stesso modo” un’unica storia. Differenze non riducibili-sussumibili nel gioco integrativo di una sola identità, tramite un’analogia ontologica, protologica, fondativa. Differenze che abitano, tutte, le geografie del profano, dove nessuna dovrebbe separarsi pretendendo per sé, di fronte alle altre, di fissarsi e valere rigidamente come il sacro territorializzato, ovvero il territorium sacralizzato. Incrociando il mio interrogativo con quello posto a titolo di un famoso saggio breve kantiano, mi chiedo: “che cosa significa orientarsi nel pensiero” del tempio? Qual è l’orientamento che il pensiero del tempio dà a vedere?
Come s’è detto e ripetuto, il sacro è “recinto”. Ogni tempio v’insiste. Tuttavia v’insiste ritagliandosi-confinandosi sul suolo profano e senza potersi separare da esso. Com’è logico, ove tutto fosse sacro-santo, in un’irrealistica risoluzione dal profano, nulla sarebbe sacralizzabile. Forse unicamente un’ek-stasis mistica potrebbe darsi là dove nessun tempio avrebbe più luogo e senso (significato e direzione). Ogni tempio storico, invece, è sussistito soltanto nella distanza e nella costituzione di luogo, posizionato nello spazio e nel tempo – non nella risoluzione della spazialità.
L’architettura (e il pensiero) dei templi esprime recinzione ed elezione ma anche movimento e trasformazione – assai più dell’erigere-innalzare (lo Aufstellen) valorizzato dal saggio heideggeriano. Al tempio non si va per essere elettivamente “detenuti”, neppure si trattasse di rimanere imprigionati nella “cella-dimora di Dio”. Nessun tempio coincide con “la dimora di Dio” e l’istanza elettivo-protettiva del recingere per sé sola comunque non “fa tempio”. Accanto e insieme a essa, la funzione templare “sprigiona” un dinamismo inscindibilmente opposto, un vettore di movimento, un’energia trasformatrice e liberatrice. Ogni considerazione simbolica della spazialità del tempio inizia da qui; deve iniziare di qui.
Al tempio ci si viene raccogliendo e con-vocando – si va andando. Il cum-venire al tempio dà voce al disperso e all’estraneo trasformandolo in chiamato e prossimo. Perciò i templi, al pari del campanile delle chiese, sono quasi sempre dovuti apparire da lontano, quando non costituivano il centro della città, essere edificati in disparte o in posizione superiore, risultare visibili e riconoscibili: per richiamare e orientare percorsi, stagliandosi sul paesaggio circostante senza potervisi separare[10]. L’edificio sacro appartiene al luogo e al paesaggio che esso stesso contribuisce a costituire. “Fa paesaggio” mentre “fa tempio” nella costituzione di un luogo comune di raccoglimento. La funzione templare è ogni volta centrale nell’ambiente in cui l’edificio è collocato: impartisce nostalgia, richiamo e dunque direzione, orientamento, apertura ad altro. Lo spazio del tempio è, in tal senso, un luogo mobile in quanto architettura dalla duplice funzione insatura e non saturabile: recingere-proteggere come pure orientare, far muovere e aprire (si pensi all’arca e alla tenda antiche).
I templi hanno sempre espresso, nel loro essere “recinto del sacro”, il punto d’arrivo del parteciparsi e congiungersi in comune, del convocare e fare comunità. E tuttavia, simultaneamente, non hanno mai smesso di esprimere a coloro che vi erano convenuti anche il rimanere al di là e fuori, l’essere stranieri e in viaggio. Una cosa non può darsi senza l’altra. Il venire a raccogliersi e insieme l’essere momento-tappa del peregrināre, di un’incessante e mobilitante ricerca, che mai si spegne ripiegandosi su se stessa e mai evade dalla sua inquietudine per una pura dispersione (la peregrinatio di Agostino docet!). Perciò, pensando il tempio, i nostri occhi dovrebbero vedere il fare, l’agire, il muoversi, il convenire, il raccogliersi e l’andare di singoli e gruppi. Insomma un dramma di gesti ed eventi, assai più che il solo edificio di pietra o cemento. I templi, ed altrettanto le chiese – almeno per questo aspetto certamente assimilabili a quelli –, possiedono materialmente e insopprimibilmente significati di pietra e cemento, valori tettonici, significati costruttivi. E tuttavia non questi soltanto. Segnatamente il progetto delle chiese è (o: dovrebbe essere) un progetto di relazioni e modi d’essere della comunità, mai del tutto “sedati”, “pacificati”, “cementificati”. Si pensi anche al fatto, “semplice” eppure pienamente simbolico, che in chiesa non ci si possa limitare a restare seduti. Proprio per “stare in chiesa”, e non soltanto per vederne l’interno, già per andare a sedersi, occorre dislocarsi e muoversi, sostare essendo passati tra spazi e navate, altari e cappelle che occorrerà attraversare di nuovo. Al pari di quanto accadeva con la tenda-arca, ekklesía (dal gr. ekkaléo, “chiamare”) è il riunirsi-convocarsi di coloro che sono stati chiamati nello spirito. E “chiamati fuori” (ek-). È la comunità carismatica e storica, che va. La storia del tempio di Gerusalemme, l’abbiamo sentito, rimane un racconto ancora istruttivo al riguardo.
Il tempio-chiesa – se mi si consente il tratto che insieme unisce e distingue i due termini – edificato con i più diversi linguaggi, stili e arti tettoniche vale come “simbolo cosmico” solamente se non ci si arresta al recinto sacro, alla sua rappresentazione pietrificante, ma altrettanto se non si cede all’anelito evasivo, alla sola nostalgia dell’andare tanto per andare. È questo il duplice ritmo architettonico di una modalità drammatica del raccogliersi in comune e dell’andare peregrinante che ad ogni sosta, in ogni luogo, di ogni luogo ed edificio fa centro. Produce sé in quanto centro. Lo spazio del tempio-chiesa non può non essere esperito in modo “centrale”. Ed è interessante che al riguardo tanto antropologi quanto storici delle religioni si trovino concordi, “convengano” a loro volta. Le diverse concezioni sacrali dello spazio esprimono proprio questo, infatti: ogni tempio funziona come centro – lo hanno definitivamente chiarito i vari Corbin, Eliade, Coomaraswamy, interessandosi anche di religioni cui il volume non ha dato voce per il suo concentrarsi programmaticamente sulle sole tradizioni religiose abrahamitiche[11]. I templi hanno funzionato e funzionano da centro di orientamento per l’andare, il raccogliersi e l’andare nuovamente, per il convenire e il trasformarsi. Il tempio deve possedere fondamenta ben salde, per accogliere non più che per impartire spinte e movimenti. Come pure deve essere ospitale perché ogni suo dettaglio, al pari della sua totalità, custodisce le differenze e apre alla ricerca-peregrinatio comune verso altro.
“Tempio” non coincide, dunque, con luogo sacro né con uno spazio sacralizzato. Semmai è luogo mobile, sempre ricostituibile, del sacro: la sacralità appare, infatti, quale orizzonte di un evento che orienta[12], dispone relazioni negli spazi, mai un oggetto. Su tale orizzonte immaginale-relazionale il tempio è da erigere per mobilitare appunto “profani” paesaggi del sacro – mai, inversamente, sacri-sacralizzati paesaggi del profano. Cosa significa qui “da erigere”? Per me vuol dire da costruire sempre di nuovo, drammaticamente, al modo dell’arca trasportata nel deserto di tappa in tappa, di spalla in spalla. Da piantare come la tenda – oltre gli edifici già solidamente eretti.
Ecco, questo è ciò che riesco a intravedere ogni volta quando penso “tempio”. Quali altre relazioni determinate vi possiamo immaginare?
[1] Trascrivo questo mio testo provando a mantenere il tono “diretto” con cui l’ho pronunciato al seminario da cui questo volume nasce.
[2] M. Merleau-Ponty, L’Œil et l’esprit, in Id., Œuvres, Édition établie et préfacée par C. Lefort, Gallimard (“Quarto”), Paris 2010, p. 1624.
[3] Cfr. M. Heidegger, Der Ursprung des Kunstwerks, in Id., Holzwege, Klostermann, Frankfurt a.M. 1950, tr. it. L’origine dell’opera d’arte, in Id., Sentieri interrotti, presentazione e traduzione di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 3-69.
[4] Id., Der Ursprung des Kunstwerks. Erste Ausarbeitung, a cura di H. Heidegger, in “Heidegger Studies”, 5 1989, pp. 5-22, qui p. 12.
[5] E. Faye, Heidegger, l’introduction du nazisme dans la philosophie. Autours des séminaires inédits de 1933-1935, Albin Michel, Paris 2005, tr. it. di F. Arra, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, a cura di L. Profeti, L’asino d’oro edizioni, Roma 2012 (traduzione effettuata sul testo della seconda edizione francese del 2007), pp. 330-331.
[6] M.M. Olivetti, Il tempio simbolo cosmico. La trasformazione dell’orizzonte del sacro nell’età della tecnica, Introduzione di E. Castelli Gattinara, Ed. Abete, Roma 1967, p. 35. Non posso soffermarmi a considerare ulteriormente questo studio importante, mi preme però menzionarne la fine intelligenza, le sue distinzioni, e consigliarlo alla lettura in quanto merita di essere ripreso e discusso – volume che andrebbe aperto e integrato anche quanto alla sua fenomenologia dell’architettura sacra contemporanea.
[7] Mi riferisco agli interventi di Gian Luigi Prato e Gaetano Lettieri riportati supra.
[8] Cfr. supra l’intervento di Gian Luigi Prato.
[9] Si veda complessivamente l’intervento di John Scheid supra.
[10] Basti un classico quale il De re ædificatoria dell’Alberti, così sensibile a recepire e trasmettere la lezione dell’Antico: «Il tempio principale [scil.: la cattedrale] è forse più comodo se ubicato nel centro della città, ma è più nobile una collocazione in disparte dalla zona affollata, oppure in cima a un colle ma in piano, perché sia più stabile in caso di terremoto. Insomma, si edifichi il tempio nel luogo in cui saranno maggiori la venerabilità e la maestosità. Per lo stesso motivo bisogna rimuovere tutt’intorno e per una certa distanza ogni tipo di sporcizia e sconvenienza […]. Ho notato inoltre che nei santuari e nelle cappelle degli Antichi avevano preferito l’uso di rivolgere le facciate verso i percorsi che arrivano dal mare, dal fiume o dalla strada militare. Infine, l’edificio per il culto deve essere così ben fatto in ogni sua parte da attrarre a visitarlo quelli che non l’hanno ancora visto, e da stupire i presenti per la meraviglia e la rarità della sua costruzione» (L.A. Alberti, L’arte di costruire, a cura di V. Giontella, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 172).
[11] Potrebbe risultare una buona domanda quella che chieda se il concentrarsi sulle sole religioni abrahamitiche possa risultare un’adeguata determinazione operativa della concettualità teologico-politica, o se non rischi la chiusura di fronte agli intrecci tra religione e politica nel presente, quando invece occorrono gli sguardi più comprensivi. In tal senso, mentre l’attuale fase di tensioni, mutamenti profondi, conflitti interni ed esterni dell’islam (dal Medio Oriente all’Africa, dal Bangladesh all’Indonesia) può trovare spazio di risonanza e interrogazione teologico-politica nell’alveo appunto delle religioni abrahamitiche, come fare con l’espansione di ciò che ancora nel Novecento poteva essere chiamato semplicemente “Asia”? Penso grosso modo al blocco Corea-Cina-Giappone-Taiwan, che oggi sotto la spinta del capitalismo si sta bensì sempre più “occidentalizzando” ma che rimane del tutto estraneo per il suo profilo religioso, nella provenienza dal confucianesimo, dall’induismo e da ciò che, a partire soltanto da alcuni teosofi dell’Ottocento, si è soliti chiamare “buddismo”. Non è forse ora di fare più seriamente i conti con le dinamiche “migratorie” teologico-politiche di questa composita “differenza”, benché oggi ancora quantitativamente minoritaria, oltre a quelli che siamo già costretti a fare con la sua arrembante potenza economica?
[12] Si pensi all’enorme problematica appunto del “luogo sacro”, ovvero della “sacralità” di taluni luoghi naturali (per es. grotte e caverne, boschi o fonti), che ancora oggi è al cuore di non poche pratiche religiose di pellegrinaggio: quasi nulla in Europa, è vero, ma non così in Africa, Australia, Indonesia, Giappone e Nordamerica, e soprattutto in India e Cina.